<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciascun inadempimento reato, ivi compresa la costituzione operativa ed il mantenimento in vita di una associazione criminale, può essere integrato tanto da contegni tipici – siccome descritti dalla singola norma incriminatrice di parte speciale – quanto da comportamenti apparentemente “</em>atipici<em>”, ma in realtà tipizzati in forza dell’operatività “</em>per estensione<em>” dell’art.110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato; ciò implica che si può essere soci mafiosi </em>ab interno<em>, con riguardo al clan di riferimento, facendone pienamente parte, ovvero </em>ab externo<em>, contribuendo consapevolmente e volontariamente all’”</em>esserci<em>” associativo pur senza farne parte in modo strutturato, con necessità di definire quando la mera connivenza penalmente irrilevante diviene contiguità mafiosa punibile, massime allorché l’associazione mafiosa si ponga quale ineludibile supporto per il raggiungimento elettivo di cariche pubbliche.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Nel <strong>diritto romano</strong> è già presente la figura dell’<strong>associazione per delinquere</strong>, o <strong><em>societas sceleris</em></strong>, dal punto di vista delle <strong>fonti</strong> riscontrandosi in primo luogo <strong>tre passi</strong> che utilizzano <strong>espressioni assimilabili</strong> a quella di cui sopra, ovvero: si tratta di 2 passi di <strong>Ulpiano</strong> in D. 27.3.1.14 (Ulp. 36 ad ed.) e di D. 17.2.57 (Ulp. 30 ad Sab.) in termini, rispettivamente, di <strong><em>societas maleficiorum</em></strong> e di <strong><em>maleficii societas</em></strong> ; e di un passo di <strong>Papiniano</strong>, in D. 48.5.40.4 (Papin. 15 resp.) in cui si rinviene l’espressione <strong><em>latronum societas</em></strong>. La <strong>dottrina</strong> fa notare peraltro come l’espressione <strong><em>societas criminis</em></strong> sia presente <strong>in un solo caso</strong>, ovvero nella <strong>costituzione di Costantino</strong> (CT. 9.24.1.pr.) del 320 d.C. che <strong>innova</strong> in tema di <strong>ratto delle fanciulle,</strong> altrettanto infrequente palesandosi la variante <strong><em>societas sceleris</em></strong> che ricorre in un <strong>rescritto di Caracalla</strong>, (C. 9.41.4) , forse del 216 d.C.. Sono del pari rare espressioni simili, come <strong><em>societas latronum</em></strong> - riscontrabile in CT. 9.31.1, <strong>costituzione occidentale</strong> del 409 d.C. - o <strong><em>delicti socius</em></strong> - rintracciabile in un <strong>rescritto di Diocleziano</strong> (C. 9.20.10) del 293 d.C.. Non può sottacersi poi una famosa fonte, la c.d. <strong><em>Lex quisquis</em></strong> (CT. 9.14.3), una <strong>costituzione orientale</strong> del <strong>397 d.C</strong>. ricondotta ad <strong>Arcadio</strong> ed <strong>Onorio</strong> che al par. 4 impiega <strong><em>societas</em></strong> (senza peraltro <strong>ulteriori qualificazioni</strong>), insieme a <strong><em>factiones</em></strong>, per indicare <strong>accordi</strong> (o meglio <strong><em>cogitationes</em></strong>) volti a <strong>commettere reati</strong> (come ad esempio <strong>l’uccisione di <em>viri illustres</em></strong> o di <strong>senatores</strong> per <strong>ragioni politiche</strong>). Importante altresì la <strong>successiva costituzione</strong> CT. 9.40.18, del 399 d.C., che con ogni probabilità <strong>abroga</strong>, almeno in parte, la <strong><em>Lex quisquis</em></strong> affermando in modo <strong>emblematico</strong> che la <strong><em>societas</em></strong> intesa come <strong>comunanza di vita</strong> o <strong>vicinanza di rapporti personali</strong> - di per <strong>sé sola</strong> - <strong>non</strong> costituisce <strong>elemento</strong> per assumere <strong>complice di un crimine</strong> un <strong>parente</strong> o un <strong>amico</strong> del reo o in genere le persone che <strong>siano a lui vicine</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che prevede all’art.63 il concorso di persone nella esecuzione di un reato, distinguendo gli esecutori, i cooperatori immediati ed i determinatori, con sanzioni penali tarate in modo differenziato per ciascuna categoria, anche in relazione alla offensività della condotta. La figura del cooperatore “<em>immediato</em>” parrebbe escludere dall’area di operatività del precetto penale tutti coloro che forniscono un contributo, per l’appunto, solo “<em>mediato</em>” alla vita e all’operatività di una compagine associativa illecita; e tuttavia il successivo art.64, sempre nell’ambito della parte generale del codice (Titolo VI dedicato appunto al concorso di più persone in uno stesso reato), punisce anche i compartecipi “<em>diversi</em>” dalle categorie precedenti con contributo causale decisamente più “<em>mediato</em>”, ed in specie coloro che <em>ex ante</em> eccitano o rafforzano la risoluzione di commettere il reato, o promettono aiuto o assistenza da prestarsi dopo il reato stesso; coloro che danno istruzioni o somministrano mezzi per eseguirlo; coloro che ne facilitano l’esecuzione prestando assistenza o aiuto prima o durante il fatto. Tali condotte vanno combinate con il delitto di associazione per delinquere che il codice prevede agli articoli 248-251, laddove vengono puniti (art.248) per il solo fatto dell’associazione, ove orientata a commettere determinati delitti, 5 o più soggetti che si associno appunto a tal fine, con una particolare punizione prevista per i promotori e i capi. Importante l’art.249 del codice onde, chiunque – al di fuori dei casi di cui all’art.64, e dunque del c.d. cooperatore mediato, in tal modo ammesso emblematicamente configurabile anche nelle ipotesi di associazione per delinquere – dà rifugio o assistenza, o somministra vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, viene punito con la reclusione fino ad un anno (eccettuato il caso in cui l’assistenza abbia a destinatario un prossimo congiunto). Significativo in qualche modo anche l’art.250 onde, per i delitti commessi dagli associati o da alcuno di essi “<em>nel tempo o per occasione dell’associazione</em>” (delitti-fine), viene applicato un aumento di pena: la norma sottende la possibilità che gli associati commettano reati sganciati dalla durata e dalla operatività dell’associazione (e che dunque non ne costituiscono delitti-fine), ma potrebbe anche leggersi nell’ottica di ventilare - <em>a contrario</em> - figure solo “<em>mediatamente</em>” associative, che dunque sono “<em>non associati</em>” ma che commettono delitti che in qualche modo lambiscono l’associazione medesima rafforzandone o comunque preservandone la compagine giusta commissione, <em>ab externo</em>, di delitti “<em>nel tempo o per occasione</em>” di essa, ed ai quali, proprio perché non associati, non si applica il trattamento sanzionatorio aggravato ivi previsto per gli analoghi delitti commessi dagli associati <em>tout court</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale che, all’art.416, prevede tra i delitti contro l’ordine pubblico l’associazione per delinquere, quale reato a partecipazione concorsuale necessaria. Il successivo art.418, rubricato “<em>assistenza agli associati</em>”, punisce poi chiunque, fuori dei casi di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5511.html">concorso nel reato</a> o di favoreggiamento , dà rifugio o fornisce vitto a taluna delle persone che partecipano all'associazione, con pena aumentata se l'assistenza è prestata continuativamente, e con esclusione della punibilità se il fatto di assistenza è commesso in favore di un prossimo congiunto. Dall’impianto codicistico, e con riguardo all’associazione per delinquere, sembra affiorare una triplice possibilità configurativa “<em>discendente</em>”, onde si è associati (concorrenti necessari), ovvero favoreggiatori, ovvero ancora fornitori di assistenza agli associati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza che potrebbe essere messa in dubbio laddove il soggetto attivo, pur formalmente non associato, venga punito per associazione mafiosa a cagione di una partecipazione che non sia appunto “<em>strutturata</em>”. Importante anche l’art.18 alla cui stregua in primo luogo (comma 1) viene riconosciuto ai cittadini il diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che tuttavia non siano vietati ai singoli dalla legge penale, con ciò implicando che la violazione dei precetti penali, e dunque il compimento di fatti inadempimento reato, è da ritenersi incostituzionale anche laddove il fine di violare appunto la legge penale venga più o meno direttamente perseguito attraverso una compagine associativa (piuttosto che individualmente). Sotto altro ma connesso profilo, sono assunte (comma 2) proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare, con disposizione capace in qualche modo di essere riferita anche alle compagini mafiose, stante la relativa foggia organizzativa militarista e gli scopi politico-economici sovente – almeno indirettamente - perseguiti, con conseguente collocazione fuori asse costituzionale di chi vi “<em>partecipi</em>”, quand’anche non con foggia pienamente strutturata e integrata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1980</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 febbraio viene varata la legge n.15 che introduce nel codice penale, all’art.3, il nuovo art.270.bis in tema di associazioni con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1982</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 settembre viene varata la legge n.646 c.d. Rognoni-La Torre, il cui art.1 introduce nel codice penale l’articolo 416.bis, dal quale affiora la nuova figura criminosa dell’associazione per delinquere di stampo mafioso. Secondo tale disposizione chiunque “<em>fa parte</em>” di un'associazione di tipo mafioso formata da 3 o più persone, e' punito con la reclusione da tre a sei anni, mentre coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni. L'associazione – chiarisce il comma 3 - e' di tipo mafioso quando coloro che “<em>ne fanno parte</em>” si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attivita' economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Se l'associazione e' armata sono previsti aggravamenti di pena, e l'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene-base sono aumentate da un terzo alla metà. Infine, nei confronti del condannato e' sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego. Viene novellato anche l’art.378 c.p. in tema di favoreggiamento personale, forgiandosi (al comma 2) una circostanza aggravante per chi abbia inteso agevolare l’elusione delle indagini o la sottrazione alle medesime da parte di un soggetto responsabile ai sensi dell’art.416.bis c.p. e dunque di un facente parte dell’associazione mafiosa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 gennaio viene deliberata dalla I sezione della Cassazione la sentenza sul caso <em>Cillari</em>, laddove per la prima volta si parla di c.d. concorso esterno in associazione mafiosa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.3492, <em>Altivalle</em>, che - in tema di c.d. concorso esterno in associazione mafiosa - ne ammette la configurabilità, potendosi dunque non solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta atipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 luglio vengono depositate le motivazioni della sentenza della I Sezione della Cassazione sul caso <em>Cillari</em>, che prende il n.8092, onde - in tema di c.d. concorso esterno in associazione mafiosa – ne va negata la configurabilità, potendosi solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., senza che siano invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 giugno esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.8864, <em>Agostani</em>, che menziona il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa per negarne ancora la configurabilità, potendosi solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., senza che siano invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 maggio viene varato il decreto legge n.152, il cui art.7 prevede una circostanza aggravante per chi commetta delitti, punibili con pena diversa dall’ergastolo, al fine di agevolare le attività delle associazioni di stampo mafioso e di quelle ad esse equiparate di cui all’art.416.bis c.p., ultimo comma: si tratta della c.d. aggravante di mafia per i reati “<em>satellite</em>” rispetto alla operatività della compagine mafiosa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 luglio viene varata la legge n. 203, che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.152.