<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il concetto di consumazione è strettamente avvinto a quello di inadempimento-reato: un fatto storico globalmente considerato, riconducibile ad una condotta attiva od omissiva del soggetto agente, diviene reato quando corrisponde alla fattispecie tipica disegnata in via astratta dal legislatore penale, che lo qualifica come inadempimento della massima gravità (già il tentativo palesandosi, peraltro, come inadempimento penalmente rilevante, seppure meno grave); l’inadempimento-reato consumato è lesione grave e (a differenza di quella di cui all’inadempimento-reato tentato) irreversibile dell’interesse protetto dalla norma penale, che può compiersi tanto in via istantanea, quanto in modo continuativo nel tempo, ovvero ancora frazionato, con notevoli effetti sul regime applicabile ma senza, nondimeno, che ne muti l’effetto finale, che è appunto quello di una definitiva compromissione – penalmente rilevante – dell’interesse presidiato da sanzione criminale. Ne consegue che, a valle della “</em>consumazione<em>”, può essere vulnerato solo un altro (e diverso) interesse, con conseguente nuova consumazione e nuovo reato, se del caso “</em>continuato<em>” rispetto a quello che lo ha preceduto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Nel <strong>diritto romano</strong>, la figura della <strong>consumazione</strong> del reato deve intendersi per lungo tempo come <strong>unica figura</strong> conosciuta di <strong>illecito rilevante</strong>, per essere il tentativo punito – nei delitti più gravi – con la <strong>medesima sanzione</strong> prevista per la <strong>consumazione</strong>, e dunque <strong>esaurentesi in essa</strong>: nella sostanza, tentativo e consumazione <strong>si intrecciano parificandosi</strong> quanto a trattamento sanzionatorio. Solo con la <strong><em>Lex Cornelia de sicariis et veneficiis</em></strong> dell’81 a.C., riconducibile a Silla, viene introdotta la figura del <strong>tentativo</strong> con riferimento al <strong>delitto di parricidio</strong> (nella sostanza, l’omicidio), cominciando in tal modo a <strong>distinguersi più nettamente</strong> il tentativo dalla <strong>consumazione</strong>, e dunque a <strong>meglio isolare</strong> anche quest’ultima.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">La codificazione liberale Zanardelli (30 giugno) annovera la parola consumazione in sede di disciplina del tentativo, in particolare all’art.61 (onde “<em>colui che, a fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà non compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso, è punito</em>…”) e all’art.62 (onde “<em>… colui che, a fine di commettere un delitto, compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso, se questa non avvenga per circostanze indipendenti dalla sua volontà, è punito</em> …”), sicché la consumazione si atteggia a tentativo compiuto attraverso la realizzazione non già solo di atti preparatori, ma anche di tutti i relativi atti esecutivi. In tema di prescrizione, rileva l’art.92 alla cui stregua la prescrizione decorre, per i reati consumati, dal giorno della loro consumazione; per i reati tentati o mancati, dal giorno in cui fu commesso l'ultimo atto di esecuzione; per i reati continuati o permanenti, dal giorno in cui ne cessò la continuazione o la permanenza: vi è dunque un esplicito riferimento alla figura dei reati permanenti. Interessante notare come per reato “<em>continuato</em>” non sembra che il codice Zanardelli faccia riferimento a quello che sarà poi tale nel codice Rocco (art.81, laddove in rubrica espressamente si parla appunto di reato continuato), essendo la figura della continuazione prevista (senza tuttavia definirla esplicitamente tale) all’art.79 in tema di concorso di reati e di pene: la parola “<em>continuato</em>”, accostata a quella di “<em>permanente</em>”, sembra piuttosto riferirsi a quei reati ad esecuzione discontinua o frazionata, seppure prolungata, che in seguito saranno chiamati “<em>abituali</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nel codice penale Rocco, al libro I, Titolo III dedicato al reato, il capo I viene titolato “<em>del reato consumato e tentato</em>”, con una esplicito accostamento della consumazione al tentativo, senza che la prima debba ricavarsi dal secondo, che anzi in qualche modo logicamente precede (onde è il tentativo che si costruisce partendo dalla consumazione, e non quest’ultima che si ricava da quello). Non è prevista una categoria “<em>generale</em>” di reati permanenti o di reati abituali, pur essendo presenti singole fattispecie in cui il reato si atteggia, per l’appunto, a permanente (art.605, sequestro di persona) o abituale (art.572, maltrattamenti in famiglia). L’art.158 prevede tuttavia che