<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non è sempre facile stabilire se ci si trovi dinanzi ad un fatto inadempimento-reato “</em>unitario<em>” ovvero ad una pluralità di fatti inadempimento-reato; ciò non solo quando si riesca ad appurare (e non è sempre facile) che la condotta sanzionabile è “</em>una<em>” (un’azione o un’omissione), dacché la relativa riconducibilità a due distinte fattispecie astratte penalmente sanzionate, capace di far normalmente affiorare un concorso formale (omogeneo o eterogeneo) di reati, potrebbe in realtà rivelarsi fallace per il solo apparente, ma non reale convergere delle due o più fattispecie incriminatrici considerate (c.d. concorso apparente di norme); ma anche laddove le condotte siano “</em>plurime<em>” (più azioni od omissioni, dalle quali affiora di norma un concorso materiale di reati), stante la possibile strutturazione </em>ex lege<em> policroma del “</em>tipo<em>” di reato, in guisa tale da rendere più condotte tra loro alternative a fini di punibilità (c.d. “</em>norma a più fattispecie<em>”), piuttosto che cumulativamente assoggettabili a sanzione (c.d. “</em>disposizione a più norme<em>”).</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Il diritto romano si presenta assai intransigente in tema di concorso di reati, ovvero nelle fattispecie in cui a carico di un individuo risultino più fatti “<em>criminosi</em>”, infliggendo tante sanzioni quanti sono i reati (secondo il noto principio <em>tot delicta quot poenae</em>), ed in ciò assecondando una concezione autoritaria e assoluta dello Stato e del diritto alla cui stregua <em>numquam plura delicta concurrentiam faciunt ut ullius impunitas detur</em> (“<em>mai, in presenza di più delitti concorrenti, per taluno di essi può essere esclusa la pena</em>”) secondo l’efficace espressione di Dig., XLVII, 1, <em>de privatis delittis</em>, 2).</p> <p style="text-align: justify;">I Romani peraltro – pur via via assumendo ammissibile il mero "<em>concorso ideale</em>", ovvero l'assorbimento di un titolo di reato nell'altro – hanno tuttavia limitato tale ammissibilità alla sola ipotesi di più violazioni di legge originate da un unico<em> </em>fatto delittuoso, secondo lo schema oggi ricondotto al c.d. concorso formale, assumendolo piuttosto inammissibile in caso di concorso materiale, laddove campeggiano due o più fatti o, in sostanza, due o più condotte.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1819</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varato il codice del Regno delle due Sicilie che, in caso di concorso di reati, prevede il regime sanzionatorio del c.d. cumulo giuridico, onde si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata di una porzione con riguardo a ciascuno degli ulteriori reati commessi dal soggetto agente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1853</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varato il codice del Granducato di Toscana che, in caso di concorso di reati, prevede il regime sanzionatorio del c.d. cumulo giuridico, onde si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata di una porzione con riguardo a ciascuno degli ulteriori reati commessi dal soggetto agente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che disciplina il concorso di reati e di pene agli articoli 67 e seguenti, giusta articolata regolamentazione delle pene applicabili nelle diverse fattispecie.</p> <p style="text-align: justify;">Così, ai sensi dell’art.68, al colpevole di più delitti, che importino la stessa specie di pena temporanea restrittiva della libertà personale, si applica la pena per il delitto più grave, con un aumento pari alla metà della durata complessiva delle altre pene, purché non si oltrepassino i 30 anni per la reclusione e la detenzione, e i 5 anni per il confino; del pari, ai sensi dell’art.71, al colpevole di più contravvenzioni che importino l’arresto si applica la pena per la contravvenzione più grave, con aumento pari alla metà della durata complessiva delle altre pene, purché non si superino i 3 anni. Ancora, ai sensi dell’art.77 colui che per eseguire od occultare un reato, ovvero in occasione di esso, commette altri fatti costituenti essi pure reato, ove questi non siano considerati dalla legge come elementi costitutivi o circostanze aggravanti del reato medesimo, soggiace alle pene da infliggersi per tutti i reati commessi, tuttavia secondo le disposizioni contenute negli articoli precedenti (ivi compresi appunto gli articoli 68 per i delitti e 71 per le contravvenzioni).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di norme che dunque escludono la brutale sommatoria delle pene previste per ciascun reato commesso, prevedendo un trattamento più mite per il reo, basato sulla pena prevista per il reato più grave, aumentata di una “<em>quota</em>” di pena ulteriore con riguardo agli altri reati commessi, entro un limite massimo legalmente previsto (c.d. cumulo giuridico).</p> <p style="text-align: justify;">Alla medesima ratio è ispirato l’art.78, onde colui che con un medesimo fatto viola diverse disposizione di legge penale è punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave, così esplicitamente disciplinando in modo favorevole al reo – essendo ancora una volta escluso il canone “<em>tot crimina tot poenae</em>” - il c.d. concorso formale di reati (peraltro implicitamente disciplinando un concorso apparente di tipo “<em>valoriale</em>”, assai più che “<em>strutturale</em>”).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale che disciplina il concorso di reati agli articoli 71 e seguenti, considerando la pertinente fattispecie quale forma di manifestazione del reato, onde il reato si atteggia in modo tale da essere commesso con altri, così come talvolta si atteggia tentato, talaltra circostanziato e talaltra ancora “<em>collettivo</em>”, nel caso di concorso di persone.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto concerne la disciplina del concorso di reati, stando alla disposizione generale di cui all’art.71 (Condanna per più reati con unica sentenza o decreto) quando, con una sola sentenza o con un solo decreto, si deve pronunciare condanna per più reati contro la stessa persona, si applicano le disposizioni degli articoli seguenti, ispirate al rigoroso canone “<em>tot crimina, tot poenae</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Rileva in particolare l’art. 72 (Concorso di reati che importano l'ergastolo e di reati che importano pene detentive temporanee), onde al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa l'ergastolo, si applica la pena di morte, mentre nel caso di concorso di un delitto che importa la pena dell'ergastolo, con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee, si applica la pena dell'ergastolo, con l'isolamento diurno per un periodo di tempo non inferiore a 6 mesi e non superiore a 4 anni; l’art. 73 (Concorso di reati che importano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie), alla cui stregua se più reati importano pene temporanee detentive della stessa specie, si applica una pena unica, per un tempo eguale alla durata complessiva delle pene che si dovrebbero infliggere per i singoli reati, e quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a 24 anni, si applica l'ergastolo, mentre le pene pecuniarie della stessa specie si applicano tutte per intero; l’art. 74. (Concorso di reati che importano pene detentive di specie diversa), onde se più reati importano pene temporanee detentive di specie diversa, queste si applicano tutte distintamente e per intero e la pena dell'arresto e' eseguita per ultima; l’art. 75. (Concorso di reati che importano pene pecuniarie di specie diversa), onde se più reati importano pene pecuniarie di specie diversa, queste si applicano tutte distintamente e per intero (nel caso che la pena pecuniaria non sia stata pagata per intero, la somma pagata, agli effetti della conversione, viene detratta dall'ammontare della multa).</p> <p style="text-align: justify;">Stando al successivo art. 76. (Pene concorrenti considerate come pena unica ovvero come pene distinte), salvo che la legge stabilisca altrimenti, le pene della stessa specie concorrenti a norma dell'articolo 73 si considerano come pena unica per ogni effetto giuridico; le pene di specie diversa concorrenti a norma degli articoli 74 e 75 si considerano egualmente, per ogni effetto giuridico, come pena unica della specie più grave, mentre si considerano come pene distinte, agli effetti della loro esecuzione, dell'applicazione delle misure di sicurezza e in ogni altro caso stabilito dalla legge; infine, se una pena pecuniaria concorre con un'altra pena di specie diversa, le pene si considerano distinte per qualsiasi effetto giuridico.</p> <p style="text-align: justify;">In tema di pene accessorie, l’art. 77 dispone che per determinare le pene accessorie medesime e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati per i quali e' pronunciata la condanna, e alle pene principali che, se non vi fosse concorso di reati, si dovrebbero infliggere per ciascuno di essi; se concorrono pene accessorie della stessa specie, queste si applicano tutte per intero. Resta dunque confermato l’orientamento inteso a sommare il trattamento sanzionatorio previsto per ciascun reato commesso dal soggetto agente.</p> <p style="text-align: justify;">La disciplina si presenta dunque molto rigorosa, mitigata solo dai “<em>tetti di pena</em>” di cui all’art.78 (Limiti degli aumenti delle pene principali), onde nel caso di concorso di reati, preveduto dall'articolo 73, la pena da applicare a norma dello stesso articolo non può essere superiore al quintuplo della più grave fra le pene concorrenti, ne' comunque eccedere: 30 anni, per la reclusione; 6 anni, per l'arresto; lire 150.000 per la multa e lire 30.000 per l'ammenda; ovvero lire 400.000 per la multa e lire 80.000 per l'ammenda in peculiari casi (se il giudice si vale della facolta' indicata nel secondo capoverso dell'articolo 24 e nel capoverso dell'articolo 26). Nel caso poi di concorso di reati, preveduto dall'articolo 74, la durata delle pene da applicare a norma dell'articolo stesso non puo' superare gli anni 30 e la parte di pena, eccedente tale limite, e' detratta in ogni caso dall'arresto. Quando le pene pecuniarie debbono essere convertite in pena detentiva, per l'insolvibilità del condannato, la durata complessiva di tale pena non può infine superare 4 anni per la reclusione e 3 anni per l'arresto. Parimenti, in tema di pene accessorie, ai sensi dell’art. 79 (Limiti degli aumenti delle pene accessorie) la durata massima delle pene accessorie temporanee non può superare, nel complesso, i limiti seguenti: 10 anni, se si tratta dell'interdizione dai pubblici uffici o dell'interdizione da una professione o da un'arte; 5 anni, se si tratta della sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte.</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi all’art. 80. (Concorso di pene inflitte con sentenze o decreti diversi) le disposizioni degli articoli precedenti si applicano anche nel caso in cui, dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima, ovvero quando contro la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna.</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi all’art.81 chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge e' punito a norma degli articoli precedenti: ne consegue che per il c.d. concorso “<em>formale</em>” di reati (riconducibile ad una sola condotta del soggetto agente) il regime è il medesimo, rigorosissimo, previsto per il concorso c.d. “<em>materiale</em>” (riconducibile invece a due o più condotte del soggetto agente). Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano invece a chi, con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità (c.d. reato continuato “<em>omogeneo</em>”): in tal caso le diverse violazioni si considerano come un solo reato e si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo.</p> <p style="text-align: justify;">I successivi articoli 82 e 83 disciplinano infine le ipotesi di c.d. reato aberrante, mentre all’art.84 è affidata la regolamentazione del c.d. reato complesso, quali fattispecie peculiari – per l’appunto - di concorso di reati.</p> <p style="text-align: justify;">Sul crinale del trattamento sanzionatorio, interessante il disposto dell’art.63 in tema di circostanze, secondo il cui comma 3 quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa, o ne determina la misura in modo indipendente dalla pena ordinaria del reato (circostanze ad effetto speciale e circostanze indipendenti), l'aumento o la diminuzione per le altre circostanze non si opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta; stando poi ai successivi comma 4 e 5, se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel comma 3, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla (c.d. assorbimento); se invece concorrono più circostanze attenuanti (sempre tra quelle indicate nel comma 3), si applica soltanto la pena meno grave stabilita per le predette circostanze, ma il giudice puo' diminuirla (c.d. assorbimento).</p> <p style="text-align: justify;">Riassumendo, per il nuovo codice si applica il cumulo materiale (<em>tot crimina tot poenae</em>), seppure temperato da soglie di punibilità massima, tanto al concorso materiale di reati quanto al concorso formale, ed a quest’ultimo tanto che sia omogeneo quanto che sia eterogeneo; solo in caso di reato continuato omogeneo è applicabile, ai sensi dell’art.81, il più mite regime del c.d. cumulo giuridico. La Relazione al codice penale giustifica il passaggio dal precedente regime sanzionatorio del cumulo “<em>giuridico</em>” generalizzato a quello, assai più rigoroso, del cumulo materiale del pari generalizzato sulla scorta della considerazione onde attraverso il cumulo giuridico (e vieppiù attraverso il c.d. assorbimento di un reato in un altro) si verrebbe a determinare “<em>un’assurda impunità</em>”, per il Legislatore non giustificabile.</p> <p style="text-align: justify;">La dottrina di commento nota però presto la significativa disparità di trattamento sanzionatorio per i due casi, rispettivamente, di reato continuato omogeneo (si applica il cumulo giuridico) e di concorso formale omogeneo (si applica il cumulo materiale temperato), sospingendo la giurisprudenza verso una interpretazione delle varie fattispecie scandagliate tale da rintracciare più o meno sempre, nelle ipotesi di concorso formale omogeneo, un sotteso “medesimo disegno criminoso” capace di far scattare l’applicazione del cumulo giuridico così scongiurando la denunciata disparità di trattamento evidenziata dalla dottrina.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie in cui la condotta (azione od omissione) non è in nessun modo riconducibile alla coscienza e volontà del relativo autore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1966</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.9, la quale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 81, secondo e terzo comma, del Codice penale, sollevata dal Pretore di Pesaro, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo l'ordinanza di rimessione, la norma dell'art. 81, secondo e terzo comma, del Codice penale - nella parte in cui concede un trattamento favorevole a chi con più azioni od omissioni, e con lo stesso disegno criminoso, viola più volte la medesima disposizione di legge (c.d. reato continuato “<em>omogeneo</em>”) , ma esclude tale trattamento nel caso in cui la pluralità di violazioni sia commessa con una sola azione od omissione (c.d. concorso formale “<em>omogeneo</em>”) - sarebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, che sancisce l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. La disparità di trattamento non sarebbe, in tal caso, dettata da una situazione particolare di fronte alla quale il legislatore possa ragionevolmente disporre una diversa disciplina. La Corte giudica tuttavia la questione come non fondata.