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 giugno viene varato il decreto legge n.306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 agosto viene varata la legge n.356, che converte in legge il decreto legge n.306 con rilevanti modificazioni, introducendovi l’art.11.ter e, con esso, la nuova figura del c.d. “<em>patto elettorale politico-mafioso</em>” di cui all’art. 416.ter c.p., onde la pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro. In sostanza, chi paga la mafia per essere eletto subisce la medesima pena di chi partecipa ad una associazione mafiosa: allorché si verifichi un accordo sulla cui scorta all’impegno elettorale del clan mafioso fanno da contraltare i denari del candidato che cerca di essere eletto, si configura la fattispecie tipica di cui al nuovo art.416.ter c.p. e ciò esclude di per sé la possibilità di configurare un concorso esterno ed “<em>atipico</em>” del candidato in “<em>mafia</em>” ai sensi degli articoli 416.bis e 110 c.p. La nuova fattispecie appare tutt’affatto peculiare, qualificandosi come plurisoggettiva impropria, giacché naturalisticamente plurisoggettiva (per configurarla occorre sempre un candidato ed un esponente di clan) e normativamente monosoggettiva (dal momento che non viene punito anche l’appartenente al clan che garantisce i voti, ma solo il candidato che li chiede in cambio dell’erogazione da parte sua di denaro). E’ inoltre, nella interpretazione che ne fornirà la giurisprudenza, un reato di mera condotta e di pericolo astratto, dacché è il solo fatto della stipulazione del patto (reato-contratto) a consumare il reato, senza che possa assumersi rilevante quanto - solo eventualmente - ne costituisca scaturigine in termini di consolidamento o rafforzamento della compagine mafiosa; l’oggetto è poi limitato, dacché l’unica contropartita per la mobilitazione elettorale garantita dal clan è l’erogazione di una somma di denaro.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 novembre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.4805, <em>Altomonte</em>, che ribadisce la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione mafiosa, potendosi dunque non solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 18 giugno esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.2902, <em>Turiano</em>, che ribadisce la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione mafiosa, potendosi dunque non solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 31 agosto esce la sentenza della Sezione feriale della Cassazione, <em>Di Corrado</em>, che ribadisce la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione mafiosa, potendosi dunque non solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 giugno escono le sentenze della Sezione I della Cassazione n.2342 e 2348, <em>Abbate </em>e<em> Clementi</em>, che menzionano il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa per negarne stavolta la configurabilità, potendosi solo “<em>far parte</em>” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., senza che siano invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 ottobre esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione <em>Demitry</em> che – andando in contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina e risolvendo il pertinente contrasto di giurisprudenza – ammette la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.c. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “<em>fa parte</em>” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) rispetto a chi è concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, <em>ab externo</em>, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “<em>fa parte</em>”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. Anche il dolo del concorrente esterno si atteggia in modo tutt’affatto peculiare, non traducendosi nella consapevolezza e volontà di far parte dell’associazione – dolo, questo, tipico del concorrente interno o necessario – quanto piuttosto nella consapevole volontà di apportare alla compagine criminosa un contributo <em>ab externo</em>, staccato dunque, strutturalmente, da quella stabile organizzazione dalla compagine medesima compendiata; con riguardo al programma delinquenziale fatto proprio dall’associazione mafiosa, il dolo del concorrente esterno si atteggia del pari in modo del tutto particolare, dacché quest’ultimo non deve giocoforza voler consapevolmente realizzare i fini propri del sodalizio, palesandosi piuttosto sufficiente che egli sappia che altri “<em>interni</em>” vi “<em>fanno parte</em>” e si propongono quell’intento specifico; in sostanza, mentre chi “<em>fa parte</em>” dell’associazione si interessa della strategia complessiva dell’associazione e degli scopi che essa persegue, chi concorre <em>ab externo</em> è sufficiente che si rappresenti che altri è in questa condizione “<em>integrata</em>” e strutturale, e che sia, ad un tempo, consapevole di apportare comunque un contributo causale al mantenimento o al rafforzamento dell’associazione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3299, <em>Villecco</em>, che sconfessa il pronunciamento delle SSUU del 1994 sul caso <em>Demitry</em>. Per la Corte la condotta idonea ad integrare il concorso esterno in associazione mafiosa non è distinguibile da quella che caratterizza il concorso tipico o interno di chi ne fa parte, dacché in entrambi i casi occorre efficienza causale rispetto al rafforzamento ed al funzionamento della compagine criminale, secondo quello che viene definito l’elemento funzionale dell’associazione mafiosa. Né può assumersi sufficiente a differenziare la posizione del partecipe interno rispetto a quella dell’associato esterno la presenza solo con riferimento al primo, e non anche al secondo, dell’accordo iniziale quale elemento strutturale attraverso il quale il partecipe è entrato appunto a “<em>far parte</em>” dell’associazione mafiosa, dacché anche ex art.110 c.p. si partecipa al “<em>medesimo reato</em>”, onde qualunque apporto materiale o morale alla vita dell’associazione non può che essere adesivo al sodalizio medesimo, sicché o si è nell’associazione o se ne è estranei. In sostanza, secondo questa prospettiva quando il reato è a concorso necessario, l’operatività dell’art.110 c.p. rimane assorbita nella struttura tipica necessariamente plurisoggettiva del reato stesso, senza possibilità di configurare “<em>per estensione</em>” figure compartecipative atipiche.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre viene varato il decreto legge n. 374, recante disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale, all’indomani dei fatti dell’11 settembre. Si incide in particolare sull’art.270.bis c.p. caratterizzando la fattispecie di terrorismo con finalità di eversione dell’ordine democratico anche in ottica internazionale, con esplicito riferimento ai potenziali finanziatori.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 dicembre viene varata la legge n.438, che converte con modificazioni il decreto legge n.374: in particolare, con l’introduzione (art.1) dei comma 5.bis e 5.ter, si annovera tra le condotte incriminatrici tipiche del delitto di assistenza agli associati di cui all’art.418 c.p. anche quella consistente nel fornire loro ospitalità, mezzi di trasporto e strumenti di comunicazione. Altrettanto accade con riguardo ai partecipi delle associazioni terroristiche eversive di cui all’art.270 bis c.p.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 maggio esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione n. 22327, <em>Carnevale </em>che – andando in contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina – ribadisce ancora una volta la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, già autorevolmente affermata dalla sentenza <em>Demitry</em> del 1994. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.p. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “<em>fa parte</em>” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) e quello di chi è (solo) concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, <em>ab externo</em>, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “<em>fa parte</em>”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. La Corte cambia tuttavia la propria posizione con riguardo al dolo del concorrente esterno, ed in specie al relativo atteggiarsi rispetto al programma criminoso dell’associazione mafiosa: tale concorrente esterno è estraneo alla compagine e non ne vuole “<em>far parte</em>”, e tuttavia vuole consapevolmente che il proprio contributo sia diretto a realizzare – quand’anche in misura solo parziale – il programma criminoso della compagine.</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione, <em>Saracino</em>, alla cui stregua – stante come nella norma di cui all’art.416.ter non si faccia alcun esplicito riferimento al metodo mafioso – lo scambio politico-mafioso si atteggia a reato di pericolo che deve assumersi integrato sulla scorta del mero accordo tra le parti, dovendosi escludere che faccia parte della struttura oggettiva della fattispecie ex art.416.ter c.p. l’effettivo condizionamento degli elettori nell’esercizio del diritto di voto; in sostanza, è sufficiente che nell’accordo tra il politico eligendo ed il clan mafioso vi sia un riferimento espresso all’uso del metodo mafioso al fine di condizionare il libero e corretto esercizio della consultazione elettorale di riferimento, con indicazione espressa nel patto di che trattasi, senza che possa dunque assumersi sufficiente la mera esistenza e notorietà del clan coinvolto nel patto medesimo in termini di relativa “<em>mafiosità</em>” ma, allo stesso tempo, senza dover accertare che atti intimidatori e di prevaricazione abbiano concretamente avuto luogo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 settembre esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione n.33748, <em>Mannino </em>che – ribadendo il contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina – riafferma la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.c. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “<em>fa parte</em>” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) rispetto a chi è concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, <em>ab externo</em>, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “<em>fa parte</em>”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. Anche nella sentenza Mannino intervengono delle precisazioni ulteriori in tema di dolo del concorrente esterno; l’atteggiamento psicologico deve infatti investire, tanto in termini di rappresentazione che di volontà, da un lato tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica; dall’altro il contributo causale avvinto al proprio comportamento con riguardo alla realizzazione del concreto fatto associativo criminoso; in sostanza deve riconoscersi in capo al concorrente esterno la consapevolezza e la volontà di interagire in modo sinergico con le condotte altrui (segnatamente, di chi “<em>fa parte</em>” dell’associazione) nell’ottica produttiva dell’evento lesivo di cui al “<em>medesimo reato</em>” ex art.110 c.p., onde il concorrente esterno – pur all’evidenza non provvisto di c.d. <em>affectio societatis</em> e dunque pur non accompagnato dalla consapevole volontà di far parte dell’associazione – è tuttavia consapevole dei metodi e dei fini della stessa, in disparte il proprio foro interno e dunque, a seconda dei casi, il disinteresse, l’indifferenza, l’avversione o la condivisione di tali metodi e fini; rendendosi conto ad un tempo, in modo compiuto, dell’efficacia causale della propria attività di sostegno che si traduce nella conservazione o nel rafforzamento del sodalizio criminoso (al quale resta tuttavia strutturalmente estraneo); ciò, dal punto di vista del programma criminoso dell’associazione, si traduce nella consapevolezza e volontà di un contributo diretto alla realizzazione, quand’anche solo parziale, del medesimo. Sul crinale (oggettivo) del ridetto contributo causale, quest’ultimo, con riguardo al concorrente esterno, si atteggia ad atipico, sia esso di natura materiale ovvero morale, operando quegli nondimeno in piena sinergia con chi fa parte <em>ab interno</em> dell’associazione mafiosa; muovendo allora dal consueto schema della c.d. <em>condicio sine qua non</em>, quale modello unitario ed indifferenziato che è tipico delle fattispecie “<em>causalmente orientate a forma libera</em>”, solo se si accerta un nesso eziologico di tal fatta, e dunque una efficienza causale del comportamento dell’<em>extraneus</em>, si realizza quella condizione necessaria per la concreta realizzazione dell’associazione mafiosa quale fatto criminoso collettivo, con conseguente produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, identificabile in quella integrità dell’ordine pubblico che finisce con l’essere violata proprio a cagione della esistenza e della operatività della compagine criminosa e del diffuso pericolo di attuazione di quei delitti che compendiano lo scopo del programma criminoso dei sodali. Il riscontro in ordine alla sussistenza dell’apporto causale nei termini anzidetti da parte del concorrente esterno va operato per la Corte <em>ex post</em> ed in concreto, seguendo gli insegnamenti della sentenza delle SSUU Franzese del 2002 sul nesso di causalità; onde, anche laddove <em>ex ante</em> ed in astratto il contributo atipico compendiantesi nella condotta ausiliatrice appaia idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione (anche in termini di fortificazione) del fatto tipico associativo, occorre sempre la verifica <em>ex post</em> ed in concreto al fine di acclarare se il ridetto