la prescrizione inizi a decorrere dalla cessazione della permanenza, così adombrando la categoria dei reati permanenti come categoria generale. Quanto all’abitualità, il codice prevede anche, e più specificamente, la configurabilità di reati della stessa indole, con abitualità (soggettiva) nel reato (presunta o ritenuta dal giudice), professionalità nel reato e tendenza a delinquere (articoli 101 e seguenti): in queste fattispecie l’abitualità riguarda il soggetto, e non il reato che, quando abituale, in realtà è unico, non configurandosi una pluralità di reati ed una conseguente connotazione soggettiva del relativo autore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza particolarmente importante con riguardo al c.d. reato abituale, in cui non è possibile vedere un modello di vita penalmente sanzionato, quanto piuttosto una serie di atti concretamente posti in essere dal soggetto agente, che si connotano per omogeneità e ripetitività. Rilevante anche l’art.25, comma 2, Cost. che – nel prevedere il divieto di retroattività per la norma penale sfavorevole – richiede un particolare apprezzamento nelle ipotesi in cui il reato si atteggi non già ad istantaneo, quanto piuttosto a diuturno perché permanente (continuo) o abituale (discontinuo o frazionato), o ad effetti prolungati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1981</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione, Strizzi, che afferma la natura e la struttura unitaria del reato permanente, al cospetto del quale non è dunque possibile riconoscere una pluralità di reati omogenei, ma un solo reato, per l’appunto, permanente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1983</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 10 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, n.1026, Mantisi, che ribadisce la natura e la struttura unitaria del reato permanente, al cospetto del quale non è dunque possibile riconoscere una pluralità di reati omogenei, ma un solo reato, per l’appunto, permanente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1984</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 20 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, n.437, che ribadisce la natura e la struttura unitaria del reato permanente, al cospetto del quale non è dunque possibile riconoscere una pluralità di reati omogenei, ma un solo reato, per l’appunto, permanente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 dicembre viene pubblicata la sentenza della Corte costituzionale n.520, fondamentale in tema di reati permanenti, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 28 della l. 25 novembre 1962 n. 1684 (Provvedimenti per l'edilizia, con particolari prescrizioni per le zone sismiche), e 20 della l. 2 febbraio 1974 n. 64 (Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche), nonché degli art. 231 e 219 cod. proc. pen.. Per la Corte la natura permanente o istantanea di un reato non può dipendere da una esplicita ed apodittica qualificazione del legislatore, ma dalla relativa naturale essenza, trattandosi di un carattere che inerisce alla qualità della condotta così come si presenta nella realtà. Il legislatore – prosegue la Corte - descrive la condotta che intende elevare ad oggetto della qualificazione penalmente rilevante, ma non la crea, perché essa ha una sua naturale struttura (permanente appunto) di cui il legislatore si limita a prendere atto. Se la lesione dell'interesse protetto é collegata ad una condotta perdurante nel tempo nella sua stessa tipicità, il reato ha carattere permanente; ma non perché tale lo voglia il legislatore, quanto piuttosto e più semplicemente perché ad esempio l'aspetto tipico della offesa nel sequestro di persona é necessariamente perdurante nel tempo per relativa, essenziale natura, onde la consumazione non può cessare se non quando, per fatto del terzo o dello stesso reo, viene ad esaurirsi la situazione antigiuridica; ne consegue per la Corte che, al contrario, se il legislatore azzardasse una definizione di permanenza o di istantaneità in contrasto con la natura e l'essenza del reato, proprio allora semmai potrebbe, in ipotesi, profilarsi una questione di legittimità costituzionale, nei confronti, però, di ben altri parametri. La Corte conclude nel senso onde la definizione del carattere (per natura) permanente o istantaneo del reato é affidata all'interpretazione dei giudici ordinari.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione, Pulerà, che autorevolmente ribadisce la natura e la struttura unitaria del reato permanente, al cospetto del quale non è dunque possibile riconoscere una pluralità di reati omogenei, ma un solo reato, per l’appunto, permanente.