Corte Costituzionale, sentenza 22 ottobre 2024, n. 166
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis del codice penale, come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77, sollevate dal Tribunale ordinario di Trieste, sezione penale, in composizione monocratica, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Trieste, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis, cod. pen., nella parte in cui punisce il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale con la pena minima della reclusione di sei mesi.
Il giudice a quo ritiene irragionevole la scelta – compiuta dal d.l. n. 53 del 2019, come convertito – di innalzare la pena minima dalla previgente soglia di quindici giorni a quella di sei mesi di reclusione, ritenendo che essa conduca all’irrogazione di pene sproporzionate, sia in rapporto all’effettiva offensività di una vasta gamma di concrete condotte sussumibili entro la fattispecie criminosa, sia rispetto alla pena, identica nel minimo, applicabile per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, ritenuto più grave.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per non avere il rimettente motivato in merito al carattere lieve dell’offesa, sì da ritenere irragionevole e sproporzionata per eccesso la pena minima prevista, tanto più che, in ipotesi di condanna anche per il più grave reato di cui all’art. 337 cod. pen. in continuazione con quello di oltraggio, la pena potrebbe essere aumentata, ex art. 81 cod. pen., anche di un solo giorno, con conseguente irrilevanza delle questioni.
3.– L’eccezione non è fondata.
Il giudice rimettente ha invero plausibilmente motivato in merito alla rilevanza delle questioni, riportando il capo di imputazione in cui è descritta in maniera chiara e dettagliata la concreta condotta oltraggiosa che è tenuto a giudicare e ha successivamente ampiamente esposto, in astratto ma mediante argomenti validi anche per il giudizio a quo, le ragioni che lo inducono a ritenere eccessiva la pena minima prevista dall’art. 341-bis cod. pen.
Peraltro, quand’anche questi decidesse di condannare l’imputato per il reato di oltraggio e per quello di resistenza a pubblico ufficiale in continuazione tra loro, la rilevanza delle questioni rimarrebbe intatta, perché, pur dovendo il rimettente, nel calcolare la pena dell’imputato, partire da quella prevista per il più grave reato di resistenza a pubblico ufficiale, suscettibile di aumento fino al triplo ex art. 81 cod. pen., è evidente che la valutazione circa l’entità concreta di tale aumento dipende dalla cornice edittale del reato di oltraggio e può essere, quindi, influenzata dall’eventuale accoglimento delle presenti questioni.
4.– Nel merito le questioni non sono fondate.
4.1.– In via preliminare, deve rilevarsi che, come si evince dalla lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo, nel censurare il minimo edittale di sei mesi di reclusione, mira a ripristinare la pena prevista per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale prima delle modifiche introdotte con il d.l. n. 53 del 2019, come convertito, in sintonia con la previsione generale dell’art. 23 cod. pen., secondo cui in assenza di una specifica indicazione la pena minima si intende fissata in 15 giorni di reclusione.
4.2.– Sempre in via preliminare, ritiene questa Corte necessaria una breve ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale.
L’art. 194 del codice Zanardelli del 1889 prevedeva che «[c]hiunque, con parole od atti, offende l’onore, la reputazione o il decoro di un pubblico ufficiale in sua presenza e a causa delle sue funzioni è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da lire cinquanta a tremila se l’offesa sia diretta ad un agente della forza pubblica o con la reclusione da un mese a due anni se l’offesa sia diretta ad un altro pubblico ufficiale» mentre il successivo art. 196 stabiliva che «[q]uando alcuno dei fatti preveduti negli articoli precedenti sia commesso contro il pubblico ufficiale non a causa delle sue funzioni ma nell’atto dell’esercizio pubblico di esse, si applicano le pene in esso stabilite diminuite da un terzo alla metà».
Il codice Rocco prevedeva all’art. 341 che: «[c]hiunque offende l’onore o il prestigio di un pubblico ufficiale, in presenza di lui e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritto o disegno, diretti al pubblico ufficiale, e a causa delle sue funzioni. La pena è della reclusione da uno a tre anni, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate quando il fatto è commesso con violenza o minaccia, ovvero quando l’offesa è recata in presenza di una o più persone».
Il minimo edittale di sei mesi previsto dalla norma incriminatrice è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 341 del 1994, che ha individuato «la pena minima da applicare per il reato in questione facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall’art. 23 cod. pen.».
La fattispecie incriminatrice è stata poi abrogata dall’art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario).
Le sezioni unite penali della Corte di cassazione, con la sentenza 27 giugno-17 luglio 2001, n. 29023, hanno tuttavia affermato che rimaneva comunque la possibilità che, qualora ne sussistessero in concreto i presupposti, il fatto restasse sanzionato sotto il profilo dell’offesa all’“onore” o al “decoro” ex artt. 594 (successivamente abrogato), che disciplinava il reato di ingiuria, e 61, numero 10, cod. pen. che prevede l’aggravante generica dell’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale.
Nel 2009 il reato di oltraggio è stato reintrodotto nel codice penale ad opera dell’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) con la stessa rubrica (oltraggio a pubblico ufficiale) ma con una nuova numerazione (non più art. 341 bensì art. 341-bis) e una nuova formulazione, prevedendosi una pena minima di quindici giorni e una massima di tre anni di reclusione.
Infine, nel 2019, la pena minima è stata innalzata dal d.l. n. 53 del 2019, come convertito, ai sei mesi di reclusione attualmente in vigore.