</p> <p style="text-align: justify;">L'ordinanza di rimessione – chiosa la Consulta - riconosce che nella giurisprudenza é prevalente l'opinione onde il trattamento del reato continuato (art. 81, secondo comma, del Codice penale) debba estendersi anche alla ipotesi in cui, con una unica azione ad effetto plurimo siano prodotte più violazioni simultanee della stessa disposizione di legge. Secondo questa interpretazione, il fondamento e la ragione della disposizione che, con una <em>fictio juris</em>, considera come reato unico (continuato) questa pluralità di reati, risiedono nella unicità del disegno criminoso, che attenua la responsabilità penale. Identica unità di disegno criminoso é da riconoscersi per la ipotesi in cui una sola sia l'azione od omissione, alla quale consegua una pluralità di beni violati e quindi una pluralità di infrazioni giuridiche. Nell'affermare inoltre che il reato continuato può essere commesso anche con una sola azione od omissione, si aggiunge che l'art. 81 parla di più azioni od omissioni, non nel senso che esse debbano necessariamente essere plurime, ma piuttosto nel senso che possano essere anche più di una.</p> <p style="text-align: justify;">Con siffatta interpretazione, le due ipotesi vengono per la Corte equiparate sotto il riflesso che, sussistendo una violazione plurima della stessa disposizione di legge, non ha rilevanza - agli effetti dell'art. 81 del Codice penale - che una o più siano le azioni o le omissioni. E le due ipotesi vengono entrambe assunte sotto la disciplina del reato continuato, in quanto nell'uno e nell'altro caso sussiste quella unicità di disegno criminoso che ha indotto il legislatore a considerare i vari reati legati fra di loro, fino ad essere puniti come se fossero unico reato. La prevalente interpretazione della giurisprudenza penale, alla quale la Corte dichiara di aderire, esclude la differenza di trattamento lamentata dall'ordinanza e raggiunge altresì l'effetto di un armonico rapporto di proporzione fra il reato commesso e la misura della pena.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1971</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione …, che si occupa di distinguere le fattispecie di reato unitario da quelle di reati plurimi in concorso formale. Per la Corte – che abbraccia la tesi della dottrina maggioritaria - va assunto integrato il concorso formale (e dunque va assunta configurabile una pluralità di reati) quando con una sola azione o omissione il soggetto agente perpetri più lesioni di beni altamente personali (vita, integrità fisica, onore e reputazione) di soggetti diversi; all’opposto, si è invece al cospetto di un unico reato quando configurino l’oggetto materiale della condotta antigiuridica del soggetto agente beni che, pur appartenendo a soggetti diversi, non presentino tale caratteristica “<em>personale</em>”, come nelle fattispecie offensive di interessi meramente patrimoniali</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1974</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 aprile viene varato il decreto legge n.99, il cui art.8 incide in modo consistente sull’art.81 del codice penale onde chi, con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge (concorso formale) viene ormai punito non in modo identico a chi commette concorso materiale, bensì con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo, regime prima applicabile al solo reato continuato.</p> <p style="text-align: justify;">Quest’ultimo non si configura più solo come commissione – giusta più azioni od omissioni esecutive, anche in tempi diversi, di un medesimo disegno criminoso - di più violazioni della stessa legge (concorso omogeneo), ma anche come violazione di “<em>diverse</em>” disposizioni di legge, applicandosi dunque la continuazione anche in caso di concorso eterogeneo di reati: un cambiamento che entra peraltro in contraddizione con l’art.61, n.2, c.p., laddove si configura come aggravante comune (e dunque non come fattispecie che attenua il trattamento sanzionatorio) il c.d. nesso teleologico, ovvero l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/5515.html">prodotto</a> o il <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/4382.html">profitto</a> o il <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/4904.html">prezzo</a> ovvero la <a href="http://www.brocardi.it/dizionario/4384.html">impunità</a> di un altro reato.</p> <p style="text-align: justify;">La configurabilità della continuazione anche in ipotesi di reati eterogenei muta anche l’approccio al meccanismo di individuazione della violazione più grave (cui applicare l’aumento fino al triplo): in precedenza si è preferito un criterio di determinazione di tipo astratto, mentre si affaccia ormai la possibilità di valutare in concreto quale sia la violazione (eterogenea) più grave tra tutte quelle avvinte dalla continuazione. Si prevede infine che sia in caso di concorso formale, sia in caso di continuazione nella nuova versione allargata, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti, e dunque vi è un limite massimo di pena corrispondente all’applicazione del principio previsto per il concorso materiale del “<em>tot crimina tot poenae”</em>. Importante anche la soppressione, nel comma 3 dell’art.81, dell’inciso “<em>le diverse violazioni si considerano come un solo reato</em>”, che contribuirà a spostare l’asse ermeneutico della continuazione da una visione unitaria ad una sempre più parcellizzata.</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, a valle della riforma, viene estesa per legge l’applicabilità del regime del cumulo giuridico tanto al concorso formale omogeneo (secondo l’interpretazione giurisprudenziale univoca, avallata dalla Corte costituzionale nel 1966), ma anche al concorso formale eterogeneo ed al reato continuato, tanto omogeneo quanto eterogeneo, restandone fuori il solo concorso materiale di reati, cui continua ad applicarsi il cumulo materiale c.d. “<em>temperato</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che converte con modificazioni il decreto legge 99.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.10570 alla cui stregua, in caso di falsa incolpazione di più soggetti innocenti con unica denuncia, si configurano tanti distinti reati di calunnia, unificati ai sensi dell’art. 81, 1 comma, c.p. quanti sono gli incolpati. Per la Corte si è dunque al cospetto di una pluralità di reati in concorso (formale) tra loro, e non già di un unico reato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7575 alla cui stregua, in tema di cause di giustificazione, nelle fattispecie di concorso formale di reati ciascuna violazione della legge penale (e dunque ciascun reato) va considerata distinta con riguardo al relativo effetto giuridico (applicazione o meno, appunto, di una causa di giustificazione).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7745 alla cui stregua, tra le due fattispecie criminose di cui agli articoli 423 e 642 sussiste concorso formale allorché l’incendio di cosa propria investa, per l’appunto, la cosa propria, che volontariamente venga in tal modo distrutta a fini di frode all’assicurazione. Si tratta di un paradigmatico caso di concorso formale eterogeneo di reati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.6336 alla cui stregua la norma di cui all’art. 81 c.p. è preordinata (per le ipotesi di concorso formale e di reato continuato) unicamente a moderare il rigore del cumulo materiale delle pene, senza sopprimere l’individualità dei singoli reati, non valendo pertanto a comunicare a tutti circostanze relative solo ad uno o ad alcuni di essi, che restano a tali fini distinti tra loro.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1353 onde, in tema di concorso di reati, allorché la condotta punita venga espressa dalla norma incriminatrice quale rapporto tra il soggetto attivo e l’oggetto materiale, come nel caso di detenzione di armi e banconote false, è configurabile il concorso formale di reati ex art. 81, primo co., c.p., purché l’azione abbia per oggetto una pluralità di cose aventi una propria specificità ed autonomia. Ne consegue che la simultanea detenzione di più armi o di più banconote false o di diverse quantità di droga eterogenea, se non è frazionabile in modo da determinare una pluralità di azioni unificabili sotto il vincolo della continuazione, a norma dell’art. 81 comma 2 c.p., genera comunque una pluralità di violazioni della stessa disposizione unificabili ai sensi del primo comma della citata norma, facendo dunque luogo a concorso formale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.1420, <em>Finocchiaro</em>, che – pronunciandosi sulla questione della unità o pluralità di reati, declinandola massime in ottica di <em>ne bis in idem</em> processuale e seguendo, nella sostanza, la teoria c.d. normativa - ravvisa, con gran parte della giurisprudenza, l’unicità del reato quando si ravvisino contestualmente un’unica condotta, un unico nesso di causalità, un unico evento e un’unica volontà; si assiste invece per la Corte ad una pluralità di reati quando vi sia pluralità anche di uno solo di tali elementi (condotta, nesso di causalità, evento, volontà del soggetto agente).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno esce la sentenza delle SSUU n.22902, Tiezzi, in un rilevante passaggio motivazionale (<em>ratione materiae</em>) della quale la Corte afferma essere sostanzialmente 2 le problematiche da risolvere per la decisione del ricorso di specie e per le quali, in presenza di contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici, vi è stata rimessione alle sezioni unite: 1) se l'ipotesi criminosa di cui all'art. 12 del D.L. 3.5.1991, n. 143, convertito con la legge 5.7.1991, n. 197, che prevede e punisce l'acquisizione di carte di credito, di pagamento o di altro documento analogo di provenienza illecita, sia speciale o meno rispetto al delitto di ricettazione; 2) se la condotta di indebito utilizzo dei documenti predetti, contemplata dalla medesima norma, assorba il reato di truffa.</p> <p style="text-align: justify;">In ordine alla prima questione, chiosa la Corte, ad un orientamento che nega la sussistenza di ogni rapporto di specialità tra le due norme sul presupposto della piena autonomia delle ipotesi criminose poiché l'art. 12 coprirebbe spazi vuoti non coperti dall'art. 648 (Sez. II, 1.7.1994, P.M. c/Marrero Mieres; sez. II, 19.9.1997, Paissan; sez. II, 3.5.1999, P.G. c/Leone), fa riscontro altro indirizzo che ravvisa un rapporto di specialità tra le due norme, ritenendo speciale quella dell'art. 12 per l'elemento specializzante del particolare oggetto materiale (tra le altre Sez. II, 9.1.1998, P.G. c/Scandinaro; sez. II, 9.4.1999, Ramon; sez. V, 10.6.1998, P.M. c/Vallorani; sez. V, 21.11.2000, Amoroso). Sul tema del concorso tra l'art. 12 prima parte e l'art. 640 c.p. alcune pronunce hanno sostenuto il concorso di reati sulla base della diversa obiettività giuridica e della presenza nella truffa di elementi quali il danno e il profitto, estranei all'altra figura criminosa (Sez. V, 28.2.95, Borelli; sez. V, 5.5.1995, Lazzaro; sez. V, 9.4.1999, P.G. c/Sorgente), altre hanno ritenuto che la nuova fattispecie, più grave, assorba la truffa (Sez. V, 1.10.1999, Melluccio).</p> <p style="text-align: justify;">Appare anzitutto opportuno al Collegio richiamare il dettato dell'art. 12, che così recita: "<em>chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di danaro contante o all'acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire seicentomila a lire un milione. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di danaro contante o all'acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Va ricordato – chiosa la Corte - che l'intero secondo periodo, disciplinante la diversa condotta di possesso cessione o acquisizione, è stata introdotta dal legislatore in sede di conversione del decreto legge n. 143, presentato dal governo dopo l'intervenuta decadenza di due precedenti identici. Dall'esame della norma citata emerge la necessità di stabilire preliminarmente se essa prevede in ciascuna delle due parti - per il caso di indebita utilizzazione di carte di credito o equivalenti di provenienza illecita - più ipotesi di reato (disposizione c.d. cumulativa) ovvero una sola fattispecie criminosa realizzabile con diverse condotte a carattere alternativo.</p> <p style="text-align: justify;">Il problema, peraltro pur sollevato nel ricorso, non consente una soluzione univoca, com'è dimostrato dalla diversità dei criteri di volta in volta suggeriti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e va quindi impostato essenzialmente alla stregua di una corretta interpretazione letterale e logica della norma a più fattispecie della cui applicazione si tratta. In linea di massima si può ritenere valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in relazione alle offese arrecate.</p> <p style="text-align: justify;">L'analisi letterale della norma in esame evidenzia la previsione di due condotte che sotto l'aspetto fenomenico presentano caratteri ben diversi, anzi del tutto eterogenei: la prima consiste nella indebita utilizzazione, cioè nel concreto uso illegittimo del documento in questione - lecita o illecita che sia la relativa provenienza - da parte del non titolare al fine di realizzare un profitto per sé o per altri, la seconda si concreta nel possesso (inteso come detenzione materiale), nella cessione o nell'acquisizione di tali documenti di provenienza illecita, cioè in una azione che sotto il profilo logico e temporale è distinta dalla prima perché la precede e ne costituisce il presupposto fattuale. Non v'è chi non veda quindi, prosegue il Collegio, come le due condotte non possano essere considerate equivalenti e in rapporto di alternatività formale. Il che trova conforto nell'introduzione, in sede di conversione, della seconda di esse, che, se si accogliesse la tesi qui respinta, sarebbe del tutto pleonastica quanto alle ipotesi di possesso e acquisizione, che sono presupposto dell'utilizzazione.</p> <p style="text-align: justify;">Né può considerarsi fondata l'opinione di chi in dottrina ritiene che con tale modifica aggiuntiva il legislatore abbia inteso anticipare per le carte di credito o similari di provenienza illecita la soglia di punibilità al solo possesso o ricezione, così considerando un post factum non punibile la successiva utilizzazione. Invero una tale tesi presuppone che a seguito dell'introduzione della nuova fattispecie criminosa quella di cui alla prima parte dell'art. 12 risulti modificata in senso restrittivo con l'esclusione dell'ipotesi in cui l'uso abbia ad oggetto carte di credito di provenienza illecita, il che appare del tutto arbitrario quanto meno in relazione ad una esigenza di più penetrante repressione di un fatto certamente di più rilevante disvalore sociale.