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3965 che si occupa del dolo in materia di maltrattamenti in famiglia: si tratta di un dolo di tipo unitario che non va confuso – per la Corte – con il dolo (quale coscienza e volontà) di ciascuno frammento della condotta, e dunque di ciascun episodio che compendia questo tipo di fattispecie delittuosa; si tratta della volontà consapevole di infliggere sistematiche sofferenze di tipo tanto fisico che psichico alla vittima, senza che tuttavia sia necessaria la presenza <em>ex ante</em> di uno specifico e preordinato programma criminoso precipuamente finalizzato alla realizzazione del risultato vietato dalla norma penale: in sostanza, il soggetto agente non si deve necessariamente rappresentare <em>ex ante</em> tutta la serie concatenata degli episodi lesivi del bene penalmente tutelato, dovendosi ammettere la configurabilità del reato abituale anche laddove la consapevolezza e volontà del soggetto agente maturino in modo progressivo e graduale, nel corso dello sviluppo della condotta aggressiva, fermo restando che – guardando la vicenda nel relativo corso ed <em>ex post</em> – è il dolo l’elemento che, sul crinale soggettivo, unifica l’intera gamma degli episodi aggressivi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 ottobre esce la sentenza delle SSUU n.11021, molto importante in tema di reato permanente, che stigmatizza la concezione pluralistica abbracciando in modo convinto la concezione unitaria di tale reato, siccome naturalisticamente intesa <em>ex ante</em>, ed <em>ex post</em> riconosciuta come tale e disciplinata dal legislatore penale, sostanziale e processuale. Per la Corte esistono una serie di indizi che testimoniano come il reato permanente sia in realtà un unico reato, onde per contestarlo è sufficiente al PM indicare la sola data di accertamento o comunque di inizio della permanenza, proprio perché si tratta di un reato unico, come dimostra in particolare l’art.158 c.p., che fa decorrere la prescrizione dalla cessazione della permanenza. Sul crinale processuale, il fatto che l’art.12 del c.p.p. disciplini la connessione tra procedimenti avendo riguardo a due fattispecie di concorso di reati, ovvero al concorso formale e al reato continuato, senza menzionare il reato permanente, viene considerato dalla Corte come ulteriore indizio del fatto che si tratta di un unico reato (e non di più reati in concorso tra loro). La Corte cita anche l’art.8 c.p.p. che, al fine di determinare la competenza, afferma che in tema di reati permanenti la <em>potestas iudicandi</em> spetta al giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione del reato (espressione che in verità potrebbe divenire problematica per chi assume la perfezione, in questo tipo di reati, sganciata dalla consumazione).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione secondo la quale l’oblazione nelle contravvenzioni, quale causa di estinzione del reato, non è ammissibile con riguardo ai reati (contravvenzionali) permanenti, laddove la permanenza non sia ancora cessata: nel caso di specie il reato è quello di uso di immobile privo di licenza di abitabilità, e la Corte lo dichiara non estinguibile per oblazione proprio perché non è cessata la permanenza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.38812 che riafferma come il delitto di usura si configuri quale reato a schema duplice, costituito da due fattispecie – destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria – aventi in comune l’induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi od altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma ad esso preordinato. Nella prima (conseguimento effettivo del profitto illecito) il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già ad effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’eventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento (estinzione) del debito, mentre nella seconda, che si verifica quando la promessa del corrispettivo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Ne deriva, in tema di prescrizione, che il relativo termine decorre comunque – nel caso in cui i pagamenti vengano effettuati - dalla data in cui si è verificato l’ultimo pagamento degli interessi usurari (vengono richiamate le sentenze della II sezione n. 11837.03 e n. 6015.99).