contributo non sia stato piuttosto, ed in concreto appunto, del tutto irrilevante per il mantenimento in vita o per il potenziamento dell’associazione mafiosa. Secondo la Corte peraltro una tesi che pretenda di individuare il concorrente esterno in associazione mafiosa prescindendo dal fondamentale elemento dell’apporto causale fornito alla compagine finirebbe con l’arbitrariamente anticipare la soglia di punibilità, così entrando in rotta di collisione sia con il principio di tipicità, sia con la inammissibilità del mero tentativo di concorso in associazione mafiosa. Non può, sotto altro (diacronico) profilo, assumersi penalmente rilevante il solo apporto orientato alla “<em>preservazione</em>” dell’associazione mafiosa, nei momenti di patologica esistenza e di connessa fibrillazione del clan di volta in volta considerato, potendo essere punibile anche l’apporto dell’estraneo in una fase di tipo “<em>espansivo</em>”, di crescita e di piena operatività e “<em>salute</em>” della compagine criminosa. Per la Corte, da un lato non appare affatto necessario che l’eventuale stato di difficoltà (o comunque di fibrillazione) sia tale che – senza il soccorso esterno – il sodalizio finirebbe inevitabilmente con l’estinguersi; dall’altro il contributo non deve giocoforza provenire da soggetti specifici, con foggia di “<em>medici curanti</em>”; in sostanza dunque, il concorso esterno in associazione mafiosa è configurabile anche a prescindere da una situazione di anormalità e di crisi nella vita della compagine associativa mafiosa. La importante pronuncia si occupa anche della fattispecie di cui all’art.416.ter c.p., ovvero dello scambio elettorale politico mafioso; non è mancata infatti di affacciarsi soprattutto in dottrina la considerazione onde tale nuova fattispecie di reato ridimensionerebbe l’operatività del combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p., dacché il patto politico mafioso sarebbe ormai da assumersi rilevante nel solo caso in cui, ex art.416.ter appunto, alla promessa di voti fa da contraltare la dazione di denaro: applicare all’ipotesi in cui alla promessa elettorale si giustappongano più generici “<em>favori</em>” il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa finirebbe con il violare – secondo questa tesi - lo stesso principio di legalità, almeno se ci si limita al nudo patto tra politico e mafia, laddove appunto esso preveda “<em>favori</em>” (non direttamente pecuniari) del primo in cambio di voti garantiti dalla seconda; stando a questa impostazione dunque, solo in presenza di una quantomeno parziale esecuzione del ridetto patto illecito, compendiantesi in un effettivo contributo agevolativo o rafforzativo da parte del politico eletto alla compagine criminosa, potrebbe ravvisarsi l’operatività del concorso esterno in associazione mafiosa. Per la Corte, in primo luogo la ragione dell’introduzione nel sistema dell’art.416.ter c.p. va rinvenuta nell’intenzione del legislatore di punire sempre e comunque, per motivi comprensibili di politica criminale, lo scambio tra denaro erogato dal politico e voti garantiti dalle cosche, che – in difetto della ridetta innovazione codicistica – assai raramente avrebbe potuto essere sanzionato dal punto di vista penale quale concorso esterno in associazione mafiosa, sol che si consideri come – a fronte della grande disponibilità di denaro nelle mani della mafia – sarebbe in realtà ben difficile provare un mantenimento o un rafforzamento della compagine criminale basato sulla erogazione di denaro del singolo politico “<em>contiguo</em>”. Le SSUU ribadiscono dunque come la scelta legislativa di incriminare ex art.416.ter, <em>ex professo</em>, l’accordo elettorale politico mafioso in termini di scambio tra denaro e voti non può essere intesa come espressiva dell’intento di limitare solo a questa fattispecie l’ambito di operatività dei variegati patti collusivi in materia elettorale con una associazione mafiosa, così negandosi <em>tout court</em> rilievo penale ad ogni accordo che si configuri diverso dal quel precipuo tipo di scambio (denaro/voti). Anche la stessa interpretazione storico-sistematica dell’art.416.ter lascia intravedere per la Corte una soluzione legislativa orientata dalla volontà di costruire una specifica e tipica figura alternativa al modello concorsuale (art.110 e 416.bis c.p.) siccome interpretato dalla giurisprudenza, onde la relativa introduzione va letta come strumento di estensione della punibilità oltre il concorso esterno, anche ai casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe irrilevante per inapplicabilità degli articoli 110 e 416.bis c.p.. In sostanza dunque, per la Corte, mentre nel caso dell’art.416.ter – che è reato di mera condotta - la controprestazione del politico è solo quella pecuniaria, laddove il politico offra un più ampio e diversificato raggio di prestazioni a favore dell’associazione mafiosa (una volta eletto), può scattare il concorso esterno in associazione mafiosa, che è invece per la Corte reato di evento, ma a fini di punibilità il giudice penale non può accontentarsi dell’accertata mera stipulazione del patto essendo piuttosto tenuto di volta in volta ad acclarare, applicando i collaudati criteri di accertamento causale pertinenti <em>ratione materiae</em>, se la controprestazione (“<em>favori</em>”) alla promessa di voti abbia determinato quel rafforzamento dell’associazione mafiosa che compendia appunto l’evento (e, con esso, la consumazione) della fattispecie di concorso esterno. Proprio da quest’ultimo punto di vista le SSUU operano importanti precisazioni, muovendo dal fatto che il reato compendiato nello scambio tra “<em>favori</em>” e voti si consuma – ex art.110 e 416.bis c.p. - nel momento in cui si perfeziona l’accordo, e rappresentando come non occorra appunto per il perfezionamento del reato la concreta esecuzione <em>ex post</em> delle prestazioni promesse <em>ex ante</em> all’atto della stipula del <em>pactum sceleris</em> da parte del candidato eletto; ciò non toglie nondimeno che, trattandosi di reato di evento, è comunque indispensabile la verifica della concreta efficacia causale del patto in ottica, a valle, di intervenuto consolidamento o rafforzamento della compagine associativa, secondo un modulo per cui si assiste ad un patto di scambio favori/voti che, nel momento in cui interviene, produce causalmente il ridetto consolidamento o rafforzamento del sodalizio mafioso. Si tratta per la Corte di un accertamento che tiene conto di diversi elementi fattuali, quali la situazione peculiare in cui versa l’associazione mafiosa nel momento in cui interviene il patto con il candidato alle elezioni, l’affidabilità di quest’ultimo, il tenore della relativa promessa e così via; per la Corte occorre allora in primo luogo che l’impegno preso dal politico candidato sia serio e concreto, tenuto conto dell’affidabilità e della caratura di quest’ultimo e di chi interviene all’accordo da parte dei clan, della specificità dei contenuti del patto e del contesto storico nel quale esso si inserisce, in rapporto ai connotati di struttura dell’associazione mafiosa considerata; in secondo luogo, sulla scorta di una verifica <em>ex post</em> ed in concreto, deve affiorare (prescindendo, si ripete, dal fatto che il politico abbia poi mantenuto effettivamente le promesse fatte) l’efficacia causale della promessa operata dal candidato a caccia di voti, occorrendo che il patto – nel momento in cui è intervenuto - abbia inciso in modo effettivo e consistente sulla conservazione o sul rafforzamento della compagine associativa, in termini di capacità e di articolazioni operative. Ciò, chiosa la Corte, muovendo dal presupposto che tanto la conservazione quanto il consolidamento o il rafforzamento della compagine, che sono l’evento del reato di cui agli articoli 110 e 416.bis c.p., non vanno intesi in senso meramente soggettivo psicologico, onde il promesso appoggio politico si limiti ad aumentare la sensazione di prestigio e di senso di impunità avvertita dai sodali mafiosi, quanto piuttosto in termini di tipo oggettivo-organizzativo, onde la sola promessa di un appoggio da parte del credibile politico eligendo ha operato <em>ex se</em> in termini di potenziamento dell’efficienza operativa dell’associazione mafiosa, con annessa riorganizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali della medesima.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 febbraio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.1072, che assume compatibile la fattispecie di cui all’art.270 bis c.p. con l’applicazione dei principi che la giurisprudenza ha via via elaborato in tema di concorso esterno nel reato associativo. Si configura dunque per la Corte, anche con riguardo alle associazioni con finalità di terrorismo (anche internazionale) e di eversione dell’ordine democratico la fattispecie del concorso esterno, giusta combinato disposto con l’art.110 c.p. Per la Cassazione neppure una ampia e diffusa frammentazione legislativa in autonome e tipiche fattispecie criminose dei vari casi di contiguità – come è avvenuto, sul terreno del distinto fenomeno terroristico, mediante l’introduzione delle nuove figure di “<em>finanziamento</em>” di associazioni con finalità di terrorismo, ovvero dell’”<em>arruolamento</em>” e dell’”<em>addestramento</em>” di persone per il compimento di attività con finalità di terrorismo anche internazionale – sarebbe comunque in grado di paralizzare l’espansione operativa della clausola generale di estensione della responsabilità per i contributi atipici ed esterni diversi da quelli analiticamente elencati, secondo il modello dettato dall’art.110 c.p. sul concorso di persone nel reato, se non introducendosi una apposita disposizione derogatoria che escluda appunto l’applicabilità della suddetta clausola per i reati associativi. Per la Corte dunque è ammissibile il concorso esterno in associazione con finalità di terrorismo (anche internazionale) ai sensi del combinato disposto degli articoli 110 e 270 bis c.p. nei confronti di chi – pur restando estraneo alla struttura organizzativa della compagine – apporti un concreto e consapevole contributo causalmente rilevante in termini di conservazione, rafforzamento e conseguimento degli scopi tanto dell’organizzazione criminale nel suo complesso quanto delle relative articolazioni territoriali, purché si ravvisi esistente anche l’elemento soggettivo in termini di volontaria consapevolezza della consistenza e degli scopi dell’associazione destinataria dell’apporto in parola.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.34597, che – in un caso di “<em>trasferimento in sicurezza</em>” del latitante da un rifugio all’altro, con successiva cattura del medesimo - si occupa della distinzione tra concorso esterno in associazione mafiosa e favoreggiamento personale aggravato ai sensi dell’art.378, comma 2, c.p., che scatta laddove il reato presupposto abbia connotati di mafiosità. Per la Corte, il concorso esterno in associazione mafiosa si distingue dal reato di favoreggiamento personale aggravato giacché nel caso del concorso esterno nel reato associativo mafioso l’aiuto da un lato è prestato (ad uno o più degli associati) mentre l’associazione è ancora operativa (mentre per il favoreggiamento personale aggravato occorre che l’associazione sia un reato presupposto, ormai esaurito nei relativi effetti penalmente rilevanti), e dall’altro tale aiuto è rivolto al singolo non in quanto tale, ma appunto in quanto componente del gruppo criminale. Per la Corte occorre poi chiarire che talune condotte in apparenza sembrano utili solo ad un socio, ma si rivelano invece tali per l’intera associazione: perché possa parlarsi di concorso esterno in associazione mafiosa, la condotta agevolatrice può dunque anche coinvolgere un solo componente della compagine criminale, purché tuttavia dal contesto concreto in cui tale condotta è stata posta in essere si evinca che in realtà essa ha inteso fornire un contributo all’intera compagine mafiosa; in queste ipotesi il dato sostanziale della effettiva finalizzazione dell’aiuto o dell’utilità all’intera associazione supera quello formale della solo apparente utilità avente a destinatario il singolo associato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.46922 onde, nel solco di una giurisprudenza minoritaria di tipo “<em>estensivo</em>”, ai fini della configurabilità del c.d. scambio elettorale politico mafioso ex art.416.ter c.p., l’oggetto materiale dell’erogazione offerta in cambio della promessa di voti può essere rappresentato non solo dal denaro, ma anche da qualsiasi bene traducibile in un valore di scambio immediatamente quantificabile in termini economici, come nel caso di mezzi di pagamento diversi dalla moneta quali valori mobiliari, titoli, preziosi, restando invece escluse dal contenuto precettivo della norma incriminatrice altre “<em>utilità</em>” che solo in via mediata possono essere oggetto di monetizzazione. Nel caso di specie, il Sindaco di un paese della Campania evita indebitamente al capo cosca di pagare i canoni altrimenti dovuti a titolo di occupazione di un immobile municipale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la nota sentenza della V sezione della Cassazione n.15727, <em>Dell’Utri </em>che – andando ancora una volta in contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina – ribadisce la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.p. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “<em>fa parte</em>” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) rispetto a chi è concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, <em>ab externo</em>, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “<em>fa parte</em>”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. Sempre secondo la Corte, è inoltre astrattamente configurabile un concorso eventuale (o esterno) di tipo morale con riguardo all’associazione mafiosa, ma vanno scongiurati i rischi di una impostazione di tipo meramente soggettivistico laddove, giusta una sorta di conversione concettuale (e, in qualche caso, financo di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), si finisca con l’autorizzare il surrettizio ed indiretto impiego della causalità psichica “<em>da rafforzamento</em>” del sodalizio criminale, e ciò al fine di dissimulare il difetto di prova della effettiva incidenza del contributo materiale prestato dal soggetto agente per la realizzazione del reato associativo. In sostanza, non si può sopperire all’assenza di prova di un reale contributo causale da parte del presunto <em>extraneus</em> affermando genericamente che la relativa condotta atipica, in qualche modo obiettivamente significativa, è stata comunque in grado di determinare nei membri interni dell’associazione mafiosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del ridetto concorrente esterno, così arguendone comunque un reale effetto di vantaggio per la struttura organizzativa della compagine.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.18080, alla cui stregua per l’applicabilità dell’art.416.ter c.p. occorre che lo scambio tra politica e mafia sia caratterizzato dall’effettivo ricorso alla intimidazione o alla prevaricazione, e dunque dal concreto ricorso al c.d. metodo mafioso (seppure non previsto dalla norma esplicitamente), giusta utilizzo appunto di atti intimidatori e di prevaricazione onde far convogliare i voti verso il politico di riferimento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 20924 onde, nel solco di una giurisprudenza minoritaria di tipo “<em>estensivo</em>”, ai fini della configurabilità del c.d. scambio elettorale politico mafioso ex art.416.ter c.p., l’oggetto materiale dell’erogazione offerta in cambio della promessa di voti può essere rappresentato non solo dal denaro, ma anche da qualsiasi bene traducibile in un valore di scambio immediatamente quantificabile in termini economici, come nel caso di specie, dei posti di lavoro.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 32820, Battaglia, alla cui stregua per integrare la fattispecie criminosa di cui all’art.416.ter c.p. è sufficiente il mero accordo tra politico ed associazione mafiosa, quale reato di pericolo, senza che occorra accertare né la concreta presenza di atti di intimidazione tali da condizionare la consultazione elettorale, né l’esplicita menzione in ordine all’utilizzo del metodo mafioso nel contesto del <em>pactum sceleris</em>, stante la bastevolezza della qualità “<em>mafiosa</em>” del soggetto associativo con il quale il politico eligendo stipula il pertinente accordo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18376 che, in tema di c.d. <em>ne bis in idem</em>, afferma innanzi tutto come la preclusione ex art. 649 cpp ricorra ogni qualvolta il "<em>fatto</em>" oggetto di contestazione sostanziale (comprensivo di tutti gli elementi strutturali del reato: condotta, evento, nesso causale, circostanze di tempo e di luogo), nei due diversi procedimenti penali, promossi contro la stessa persona, presenti caratteri di identità nei relativi elementi costitutivi, sì che, indipendentemente dal <em>nomen iuris</em> attribuito, i contenuti delle due diverse contestazioni sono pienamente sovrapponibili. Non hanno allora rilevanza ed efficacia per la Corte, ai fini della preclusione ex art. 649 cpp, l'identità delle fonti probatorie (rispetto a due distinti fatti penalmente rilevanti), ovvero l'unicità della condotta caratterizzante la fattispecie del concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza onde le medesime fonti probatorie possono essere utilizzate per dimostrare l'esistenza di un ulteriore illecito che risulti essere stato commesso con la medesima azione con la quale è stato integrato quello già giudicato. Così fissati i principi di riferimento di diritto processuale, e venendo al merito del ricorso, interessa qui come la Corte affronta e risolve la terza questione di diritto posta dal ricorrente, che parte dalla premessa onde l'inammissibilità di un secondo giudizio da un lato impedisce di procedere contro uno stesso imputato per il medesimo fatto, ma, dall'altro non preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso fatto - reato. La premessa è per la Corte corretta: l'art. 649 cpp attiene alla sola "<em>identità del fatto reato contestato</em>" nei relativi elementi tipici e non si estende alle valutazioni di esso come componente probatoria di altro reato i cui elementi costitutivi siano ontologicamente diversi (nel caso di specie, proprio del concorso esterno in associazione mafiosa). Dalla lettura integrata delle sentenze di merito, prosegue la Corte, emerge che è stata fatta la ricostruzione comparativa fra le due diverse imputazioni ed è stato accertato che i fatti integranti i delitti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento aggravati non sono tuttavia prove dell'ulteriore e diverso delitto di cui agli artt. 110, 416 bis cp, ma sono i medesimi fatti, solo diversamente qualificati. Alla considerazione, pure messa in rilievo dall'Ufficio di Procura ricorrente, per la quale i delitti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento aggravati ex art. 7 l. 203/91 (c.d. aggravante mafiosa) sono comunque diversi da quello di concorso esterno in associazione mafiosa (essendo diverso l'interesse giuridico protetto da quest'ultimo rispetto ai primi e diversa la finalizzazione delle condotte), quand’anche realizzati attraverso una medesima condotta, va per la Corte contrapposto il rilievo dell'esistenza di un'incompatibilità strutturale tra il reato associativo e quello di favoreggiamento ex art. 378 c.p. (nella specie aggravato ex art. 7 l. 203/91). L'art. 378 cp pone come presupposto della fattispecie la circostanza che il soggetto agente non sia concorrente nel medesimo reato commesso dalla persona beneficiaria della condotta favoreggiatrice; di qui consegue che esiste, per previsione normativa, un'incompatibilità strutturale tra il reato di favoreggiamento e quello per il quale è intervenuta la suddetta condotta. Nel caso in esame l’imputato ha compiuto atti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento personale aggravati ex art. 7 l. 203/91, non solo nell'interesse di singoli soggetti (collocati in posizione di rilievo) aderenti ad associazione mafiosa, ma anche "<em>al fine di agevolare l'attività dell’organizzazione mafiosa COSA NOSTRA</em>". Il tenore dell'addebito, per il quale è intervenuto il giudicato pone in evidenza che il C. ha agito favorendo persone che, in quanto aderenti all'associazione mafiosa COSA NOSTRA, stavano compiendo il delitto di cui all'art. 416 bis c.p.; donde consegue per la Corte che in virtù del limite posto dal testo dell'art. 378 cp, lo stesso imputato non può più essere ritenuto, nel contempo favoreggiatore di coloro che violano l'art. 416 bis cp e concorrente esterno nel medesimo delitto associativo. Sul punto – continua ancora la Corte - la Procura generale ricorrente argomenta (richiamando Cass. sez. Fer. 28.9.2004 n. 38236) che "<em>...il reato di favoreggiamento personale presuppone l'avvenuta consumazione del reato ascritto al soggetto favorito</em>" affermando ancora che "<em>... qualora trattisi di reato associativo (nella specie, di tipo mafioso) occorre che si sia già verificata la sua cessazione, costituita dallo scioglimento del sodalizio, dandosi luogo altrimenti alla configurabilità, non del favoreggiamento, ma della partecipazione o del concorso esterno, a seconda che risulti o meno dimostrato lo stabile inserimento del soggetto nella struttura associativa</em>". La tesi non può tuttavia per la Corte essere accolta, perché la natura permanente del reato presupposto <em>ex se</em> non esclude che possa essere realizzata una condotta favoreggiatrice (quantomeno per la parte di azione già compiuta dal favorito) di chi quel reato abbia commesso e stia tutt'ora commettendo (viene richiamata Cass. 11.11.2003 n. 6905); indubbiamente è necessario che l'azione del c.d. favoreggiatore non si traduca in un atto di sostegno o di incoraggiamento alla prosecuzione dell'attività delittuosa da parte del favorito, perché in tal caso la condotta integrerebbe non già la violazione dell'art. 378 cp, ma quella di partecipazione al delitto associativo. Pertanto, ritenuta la piena sovrapposizione dei "<em>fatti</em>" contestati nei due procedimenti penali promossi nei confronti del C. e rilevata l’esistenza di un'incompatibilità strutturale tra le due accuse, ne consegue che nel presente caso, l'applicazione fatta dai giudici di merito dell'art. 649 cpp è per la Corte corretta.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 aprile viene varata la legge n.62, che ridisegna la fattispecie di cui all’art.416.ter c.p., siccome originariamente introdotta nel 1992. Secondo la nuova formulazione della norma, chiunque accetta la promessa da parte di terzi di procurargli voti mediante le modalità di cui comma 3 dell’art.416.bis (e, dunque, esplicitamente con metodo mafioso) in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione da parte sua di denaro o di altra utilità viene penalmente sanzionato, con pena che viene applicata anche a chi promette di procurare voti secondo appunto le modalità di cui all’art.416. bis, comma 3, c.p. (metodo mafioso). Oltre alla maggior proporzione e ragionevolezza della pena applicata (conseguente ad un meno grave disvalore delle condotte incriminate: si passa da una cornice edittale che va da 7 a 12 anni ad un’altra che va da 4 a 10), la nuova formulazione della norma amplia notevolmente l’area della responsabilità penale rispetto alla condotta originaria, facendo poi un esplicito riferimento alla utilizzazione del c.d. metodo mafioso. In sostanza, si assiste ora ad una fattispecie di “<em>voto di scambio</em>” che è ormai una fattispecie c.d. plurisoggettiva propria, essendo punito tanto chi promette di procurare voti avvalendosi del metodo mafioso quanto chi accetta la ridetta promessa di voti; il politico eligendo, in cambio dei voti promessi, non promette o eroga direttamente soltanto denaro, essendo punita anche la promessa o la diretta erogazione, connessa alla promessa di voti, di altre utilità, rilevando per l’appunto (rispetto al passato), anche la sola promessa di denaro o altra utilità, senza che occorra da subito la dazione (peraltro, in passato, del solo denaro). Ormai anche quando il patto politico-mafioso abbia ad oggetto “<em>altre utilità</em>” si rientra nell’art.416.ter, senza dover invocare il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p.; l’art.416.ter c.p. resta nondimeno (anche quando lo scambio con i voti promessi abbia ad oggetto utilità diverse rispetto al denaro, magari anche solo promesse) un reato di mera condotta, che si consuma per effetto della sola stipulazione senza che per il giudice sia necessario accertare gli effetti di eventuale conservazione o rafforzamento strutturale del clan mafioso che promette i voti. Come osserva la dottrina all’indomani del varo della nuova formulazione dell’art.416.ter, il nuovo “<em>scambio elettorale politico mafioso</em>” si colloca in un rapporto di sussidiarietà implicita rispetto al concorso esterno, poiché in entrambi i casi (416.ter da un lato e 110 + 416.bis dall’altro) si assiste ad una medesima aggressione del bene giuridico protetto dal sistema (in termini di tutela dell’ordine pubblico), ma la fattispecie di cui al nuovo art.416.ter palesa una intensità lesiva ed una consistenza in termini di disvalore complessivamente minori. Più nel dettaglio, il concorso esterno in associazione mafiosa resta un reato di evento, onde per la relativa configurazione occorre la prova del rafforzamento del sodalizio criminoso in termini di efficienza causale della condotta di chi lo pone in essere, mentre per la realizzazione della fattispecie di cui all’art.416.ter (patto elettorale politico mafioso), che resta reato di mera condotta, basta la mera stipula dell’accordo, senza che occorra acclarare alcun nesso di casualità in termini di conservazione o rafforzamento strutturale associativo; assistendosi dunque, in questo prisma ermeneutico dottrinale, ad una progressione di offensività avente ad oggetto il medesimo interesse penalmente tutelato, onde laddove lo scambio elettorale politico mafioso abbia prodotto anche, giusta nesso di causalità debitamente accertato, un rafforzamento della compagine criminale, il mero patto politico mafioso (che sarebbe già come tale autonomamente punibile ex art.416.ter c.p.) degrada a mero antefatto non punibile, con operatività del solo combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis, e con esclusa applicabilità dell’art.416.ter c.p. (come dimostra anche la meno grave cornice edittale di cui a quest’ultima norma rispetto appunto al c.d. concorso esterno).