4.3.– La vigente formulazione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis cod. pen.) prevede che: «[c]hiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». Sono previste due circostanze speciali: «se il fatto è commesso dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell’alunno nei confronti di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo o amministrativo della scuola» (con aumento della pena fino alla metà) e «se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato».
Se, però, «la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile».
Il quarto comma del medesimo art. 341-bis, cod. pen., poi, stabilisce l’estinzione del reato se «l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima». Infine, l’art. 393-bis cod. pen. prevede una causa di non punibilità nell’ipotesi in cui il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.
4.4.– Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale di cui al vigente art. 341-bis cod.pen., a differenza della fattispecie criminosa prevista dall’abrogato art. 341 cod. pen., richiede necessariamente e contestualmente che la condotta oltraggiosa: 1) si svolga in luogo pubblico o aperto al pubblico; 2) avvenga in presenza di più persone; 3) si svolga mentre il pubblico ufficiale compia un atto del suo ufficio; 4) offenda l’onore «ed» il prestigio di un pubblico ufficiale.
4.4.1.– I primi due elementi costitutivi del “nuovo” reato di oltraggio – non richiesti dalla precedente norma incriminatrice – consistono nel fatto che l’offesa deve essere commessa in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, il che comporta una lesione della reputazione del pubblico ufficiale e del prestigio e dell’immagine della pubblica amministrazione.
4.4.2.– Il terzo elemento specializzante, rispetto alla precedente fattispecie di oltraggio, richiede che il delitto sia integrato solo se la condotta offensiva sia posta in essere nel momento in cui il pubblico ufficiale sta compiendo un atto doveroso del suo ufficio e quindi laddove è massimo il danno che tale condotta può arrecare.
4.4.3.– L’ultimo elemento di novità richiede infine che siano offesi, al contempo, sia l’onore che il prestigio del pubblico ufficiale, a differenza di quanto previsto nella previgente norma incriminatrice, che riteneva sufficiente la lesione dell’uno o dell’altro bene (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 17 marzo-13 aprile 2016, n. 15440).
Infatti, come questa Corte ha già affermato, il “nuovo” reato di oltraggio di cui all’art. 341-bis cod. pen. con «l’introduzione di un requisito di stretta contestualità tra la condotta del reo e il compimento di uno specifico atto funzionale (requisito espresso dalla locuzione “mentre compie un atto d’ufficio”) ha configurato un “delitto offensivo anche del buon andamento della pubblica amministrazione, sub specie di concreto svolgimento della (legittima) attività del pubblico ufficiale, non diversamente da quanto accade […] per il delitto di cui all’art. 337 cod. pen.” (sentenza n. 284 del 2019)» (sentenza n. 30 del 2021).
Come pure questa Corte ha avuto modo di precisare, il requisito in parola conferisce alla fattispecie «una nuova dimensione di pericolo per la concreta attuazione dello specifico atto d’ufficio che la condotta del reo mira evidentemente ad ostacolare, e dunque per il regolare esercizio della pubblica funzione svolta in concreto dal pubblico ufficiale. Esercizio che, vale la pena rammentarlo, deve essere legittimo e non arbitrario, configurandosi altrimenti in favore del privato la scriminante di cui all’art. 393-bis cod. pen.» (sentenza n. 284 del 2019).
5.– Tali nuovi requisiti introdotti dal legislatore restringono significativamente l’ambito applicativo della nuova fattispecie di oltraggio rispetto alla precedente, oggetto della sentenza n. 341 del 1994, arricchendone la dimensione offensiva e selezionando condotte di apprezzabile gravità, che rendono non intrinsecamente sproporzionata né contraria al principio rieducativo la previsione di una pena minima di sei mesi di reclusione. Ciò alla luce del costante orientamento di questa Corte che riconosce l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato (ex multis, sentenze n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021).
D’altra parte, la “nuova” fattispecie di oltraggio condivide ora con la fattispecie di resistenza a un pubblico ufficiale di cui all’art. 337 cod. pen., assunta a tertium comparationis dal rimettente, pur nella diversità delle condotte sanzionate, una medesima direzione offensiva rispetto al regolare svolgimento della pubblica funzione, bene di immediata rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 97, comma secondo, Cost. Ciò rende non manifestamente irragionevole, né arbitraria, la scelta del legislatore di prevedere la medesima pena minima per i entrambi i reati.
6.– Infine, non può non osservarsi che, con riferimento ai reati a citazione diretta come quello in questione, l’art. 554-bis del codice di procedura penale recentemente introdotto dall’art. 32, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), ha inserito l’udienza di comparizione predibattimentale (all’esito della quale il giudice rimettente ha sollevato la presente questione di legittimità costituzionale), per favorire il ricorso a strumenti di giustizia riparativa; è risultato infatti ampliato il momento in cui possono esplicarsi le attività per le quali è previsto, come termine, l’apertura del dibattimento e tra queste vi sono, appunto, le condotte riparatorie ex art. 162-ter cod. pen. (sentenza n. 45 del 2024).
In effetti, deve considerarsi che per questa tipologia di reato è possibile il ricorso al suddetto strumento della giustizia riparativa che consente di responsabilizzare l’autore dell’offesa e recuperare le relazioni interpersonali danneggiate dal reato, contribuendo a restituire un’immagine positiva all’azione della pubblica amministrazione (in senso analogo, sentenza n. 71 del 2024).
7.– Da tutto ciò consegue la non fondatezza delle questioni sollevate in riferimento a tutti i parametri evocati.