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto situazioni del tutto analoghe - quale ad esempio quella della ricettazione di titoli di credito poi utilizzati per commettere falsi e/o truffe - non hanno mai dato luogo a dubbi sulla concorrenza di tali reati. Resta stabilito quindi che nell'ipotesi di possesso e successiva utilizzazione di carte di credito di provenienza illecita, si ha concorso di reati e non concorso apparente di norme incriminatrici.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.43189, che si occupa del delitto di detenzione di materiale pornografico ai sensi dell’art.600 quater c.p., introdotto nella relativa formulazione originaria dalla legge n.269.98 con un ambiguo riferimento al procacciamento ed alla disponibilità del ridetto materiale, condotte di non agevole definizione massime con riguardo alle ipotesi in cui il soggetto agente possedesse immagini pedopornografiche, massime se ottenute giusta accesso a siti internet.</p> <p style="text-align: justify;">Sopravvenuta la legge n.38.06, il delitto di detenzione di materiale pornografico ha visto la relativa condotta tipizzata in due distinte forme, ovvero il procurarsi il ridetto materiale – l’agente acquisisce, con attività all’uopo, la disponibilità di tale materiale - ed il detenerlo – l’agente ha la disponibilità concreta ed attuale del materiale <em>de quo</em>, facendone l’uso che ritiene - .</p> <p style="text-align: justify;">Tanto premesso, per la Corte tutte le attività attraverso cui il detentore ottiene il materiale pedopornografico integrano la nozione del “<em>procurarsi</em>”; in proposito, le due forme di condotta, ovvero il “<em>detenere</em>” (o il disporre, nella previgente formulazione normativa) ed il “<em>procurarsi</em>”, condividono un elemento comune costituito dalla disponibilità - sia pure momentanea - del materiale pedopornografico; tanto che parte della dottrina ha financo dubitato della concreta utilità di distinguere tra il procacciamento e la disponibilità (o la detenzione), non essendo il procacciamento configurabile senza il conseguimento di una disponibilità, quanto meno momentanea, del pertinente oggetto (l’unica spiegazione di un’autonoma incriminazione del procacciamento potendo ravvisarsi, per la mentovata dottina, nella possibilità di reprimere penalmente il tentativo di procurarsi il materiale pornografico, tentativo non configurabile per la detenzione).</p> <p style="text-align: justify;">Proprio sulla scorta di tale considerazione, per il Collegio il “<em>procurarsi</em>” ed il “<em>detenere</em>” non configurano due reati diversi, ma rappresentano due modalità di esecuzione dello stesso reato, l’art. 600 quater c.p. facendo luogo pertanto ad una “<em>norma a più fattispecie</em>” o “<em>norma mista alternativa</em>”, che integra una unica incriminazione e che è quindi applicabile una sola volta anche nel caso di contestuale realizzazione di entrambe le forme di condotta, con esclusione della configurabilità del concorso formale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.28548, che si occupa di un classico caso di lesioni colpose che, a cagione di un aggravamento della malattia indotta nella vittima, la conducono alla morte. Sul crinale processuale, la Corte segue il costante indirizzo della giurisprudenza alla cui stregua va assunta non operativa la preclusione del c.d. <em>ne bis in idem</em> allorché il giudizio si sia svolto in costanza di malattia, cui sia seguita la morte della vittima dopo la condanna, sulla scorta della diversità del “<em>fatto</em>” che ha ad oggetto il secondo processo per omicidio colposo. In sostanza, per la Corte in queste ipotesi si è al cospetto di una pluralità di reati (lesioni ed omicidio), e la circostanza onde si sia già giudicato sul primo fatto (lesioni) non implica <em>bis in idem</em> laddove si proceda per il secondo fatto (omicidio).</p> <p style="text-align: justify;">Diverso è invece il caso in cui condanna non vi sia ancora stata; in proposito, quanto al rapporto tra lesioni volontarie e omicidio, la dottrina maggioritaria nega che possa operare una duplicazione di contestazioni da parte del PM in presenza di uno stesso processo degenerativo dell’incolumità personale (che dapprima ha provocato le lesioni e poi la morte), taluni invocando all’uopo il principio di specialità (l’evento morte atteggiandosi ad elemento speciale rispetto alla malattia), altri invocando la c.d. “<em>progressione criminosa</em>”, altri ancora appellandosi invece al principio di “<em>consunzione</em>”, con conseguente riconducibilità della violazione perpetrata dal soggetto agente ad una sola norma penale (concorso apparente di norme).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 maggio esce la sentenza delle SSUU n.21039 che si occupa delle fattispecie di bancarotta ed approfitta per distinguere – <em>ratione materiae</em> – le ipotesi di c.d. “<em>norme miste cumulative</em>” (o “<em>disposizioni a più norme</em>”) da quelle di “<em>norme miste alternative</em>” (o “<em>norme a più fattispecie</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, l’art.216 della legge fallimentare va apprezzato nella relativa, complessa articolazione che lo connota, ed è inquadrabile nella categoria della disposizione a più norme, prevedendo diverse ipotesi di reato assolutamente eterogenee tra loro per condotta, per oggettività giuridica, per gravità, per tempo di consumazione, per sanzione prevista.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta: a) della bancarotta fraudolenta patrimoniale, contemplata dal comma 1, n. 1, e cioè la distrazione, l’occultamento, la dissimulazione, la distruzione, la dissipazione di beni, nonché l’esposizione e il riconoscimento di passività inesistenti (diminuzione fittizia o effettiva del patrimonio), condotte queste che ledono l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia offerta dall’integrità patrimoniale dell’imprenditore; b) bancarotta fraudolenta documentale, contemplata dal comma 1, n. 2, che lede l’interesse dei creditori alla ostensibilità della situazione patrimoniale del relativo debitore; c) bancarotta preferenziale, contemplata dal comma 3, che lede l’interesse dei creditori alla distribuzione dell’attivo secondo i principi della <em>par condicio.</em></p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di figure criminose che possono integrare fatti di bancarotta pre-fallimentare o post-fallimentare , a seconda che siano poste in essere prima o durante la procedura concorsuale (cfr. commi primo, secondo e terzo); diversa è la collocazione temporale della bancarotta prefallimentare, la cui consumazione coincide con la sentenza dichiarativa di fallimento (condizione di esistenza del reato, ovvero - per maggioritaria giurisprudenza - condizione obiettiva di punibilità), rispetto a quella post-fallimentare, in cui la già intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento opera come presupposto del reato e la consumazione coincide temporalmente con le condotte vietate poste in essere.</p> <p style="text-align: justify;">Differenziato è – precisa la Corte - anche il trattamento sanzionatorio previsto: più grave per le ipotesi di bancarotta fraudolenta in senso stretto (comma 1, n. 1) e per le frodi nelle scritture contabili (comma 1, n. 2); meno grave per le indebite preferenze usate ai creditori (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 216 della c.d. legge fallimentare annovera tuttavia, chiosa ancora la Corte, anche norme a più fattispecie alternative o fungibili (reato unitario). E’ il caso delle condotte di distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione di cui al comma 1, n. 1, le quali, se hanno ad oggetto lo stesso bene, sono, per così dire, in rapporto di “<em>alternatività formale</em>”, di “<em>alternatività di modi</em>”, nel senso cioè che le diverse condotte descritte dalla legge sono estrinsecazione di un unico fatto fondamentale e integrano un solo reato, anche se vengono poste in essere, in immediata successione cronologica, due o più di tali condotte, che, essendo omogenee tra loro, ledono lo stesso bene giuridico (integrità del patrimonio del debitore insolvente): in tal caso, precisa la Corte,l’atto conforme al tipo legale resta assorbito dalla realizzazione, in contiguità temporale, di altro atto di per sé stesso tipico. Analoghe considerazioni possono per la Corte ripetersi per le ipotesi, pur esse omogenee, di esposizione e di riconoscimento di passività inesistenti (entrambe lesive dell’interesse specifico alla veridica indicazione del passivo).</p> <p style="text-align: justify;">In difetto della detta unitarietà d’azione con pluralità di atti, è indubbio tuttavia per la Corte che, anche tra fattispecie alternative, si ha concorso ogniqualvolta le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, psicologico e funzionale e abbiano ad oggetto beni specifici differenti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1856, che si occupa delle c.d. “<em>norme penali miste</em>” e del concorso di reati che ad esse potrebbe afferire. Per la Corte – nel dettaglio - non sussiste alcun rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma dell’art. 642 c.p., configurando fattispecie di reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale che, quindi – ove ne siano integrati i pertinenti estremi fattuali – possono concorrere fra loro.</p> <p style="text-align: justify;">L<strong>’</strong>art. 642 c.p. (“<em>fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona</em>”) dispone al primo comma che “<em>Chiunque, al fine di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione è punito con la reclusione da uno a cinque anni”; </em>al secondo comma, dispone poi che “a<em>lla stessa pena soggiace chi al fine predetto cagiona a se stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro. Se il colpevole consegue l’intento la pena è aumentata. Si procede a querela di parte”.</em></p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio prende le mosse dalla individuazione di tutte le diverse ipotesi riconducibili alla disposizione in esame, configurabili nel numero di 5 in tutto: a) danneggiamento dei beni assicurati; b) falsificazione o alterazione della polizza; c) mutilazione fraudolente della propria persona; d) denuncia di sinistro non avvenuto; e) falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro. La Corte si chiede in particolare se le ipotesi di cui al comma 1 e 2 possano concorrere laddoove l’agente ponga in essere una o più delle condotte richiamate, dovendo essere poi ulteriormente precisato se il concorso sia ammissibile solo tra le ipotesi di cui al comma 1 o anche tra le ipotesi previste all’interno di ciascuno dei comma considerati.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, al fine di risolvere la questione ad essa sottoposta va assunto fondamentale inquadrare correttamente sul crinale giuridico la norma oggetto di scandaglio; norma che secondo i giudici rientra appunto nella categoria delle cd. norme penali miste, all’interno della è possibile isolare le cd. “<em>norme a più fattispecie</em>” (<em>norme miste alternative</em>) e le cd. “<em>disposizioni a più norme</em>” (<em>norme miste cumulative</em>): le prime descrivendo una pluralità di condotte fungibili con le quali può essere integrata in via alternativa una unica norma incriminatrice; le seconde, al contrario, contenendo in sé tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste, onde le condotte non sono alternative tra loro, costituendo piuttosto differenti elementi materiali di altrettanti reati. Collocare dunque la disposizione di cui all’art.642 c.p. nella prima o nella seconda categoria non è circostanza priva di conseguenze: nel primo caso, l’eventuale realizzazione di più condotte lascia intatta l’unicità del reato, mentre nel secondo la pluralità di condotte fa luogo ad un concorso di reati.</p> <p style="text-align: justify;">Con specifico riguardo ai criteri distintivi tra le due categorie di norme inciminatrici, il riconoscimento di una norma a più fattispecie (reato unico) sia condizionato per la Corte al rispetto di taluni requisiti: identità oggettiva (le condotte devono avere lo stesso oggetto materiale); identità soggettiva (le condotte devono essere compiute dallo stesso soggetto), identità cronologica (le condotte devono essere contestuali) e identità psicologico funzionale (devono essere indirizzate verso un unico fine). Soltanto ove sussistano tutti tali presupposti – chiosa la Corte – è possibile affermare di trovarsi al cospetto di un unico titolo di reato, onde il reo viene chiamato in concreto a rispondere di un solo illecito penale sebbene, sotto l’aspetto materiale, abbia fatto luogo a più condotte (tutte, sul piano astratto, penalmente rilevanti).</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 642 c.p. si atteggia, per la Corte, a norma penale mista del tutto peculiare, giacché accorpa in sé sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte previste nel primo e nel secondo comma) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all’interno di ciascun comma). Di conseguenza, poiché ciascun comma prevede ipotesi diverse di reato, ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime concorrono fra di loro.</p> <p style="text-align: justify;">La costante propria giurisprudenza – assume più nello specifico la Corte - ritiene che “<em>l’articolo 642 cod. pen. – che punisce la fraudolenta distruzione della cosa propria – costituisce un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’articolo 640 cod. pen.: nel primo, infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore</em>”: Cass. 2506/2003 Rv. 227890; Cass. 4352/1997 Rv. 207438; Cass. 4828/1994 Rv. 201184. La ricorrente del caso allo scandaglio, pur non contestando il suddetto principio di diritto, ha obiettato che le condotte contestate all’imputata, in realtà, sono due ed autonome l’una dall’altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa propria (articolo 642 cod. pen., comma 1); b) la fraudolenta esagerazione del danno (articolo 642 cod. pen., comma 2): quindi, più che dichiarare l’assorbimento del reato di tentata truffa in quello di cui all’articolo 642 cod. pen., la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione giuridica dei fatti e ritenere il concorso fra le due fattispecie di cui all’articolo 642 cod. pen., commi 1 e 2.