</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18132, alla cui stregua – in tema di momento rappresentativo del dolo del concorrente esterno, o <em>extraneus</em> – occorre che questi abbia contezza dell’efficacia causale del proprio contributo, oltre che degli scopi e dei metodi dell’associazione mafiosa, senza tuttavia poter giungere a pretendere la condivisione di tali scopi e metodi, che è invece propria dell’<em>intraneus</em>, o concorrente necessario. Mentre dunque chi “<em>fa parte</em>” del sodalizio criminoso condivide gli scopi e i metodi seguiti dall’associazione mafiosa, questo non è predicabile per chi è concorrente meramente eventuale, quest’ultimo potendo financo provare avversione (oltre che indifferenza) rispetto al programma dell’associazione mafiosa, che tuttavia egli conosce ed in relazione al quale è consapevole di fornire un apporto in termini di conservazione o rafforzamento della pertinente compagine.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 agosto esce la sentenza della Sezione VI della Cassazione n.36382, Antinori, che si occupa della nuova formulazione dell’art.416.ter, laddove prevede la necessità che lo scambio tra politica e mafia sia necessariamente caratterizzato dall’utilizzo del c.d. metodo mafioso (art.416.bis, comma 3, c.p.). Secondo la Corte la novella ha inciso sul contenuto della promessa formulata dal clan mafioso e, per esso, dal relativo esponente che ha concluso l’accordo con il politico, laddove ormai lo scambio ha ad oggetto modalità di procacciamento dei voti in funzione dell’esigenza che il politico eligendo possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso, con quest’ultimo che nel patto si impegna a farvi ricorso, ove necessario, per il raggiungimento delle finalità elettorali divisate; onde per il Collegio non è più bastevole la semplice firma del patto tra politico e clan, occorrendo piuttosto l’espresso impegno da parte dell’associazione mafiosa procacciatrice di voti a procurarli secondo modalità mafiose, con conseguente necessità quanto meno di esplicitazione delle modalità mafiose che verranno usate in occasione della condizionanda consultazione elettorale. Occorre dunque sul versante soggettivo la piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato di aver concluso uno scambio politico-mafioso a fini elettorali implicante l’impiego da parte del clan mafioso della propria forza di intimidazione e di conseguente costrizione della volontà degli elettori. Poiché si assiste ad una successione di leggi penali, il corollario che la Corte trae dalle proprie precedenti affermazioni è che vanno assunte penalmente irrilevanti tutte le condotte antecedenti alla nuova formulazione della norma che si siano compendiate nella mera stipula del patto politico-mafioso, senza dunque l’espresso riferimento a modalità prevaricatorie o di intimidazione da porsi in campo, a fini elettorali, dall’esponente dell’associazione mafiosa “<em>stipulante</em>”. Si è infatti al cospetto per il Collegio di una relazione di “<em>specialità per specificazione</em>”: già nella originaria versione dell’art.416.ter c.p. doveva assumersi non far difetto il necessario riferimento al metodo mafioso, e tuttavia la nuova versione della norma ha esplicitato, “<em>normativizzandolo</em>”, l’orientamento interpretativo precedente alla cui stregua già ai sensi della originaria versione della norma era necessario che la promessa riconducibile al clan di procacciare voti riguardasse anche il “<em>come</em>”, ovvero l’utilizzo di modalità ed il perseguimento di obiettivi propri dell’associazione mafiosa. La conclusione è quella della irrilevanza penale di patti precedenti che non rechino alcun riferimento al c.d. metodo mafioso, anche laddove a concluderlo sia stato un esponente del clan in grado di impegnare l’associazione mafiosa con la propria promessa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.53675, che si occupa della c.d. “<em>messa a disposizione</em>” della compagine criminosa; per la Corte in questi casi non è detto che si sia al cospetto di una partecipazione “<em>interna</em>” al sodalizio mafioso, potendo anche trattarsi di concorso esterno; ciò in quanto essere “<em>a disposizione</em>” può per la Corte voler dire tanto essere “<em>intraneus</em>” quanto “<em>extraneus</em>”, dovendosi in proposito osservare la concreta situazione di fatto di volta in volta affiorante, con conseguente giudizio di fatto affidato al giudice del merito. Di tal che, in caso di acclarata, stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo dell’associazione mafiosa, potrà parlarsi di soggetto “<em>interno</em>” alla compagine e che dunque ne fa parte; quest’ultimo va tuttavia per la Corte considerato non già semplicemente come il titolare di un peculiare <em>status</em> di appartenenza, quanto piuttosto come un soggetto che riveste un ruolo dinamico e funzionale che lo annovera appunto come qualcuno che “<em>fa parte</em>” del sodalizio mafioso, rimanendovi a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Per la Corte va allora assunto non già concorrente esterno, ma “<em>facente parte</em>” interno dell’associazione chi consapevolmente accetti i voti sprigionati, in una tornata elettorale, dall’associazione mafiosa e, una volta eletto a cariche pubbliche, diventi il punto di riferimento della cosca mettendosi a disposizione, in modo stabile e continuativo, di tutti i relativi affiliati, ai quali rende conto del proprio operato nell’interesse del sodalizio criminale: in queste fattispecie affiora come dimostrata sia l’<em>affectio societatis</em>, sia un efficiente contributo causale al rafforzamento del proposito criminoso e all’accrescimento delle potenzialità operative e della complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale dell’associazione mafiosa considerata. Oltre alla figura del politico, rileva anche quella dell’imprenditore, distinguendosi colui che è vittima dell’associazione mafiosa e che, soggiogato dalla intimidazione che essa esprime, non tenta di venire a patti con essa cedendo piuttosto alle relative imposizioni e così subendo un danno ingiusto, quand’anche persegua una qualche intesa al solo fine di limitare i danni; da colui che è un vero e proprio concorrente esterno della compagine criminale, essendo colluso con essa dacché stabilisce un rapporto sinallagmatico con le cosche di riferimento capace di produrre vantaggi per entrambe le parti dell’accordo, onde la mafia ottiene dall’imprenditore risorse, servizi e utilità, garantendogli in cambio una posizione dominante sul territorio di volta in volta considerato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 aprile esce la sentenza della IV sezione della Corte EDU sul caso Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, occasione nella quale la Corte Europea riscontra da parte dell’Italia la violazione dell’art.7 CEDU per difetto di prevedibilità al momento della commissione dei fatti contestati, da parte dell’imputato, di una propria responsabilità penale appunto per c.d. “<em>concorso esterno</em>” in associazione mafiosa. La Corte rammenta come si tratti – quelle contestate - di condotte afferenti ad un torno temporale che va dal 1979 al 1988; solo nel 1987, nondimeno, la Corte di Cassazione ha timidamente lasciato affacciare per la prima volta la non configurabilità di un concorso esterno in associazione mafiosa con una sentenza che non ha tuttavia subito trovato seguito costante presso la giurisprudenza della Corte medesima, essendo intervenuta la sentenza Demitry - favorevole (all’opposto) all’ammissibilità della pertinente figura e capace di sciogliere i maggiori contrasti interpretativi, oltre che di meglio definire i presupposti applicativi dell’istituto - solo nel 1994. Più nel dettaglio, e limitandosi alle considerazioni della Corte afferenti allo specifico caso di specie, essa assume come la questione che si pone sia quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, dovendosi dunque esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l’aiuto dell’interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei propri atti sul piano penale. Nel caso di specie, il ricorrente è stato condannato a una pena di 10 anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso con una sentenza emessa dal tribunale di Palermo il 5 aprile 1996 riguardo a fatti compiuti tra il 1979 e il 1988: nella parte in diritto della sentenza, tale concorso veniva definito «<em>eventuale</em>» o «<em>esterno</em>». La condanna del ricorrente, dapprima annullata da una sentenza della corte d’appello di Palermo, è stata poi confermata da un’altra sezione di quest’ultima e, in via definitiva, da una sentenza della Corte di cassazione. La Corte fa a questo punto notare che non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale. Come ha giustamente ricordato il Tribunale di Palermo nella sua sentenza del 5 aprile 1996 – prosegue la Corte - l’esistenza di questo reato è stata oggetto di approcci giurisprudenziali divergenti; l’analisi della giurisprudenza citata dalle parti dimostra infatti che la Corte di cassazione ha menzionato per la prima volta il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nella sentenza Cillari del gennaio 1987, depositata con il n. 8092 il 14 luglio di quell’anno. Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha contestato l’esistenza di un tale reato e ha poi ribadito questa posizione in altre sentenze successive, in particolare nella sentenza Agostani, n. 8864 del 27 giugno 1989 e nelle sentenze Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27 giugno 1994. Nel frattempo, chiosa ancora la Corte, in altre cause la Corte di cassazione ha riconosciuto l’esistenza del reato di concorso eventuale in associazione di tipo mafioso, come nel caso della sentenza <em>Altivalle</em>, n. 3492, del 13 giugno 1987 e, successivamente, delle sentenze <em>Altomonte</em>, n. 4805 del 23 novembre 1992, <em>Turiano</em>, n. 2902 del 18 giugno 1993 e <em>Di Corrado</em>, del 31 agosto 1993. Tuttavia, è solo nella sentenza <em>Demitry</em>, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno. In questo contesto, prosegue la Corte, l’argomento del ricorrente secondo il quale, all’epoca della perpetrazione dei fatti (1979-1988), la giurisprudenza interna in materia non era in alcun modo contraddittoria, non può essere accolto. La Corte considera poi che il riferimento del Governo italiano alla giurisprudenza in materia di concorso esterno, che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni 60’ del secolo scorso, ossia prima dei fatti ascritti al ricorrente, non toglie nulla a questa constatazione, le cause menzionate dal Governo convenuto riguardando certamente lo sviluppo giurisprudenziale della nozione di «<em>concorso esterno</em>», e tuttavia i casi evidenziati non riguardando il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che è oggetto del ricorso sottoposto ora alla Corte EDU, ma di reati diversi, ossia la cospirazione politica attraverso la costituzione di una associazione e gli atti di terrorismo. Pertanto, non si può per la Corte dedurre dallo sviluppo giurisprudenziale citato l’esistenza nel diritto interno del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che si differenzia per sua stessa sostanza dai casi menzionati dal Governo, e che, come sopra ricordato è stato oggetto di uno sviluppo giurisprudenziale distinto e posteriore rispetto a questi ultimi. La Corte osserva ancora che, nella sentenza del 25 febbraio 2006, la Corte d’appello di Palermo, pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze <em>Demitry</em>, del 5 ottobre 1994, <em>Mannino</em> del 27 settembre 1995, <em>Carnevale</em>, 30 ottobre 2002 e nuovamente <em>Mannino</em>, del 17 luglio 2005, tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente; per di più, la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del principio della irretroattività e della prevedibilità della legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio non è stata oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l’esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all’epoca dei fatti a lui ascritti. In queste circostanze, per la Corte EDU il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni 80’ del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza <em>Demitry</em>, onde, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo, non potendo dunque egli conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti: tutti elementi sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.34147 che si occupa della differenza tra partecipazione ad associazione mafiosa e concorso esterno facendo perno sul diverso grado di compenetrazione del soggetto agente nella compagine criminale. Non si tratta per la Corte di una distinzione di natura quantitativa quanto piuttosto, qualitativa, palesandosi essa collegata alla organicità del rapporto tra il singolo soggetto considerato e la consorteria di riferimento, onde – sul crinale oggettivo – può essere considerato contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, quand’anche egli non abbia mai avuto occasione di attivarsi, mentre va all’opposto qualificato come contributo concorsuale “<em>esterno</em>” quello di colui sulla cui disponibilità l’associazione mafiosa non può contare, che sia stato più volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate con il ridetto <em>extraneus</em> sulla base di autonome determinazioni. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale teso, fra l’altro, ad isolare gli elementi che consentono di distinguere tra contiguità illecita con il sodalizio criminale (a titolo di concorso esterno) e collateralismo mafioso penalmente irrilevante, seppure moralmente e socialmente riprovevole, onde esiste una soglia al di là della quale il secondo (collateralismo mafioso) si tramuta nella prima (contiguità mafiosa), solo quest’ultima palesandosi rilevante a titolo appunto di concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa. Da questo punto di vista, una particolare pregnanza assume l’indagine afferente all’apporto causale concretamente offerto dal soggetto rispetto alla compagine criminosa, in termini di mantenimento in vita, potenziamento e consolidamento della compagine medesima: se in genere l’elemento causale ha lo scopo di consentire l’imputazione oggettiva di un fatto penalmente tipico al relativo autore, nella particolare fattispecie del reato di associazione mafiosa la causalità finisce con il tipizzare, come ha osservato la più attenta dottrina, il contributo concorsuale punibile, onde se si riscontra un nesso eziologico in termini appunto di mantenimento in vita, o di potenziamento e consolidamento, della compagine criminosa, può discorrersi di concorso esterno, mentre laddove ciò non accada si ha al massimo un mero collateralismo che non lambisce la soglia della responsabilità penale. Per la Corte, sotto altro profilo, va assunta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416.bis c.p., in combinato disposto tra loro, con riferimento agli articoli 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.7 della CEDU: anche dopo la decisione sul caso Contrada, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, evincendosi esso piuttosto dalla operatività della funzione incriminatrice ascrivibile all’art.110 c.p., capace di estendere la punibilità laddove avvinto a singole norme incriminatrici di parte speciale (tra le quali appunto l’art.416 bis c.p.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 ottobre esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.41801 che torna ad occuparsi del c.d. metodo mafioso, siccome previsto nella nuova formulazione dell’art.416.ter c.p. in termini di scambio elettorale politico-mafioso; secondo la Corte si è al cospetto di un reato comune, sia dal lato del candidato che vuole garantirsi l’elezione (che può stipulare l’accordo in proprio, ovvero avvalersi di un collaboratore o di un terzo che ne curi gli interessi politici), sia sul versante del clan mafioso che deve garantire i voti necessari, che potrebbe essere rappresentato in sede di <em>pactum sceleris</em> tanto da chi, “<em>autorevole</em>” esponente, è in grado di impegnare il clan con la pertinente promessa, fattispecie nella quale il metodo mafioso deve assumersi (ritraibile per) implicito, senza necessità di esplicita affermazione che ci si avvarrà del ridetto metodo, onde in questa fattispecie restano penalmente rilevanti anche le condotte anteriori alla novella (quando cioè l’esplicitazione dell’utilizzo del metodo mafioso non era ancora prevista in fattispecie incriminatrice); quanto il socio mafioso che agisca come singolo, ovvero il soggetto del tutto estraneo al sodalizio criminale, casi questi in cui è invece necessario l’esplicito riferimento all’utilizzo del metodo mafioso, con conseguente irrilevanza penale delle condotte anteriori alla novella medesima che non abbiano fatto alcun riferimento al ridetto metodo intimidatorio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 novembre esce la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che respinge l’istanza di revisione proposta dal Contrada.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce la sentenza del G.I.P. del Tribunale di Catania n.1077 che dispone il non luogo a procedere nei confronti di un indagato per concorso esterno in associazione mafiosa menzionando il precedente della Corte EDU sul caso Contrada, sulla cui scorta va ormai negata penale rilevanza alle fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa: l’Italia è retta da un ordinamento di <em>civil law</em>, e non già di <em>common law</em>, onde proprio il fatto che l’istituto <em>de quo</em> – come ha riconosciuto appunto la Corte EDU – è di creazione giurisprudenziale lo pone in indefettibile frizione con il principio di legalità. Non sono mancate, nondimeno, critiche della dottrina a questo pronunciamento che non tiene conto del fatto che la sentenza europea Contrada non nega in astratto la configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma condanna piuttosto lo Stato italiano per violazione dell’art.7 della Convenzione con riguardo a fattispecie realizzate in un torno di tempo in cui la pertinente responsabilità penale non poteva dirsi prevedibile da parte del soggetto attivo del reato; del resto, se sul crinale della c.d. prevedibilità della sanzione penale, non rileva se la corrispondente fattispecie criminosa sia di origine legale o giurisprudenziale, dall’altro viene rammentato come la giurisprudenza italiana non abbia in realtà “<em>creato</em>” la figura delittuosa, ma la abbia piuttosto ricondotta per via interpretativa ad una precisa previsione legale, ovvero il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 marzo esce la criticata sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta che respinge l’istanza di revisione proposta dal Contrada a valle del pronunciamento della Corte EDU, assumendolo pienamente in grado di rappresentarsi essere le relative condotte agevolative dei clan mafiosi riconducibili al c.d. concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta di una pronuncia non perfettamente in linea con l’art.46 della CEDU, che impone agli Stati membri di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, senza poter rimettere in discussione profili già scandagliati dalla medesima Corte EDU.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18132 onde, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, in termini di dolo, in capo al concorrente esterno, è sempre necessario che l’agente, pur in assenza di <em>affectio societatis</em> e dunque della specifica volontà di far parte dell’associazione, sia comunque consapevole dei metodi e dei fini della compagine stessa e, insieme, dell’efficacia causale della propria attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della pertinente struttura organizzativa, palesandosi peraltro sufficiente che egli abbia previsto ed accettato tale effetto come risultato non già solo possibile, quanto piuttosto certo o altamente probabile della propria condotta. Per la Corte, sotto altro profilo, va ribadita manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416.bis c.p., in combinato disposto tra loro, con riferimento agli articoli 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.7 della CEDU: per la Corte, anche dopo la decisione sul caso Contrada, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, evincendosi esso piuttosto dalla operatività della funzione incriminatrice ascrivibile all’art.110 c.p., capace di estendere la punibilità laddove avvinto a singole norme incriminatrici di parte speciale (tra le quali appunto l’art.416 bis c.p.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.43886, che dichiara inammissibile il ricorso per errore materiale o di fatto proposto dal Contrada ex art.625.bis c.p.p., a valle della sentenza della Corte EDU del 2015.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Corte d’appello di Palermo n.466 che, sollecitata ancora dal Contrada, nega che l’incidente di esecuzione possa costituire lo strumento processuale da azionare per porre rimedio nel diritto interno alla violazione, sul piano internazionale, dell’art.7 della CEDU, siccome accertata dalla Corte EDU.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 giugno viene varata la legge n.103, meglio nota come “<em>riforma Orlando</em>” attraverso la quale vengono – tra le altre cose - inasprite le pene per taluni reati che destano un particolare allarme sociale, tra cui il delitto di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416 ter, comma 1, c.p.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.43112 che, scandagliando la pronuncia della Corte d’appello di Palermo n.466 del 2016, va in contrario avviso ed assume non eseguibile e dunque improduttiva di effetti la condanna a suo tempo emessa nei confronti di Contrada. Per la Corte, al quesito relativo alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi, per il caso Contrada, alla decisione della Corte EDU che lo riguarda, occorre fornire risposta positiva. Costituisce dato ermeneutico consolidato (viene richiamata la sentenza della Sez. 1, n. 2800 dell'01/02/2006, dep. 2007, Dorigo) quello dell'efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante alle stesse non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale (Corte cost., sent. n. 388 del 1999; Corte cost., sent. 10 del 1993). Sul piano applicativo, prosegue la Corte, l'efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dall'art. 19 del testo convenzionale che prevede l'istituzione della Corte EDU per «<em>assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli</em> [...]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della predetta normativa. In questo contesto normativo, prosegue la Corte, si inserisce la previsione dell'art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «<em>Alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti</em>». La stessa disposizione precisa, nel suo secondo paragrafo, che «<em>la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l'esecuzione</em>». L'obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell'art. 46 CEDU, a tenore del quale se «<em>il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell'esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione</em> [...]». L'obbligo previsto dall'art. 46 CEDU, dunque, non può per la Corte essere messo in discussione. Il contrario assunto, da cui muove la Corte di appello di Palermo per emettere la declaratoria di inammissibilità censurata dalla difesa di Contrada, non è condivisibile, presupponendo un margine di discrezionalità nell'esecuzione delle decisioni della Corte EDU - che limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi - non può essere riconosciuto al giudice nazionale. Basti, in proposito, richiamare – prosegue la Corte - l'orientamento (Sez. 1, n. 2800 dell'01/02/2006, dep. 2007, Dorigo) secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove é possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata. Occorre, pertanto, ribadire conclusivamente che la previsione dell'art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato. Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all'efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l'ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato dalla Corte EDU, occorre per il Collegio affrontare l'ulteriore questione, concernente gli strumenti in concreto attivabili per rimuovere le conseguenze della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo nei confronti di Contrada il 25/02/2006. Osserva in proposito il Collegio che, nel caso di specie, il rimedio esperibile deve essere individuato, analogamente a quanto già affermato nella sentenza Dorigo citata, nell'incidente di esecuzione. Né osta alla praticabilità di tale soluzione la circostanza che la predetta decisione riguardava una violazione di natura processuale; mentre, nell'ipotesi in esame, la violazione ravvisata dalla Corte EDU è di natura sostanziale. Quello che rileva infatti, per la Corte, è che nel caso di violazioni delle norme convenzionali afferenti al diritto penale sostanziale, specificamente riconducibili all'art. 7, viene censurata la piattaforma legale sulla base della quale interviene una sentenza di condanna; piattaforma legale assunta generica, imprecisa ovvero indeterminata nelle relative connotazioni di conoscibilità e prevedibilità. La norma che impone che le decisioni di condanna intervengano sulla base di precetti astrattamente conoscibili e prevedibili - come già affermato dalla Corte EDU nella sentenza emessa il 06/03/2003 nel caso <em>Zaprianov contro Bulgaria</em> - è dunque caratterizzata da una matrice intrinsecamente garantista. Così inquadrata la violazione dell'art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte EDU nella vicenda giurisdizionale che ha coinvolto il ricorrente, il Collegio osserva che non può comunque essere eluso l'obbligo di conformarsi a detta decisione, pur tenendo conto delle peculiarità del caso Contrada. E' perciò compito dell'interprete ricercare nell'ordinamento interno gli strumenti processuali attraverso i quali eseguire, tenuto conto delle emergenze del caso concreto, la sentenza della Corte europea presupposta; e siffatti strumenti non possono che essere individuati – per la Corte - nell'ambito dei poteri di cui dispone il giudice dell'esecuzione. Si tratta di una soluzione che si impone anche alla luce della posizione giurisprudenziale da ultimo recepita dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto), che, intervenendo in relazione alle conseguenze sistematiche prodotte dalla sentenza della Corte costituzionale 11 febbraio 2014, n. 32, tra le quali il problema del bilanciamento tra il valore dell'intangibilità del giudicato e l'esecuzione di una decisione penale rivelatasi successivamente illegittima, hanno affermato il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di incidere sul giudicato. Codesto potere-dovere del resto – prosegue la Corte - è connaturato alla funzione giurisdizionale propria del giudice dell'esecuzione, atteso che - come affermato in un precedente arresto chiarificatore delle stesse Sezioni unite (Sez. U, n. 4687 del 20/12/2005, dep. 2006, Catanzaro) - una volta «<em>dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima attribuzione</em> [...]». Tanto si impone anche in ossequio a esigenze di razionalità del sistema processuale. Non è, pertanto, possibile ritenere non attivabile un percorso di tutela giurisdizionale di Contrada, in relazione alla decisione della Corte EDU presupposta, invocando l'avvenuto esaurimento del rapporto giurisdizionale, conseguente al fatto che il ricorrente ha interamente scontato la pena principale di 10 anni di reclusione irrogatagli dal Tribunale di Palermo con sentenza emessa il 05/04/1996, confermata dalla pronuncia della Corte di appello di Palermo del 25/02/2006. Questa soluzione, invero, non tiene conto degli effetti penali ulteriori rispetto a quelli connessi all'esecuzione della pena principale, dei quali, invece, occorre dichiarare l'improduttività. Come poi evidenziato dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto), l'ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva - che legittima nel caso di specie l'attivazione dei poteri di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. per conformarsi alla decisione della Corte EDU - è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 210 del 2013), secondo la quale il giudice dell'esecuzione «<em>non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso</em> [...]». Opzione, questa, già recepita in un precedente intervento chiarificatore delle Sezioni unite (Sez. U, n. 34472 del 24/10/2013, Ercolano), nel quale si era affermato che al giudice dell'esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., atteso che lo strumento previsto «<em>dall'art. 670 cod. proc. pen., pur sorto per comporre i rapporti con l'impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell'ambito applicativo dell'istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo</em>». E ancora: «<em>il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo</em>». In questa cornice sistematica, chiosa ancora la Corte, deve anzitutto escludersi la possibilità di attivare il procedimento di revisione previsto dall'art. 630 cod. proc. pen., così come prefigurato dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113 del 2011), per rimuovere gli effetti della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006. Deve, infatti, rilevarsi che tale percorso giurisdizionale, originariamente attivato da Contrada davanti alla Corte di appello di Caltanissetta, non è più concretamente esperibile, in conseguenza della sentenza emessa il 20/01/2017 dalla Sezione quinta penale, che ha concluso il procedimento di revisione in questione con la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione proposta, per effetto della rinuncia al ricorso, depositata il 28/12/2016. Va ad ogni buon conto evidenziato – prosegue la Corte - che, con la decisione n. 113 del 2011, la Corte costituzionale si riferisce allo «<em>impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell'interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo</em>». E - a ragione della declaratoria d'illegittimità costituzionale «<em>dell'art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo</em>» - osserva come la revisione, comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove, costituisce l'istituto che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell'ordinamento nazionale al parametro evocato. Tuttavia, prosegue ancora la Corte, fermo l'obbligo di conformazione, è la stessa Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113, cit.) che ha rimarcato come la necessità della riapertura vada apprezzata sia in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata in sede convenzionale, sia tenendo conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, oltre che nella sentenza "<em>interpretativa</em>" eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 3, della CEDU. Nel caso in esame rileva dunque che non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo e che la decisione della Corte di Strasburgo, per la relativa natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria; che il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici e che il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro sistema penale, assistito da garanzia costituzionale; che, secondo la giurisprudenza interna, le sentenze di merito e quelle di legittimità che hanno portato alla condanna di Contrada, la questione di diritto diversamente intesa dalla Corte EDU atteneva, invece, alla configurabilità dell'ipotesi del concorso di persone (art. 110 cod. pen.) in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416-bis cod. pen., anziché di mero favoreggiamento (principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio, Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002, dep. 2003, Contrada, e ribadito nella seconda sentenza di legittimità, Sez. 6, n. 542 del 10/05/2006, dep. 2007, Contrada); che, per conseguenza, nessuna "<em>rinnovazione</em>" di attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte EDU, sarebbe un mero errore di diritto. Nemmeno, per altro verso, è esperibile per la Corte il rimedio previsto dall'art. 673 cod. proc. pen., finalizzato all'eliminazione, mediante revoca, della sentenza di condanna nei casi in cui è venuto meno l'illecito penale per l'intervento del legislatore o della Corte costituzionale; condizioni, queste, pacificamente insussistenti nel caso in esame, che rendono infondate le pretese del ricorrente incentrate sulle potenzialità applicative dell'istituto revocatorio. Le esposte considerazioni, relative alla possibilità di intervenire sul giudicato ai sensi dell'art. 670 cod. proc. pen., al contempo, impongono di ritenere quantomeno irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost., proposta da Contrada in via subordinata, nella parte in cui tale disposizione non prevede l'ipotesi della revoca della sentenza di condanna per le decisioni emesse dalla Corte EDU. Né, prosegue ancora la Corte, sussistono contrasti interpretativi, in ordine all'applicazione dell'art. 673 cod. proc. pen. alle ipotesi assimilabili a quelle in esame, idonei a legittimare la rimessione del procedimento alle Sezioni unite. Nel caso di specie, non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto, la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte EDU, com'è desumibile - oltre che dall'assenza di riferimenti testuali a una tale possibilità - dalle statuizioni relative al rigetto della domanda di equa soddisfazione, rilevante ai sensi dell'art. 41 CEDU, contenute nel punto 4 del dispositivo della pertintene decisione. La decisione della Corte EDU non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in sede appunto esecutiva, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., occupandosi esaustivamente di tutti i profili censori sollevati da Contrada nel giudizio svoltosi in sede sovranazionale e riguardanti, oltre alla violazione dell'art. 7 CEDU, la domanda di equa soddisfazione - di cui si è detto - e i danni patiti per effetto del processo conclusosi con la sentenza irrevocabile presupposta. Occorre pertanto ribadire – conclude la Corte - che la sentenza pronunziata dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia non impone interventi <em>in executivis</em> differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen.; non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all'applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l'eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto). Non resta allora che riconoscere che, a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, violerebbe l'art. 7 CEDU, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali, onde l'ordinanza (in senso contrario) emessa dalla Corte di appello di Palermo l'11/10/2016 deve essere annullata senza rinvio e la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, deve essere dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 gennaio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 111 sul concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione. Il concetto di appartenenza, evocato dalla norma, è più ampio di quello di partecipazione, con il conseguente rilievo attribuito in tema di misure di prevenzione a condotte che non integrano neppure in ipotesi di accusa la presenza del vincolo stabile tra il proposto e la compagine, ma rivelano una attività di collaborazione, anche non continuativa. La differente struttura risulta essenziale nel senso di impedire, anche sul piano logico ricostruttivo, la piena equiparazione tra situazioni radicalmente diverse.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che, nell'ipotesi in cui non siano apprezzati elementi indicativi di tale partecipazione, individuabile nella collaborazione strutturale con il gruppo illecito, nella consapevolezza della funzione del proprio apporto stabile e riconoscibile dai consociati, la collaborazione occasionalmente prestata, pur nel previo riconoscimento della funzione della stessa ai fini del raggiungimento degli scopi propri del gruppo, per la mancanza di stabilità connessa alla natura di tale cooperazione, non può legittimare l'applicazione di presunzioni semplici, la cui valenza è radicata nelle caratteristiche del patto sociale, la cui ideale sottoscrizione, secondo il criterio <em>dell'id quod plerumque accidit, </em>costituisce il substrato giustificativo che l'apporto occasionale non possiede per definizione. In tal caso l'accertamento di attualità dovrà logicamente essere ancorato a valutazioni specifiche sulla ripetitività dell'apporto, sulla permanenza di determinate condizioni di vita ed interessi in comune.</p> <p style="text-align: justify;">Conclude quindi la Corte affermando che nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di "appartenere" ad una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare il requisito della "attualità" della pericolosità del proposto.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 47504 onde, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, l’affiliazione rituale può non essere sufficiente laddove alla stessa non si correlino ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 23110 onde la esclusione della rilevanza penale delle singole fattispecie contestate (ontologicamente tuttavia ben dettagliate) non influisce sulla dimostrazione del concorso esterno nella associazione mafiosa, in quanto la negazione del quadro indiziario sui reati fine non fa venir meno la configurabilità del reato.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 maggio viene emanata la legge n. 43 recante modifiche dell’art. 416-ter del codice penale in materia di voto di scambio politico mafioso. L’articolo in questione viene completamente riscritto e, al comma 1, punisce “<em>chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416 bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416 bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa</em>”. La stessa pena viene poi comminata, al comma 2, a chi “<em>promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma</em>”. Al comma 3 è prevista un’aggravante nel caso in cui “<em>colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale</em>”. Viene infine prevista, come pena accessoria, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 24658 onde il giudizio sulla attuale pericolosità sociale è passaggio necessario anche ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione personali nei confronti degli “appartenenti ad associazioni di tipo mafioso”. È possibile, tuttavia, là dove ricorra la figura prevista dall'art. 4, comma 1 lett. a), d.lgs. n.159 del 2001, valorizzare, a certe condizioni, anche la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell'accertamento di attualità della pericolosità. Ciò implica la necessità di una puntuale motivazione in punto di attualità della pericolosità sociale, quanto più gli elementi rivelatori dell'inserimento nel sodalizio siano lontani nel tempo rispetto al momento del giudizio.