<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Con l’ordinanza n. 27411 del 25.10.2019 la Suprema Corte si è pronunciata onde verificare se, ed in che termini, in seguito all’abbandono della famiglia da parte del coniuge proprietario dell’abitazione (R.), possa mutare in favore della coniuge non proprietaria (B.) -che aveva mantenuto la detenzione qualificata peraltro effettuando sull’immobile lavori di ristrutturazione e riparazione di cui la casa familiare necessitava - la detenzione qualificata in possesso utile ai fini dell’usucapione. La Suprema Corte assume corretto l’iter argomentativo seguito dalla Corte d’Appello, laddove – seppur non negando che la detenzione qualificata dell’immobile da parte della B., fondata sul rapporto di coniugio, potesse, a seguito dell’abbandono del coniuge, e per effetto di uno dei fatti previsti dall’art. 1141, comma 2, c.c., trasformarsi in possesso utile ai fini dell’usucapione- ha richiesto la prova dell’interversione, onde dimostrare che la B. aveva iniziato il godimento del bene uti dominus –prova che, nello specifico, la Corte d’Appello ha assunto mancante proprio in ordine alla volontà di tenere la cosa come propria, escludendo dal possesso il proprietario esclusivo dell’immobile-. La corte d’Appello, del resto, così opinando, ha fatto corretta applicazione dei principi ripetutamente affermati in sede di legittimità, vale a dire che la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto non opera, a norma dell’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione ma derivi, come nella specie, da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, perché, in tal caso, l’attività del soggetto che dispone della cosa, configurabile come semplice detenzione o precario, non corrisponde all’esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario: in tal caso, la detenzione non qualificata di un bene immobile può mutare in possesso solamente all’esito di un atto d’interversione idoneo ad escludere che il persistente godimento sia fondato sul consenso, sia pure implicito, del proprietario concedente (Cass. n. 5551 del 2005; conf., Cass. n. 14593 del 2011; Cass. n. 21690 del 2014). Il solo fatto della convivenza, in effetti, non pone di per sé in essere, nelle persone che convivono con chi possiede il bene, un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso sulla medesima (Cass. n. 1745 del 2002; Cass. n. 21023 del 2016 in motiv.) ovvero come una sorta di compossesso (Cass. n. 8047 del 2001). L’interversione nel possesso, peraltro, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi; tale manifestazione (che può avvenire anche attraverso il compimento di sole attività materiali, ove manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa: Cass. n. 27584 del 2013; Cass. n. 5419 del 2011; Cass. n. 1296 del 2010) dev’essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e, quindi, tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua (Cass. n. 26327 del 2016, in motiv.; Cass. n. 27584 del 2013, in motiv.; Cass. n. 6237 del 2010; Cass. n. 2392 del 2009). Di tali atti, tuttavia, la corte d’Appello non ha rinvenuto, nella specie, la dimostrazione. Ed è noto, chiosa la Corte, che la valutazione degli elementi istruttori costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): la valutazione dei documenti e delle risultanze testimoniali involgono, invero, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 17097 del 2010; Cass. n. 19011 del 2017). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), del resto, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. (Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008).</p> <p style="text-align: justify;"><em>Domiziana Pinelli</em></p> <p style="text-align: justify;"></p>