</p> <p style="text-align: justify;">L’articolo 642 cod. pen. prevede – ribadisce il Collegio – 5 ipotesi delittuose: a) il danneggiamento dei beni assicurati: primo comma, nella parte in cui prevede “<em>distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà</em>”; b) la falsificazione od alterazione della polizza o della documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione: primo comma, seconda parte; c) la mutilazione fraudolenta della propria persona: secondo comma prima parte nella parte in cui prevede: “<em>cagiona a sé stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da infortunio</em>”; d) la denuncia di un sinistro non avvenuto: secondo comma nella parte in cui prevede “<em>denuncia un sinistro non accaduto</em>”; e) la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al sinistro: comma 2, ultima parte nella parte in cui prevede: “<em>distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro</em>”. Ora, all’imputata, nel capo sub a) e’ stata contestata la condotta del danneggiamento dei beni assicurati prevista nell’articolo 642 c.p., comma 1, prima parte: “<em>distruggeva mediante incendio parte del materiale presente presso il capannone della suindicata ditta, nonché parte degli infissi e delle strutture murarie</em>”; al capo sub b), le e’ stata, invece, contestata la condotta di aver denunciato “<em>danni superiori a quelli effettivamente prodotti dall’incendio verificatosi il</em> (OMISSIS) <em>presso il capannone della</em> (OMISSIS)” in modo da indurre “<em>in errore la</em> (OMISSIS) <em>al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della compagnia di assicurazioni</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">La seconda delle condotte contestate, come appare evidente, rientra nella quinta fattispecie prevista dall’articolo 642 cod. pen. ed esattamente in quella con la quale il soggetto attivo “<em>falsifica, altera documentazione relativi al sinistro</em>”. Il problema, quindi, che pone l’articolo 642 c.p. e’ per la Corte duplice: a) in che rapporti si pone con la truffa; b) se e in che misura le varie fattispecie previste nei due commi dell’articolo 642 cod. pen. possano o no concorrere.</p> <p style="text-align: justify;">Quanto ai rapporti fra l’articolo 642 cod. pen. e l’articolo 640 c.p. (o articoli 56 e 640 cod. pen.), per il Collegio deve ribadirsi il tradizionale orientamento giurisprudenziale onde fra le due norme vi e’ un rapporto di specialita’, in quanto l’articolo 642 cod. pen., a ben vedere, ha la stessa struttura dell’articolo 640 cod. pen., in cui, però, gli interessi tutelati (patrimonio dell’assicuratore: Cass. 12210/2007 Rv. 236132; Cass. 22906/2012 Rv. 252997), il soggetto attivo (per le ipotesi che presuppongono la stipula di un contratto e, quindi, la qualifica di soggetto assicurato), e l’elemento materiale dei raggiri e degli artifizi, sono costituiti da elementi speciali rispetto a quelli generici previsti per il reato di truffa. In particolare, le condotte previste dall’articolo 642 cod. pen. vanno ritenute null’altro che particolari artifizi e raggiri previsti espressamente dal legislatore e che, quindi, caratterizzano e differenziano il suddetto reato da quello della truffa.</p> <p style="text-align: justify;">Il fatto però che fra il reato di truffa e quello di cui all’articolo 642 cod. pen. vi sia un rapporto di specialità, non significa – chiosa ancora il Collegio - che fra le 5 ipotesi previste dall’articolo 642 cod. pen. non vi possa essere concorso – materiale o formale – ove l’agente ponga in essere una o più delle condotte criminose previste dalla suddetta norma. Sul punto, peraltro, e’ per la Corte opportuno preliminarmente precisare se il concorso sia ammissibile solo fra le ipotesi previste nei commi 1 e 2 o anche fra le ipotesi previste all’interno di ciascun comma. La questione va risolta appurando quale sia la natura giuridica da riconoscere alla disposizione incriminatrice di cui all’articolo 642 cod. pen che rappresenta un chiaro esempio di “<em>norma penale mista</em>”. Come e’ noto, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza della Corte distinguono, all’interno del piu’ ampio <em>genus</em> denominato “<em>norma penale mista</em>”, le cd. “<em>norme a più fattispecie</em>” (o norme miste alternative) dalle cd. “<em>disposizioni a più norme</em>” (o norme miste cumulative).</p> <p style="text-align: justify;">Le norme a più fattispecie descrivono una pluralità di condotte fungibili, con le quali può essere integrata in via alternativa un’unica norma incriminatrice: in definitiva, il reato astrattamente previsto e’ uno solo, ma in concreto lo stesso può venire realizzato indifferentemente da una o più delle condotte tipizzate dalla norma, senza che la modalità di esecuzione – naturalisticamente unitaria o plurima – incida sul carattere, invariabilmente unitario, del reato posto in essere dal reo. Al contrario, le disposizioni a più norme contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste; ciò in quanto le diverse condotte, lungi dall’essere tra loro equipollenti ed alternative, non rappresentano semplicemente una diversa manifestazione modale della medesima fattispecie criminosa, bensì costituiscono differenti elementi materiali di altrettanti reati.</p> <p style="text-align: justify;">La distinzione – precisa il Collegio - e’ foriera di rilevanti conseguenze applicative, giacché, nel primo caso, l’eventuale realizzazione congiunta di più condotte lascia intatto il carattere unitario del reato; nel secondo caso, invece, la violazione di ciascuna fattispecie implica l’integrazione di altrettante ipotesi di reato, ognuna dotata di una autonoma rilevanza, determinando pertanto l’operatività della disciplina in materia di concorso di reati.</p> <p style="text-align: justify;">Tanto premesso, lo sguardo deve per la Corte volgersi all’individuazione dei criteri discretivi, che consentano di discernere le ipotesi nelle quali si versi in una, anziché nell’altra specie di norma penale mista. La tematica dell’unita’ o pluralità di reati e’ stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo ad altre norme incriminatrici presenti nel codice penale o in leggi speciali, le quali, al pari dell’articolo 642 cod. pen., sono (o erano) costruite mediante l’inserimento, in un unico articolo, di una molteplicità di condotte materiali.</p> <p style="text-align: justify;">Si pensi anzitutto – chiosa ancora la Corte - a quel costante orientamento giurisprudenziale, in base al quale “<em>l’articolo 216, n. 1, L.F. e’ una norma a più fattispecie, in quanto le condotte da essa previste sono ad un tempo plurime, alternative, equipollenti e tra loro fungibili, sicché quando ci si riferisce ad una pluralià’ di “fatti” non si richiede la contestuale presenza di più fattispecie diverse descritte negli articoli 216 e 217 ma la reiterazione della condotta, comunque sussumibile in entrambe o in ciascuna delle due ipotesi, con la conseguenza che anche fatti dello stesso tipo, e riferibili alla stessa ipotesi di bancarotta, sono sufficienti ai fini dell’applicazione di quella circostanza aggravante</em>”: <em>ex plurimis</em> Cass. 8327/1998 rv 211367; SSUU 21039/2011 Rv. 249667. Principi di analogo tenore sono stati altresì enunciati, in materia di stupefacenti, in relazione al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 il quale, secondo un indirizzo consolidato e ribadito anche in tempi recenti (Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 36523/2008 Rv. 242014; Cass. 22588/2005, Rv. 232094; Cass. 230/2000 Rv. 215175) “<em>costituisce norma a piu’ fattispecie tra loro alternative</em>. <em>Con la duplice conseguenza: da un lato, della configurabilità del reato allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste; e, dall’altro, per quanto qui interessa, dell’esclusione del concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative, nel qual caso le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell’ipotesi più grave</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Sul punto, si e’ peraltro precisato che, affinché le condotte illecite minori perdano la loro individualità e vengano assorbite nell’ipotesi più grave, occorre che si verifichino le seguenti circostanze: a) che si tratti dello stesso oggetto materiale; b) che le attività illecite minori siano compiute dallo stesso soggetto che ha commesso quelle maggiori o dagli stessi soggetti che ne rispondono a titolo di concorso; c) che le condotte siano contestuali e cioè si verifichi il susseguirsi di vari atti, sorretti da un unico fine, senza apprezzabili soluzioni di continuità. Qualora, invece, le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione di legge e quindi distinti reati; unificabili eventualmente per la continuazione, se commessi dallo stesso soggetto o dagli stessi soggetti in concorso, in presenza del disegno criminoso unitario: Cass. 230/1999 RV 215175; Cass. 25276/2002 Rv. 222013; Cass. 22588/2005 Rv. 232094; Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 8163/2009 Rv. 246211.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla problematica in esame sono, poi, intervenute anche le SSUU le quali, con la sentenza n 22902/2001, Tiezzi, rv 218871, in relazione all’ormai abrogato articolo 12 del Decreto Legge n. 143 del 1991 conv. in Legge n. 197 del 1991, nella dichiarata consapevolezza della difficolta’ di rinvenire criteri univoci di risoluzione del problema, ritennero di impostarlo “<em>essenzialmente alla stregua di una corretta interpretazione letterale e logica</em>” della disposizione, puntualizzando che “<em>in linea di massima si puo’ ritenere valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in relazione alle offese arrecate</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">L’esame della suddetta giurisprudenza, consente, quindi, di concludere che il riconoscimento della natura di norma a più fattispecie viene rimesso al riscontro cumulativo di un’identità oggettiva (devono avere uno stesso oggetto materiale), soggettiva (devono essere compiute dallo stesso soggetto), cronologica (devono essere contestuali) e psicologico-funzionale (devono essere indirizzate verso un unico fine) tra le diverse condotte penalmente sanzionate. Soltanto ove la verifica abbia esito positivo – prosegue il Collegio - e’ possibile affermare che ci si trova al cospetto di un unico titolo di reato, cosicché il reo, anche laddove abbia commesso plurime violazioni della medesima norma, sarà chiamato a rispondere di un solo illecito, sebbene integrato sotto l’aspetto materiale da una pluralità di condotte. Al di fuori del perimetro così delineato, ciascuna violazione della disposizione incriminatrice si tradurrà, al contrario, in altrettanti reati quante siano state le condotte effettivamente realizzate dall’agente.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò chiarito, può affermarsi per la Corte che l’articolo 642 cod. pen. si configura quale norma penale mista del tutto peculiare, giacché accorpa in sé sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all’interno di ciascun comma). Come precisato dalle SSUU del 2001, l’esegesi del dettato normativo deve condursi alla stregua degli ordinari canoni ermeneutici, affidandosi cioè a quei criteri che orientano la comune attività d’interpretazione. A completamento di questo primo momento d’indagine, segue, poi, la necessaria verifica in ordine alla sussistenza dei predetti presupposti fattuali di affinità tra le diverse condotte tipiche in concreto realizzate, alla cui ricorrenza soltanto e’ subordinato l’effettivo riconoscimento della natura di norma a più fattispecie nonché la valutazione normativa delle stesse in guisa di azione unitaria.</p> <p style="text-align: justify;">Nessuna indicazione puo’, invero, trarsi dal profilo sanzionatorio, il quale, essendo prevista la stessa pena, risulta nella specie del tutto neutro ai fini che ci occupano. Neppure la previsione formale di un’aggravante solo nel comma 2 si rivela decisiva, trattandosi di una mera imprecisione di tecnica legislativa, che deve ragionevolmente essere corretta in sede ermeneutica mediante la riferibilità della stessa a tutte le ipotesi ex articolo 642 cod. pen. (cfr. Cass., 13 novembre 2003, n. 2506, Rv. 227891). Quanto alla relazione che intercorre tra i due commi, deve escludersi un rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma, rappresentando piuttosto fattispecie di reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale. Indice sintomatico della infungibilita’ delle diverse ipotesi criminose appare, <em>in primis</em>, la netta separazione delle stesse in due commi distinti; collocazione che, pur non potendo assurgere ad elemento in sé solo decisivo, evidenzia in modo plastico una diversità ontologica tra le varie condotte sanzionate.</p> <p style="text-align: justify;">Segnatamente, da un raffronto strutturale delle 5 differenti ipotesi delittuose emergono, infatti, 3 gruppi di condotte, distinti gia’ dal punto di vista fenomenico: uno, comprensivo di comportamenti che si sostanziano in atti violenti su cose o persone (ipotesi sub a e c); un altro, concernente fatti di falso materiale (ipotesi sub b ed e); ed infine, un ultimo, che include esclusivamente una condotta di falso ideologico (ipotesi sub d). Ora, ciascun comma dell’articolo 642 cod. pen. incrimina, con una corrispondenza quasi perfetta, una soltanto delle condotte – fenomenologicamente distinte – incluse in ognuno dei suddetti gruppi: in particolare, il comma 1 punisce le ipotesi sub a) e b), mentre il comma 2 quelle sub c), d), e). Se ne desume che la collocazione dei vari comportamenti e’ il frutto di una meditata scelta legislativa, come a voler distribuire, in due autonomi titoli di reato, ipotesi criminose eterogenee, da tener anche <em>prima facie</em> separate in diversi commi. Il che trova conferma nella intitolazione della norma in questione, peraltro rimasta significativamente invariata a seguito della riforma apportata con la Legge n. 273 del 2002, la quale ha affiancato alle tradizionali ipotesi sub a) c) le altre attualmente sanzionate; difatti, gia’ la locuzione “<em>e</em>” contenuta nella rubrica (“<em>Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutuazione fraudolenta della propria persona</em>”) certifica la <em>voluntas legis</em>, ribadita in occasione della novella, di prevedere due differenti fattispecie delittuose, e non un unico titolo di reato (presumibilmente, la “<em>frode assicurativa</em>”) alternativamente realizzabile da una qualsiasi delle cinque condotte tipiche.</p> <p style="text-align: justify;">Ad ulteriore sostegno, va osservato per la Corte che le diverse ipotesi comprese in ciascun comma divergono altresì sia sotto l’aspetto oggettivo, sia per disvalore sociale. A ben vedere, infatti, nell’ambito del secondo gruppo, diverso e’ l’oggetto su cui cade il fatto di falsita’ materiale: nell’ipotesi sub b) “<em>una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione</em>”, mentre nell’ipotesi sub c) “<em>elementi di prova o documentazione relativi al sinistro</em>”. Inoltre, che il terzo gruppo di condotte sia costituito da un fatto di falsità ideologica previsto unicamente nel comma 2 e’ coerente con la sistemazione delle varie fattispecie operata dalla riforma del 2002, la quale, ha accentrato le tre ipotesi delittuose di cui al comma 2 sul comune presupposto di un sinistro, reale o solo falsamente denunciato.</p> <p style="text-align: justify;">Ma la differenza tra le varie ipotesi si coglie maggiormente all’interno del primo gruppo. Benché tutte le ipotesi delittuose ivi previste siano dirette a protezione dell’unico bene giuridico del patrimonio dell’ente assicurativo, e’ evidente che gli atti di danneggiamento dei beni assicurati e gli atti violenti sulla persona del danneggiato esprimano un grado di riprovazione diverso, più o meno intenso a seconda dell’oggetto materiale su cui incide la condotta fraudolenta, sicché la collocazione in due commi distinti pare tesa proprio a valorizzare tale distanza (dis)valoriale. Coniugando, quindi, il suddetto profilo oggettivo con quello teleologico, e’ del tutto comprensibile e logico per il Collegio che fatti aventi oggetti materiali diversi, oltre che connotati da una carica di disvalore sociale variabile, siano stati collocati in due distinti commi, proprio a valorizzarne la distanza anche in termini di intensità lesiva; con la coerente conseguenza che, allorquando siano state realizzate più condotte tipiche previste dai due commi, devono ritenersi integrati illeciti autonomi, la cui individualità non può certo essere assorbita in presenza di situazioni ontologicamente ed oggettivamente eterogenee, anche in relazione alle offese arrecate.