</p> <p style="text-align: justify;">In questa logica occorre in primo luogo un'appartenenza che si traduca in una forma di partecipazione, intesa come stabile compenetrazione nella struttura associativa, compenetrazione in discussione già al cospetto delle forme di cd. <em>concorso esterno. </em>Interventi rilevanti erano stati già quelli che, in diverse occasioni, aveva avuto modo di esprimere la Corte costituzionale. Occorre, dunque, una ripetitività del contributo con permanenza di determinate condizioni di vita e di interessi in comune.</p> <p style="text-align: justify;">Né, a fronte della condotta di partecipazione, il richiamo a forme di presunzione semplice può costituire l'unico dato fondante l'accertamento dell'attualità della pericolosità, dovendosi selezionare elementi di fatto che ne convalidino la sussistenza e, soprattutto, fondino la valenza strutturale del apporto tra singolo e gruppo.</p> <p style="text-align: justify;">In questa logica anche il decorso di un rilevante arco temporale, in difetto di ogni elemento di segno contrario o il mutamento delle condizioni di vita del singolo, possono risultare elementi o indicatori che rendono incompatibile una conclusione di persistenza del vincolo stesso, da cui inferire l'attualità del profilo di pericolosità personale.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò per evitare automatismi applicativi essendo le stesse misure caratterizzate da evidenti profili di afflttività e dovendo esse essere conformi a regole di tassatività tipizzazione irrinunciabili.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 26230 che, sull’aggravante della finalità agevolatrice dell'associazione mafiosa, si allinea con l’orientamento maggioritario secondo cui la stessa, in quanto connotata dal profilo del dolo specifico, richiede che il soggetto abbia agito con lo scopo di agevolare l'attività dell'associazione o, comunque, abbia fatto propria tale finalità; occorre, cioè, che questo fine costituisca l'obiettivo <em>diretto </em>della condotta, non rilevando possibili vantaggi indiretti, né il semplice scopo di favorire un esponente di vertice della cosca, indipendentemente da ogni verifica in merito all'effettiva ed immediata coincidenza degli interessi di un esponente o del capomafia con quelli dell'organizzazione.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta, invero, di una lettura più aderente al dato normativo, oltre che coerente, sotto il profilo assiologico, al consistente aumento di pena che la norma prevede ed alla conseguente necessità che esso sia giustificato da un significativo incremento qualitativo dell'offesa criminale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quando si è posta e quale è la problematica che investe i rapporti tra reato associativo e c.d. concorso esterno?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>negli <strong>anni Settanta</strong>, il fenomeno del <strong>terrorismo</strong> ha implicato <strong>numerosi processi per banda armata</strong> in relazione ai quali, a <strong>fini repressivi</strong>, si è inteso <strong>punire anche</strong> soggetti la cui <strong>partecipazione</strong> alla banda armata appariva <strong>meno strutturata</strong>;</li> <li>aperta la via, la fattispecie ha trovato <strong>sempre maggiore applicazione</strong> con riguardo ad <strong>associazioni di stampo mafioso</strong>, capaci di <strong>maggiore pervasività </strong>a fronte della palesata, <strong>peculiare abilità</strong> di <strong>infiltrazione</strong> nel <strong>tessuto</strong> politico, amministrativo, economico, imprenditoriale e più in genere <strong>sociale</strong> che connota <strong>determinati territori</strong>;</li> <li>il <strong>reato associativo</strong> è tipicamente <strong>plurisoggettivo</strong>;</li> <li>si consuma quando <strong>3 o più persone si associano</strong> per commettere <strong>più delitti</strong>;</li> <li>chi <strong>partecipa</strong> all’associazione ne “<strong><em>fa parte</em></strong>” (come chiarisce l’<strong>416.bis, comma 1</strong>, c.p.) e dunque <strong>riveste un ruolo</strong> all’interno della <strong>compagine associativa criminosa</strong>, risultandovi <strong>profondamente integrato</strong> dal punto di vista dell’<strong>organizzazione</strong> che si prefigge <strong>scopi criminali</strong>;</li> <li>il partecipe è dunque – sul <strong>crinale oggettivo</strong> - <strong>stabilmente e permanentemente inserito</strong> nella <strong>struttura</strong> dell’associazione, della quale appunto “<strong><em>fa parte</em></strong>” e della quale <strong>si mette a disposizione</strong>, in quanto <strong>partecipe</strong>, aderendo alle <strong>regole</strong> che con l’<strong>accordo associativo</strong> sono state poste, e così <strong>rinforzandola</strong> appunto sul <strong>crinale strutturale</strong>;</li> <li>il <strong>partecipe</strong> medesimo – dal punto di vista <strong>soggettivo</strong> – <strong>vuole consapevolmente far parte</strong> della <strong><em>societas sceleris</em></strong>, dacché ne <strong>condivide scopi e metodi</strong>, palesando dunque la c.d. <strong><em>affectio societatis</em></strong>;</li> <li>il problema che si è posto col trascorrere dei <strong>lustri</strong> - e col connesso sempre più evidente e tragico <strong>palesarsi</strong> della <strong>operatività di compagini di tipo mafioso</strong> – è quello di verificare se <strong>anche chi non partecipa</strong>, e dunque <strong>non “<em>fa parte</em>”</strong>, dell’associazione a delinquere <strong>possa incorrere in responsabilità penale</strong> perché ad essa in qualche modo “<strong><em>limitrofo</em></strong>”, <strong>contermine</strong> o comunque <strong>contiguo</strong>, e dunque <strong>potenziale “<em>concorrente</em>”</strong> ai sensi dell’<strong>110</strong> c.p., in combinato disposto con la <strong>singola fattispecie</strong> <strong>associativa</strong> criminosa, ed in particolare con <strong>l’art.416.bis</strong>;</li> <li>vanno assunti come <strong>punti di riferimento</strong> la <strong>conservazione</strong> dell’associazione ovvero il relativo <strong>rafforzamento</strong>: solo per chi <strong>dall’esterno concorre</strong> a questi fenomeni, fornendo un <strong>contributo</strong> alla <strong>vita</strong> ed alla <strong>operatività</strong> dell’associazione medesima, si pone un problema di <strong>possibile “<em>concorso esterno</em>” o “<em>dall’esterno</em></strong>”;</li> <li>il concorrente <strong>esterno</strong>, al cospetto di <strong>talune specifiche condizioni</strong> viene assunto <strong>punibile come quello “<em>interno</em>”</strong> e strutturato perché <strong>partecipa</strong> – quand’anche appunto <strong>non, strutturalmente,</strong> alla compagine – in ogni caso al <strong><em>vulnus</em></strong> che per il tramite del sodalizio criminoso viene <strong>inferto all’interesse</strong> che la pertinente fattispecie penale <strong>intende tutelare</strong>, e sostanzialmente riconducibile alla <strong>tutela dell’ordine pubblico</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>E’ configurabile un concorso “<em>esterno</em>” o “<em>eventuale</em>” (non necessario) in associazione mafiosa?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>nessun problema si pone per la configurabilità di un <strong>concorso esterno</strong> di tipo <strong>morale</strong>, come nel classico caso di <strong>chi non fa più parte</strong> dell’associazione criminosa, ma istiga altri – <strong><em>ab externo</em></strong> appunto - a <strong>farne parte entrandovi</strong>;</li> <li>per quanto concerne invece il <strong>concorso esterno materiale</strong>, si contrappongono in <strong>dottrina</strong> ed in <strong>giurisprudenza</strong> fondamentalmente <strong>2 tesi</strong>: b.1) <strong>non configurabilità</strong>: chi <strong>contribuisce</strong> all’associazione in modo <strong>evidente e concreto</strong>, ne <strong>fa già parte</strong>, e dunque è <strong>concorrente necessario</strong> (e non già meramente eventuale) della <strong>compagine criminosa</strong>; sia dal punto di vista della <strong>condotta materiale</strong>, sia sul crinale del pertinente <strong>approccio psicologico</strong>, il <strong>concorso c.d. esterno o eventuale</strong> è in realtà <strong>pienamente sovrapponibile</strong> e <strong>non differenziabile</strong> rispetto al <strong>concorso c.d. interno o necessario</strong>, <strong>non distinguendosi</strong> dunque il primo da secondo, e dunque nella sostanza essi <strong>coincidendo pienamente</strong>; sul crinale <strong>oggettivo</strong>, chi <strong>fornisce un apporto alla realizzazione</strong> dell’associazione mafiosa o <strong>ne fa parte</strong>, e ne è dunque <strong>concorrente necessario</strong>, oppure <strong>delinque</strong> sotto l’usbergo di <strong>altre figure criminose</strong>, come ad esempio il <strong>favoreggiamento</strong>; anche sul versante dell’<strong>elemento soggettivo</strong>, non è possibile <strong>differenziare</strong> il <strong>partecipe necessario</strong> da quello <strong>eventuale</strong>, stante il <strong>del tutto sovrapponibile atteggiamento volitivo</strong> delle due categorie dei concorrenti i quali, ai sensi dell’<strong>110</strong> c.p., si propongono di <strong>realizzare il “<em>medesimo reato</em>”</strong> che in effetti <strong>realizzano consapevolmente e volitivamente</strong> per tale, facendo dunque <strong>parte tutti</strong> dell’associazione mafiosa (ovvero, alternativamente, rimanendone <strong>fuori</strong>); a ciò si aggiunge che tutto quello che è in qualche modo <strong>limitrofo alla mafia</strong> e ad essa <strong>contiguo</strong>, pur <strong>al di fuori della partecipazione</strong> all’associazione, appare <strong>già disciplinato in modo esaustivo</strong> dal legislatore, senza la necessità che <strong>si forgi l’ambigua figura</strong> del c.d. “<strong><em>concorso esterno</em></strong>”, come dimostrano – sul crinale dei <strong>singoli associati mafiosi</strong> - le figure della c.d. <strong>assistenza agli associati ex art.418</strong> c.p. e del <strong>favoreggiamento aggravato ex art.378, comma 2</strong>, cp. (agevolata <strong>elusione delle indagini</strong> o <strong>sottrazione</strong> alle medesime da parte del <strong>soggetto responsabile</strong> della commissione del <strong>delitto di cui all’art.416.bis</strong> c.p.) e – sul versante delle <strong>associazioni mafiose complessivamente intese</strong> - <strong>l’aggravante ex art.7</strong> del <strong>decreto legge n.152.91</strong>, convertito con <strong>legge n.203.91</strong> ed afferente a chi <strong>commetta delitti punibili</strong> con <strong>pena diversa dall’ergastolo</strong> al fine di <strong>agevolare le attività delle associazioni mafiose</strong> o di quelle <strong>ad esse equiparate ex art.416.bis</strong>, ultimo comma, c.p.; tutte disposizioni normative che <strong>si rivelerebbero inutili</strong>, nel prisma ermeneutico abbracciato dalla <strong>tesi negazionista</strong>, laddove fosse appunto configurabile un <strong>concorso esterno</strong> in associazione mafiosa;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare degli elementi che contraddistinguono il concorso esterno in associazione mafiosa?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>i <strong>singoli contributi</strong> prestati dall’estraneo sono <strong>occasionali</strong>, o comunque <strong>autonomi</strong> rispetto al <strong>contributo strutturale tipico</strong> di chi “<strong><em>fa parte</em></strong>” dell’associazione;</li> <li>si tratta tuttavia di <strong>contributi immediatamente funzionali</strong> alla <strong>struttura organizzativa</strong> dell’associazione;</li> <li>si tratta, altresì, di <strong>contributi normalmente infungibili</strong> rispetto alle <strong>prestazioni</strong> che il sodalizio <strong>può pretendere</strong> da <strong>chi è interno</strong> al medesimo;</li> <li>deve essere riscontrabile un <strong>nesso di causalità</strong> tra <strong>ciascun contributo</strong> ed un <strong>concreto vantaggio</strong> ritratto dal <strong>sodalizio criminoso</strong> (strutturalmente inteso);</li> <li>tale vantaggio deve tradursi in un <strong>rafforzamento</strong>, in un <strong>consolidamento</strong>, o quantomeno nel <strong>mantenimento in vita</strong> della compagine, quand’anche <strong>limitatamente ad uno solo</strong> dei <strong>diversi settori di interesse e di operatività</strong> dell’associazione criminale;</li> <li>dal punto di vista <strong>soggettivo</strong>, occorre poi la <strong>volontaria consapevolezza</strong> in capo all’”<strong><em>esterno</em></strong>” di <strong>favorire</strong>, attraverso la spiegata condotta, <strong>l’organizzazione mafiosa</strong> nel relativo complesso.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>