</p> <p style="text-align: justify;">Detta ricostruzione non e’ stata scalfita neppure dalla novella del 2002, la quale, nell’introdurre un ampliamento delle condotte punibili in ambedue i commi, ha soltanto reso più complessa la struttura dell’articolo 642 cod. pen., attribuendo a ciascun comma la natura di norma a più fattispecie. L’introduzione di ulteriori condotte punibili assume rilievo per la soluzione non tanto del problema del rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2, quanto del separato problema del rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma. Vigente la versione originaria, le uniche due condotte ivi sanzionate si ponevano in relazione di alterità formale, con la conseguenza che, essendo infungibili a causa della differente carica di disvalore sociale connessa alla diversità del loro oggetto materiale, l’articolo 642 cod. pen. costituiva unicamente una disposizione a più norme.</p> <p style="text-align: justify;">Come sopra chiarito, tale qualificazione va per la Corte confermata anche in seguito alla riforma normativa, con la puntualizzazione che l’alternatività formale, che prima concerneva solo le ipotesi di danneggiamento dei beni assicurati e di mutilazione della propria persona, va oggi estesa al rapporto tra le nuove ipotesi contemplate rispettivamente nel primo e nel secondo comma, in ragione della difformità oggettiva che caratterizza le stesse. In riferimento alla seconda problematica (rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma), giova rilevare per la Corte che il legislatore della riforma, pur potendo modificare l’impianto normativo dell’articolo 642 cod. pen., ha ritenuto di confermare la separazione delle fattispecie in commi distinti. La scelta legislativa, evidentemente, e’ stata ispirata da un intento preciso: quello, cioè, di accorpare ipotesi omogenee, da un lato, e di tenere separate ipotesi eterogenee, dall’altro. Nella ricerca dei tratti comuni alle varie fattispecie soccorre il comma 2, il quale contiene un ventaglio di condotte affini quanto al loro presupposto fattuale, atteso che tutte postulano l’esistenza, reale o falsamente denunciata, di un sinistro. Sinistro che, invece, non e’ richiesto per la realizzazione delle fattispecie di cui al comma 1, posto che esse o prescindono da un siffatto evento oppure si pongono in epoca cronologicamente anteriore allo stesso. Che, poi, l’evento lesivo sia realmente avvenuto, sia stato oggetto di una falsa denuncia ovvero, pur essendosi verificato, le conseguenze siano state meno gravi di quelle artatamente aggravate o gli elementi probatori o documentali dello stesso siano stati fraudolentemente distrutti, alterati o precostituiti, non riveste alcun rilievo; ciò che conta, e che rende le condotte truffaldine del comma 2 espressione di una situazione identica dal punto di vista ontologico, fenomenico e cronologico, e’ che i comportamenti fraudolenti siano tutti successivi ad un sinistro, sia o no questo realmente accaduto.</p> <p style="text-align: justify;">Di conseguenza, le condotte ivi previste rappresentano ontologicamente diverse modalità di esecuzione alternative di un medesimo illecito, e la violazione di due o più di esse non da luogo ad una pluralità di reati in concorso – ed eventualmente in continuazione – tra loro, bensì ad un unico titolo di reato: si può, quindi affermare che i due commi dell’articolo 642 cod. pen. costituiscono, ciascuno, una norma a più fattispecie. Applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie in esame, deve allora concludersi che la condotta contestata all’imputata al capo sub b) integra, in realtà, l’ipotesi criminosa di cui all’articolo 642 cod. pen., comma 2 che concorre con quella contestata al capo sub a).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 dicembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.57249 alla cui stregua va rimessa alle Sezioni Unite la soluzione della questione se commetta più violazioni dell'art. 337 c.p. l'agente che, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o a più incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte rammenta come sussista un consapevole contrasto interpretativo nella propria giurisprudenza sulla sussistenza di una o più violazioni dell'art. 337 cod. pen. nel caso in cui l'azione minacciosa o violenta sia dal soggetto agente realizzata nei confronti di una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio o, ancora, di soggetti che, richiesti, vi prestino assistenza. La sentenza impugnata nel caso di specie ha ritenuto correttamente applicata la continuazione, considerando la duplicità del reato di cui all'art.337 cod. pen. in ragione dell'esistenza di due pubblici ufficiali nei confronti dei quali è stata tenuta l'azione minacciosa e violenta contestata. A sostegno di tale decisione la Corte di merito ha richiamato l'orientamento espresso da Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012, Momodu, Rv. 253111 secondo il quale "<em>la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell'art. 337 cod. pen., ma tanti distinti reati - eventualmente uniti dal vincolo della continuazione - quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la condotta criminosa si perfeziona con l'offesa al libero espletamento dell'attività di ciascuno di essi</em>". L'orientamento fatto proprio dalla sentenza impugnata – chiosa ancora la Corte - si pone nell'alveo di una più risalente giurisprudenza, secondo la quale, qualora la funzione pubblica sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni - minacciose o violente - con cui l'autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato (v. mass. n. 171756; v. mass. n. 152871) (Sez. 6, n. 3546 del 07/04/1988, Grazioso, Rv. 180728).</p> <p style="text-align: justify;">Orientamento che è stato, da ultimo, confermato da Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, Provenzano, Rv. 270545, secondo la quale decisione la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell'art. 337 cod. pen., ma un concorso formale omogeneo di reati e dunque tanti distinti reati quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell'attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale. La decisione ha osservato che l'opposto indirizzo, che sostiene l'unicità del reato in presenza di una pluralità di pubblici ufficiali, svaluta "<em>la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio</em>" e trascura che "<em>la pubblica amministrazione è un'entità astratta, che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali, pur operando come organo della stessa, conserva una distinta identità, suscettibile di offesa</em>", e si fonda, inoltre, su un argomento testuale, in quanto, pur costituendo delitto contro la pubblica amministrazione, il reato di resistenza a pubblico ufficiale è connotato, nella sua esplicazione tipica, da violenza o minaccia alla persona, condotta che conferisce "<em>centralità all'opposizione violenta all'azione del singolo pubblico ufficiale</em>" e consente di "<em>individuare l'interesse protetto in quello della pubblica amministrazione a non subire intralci nel momento in cui, per assolvere ai compiti istituzionali, deve attuare la sua volontà tramite i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e per tale ragione, cioè per garantire la sicurezza e la libertà di azione dei singoli contro fatti di opposizione violenta, la norma assicura tutela al pubblico ufficiale, é_ soggettivamente individuato</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Si è, quindi, ritenuto ravvisabile il concorso formale omogeneo di reati se l'agente, con un'unica azione, ha deliberatamente commesso più violazioni della medesima disposizione di legge nella consapevolezza di contrastare l'azione di ciascun pubblico ufficiale.</p> <p style="text-align: justify;">A questo orientamento – prosegue la Corte - si oppone quello, emerso più recentemente, secondo il quale "<em>in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio</em>" (Sez. 6, n. 37727 del 09/05/2014, Pastore, Rv. 260374). Nel giustificare il discostamento dal precedente orientamento si osserva che la diversa soluzione trova ragione nella stessa struttura del reato secondo la formulazione letterale della disposizione, laddove focalizza quale obiettivo della condotta criminosa l'opposizione all'atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale, essendo il bene espressamente tutelato dall'art. 337 cod. pen. rappresentato dalla regolare attività dell'Amministrazione rispetto alla quale l'offesa al pubblico ufficiale rappresenta un "<em>danno collaterale</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Nell'alveo di questo orientamento si è posta Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi, Rv. 269005 che, nel contrastare l'opposta conclusione, ha osservato che esso perde di vista il bene indiscutibilmente oggetto della salvaguardia apprestata dall'art. 337 cod. pen., che è rappresentato dal regolare svolgimento dell'attività della P.A., per effetto della sanzione apprestata avverso l'opposizione ad un atto d'ufficio (o di servizio) che sia connotato da modalità violente o minatorie ed il carattere meramente strumentale dell'offesa rispetto all'interesse tutelato, senza che la prima rimanga priva di risposta da parte dell'ordinamento, posto che, nel momento in cui essa supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice - che vale ad integrare l'elemento costitutivo della "<em>violenza o minaccia</em>" di cui al più volte citato art. 337 cod. pen., essendo pertanto ivi assorbita - entrano in gioco (anche) le norme poste a presidio dell'integrità fisica dell'individuo.</p> <p style="text-align: justify;">Quanto all'elemento psicologico, ha evidenziato che la giurisprudenza di legittimità che ha affrontato il tema del concorso formale c.d. omogeneo, ha posto l'accento, al fine di differenziare il caso dell'unicità da quello della pluralità di violazioni, sul diverso atteggiarsi del dolo in capo al soggetto agente, a tal fine significando che "<em>perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l'azione unica sia accompagnata e sorretta dall'elemento soggettivo tipico proprio di ciascuna fattispecie criminosa. Ciò significa che non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese è necessario un "</em>quid pluris<em>", consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l'evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone</em>." (così Cass. Sez. 2, sent. n. 12027 del 23.09.1997, Rv. 210458; conf. Sez. 1, sent. n. 5016 del 07.12.1987 - dep. 23.04.1988, Rv. 178225).</p> <p style="text-align: justify;">Da ultimo, nel ribadire questo orientamento Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939, ha osservato che l'uso della violenza o della minaccia considerato dall'art. 337 cod. pen. per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, non si identifica necessariamente nella minaccia o violenza contro la persona del pubblico ufficiale potendosi manifestare anche in forme diverse da quelle riconducibili alle previsioni degli artt. 610 o dell'art. 612 cod. pen. esplicandosi anche mediante una violenza (o minaccia) cosiddetta impropria, che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, riverbera negativamente sull'esplicazione della relativa funzione, impedendola o ostacolandola.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26857, alla cui stregua – in tema di guida in stato di ebbrezza e omicidio o lesioni “<em>stradali</em>” – vanno preliminarmente puntualizzati taluni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del <em>bis in idem</em>, da ritenersi vero e proprio cardine di civiltà giuridica, poiché preclude di addebitare all'imputato lo stesso fatto storico più volte, e ciò dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, chiosa la Corte, la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del <em>bis in idem</em> è espressione di un cardine generale di civiltà dell'ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. cod. proc. pen.) e l'ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">Va precisato, per la Corte, che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti nel caso di specie (artt. 84 e 15 cod. pen.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all'imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell'individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. "<em>ne bis in idem sostanziale</em>", che però, come noto (viene richiamata sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell'ordinamento. Il momento di sintesi, chiosa ancora la Corte, di cui è espressione l'art. 84 cod. pen., quale esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all'imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata "<em>vicenda di vita</em>" si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell'azione penale talora ad elemento costitutivo dell'illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante.</p> <p style="text-align: justify;">Tanto premesso, il ricorso, sotto il profilo segnalato nel secondo motivo, appare alla Corte nel caso di specie fondato. Alla persuasività delle considerazioni di principio già svolte, deve aggiungersi avere la Corte già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all'imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 41 del 2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell'occasione dalla S.C.): a seguito dell'entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l'art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale "<em>Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni</em>" e, inoltre, "<em>nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto</em>" [...].</p> <p style="text-align: justify;">Precedentemente – prosegue la Corte - dall'entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l'art.589 cod. pen. disponeva, tra l'altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, "<em>Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni</em>" e che "<em>Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici</em>" [...] La formulazione della novella del 2016 ha per la Corte, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della "<em>guida</em>", individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga "<em>alla guida di un veicolo a motore</em>"; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è "<em>chiunque cagioni per colpa</em> [ ] <em>con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale</em>....)". In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al "<em>conducente di un veicolo a motore</em>" e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza. In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l'esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell'art. 589-bis cod. pen. successivi al primo quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre allora, ad avviso del Collegio, dare continuità al - condivisibile - ragionamento che si è testualmente richiamato, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell'omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, si richiama la recentissima sentenza di Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (Sez. 4, n. 1880 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc, Greco; Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni; Sez. 4, n. 3559 del 29/10/2009, dep. 2010, Corridori; Sez. 5, n. 2608 del 15/01/1997, Schiavone).</p> <p style="text-align: justify;">Può quindi per la Corte affermarsi in conclusione il principio di diritto onde, nel caso in cui si contesti all'imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone - ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse - dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell'art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell'applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà naturalmente, per la Corte, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all'assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 settembre esce la significativa sentenza delle SSUU della Cassazione n.40981 alla cui stregua si configura concorso formale tra più reati di resistenza a pubblico ufficiale (e non già un’unica fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale) nel caso in cui la condotta di violenza o minaccia sia utilizzata per opporsi a una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.</p> <p style="text-align: justify;">La questione di diritto per la quale il ricorso è pervenuto alle Sezioni Unite viene dalle medesime così sintetizzata: "<em>Se, in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., la condotta di chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, configuri un unico reato ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato</em>". Il quesito impone la trattazione di due distinti e connessi temi di indagine: a) individuazione dell'ambito del concorso formale omogeneo di reati ex art. 81, primo comma, cod. pen.; b) analisi della fattispecie di cui all'art. 337 cod. pen. con particolare riguardo al profilo strutturale (condotta e oggetto materiale della stessa, così come individuati nella norma incriminatrice) nonché alla ricognizione del bene giuridicamente protetto, al fine di stabilire se l'offesa punita è quella diretta all'atto amministrativo in sé considerato, o, viceversa, consiste nell'opposizione - violenta o minacciosa - al pubblico ufficiale che esegue detto atto.</p> <p style="text-align: justify;">Circa il tema sub a), va osservato per la Corte che l'articolo 81, primo comma, cod. pen. individua la fattispecie del "<em>concorso formale di reati</em>" tanto nel caso in cui con una sola azione siano violate diverse norme di legge (c.d. concorso formale eterogeneo di reati), quanto nel caso in cui, con una sola azione, venga violata contestualmente più volte la medesima disposizione di legge (c.d. concorso formale omogeneo di reati). Nel concetto di azione unica vanno ricompresi tanto i casi in cui l'azione si risolva in un "<em>atto unico</em>" (conforme alla condotta normativamente prevista), quanto i casi in cui l'azione si realizzi attraverso il compimento di una "<em>pluralità di atti</em>" che siano contestuali nello spazio e nel tempo ed abbiano fine unico. Con la precisazione che, a scanso di ambiguità, l'apprezzamento di tali caratteri (contestualità degli atti e unicità del fine) deve essere effettuato attraverso un raffronto rigoroso e costante della fattispecie astratta descritta dalla norma.</p> <p style="text-align: justify;">In linea generale – chiosa la Corte - si deve ancora affermare che la consumazione del reato si realizza ogniqualvolta, attraverso la condotta astrattamente descritta nel precetto, sia realizzata l'offesa tipizzata e sia leso l'interesse protetto dalla norma (c.d. evento giuridico). Di qui discende che la fattispecie del concorso formale omogeneo ex art. 81, primo comma, cod. pen. si realizza quando il bene tutelato sia leso più volte da una azione che, sul piano fenomenico, diviene causa di una pluralità di lesioni o eventi omogenei. Appare opportuno specificare – prosegue il Collegio che l'indagine deve limitarsi alla valutazione del solo fatto storico, riscontrando, sulla scorta del modello normativo, l'esistenza di plurime violazioni della medesima disposizione di legge, non essendo necessaria alcuna ulteriore specifica indagine circa la rilevanza dell'interesse tutelato dalla norma. Non sembra avere sicuro fondamento, invece, l'opinione con la quale, distinguendo tra norme incriminatrici che tutelano beni altamente personali (vita, integrità fisica, libertà personale, onore) e norme che proteggono beni di natura diversa, si afferma che nel primo caso sarebbe sempre configurabile una pluralità di reati in ragione della rilevanza dei plurimi interessi lesi, mentre nel secondo ciò non sarebbe sempre possibile. La tesi pone infatti un alone di incertezza nel giudizio di concretizzazione della fattispecie tipica, mentre sul piano normativo non paiono rinvenirsi argomenti per una distinzione di tale fatta, né criteri discretivi oggettivi che consentano di distinguere con sufficiente precisione tra i beni altamente personali e quelli che tali non sarebbero.</p> <p style="text-align: justify;">Passando al piano applicativo di quanto fin qui ricordato, ai fini della verifica in concreto della ricorrenza di un'ipotesi di concorso formale omogeneo di reati, bisogna procedere per il Collegio all'ideale scissione della complessiva vicenda fattuale in tante parti quanti sarebbero gli eventi giuridici, verificando quindi se ognuno degli autonomi frammenti di essa integri, in tutte le sue componenti (soggettiva ed oggettiva) la fattispecie prevista dal legislatore: tenendosi presente che sul piano soggettivo occorre attentamente verificare che il dolo investa ciascuno dei singoli frammenti del fatto. Infatti, perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l'azione unica sia accompagnata e sorretta dall'elemento soggettivo proprio di ciascuna fattispecie criminosa. In altri termini: non potendo farsi derivare la unicità o la pluralità dell'azione puramente e semplicemente dalla pluralità delle persone offese, è necessario, quando si verifica una tale ipotesi, un <em>quid plurís</em> consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l'evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, delle suddette persone, elemento quest'ultimo rinvenibile solo, come detto, attraverso la analisi concreta del fatto. Nel caso di verifica positiva, si potrà quindi affermare che ricorre la fattispecie del concorso formale omogeneo.</p> <p style="text-align: justify;">Passando al tema relativo al delitto di resistenza a un pubblico ufficiale, occorre per le SSUU in primo luogo esaminare la struttura della fattispecie e, attraverso essa, rinvenire, secondo la <em>ratio</em> della disposizione ma avuto riguardo comunque alla descrizione normativa della condotta incriminata, l'interesse protetto dall'art.337 cod. pen. All'interno della Sesta Sezione, sul punto si sono formati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti.</p> <p style="text-align: justify;">Con il primo (<em>ex multis</em>: Sez. 6, n. 38182 del 26/09/2011, De Marchi, Rv. 250792 e Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012, Momodu, Rv. 253111), si afferma che la violenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto nei confronti di più pubblici ufficiali, per contrastare il compimento di un atto del loro ufficio, configura tanti reati di resistenza quanti sono i soggetti passivi coinvolti. La tesi si fonda sulla considerazione onde l'azione delittuosa, pur ledendo unitariamente l'interesse del regolare funzionamento della PA, si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell'attività di ciascuno dei pubblici ufficiali incaricati del compimento dell'atto (che rappresenta l'oggetto materiale della condotta). In senso conforme si esprimono Sez. 6, n. 35376 del 22/06/2006, Mastroiacovo, Rv. 234831 e, da ultimo, Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, Provenzano, Rv. 270545, in cui, in particolare, viene messo in rilievo che l'opposto indirizzo svaluta la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio e trascura che la PA è un'entità astratta che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali, pur operando come organo della stessa, conserva una distinta identità suscettibile di offesa così come previsto dal dato testuale della disposizione.</p> <p style="text-align: justify;">La tesi opposta (v. fra le più recenti: Sez. 6, n. 37727 del 09/05/2014, Pastore, Rv. 260374; Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi, Rv. 269005; Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939; Sez. 6, n. 52725 del 28/09/2017, Diop, Rv. 271559), partendo dalla valorizzazione dell'interesse giuridico del regolare andamento della PA, concentra l'attenzione sull' "<em>atto</em>" che deve essere eseguito, affermando che solo l'ostacolo all'esecuzione di quest'ultimo concreterebbe la lesione dell'interesse protetto; secondo questa tesi, l'aspetto dell'integrità psico-fisica del pubblico ufficiale incaricato dell'esecuzione dell' "<em>atto</em>" assumerebbe, pertanto, un rilievo secondario o collaterale, con la conseguenza che la eventuale pluralità dei pubblici ufficiali fatti oggetto di minaccia o violenza non avrebbe incidenza alcuna sul piano dell'evento giuridico che rimarrebbe comunque unico. Nell'alveo di questo orientamento si pone Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi, Rv. 269005, che, in particolare, osserva come l'opposta tesi perda di vista il bene indiscutibilmente rappresentato dal regolare svolgimento dell'attività della p.a., mentre la persona fisica del pubblico ufficiale è tutelata dalle norme generali poste a presidio dell'integrità fisica dell'individuo quando la violenza supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice, che vale ad integrare l'elemento costitutivo della "<em>violenza o minaccia</em>" di cui al citato art.337 cod. pen. E Sez. 6 n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939, aggiunge che l'uso della violenza o della minaccia, per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, non si identificherebbe necessariamente nella minaccia o violenza contro la persona del pubblico ufficiale, potendosi manifestare in forme diverse da quelle riconducibili alle previsioni degli artt. 610 o 612 cod. pen., esplicandosi anche mediante violenza o minaccia impropria che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, riverbera negativamente sull'esplicazione della funzione, impedendola od ostacolandola.</p> <p style="text-align: justify;">Ritiene a questo punto il Collegio che la soluzione del contrasto imponga un'analisi che tenga conto anzitutto della struttura obiettiva dell'illecito siccome emergente dal testo dell'art. 337 cod. pen., quindi dell'interesse protetto desumibile da tale articolazione strutturale, oltre che dalla collocazione sistematica e dall'intitolazione dell'articolo. Invero, l'idea che l'individuazione della condotta incriminata, ai fini della verifica di ipotesi di concorso di reati, debba partire dall'individuazione del bene giuridico protetto ed essere incentrata su di esso, già ripudiato dalla giurisprudenza di legittimità allorché a venire in rilievo è il principio di specialità (cfr. da ultimo, tra molte Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902), non solo non è formalmente conforme alle regole sull'interpretazione delle leggi, ma incorre - come rimarca autorevole Dottrina - nel vizio logico di confondere oggetto materiale e oggetto giuridico della tutela, che segna i limiti entro i quali il primo è tutelato. E si pone in contrasto, perciò, con i principi di tassatività e materialità, senza offrire garanzia aggiuntiva al principio di offensività, che sui limiti della tutela, appunto, riverbera.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre dunque partire dalla considerazione che la condotta tipica del delitto in esame si concreta nell'uso della violenza o della minaccia da chiunque esercitata per "<em>opporsi a un pubblico ufficiale</em>" (o a un incaricato di un pubblico servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza) mentre compie un atto dell'ufficio o del servizio. L'elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano modale e teleologico, essendo sanzionata ogni condotta diretta a conseguire lo scopo oppositivo indicato dalla disposizione attraverso l'uso di violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio agente. I suddetti elementi fattuali rilevano nella loro idoneità e univocità a impedire o a turbare la libertà di azione del soggetto passivo, sicché il reato è integrato da qualsiasi condotta che si traduca in un atteggiamento, anche implicito, purché percepibile, che impedisca, intralci o valga a compromettere, anche solo parzialmente o temporaneamente, la regolarità del compimento dell'atto dell'ufficio o del servizio, restando così esclusa ogni resistenza meramente passiva, come la mera disobbedienza. La struttura della fattispecie sotto il profilo fattuale, prevede, dunque, una condotta commissiva-oppositiva connotata: a) dalla violenza o dalla minaccia (esclusa, come detto, la mera resistenza passiva) rivolta (in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito) esclusivamente contro il pubblico ufficiale o il soggetto normativamente ad esso equiparato, siccome tesa a coartarne o a impedirne l'agire funzionale; b) dalla volontà (dolo specifico) di ostacolare il soggetto passivo nel momento dell'esercizio della funzione pubblica.</p> <p style="text-align: justify;">L'espressione adoperata dal legislatore - «<em>mentre compie un atto di ufficio o di servizio</em>» - ha la finalità di individuare contesto e finalità della condotta oppositiva e di circoscriverne la rilevanza nell'ambito di un obiettivo nesso funzionale ed di un determinato arco temporale, ricompreso tra l'inizio e la fine dell'esecuzione dell'atto dell'ufficio o del servizio; sicché, al di fuori del suddetto ambito, la violenza o la minaccia rivolte al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio configurano fattispecie diverse, quali ad esempio la violazione dell'art. 336 cod. pen. nel caso in cui la violenza e la minaccia siano antecedenti all'atto dell'ufficio. Significativamente, richiamandosi alla medesima ratio, rammenta il Collegio come già la Corte costituzionale, con ordinanza n. 425 del 1996, abbia messo in evidenza l'art. 337 cod. pen. non essere rivolto a punire la violazione di una privilegiata posizione personale connessa ad una ormai tramontata configurazione dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, ma la maggior offesa arrecata alla PA da una condotta volta ad impedire con violenza o minaccia l'attuazione della relativa volontà: all'evidenza sottintendendo l'esistenza di una compenetrazione tra la persona fisica del pubblico ufficiale e la pubblica amministrazione per la quale quello agisce.</p> <p style="text-align: justify;">Così individuati la condotta sanzionata e l'oggetto materiale su cui la stessa ricade, consistenti nell'opposizione-offesa a "<em>un</em>" (<em>id est</em> ciascun) pubblico ufficiale agente, non può condurre a diverse conclusioni l'individuazione dell'interesse protetto dall'art. 337 cod. pen. Che il "<em>regolare funzionamento della pubblica amministrazione</em>" rappresenti il bene giuridico tutelato, è univocamente e concordemente affermato, sulla base della collocazione sistematica e dell'intitolazione della disposizione, in tutta la giurisprudenza di legittimità, che implicitamente esclude la possibilità di rinvenire nella norma plurimi interessi giuridici di pari rango contemporaneamente protetti (regolare andamento della pubblica amministrazione e integrità fisica del pubblico ufficiale). È giocoforza, pertanto, circoscrivere il significato dell'espressione "<em>regolare funzionamento della pubblica amministrazione</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Secondo dottrina e giurisprudenza di diritto amministrativo, la PA è unanimamente intesa come organizzazione complessa costituita sia dai beni materiali strumentali al raggiungimento delle finalità pubbliche sia dalle persone che per essa agiscono. La relazione giuridica intercorrente tra la persona fisica che ricopre l'ufficio o la funzione pubblica e la pubblica amministrazione è definito "<em>rapporto organico</em>" che determina l'identificazione della persona fisica incardinata nell'ufficio o nel servizio pubblico con la stessa PA, sicché il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio è esso stesso PA costituendo lo strumento della relativa estrinsecazione nel mondo giuridico tanto sul piano volitivo che su quello esecutivo.</p> <p style="text-align: justify;">Nel campo del diritto penale il testo dell'art. 357 cod. pen. ricalca la ricostruzione giuridica dianzi esposta ricollegando la figura del pubblico ufficiale e dell'incaricato di un pubblico servizio al concreto esercizio della funzione o del servizio secondo un modello definitorio che esclude l'esistenza di un'alterità tra persona incardinata nella p.a. e quest'ultima. Ne deriva che il "<em>regolare andamento della pubblica amministrazione</em>" implica, non solo la mancanza di manomissione dei beni pubblici o la loro distrazione per il perseguimento di scopi diversi da quelli istituzionali, ma anche la mancanza di interferenze nel procedimento volitivo od esecutivo di colui che, incardinato nella Amministrazione, la personifica essendo espressione di volontà di quest'ultima. Pertanto l'interesse al normale funzionamento della PA va inteso in senso ampio, in quanto in esso si ricomprende anche la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, così come previsto dagli artt. 336, 337 e 338 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Le argomentazioni spese a sostegno della tesi per la quale l'opposizione sarebbe nei confronti dell'atto e non del pubblico ufficiale non possono essere perciò per il Collegio assunto valide, perché da un lato, non tengono conto della descrizione dell'illecito come configurato dal testo della norma e dall'altro, sul piano logico- giuridico, anche quando fanno riferimento all'interesse protetto, non evocano argomenti idonei a superare la lettera della legge. Può solo aggiungersi che non appare dirimente la considerazione che il delitto di resistenza assorbirebbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l'opposizione per essere la tutela fisica o morale dello stesso assicurata da altre disposizioni in cui l'offesa superi il tasso minimo tollerabile. Tale interpretazione finisce con lo svilire il raggio di copertura normativa sino a far ritenere subvalente e collaterale l'offesa al pubblico ufficiale, ponendosi in contrasto con la lettera della legge. Infatti, proprio la circostanza che l'elemento oggettivo del reato di resistenza sia integrato dalla violenza o dalla minaccia al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio in determinato momento, conferisce centralità alla persona del singolo soggetto pubblico chiamato a manifestare la volontà della PA.</p> <p style="text-align: justify;">Parimenti non ha significatività il raffronto tra l'art. 337 e l'art. 338 cod. pen. (v. fra le altre Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi; Rv. 269005) che collega alla violenza o minaccia a un "<em>corpo</em>" politico, amministrativo o giudiziario un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello riservato ai responsabili della violazione degli artt. 336 e 337 cod. pen., con l'affermazione che per conseguenza sarebbe del tutto irragionevole applicare ex art. 81 cod. pen. una pena maggiore al soggetto che rivolgesse minacce nei confronti di più pubblici ufficiali per opporsi al compimento dell'atto dell'ufficio ex art. 337 cod. pen. rispetto a colui che agisce nei confronti di un organo collegiale della PA. Si tratta di fattispecie fra loro diversamente strutturate e la diversa sanzione (più grave nel caso di violazione dell'art. 338 cod. pen. rispetto a quella dell'art. 337 cod. pen.) risponde a criteri di ragionevolezza, posto che nell'art. 338 cod. pen. è prevista la violenza o la minaccia verso l'unità indistinta dall'organo pubblico collettivo, oggetto di aggressione, piuttosto che la tutela dei singoli componenti. Né possono incidere ai fini della comparazione delle norme incriminatrici aspetti fattuali particolari delle fattispecie concrete, rilevanti ai fini della ricorrenza del concorso di reati o di circostanze aggravanti e in quanto tali idonei a determinare l'inasprimento del trattamento sanzionatorio per un titolo piuttosto che per l'altro, perché, al fine di una ricostruzione della portata del precetto e della volontà del legislatore, è alle fattispecie astratte che occorre avere riguardo.</p> <p style="text-align: justify;">La conclusione dell'analisi consente pertanto di rispondere al quesito posto all'esame delle Sezioni Unite nei seguenti termini: in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell'art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio.</p> <p style="text-align: justify;">Il primo motivo di ricorso deve dunque – conclude il Collegio - essere rigettato alla luce delle conclusioni cui si è pervenuti. La duplice violazione contestata all'imputato è resa evidente dalla motivazione della sentenza impugnata che, ai fini della ricostruzione della vicenda (non sindacabile, né censurata, nella presente sede) richiama il contenuto del capo di imputazione siccome ritenuto conforme al fatto concreto. Da esso si desume che la violenza è stata esercitata dall'imputato nel medesimo contesto spazio-temporale nei confronti di ciascuno dei pubblici ufficiali intervenuti per contenerne la furia aggressiva. La violenza si è risolta nella distinta aggressione rivolta verso entrambi i pubblici ufficiali, consistita nel proferire nei loro confronti minacce, nello strattonarli e nel tentativo di prenderli a pugni nel momento in cui essi intervenivano per impedirgli di aggredire una terza persona. Si deve pertanto affermare che la regola di diritto applicata dalla Corte territoriale è corretta ed è legittimo l'aumento di pena applicato nella ritenuta sussistenza di un concorso formale omogeneo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.25558, alla cui stregua va premesso che, all’indomani delle modifiche legislative di cui alla L. n. 38 del 2006, il reato di cui all’art. 600-quater c.p. può configurarsi con due condotte: il procurarsi ed il detenere materiale pornografico.</p> <p style="text-align: justify;">Prima della riforma, precisa il Collegio, la norma puniva le condotte, tra loro alternative, del “<em>procurarsi</em>”, che implica qualsiasi modalità di procacciamento compresa la via telematica, e del “<em>disporre</em>”, che implica un concetto più ampio della detenzione, allo scopo di rendere la norma sicuramente applicabile anche al possesso di immagini pedopornografiche ottenute mediante l’accesso a siti internet opportunamente protetti. Tutte le attività, telematiche o non, idonee a fare ottenere il materiale pedopornografico al detentore integravano la nozione del procurarsi.</p> <p style="text-align: justify;">La fattispecie – prosegue la Corte - prevede due modalità della condotta e segnatamente il procurarsi e il detenere. Detiene il materiale pedopornografico colui che in precedenza se l’è procurato. Non v’è dubbio che le due forme con cui può manifestarsi il detenere ed il procurarsi, anche se sembrano tra loro alternative, hanno tuttavia un elemento comune che è costituito dalla detenzione sia pure momentanea del materiale pedopornografico in capo a colui che se lo procura.</p> <p style="text-align: justify;">Dai principi dianzi esposti emerge per il Collegio che non si tratta di due reati diversi, ma di due diverse modalità di perpetrazione del medesimo reato e quindi le due condotte non possono concorrere tra di loro. Esse hanno un elemento comune, che è costituito dalla disponibilità ossia dalla detenzione del materiale pedopornografico. La condotta di procurarsi si consuma al momento dell’accesso sulla rete mentre quelle di detenzione ha carattere permanente e si consuma nel momento in cui si perde la disponibilità - di norma - con il sequestro. Invero, il comportamento di colui il quale, dopo essersi procurato materiale pedopornografico, lo detiene, configura per la Corte un reato commissivo permanente la cui consumazione inizia con il procacciamento del materiale e si perpetua per tutto il tempo in cui permane in capo all’agente la disponibilità del materiale e, quindi, l’illiceità della condotta (Sez. 3, n. 38221 del 25/05/2017, F., Rv. 270994 - 01; Sez. 3, n. 15719 del 23/02/2016, Belloni, Rv. 266581).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in generale del concorso di reati?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si è in presenza di un solo soggetto che commette plurime violazioni della legge penale;</li> <li>poiché ad ogni violazione della legge penale corrisponde un reato, il soggetto è a rigore punito per ciascuno dei reati commessi;</li> <li>non è sempre facile tuttavia, massime quando il tutto origina da una sola condotta (se si tratta di più condotte, è più semplice ricondurle a più reati), discernere in concreto se si è al cospetto di un solo reato ovvero di una pluralità di reati;</li> <li>si tratta in simili fattispecie di capire – avvalendosi anche della c.d. teoria della norma - se si è dinanzi ad un solo reato, ovvero a più reati, dacché ad una sola condotta potrebbe corrispondere un reato unitario, ovvero un concorso c.d. “<em>formale</em>” di reati (originati appunto da una sola condotta);</li> <li>il tutto ha peraltro riflessi processuali, giacché al cospetto di un solo e medesimo reato oggetto di accertamento si configura – ai fini delle nuove contestazioni del P.M. ex art.517 e seguenti c.p.p. – un fatto “<em>diverso</em>” e non piuttosto un fatto “<em>nuovo</em>” (che scatta invece in presenza di un reato distinto rispetto a quello per il quale si procede); ed è con riferimento ad un solo e medesimo reato che opera il divieto del c.d. <em>bis in idem</em> ex art.649 c.p.p., che invece è inapplicabile in caso i cui si discuta di reati distinti;</li> <li>quand’anche si sia al cospetto di una pluralità di reati, e non già di un solo reato, il soggetto agente potrebbe non essere assoggettato a sanzione penale nel caso in cui scatti il concorso “<em>apparente</em>” di norme, che è tale proprio perché, di più norme astrattamente applicabili ad una medesima condotta penalmente rilevante, se ne applica una sola, onde il concorso apparente di norme scongiura il concorso di reati, mentre quest’ultimo esclude a propria volta che si sia al cospetto di un concorso apparente di norme;</li> <li>in dottrina non si è mancato di osservare come il concorso di reati costituisca realmente una “<em>forma di manifestazione del reato</em>”, per come collocato nel codice penale (assieme al reato tentato, a quello circostanziato ed a quello “collettivo” giusta concorso di persone) solo allorché i vari reati che compendiano tale concorso: g.1) siano in connessione soggettiva, perché commessi dal medesimo soggetto agente; g.2) siano in connessione oggettiva, per essere avvinti da nesso teleologico (l’uno viene commesso al fine di commetterne un altro) o comunque da un vincolo di tipo consequenziale (l’uno è commesso per conseguire il profitto, il prezzo, o il prodotto di un altro, ovvero l’impunità per un altro, ovvero ancora l’occultamento di un altro); è, più in particolare, proprio la connessione (soggettiva ed oggettiva) che, sul versante sostanziale, può rendere applicabile l’aggravante del nesso teleologico ex art.62, n.2, c.p., ovvero il regime più favorevole della continuazione ex art.81, comma 2, c.p.; e che, sul crinale processuale, consente la trattazione unitaria dei vari processi afferenti a ciascun reato giusta competenza unitaria attribuita ad un solo giudice (o giusta riunione, se già trattati davanti al medesimo giudice).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in particolare del rapporto tra concorso di reati e trattamento sanzionatorio del reo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>allorché un medesimo soggetto commetta plurime violazioni della legge penale, si configura un concorso di reati cui possono astrattamente conseguire, alternativamente, diversi modelli di trattamento sanzionatorio;</li> <li>secondo il modello del c.d. cumulo materiale, al soggetto agente giudicato colpevole di reati in concorso vanno inflitte tutte le pene corrispondenti a ciascuno dei reati commessi, siccome aritmeticamente sommate tra loro, secondo il canone del “<em>tot crimina tot poenae</em>”; vi è tuttavia sempre la possibilità che il legislatore fissi un tetto massimo, con conseguente temperamento del rigore sanzionatorio che a tale modello si accompagna;</li> <li>secondo il modello del c.d. cumulo giuridico, al soggetto agente giudicato colpevole di reati in concorso si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata di ulteriori “<em>quote</em>” di pena avvinte alle ulteriori violazioni della legge penale (meno gravi) commesse; si tratta di una opzione che in Italia opera nelle ipotesi di concorso formale di reati e di reato continuato (art.81 c.p.), ma che in molti ordinamenti trova applicazione anche in presenza di un concorso materiale; opzione che parte della dottrina propugna anche per l’ordinamento italiano, sulla scorta della considerazione onde, dal punto di vista anche solo “<em>retributivo</em>” (e dunque di adeguata risposta sanzionatoria al crimine commesso), il protrarsi della pena genera una sofferenza nel soggetto che la patisce che cresce in proporzione geometrica, e non già aritmetica, con conseguente più equa applicabilità del cumulo giuridico in luogo di quello materiale; si aggiunge che applicare una pena unica (parametrata al reato più grave) e tuttavia ispirata ad un principio di calibrata progressività (come tale, crescente di intensità in relazione agli altri reati commessi), consentirebbe di meglio esaltare il significato complessivo (e “<em>personalizzato</em>”) dei reati commessi, in rapporto alla personalità del singolo soggetto agente; dopo la riforma del 1974, che ha ampliato il raggio di azione del c.d. reato continuato ex art.81, comma 2, c.p. e del cumulo giuridico ad esso applicabile, ammettendolo anche in ipotesi di concorso materiale di reati quanto questi siano avvinti da un medesimo disegno criminoso, la questione dell’eventuale applicabilità del cumulo giuridico riguarda ormai solo, eventualmente e de iure condendo, il concorso materiale che non si inserisca in un “<em>medesimo disegno criminoso</em>” configurando piuttosto una pluralità di crimini collegati solo dal fatto che è lo stesso soggetto agente ad averli commessi;</li> <li>secondo il modello del c.d. assorbimento, al soggetto agente giudicato colpevole di reati in concorso materiale si applica la sola pena prevista per il reato più grave; è un modello che nel sistema giuridico penale italiano è il medesimo del “<em>complementare</em>” concorso apparente di norme, non essendo peraltro esplicitamente previsto dal codice penale, e che in qualche modo balena in seno alla disciplina delle circostanze, ed in particolare in quella del concorso di circostanze ad effetto speciale (aggravanti o attenuanti) ex art.63, comma 4 e 5, c.p., laddove il giudice applica la sola pena prevista per la circostanza più grave (o meno grave), ma “può” ad un tempo aumentarla: se non lo fa, il trattamento sanzionatorio è dunque proprio e solo quello previsto per la circostanza ad effetto speciale più grave (o meno grave), con conseguente “assorbimento” degli effetti (sanzionatori) delle altre; la dottrina che propugna il modello dell’assorbimento in presenza di un concorso materiale di reati viene contrastata da chi, oltre a rappresentare che in tal modo si produrrebbe, in modo iniquo, una parificazione tra la disciplina del concorso materiale di reati (dove si assiste a più condotte violative della legge penale, e dunque ad una maggior pericolosità intrinseca del reo) e quella del concorso apparente di norme (laddove la condotta è invece una sola, ditalché il concorso apparente di norme è “<em>complementare</em>” rispetto al c.d. concorso formale di reati, fattispecie entrambe che denotano una minore pericolosità intrinseca del soggetto agente), assume tale eventualità idonea a depotenziale la funzione (anche deterrente e general preventiva) della sanzione penale;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nell’ambito del concorso di reati, cosa distingue il concorso “<em>materiale</em>” dal concorso “<em>formale</em>”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il concorso di reati è “<em>materiale</em>” quando si ha plurima violazione di norme penali, e dunque più reati, in corrispondenza con una pluralità di azioni o di omissioni, e dunque di una pluralità di condotte, a ciascuna delle quali corrisponde un commesso fatto inadempimento reato; a.1) quando a più azioni od omissioni corrispondono più reati omogenei (ad esempio, tutti omicidi) si ha concorso materiale omogeneo; a.2) quando a più azioni od omissioni corrispondono più reati tra loro eterogenei (ad esempio una violazione di domicilio ed una violenza sessuale) si ha concorso materiale eterogeneo; al concorso materiale di reati, tanto omogeneo quanto eterogeneo, il codice penale fa corrispondere un grave trattamento sanzionatorio (anche quando di pene inflitte con sentenze o decreti di condanna diversi tra loro: art.80), vale a dire il cumulo materiale di pene (<em>tot crimina, tot poenae</em>), seppure mitigato da tetti massimi di pena applicabile (ai sensi degli articoli 78 e 79 c.p.); si tratta di una scelta del Legislatore orientata a privilegiare la funzione retributiva (e dunque repressiva) della pena, con coloriture di special-prevenzione;</li> <li>il concorso di reati è “<em>formale</em>” o anche “<em>ideale</em>” quando un medesimo soggetto agente compie, attraverso una sola condotta (azione od omissione), più reati; allorché la violazione contestuale e plurima concerna la medesima norma incriminatrice si parla di concorso formale omogeneo, mentre esso è eterogeneo quando la unica e medesima condotta implica violazione di fattispecie incriminatrici diverse tra loro, così interferendo il cuore della ridetta, unica e medesima condotta posta in essere dal soggetto agente con più disposizioni incriminatrici, mentre altri elementi del reato corrispondono in modo disgiunto all’una e all’altra fattispecie incriminatrice (ad esempio, incendio di cosa propria ex art.423 c.p. e frode all’assicurazione ex art.642 c.p.); dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, a partire dal 1974 si applica al concorso formale il medesimo regime del reato continuato, e dunque si applica la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave, aumentata fino al triplo (art.81, comma 1), facendosi luogo a “<em>cumulo giuridico</em>”. Talune questioni in tema di concorso formale di reati sono le medesime che coinvolgono il c.d. reato continuato, come per quanto concerne l’individuazione della “violazione più grave” e per quanto concerne il regime del cumulo quando le pene per i singoli reati commessi siano tra loro eterogenee (tanto che vengano applicate con un’unica sentenza o decreto, quanto con sentenze o decreti diversi e in successione tra loro); parimenti analoga è la discrasia tra l’”<em>unitarietà</em>” della pena irrogata al soggetto agente ai sensi dell’art.81 c.p. e la “<em>distinta pluralità</em>” dei vari reati (tanto in concorso formale che nel reato continuato) ad ogni altro effetto giuridico, come in tema di estinzione del reato o della pena (ad esempio, amnistia o prescrizione), di cause di giustificazione, di circostanze aggravanti o attenuanti, di condizioni di punibilità e di procedibilità, dovendosi avere riguardo in tal caso a ciascuna singola figura criminosa, esattamente come avviene nelle fattispecie di concorso materiale;</li> <li>è dunque importante capire quando si è dinanzi ad una sola condotta (una sola azione; una sola omissione) ovvero ad una pluralità di condotte (più azioni; più omissioni), dacché alla distinzione tra concorso materiale e concorso formale corrisponde una consistente distinzione di trattamento sanzionatorio;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa distingue in particolare la condotta (azione od omissione) “<em>una</em>” dalle condotte (azioni od omissioni) “<em>plurime</em>”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>dire che si è in presenza di una sola condotta (ad esempio, di una sola azione) significa ammettere che alla fattispecie considerata va applicato il regime sanzionatorio più mite del concorso formale, piuttosto che quello più rigido del concorso materiale, il quale ultimo scatta quando si è al cospetto di condotte (ad esempio, di azioni) plurime;</li> <li>per distinguere se ci si trova dinanzi ad una sola condotta o a condotte plurime si fronteggiano fondamentalmente due concezioni: b.1) teoria naturalistica: si tratta della tesi più remota ed ormai recessiva, onde l’azione in null’altro si risolve se non in un movimento muscolare che l’agente esercita verso il mondo esterno, onde nel caso di azione integrata da un solo atto (c.d. “<em>unisussistente</em>”), essa è senz’altro “<em>una</em>”, mentre nel caso in cui la ridetta azione sia integrata da più atti (c.d. “<em>plurisussistente</em>”), potrebbe trattarsi ancora di un’azione “<em>una</em>” ovvero di azioni “<em>plurime</em>”: è una sola azione, per una tesi dottrinale, laddove gli atti plurimi siano contestuali ed avvinti dall’unicità del fine da essi perseguito, onde l’agire del soggetto “<em>agente</em>” si contraddistingue per una globale direzione teleologica (“<em>ad unum</em>”) che tuttavia – per poter assumere applicabile il concorso formale anche ai reati colposi, oltre che a quelli dolosi – va intesa (come precisa altra dottrina) dal punto di vista oggettivo, e non già “<em>soggettivo</em>” e come tale afferente alla consapevole volontà del soggetto “<em>agente</em>” (pur se non manca chi ha parlato di “<em>unica volontà colpevole</em>”, e dunque di azione necessariamente “<em>unica</em>” anche sul crinale psicologico), ; altra parte della dottrina, sempre nell’ottica di fondo della globale direzione teleologica, assume che è l’unicità dell’evento, anch’esso inteso in senso “<em>naturalistico</em>”, a fare “<em>una</em>” l’azione, mentre in presenza di più eventi (sempre naturalisticamente intesi) si è giocoforza al cospetto di più azioni; secondo un ulteriore prisma ermeneutico, l’azione è “<em>una</em>” (globale direzione teleologica) quando il processo esecutivo e volitivo del soggetto agente, nonostante l’apparente pluralità degli atti, è uno, mentre per altri ancora sia “<em>un’azione</em>” anche laddove vi siano più processi esecutivi e volitivi riconducibili al soggetto agente, purché tra loro connessi; b.2) teoria normativa; si tratta della tesi più recente e più accreditata, che – sulla scia della dottrina tedesca - contesta alla tesi “<em>naturalistica</em>” il fatto di pretermettere qualsivoglia riferimento, che pure sarebbe imprescindibile, alla fattispecie legale tipica di volta in volta considerata; stando a questa diversa visione prospettica, anche al cospetto di più atti “<em>naturalistici</em>” l’azione è da considerarsi “<em>una</em>” quando vengono “<em>normativamente</em>” a realizzarsi i presupposti minimi che compendiano la singola fattispecie incriminatrice, onde può non bastare, ad esempio, una sola pugnalata ad uccidere un uomo, e tuttavia anche plurime pugnalate (che costituiscono plurimi atti dal punto di vista naturalistico) fanno nondimeno luogo ad una sola “<em>azione</em>” omicida; da questo punto di vista, è “<em>azione</em>” ognuna che sia tipica dal punto di vista della astratta fattispecie penale, onde è ben possibile che una sola “<em>azione</em>” così intesa (quale processo esecutivo unitario) sia contemporaneamente riconducibile a due (o, a rigore, più) fattispecie astratte, circostanza che configura il concorso formale di reati ai sensi dell’art.81, comma 1, c.p.;</li> <li>peculiare l’individuazione dell’azione unica (concorso formale) o, viceversa, della pluralità di azioni (concorso materiale) in tema di reati colposi: stando alla dottrina più accreditata, c.1) quando l’evento causato dal soggetto agente sia unico, quantunque giusta violazione di molteplici obblighi di diligenza, si ha azione “<em>unica</em>”; c.2) quando gli eventi causati dal soggetto agente sono plurimi, del pari si ha azione “<em>unica</em>”, salva l’ipotesi in cui tra un evento e l’altro il soggetto agente sia in grado di adempiere all’obbligo di diligenza, circostanza al cospetto della quale si hanno invece azioni plurime (e, dunque, concorso materiale);</li> <li>parimenti peculiare è l’individuazione dell’azione unica (concorso formale) o, viceversa, della pluralità di azioni (concorso materiale) in tema di reati omissivi; stando alla dottrina più accreditata: d.1) reati omissivi propri: quando più obblighi di agire possono essere adempiuti solo contemporaneamente (il che è impossibile o sommamente difficile) in caso di pertinente violazione si ha omissione “<em>unica</em>” (concorso formale), mentre laddove vi sia il tempo di adempiere in successione a ciascuno diverso obbligo di agire si hanno omissioni plurime (concorso materiale); d.2) reati omissivi impropri ex art.40, comma 2, c.p.: ad eventi plurimi corrispondono normalmente omissioni plurime, ovvero plurime violazioni di obblighi di impedire l’evento (concorso materiale); ma allorché i diversi eventi possano essere impediti solo attivandosi contemporaneamente (il che è impossibile o sommamente difficile), si ha omissione “<em>unica</em>”, ovvero unica violazione dell’obbligo di impedire gli eventi ridetti (concorso formale);</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare dell’unità o pluralità di “<em>azioni</em>” (condotte) in rapporto all’unità o, in alternativa, pluralità di reati?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il problema è quello di distinguere tra reato c.d. “unitario”, e dunque unico, e concorso formale di reati (plurimi);</li> <li>viene in rilievo ancora una volta la tematica della unità ovvero, alternativamente, della pluralità dell’”azione” penalmente rilevante (e dunque della condotta);</li> <li>la questione è particolarmente delicata quando si sia al cospetto di ripetizioni molteplici della medesima violazione di legge, attraverso condotte c.d. iterative, in presenza delle quali non è semplice sovente distinguere appunto se ci si trovi dinanzi ad un solo reato, ovvero ad una pluralità di reati omogenei in concorso formale (eventualmente avvinti dalla continuazione);</li> <li>stando all’opinione dottrinale maggioritaria – sconfessata tuttavia dalle SSUU del 2018 in tema di resistenza a “<em>pubblici ufficiali</em>” - occorre all’uopo assumere dirimente il criterio del soggetto passivo del reato, onde allorché con una sola azione od omissione (e, dunque, con una sola condotta) il soggetto agente vulneri più beni di soggetti passivi distinti, massime se si tratta di beni altamente personali (come nel caso della vita, dell’integrità fisica, dell’onore), si è normalmente al cospetto di un concorso formale e, dunque, di una pluralità di reati (anche se non mancano fattispecie, come la calunnia, in cui la dottrina medesima assume configurarsi un reato unitario facendo prevalere l’unità del bene giuridico “<em>di fondo</em>” aggredito, che in tale caso viene individuato nell’amministrazione della giustizia); quando invece il soggetto agente vulneri beni (interessi) meramente patrimoniali, quand’anche di più soggetti passivi, si è invece al cospetto di un unico reato (pur in presenza di plurime ed omogenee violazioni della legge penale).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare delle c.d. “<em>norme a più fattispecie</em>” (o “<em>norme penali miste alternative</em>”) e delle c.d. “<em>disposizioni a più norme</em>” (o “<em>norme penali miste cumulative</em>”)?</strong></p> <ol> <li style="text-align: justify;">il tratto comune a queste fattispecie incriminatrici è quello di prevedere – nei diversi comma in cui si articola la pertinente formulazione, ovvero all’interno di un unico comma – molteplici fatti di reato sanzionati con la medesima pena;</li> <li style="text-align: justify;">nell’ipotesi delle c.d. “<em>norme a più fattispecie</em>” o “<em>norme miste alternative</em>”, si tratta di un unico fatto inadempimento reato, seppure realizzabile giusta condotte diverse, onde in caso di contestuale realizzazione di tutte le condotte tipizzate, la fattispecie criminosa è applicabile una sola volta (reato unitario);</li> <li style="text-align: justify;">nell’ipotesi delle c.d. “<em>disposizioni a più norme</em>” o “<em>norme miste cumulative</em>”, si tratta di una pluralità di inadempimenti reato, dacché ogni fattispecie costituisce in realtà un reato autonomo, onde al cospetto di una pluralità di condotte si configura un concorso di reati;</li> <li style="text-align: justify;">non manca tuttavia, in dottrina, chi assume come in queste ipotesi si sia sempre dinanzi ad un reato unico (sia dunque nell’ipotesi di “<em>norme a più fattispecie</em>” che di “<em>disposizioni a più norme</em>”), precipitato della violazione di un’unica norma incriminatrice, i diversi fatti descritti dal legislatore penale rappresentando diversi gradi (o modalità) di offesa ad un unico bene giuridico, onde il numero e la gravità dei diversi fatti commessi possono al più rilevare in sede di dosimetria della pena concretamente applicabile al soggetto agente.</li> </ol>