</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.6490, che – al fine di tracciare la linea di confine fra la configurazione di ripetuti atti lesivi all’interno di un contesto familiare ed il delitto abituale di maltrattamenti in famiglia – pone l’accento sull’elemento psicologico, giungendo ad escludere la sussistenza del requisito della abitualità sulla base del rilievo onde i singoli atti lesivi hanno – nel caso di specie - rappresentato forme espressive di reazioni determinate da tensioni contingenti, anche se non infrequenti, nel contesto familiare di riferimento, quali atti non connessi tra loro né cementati dalla volontà unitaria e persistente dell’agente di sottoporre i soggetti passivi ad ingiuste sofferenze morali o fisiche, in modo da rendere abitualmente doloroso il rapporto relazionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 aprile esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.17036 secondo la quale – in caso di furto di energia elettrica – il termine di prescrizione decorre dall’ultima delle plurime captazioni di energia, che costituiscono i singoli atti di una unica azione furtiva “<em>a consumazione prolungata</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.1537 onde il furto di energia elettrica rientra tra i delitti a consumazione prolungata, o a condotta frazionata, in quanto l’evento continua a prodursi nel tempo, sebbene con soluzione di continuità, onde le plurime captazioni di energia che si susseguono costituiscono singoli atti di un’unica azione furtiva e spostano in avanti la cessazione della consumazione fino all’ultimo prelievo concretamente realizzato; ne discende l’ulteriore conseguenza onde, qualora quando interviene la polizia giudiziaria la captazione sia ancora in atto, il furto è in flagranza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.6417, secondo la quale integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. (c.d. stalking), anche due sole condotte di minaccia o di molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione scolpita nella norma incriminatrice. Per i giudici occorre soffermarsi in particolare sul significato letterale del termine “<em>reiterare</em>”, evidenziando come lo stesso denoti “<em>la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza</em>”, con la conseguenza onde, appunto, anche due sole condotte sono da ritenere sufficienti a concretare il requisito della reiterazione richiesto dalla norma.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.24575 che si occupa dei confini tra i maltrattamenti in famiglia e lo <em>stalking</em>. Per la Corte, al fine di configurare il reato di maltrattamenti non occorre che lo stato di sofferenza e mortificazione inflitto dal soggetto agente alla persona offesa - in regime di continuità temporale e dunque di abitualità - si colleghi in forma simmetrica a specifici contegni prepotenti e vessatori attuati nei relativi confronti dal soggetto agente ridetto, potendo tale stato derivare anche dal diffuso clima di afflizione, sofferenza e paura indotto nella vittima dall’imputato; la Corte precisa che il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia, ed in particolare contro l’assistenza familiare, con oggetto giuridico costituito dai congiunti interessi a) dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e b) delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica, atteggiandosi a reato proprio, potendo esso essere commesso soltanto da chi ricopra un “<em>ruolo</em>” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “<em>autorità</em>” o peculiare “<em>affidamento</em>” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte); per converso, il reato di atti persecutori è per la Corte un reato contro la persona ed in particolare contro la libertà morale, ed è un reato comune che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “<em>reiterati</em>” (reato abituale), non presupponendo l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.20993 onde, ai fini della configurazione del reato di <em>stalking</em>, ex <a href="http://www.altalex.com/documents/news/2014/10/28/dei-delitti-contro-la-persona#art612bis">art. 612 bis c.p.</a>, non occorre una rappresentazione anticipata del risultato finale da parte del soggetto agente, essendo piuttosto sufficiente la consapevolezza costante, nel progressivo sviluppo della situazione, dei precedenti attacchi alla vittima e dell’apporto negativo che ognuno di questi arreca all’interesse protetto; una consapevolezza da assumersi insita nella perdurante aggressione da parte del ricorrente della sfera privata della persona offesa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.45648, ancora una volta in tema di <em>stalking</em>, che ribadisce come anche due sole condotte in successione tra loro, pur se intervallate nel tempo, siano sufficienti ad integrare il concetto di “<em>reiterazione</em>” della condotta richiamato nell’art. 612 bis c.1 c.p.; per la Corte, peraltro, va affermato il principio secondo cui il reato sussiste anche se la vittima abbia più volte cercato lo stesso <em>stalker</em>: la reciprocità dei comportamenti molesti – osservano i giudici – non esclude, infatti, la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa: ne escono dunque respinte le argomentazioni imbastite nel caso di specie dalla difesa onde la ricerca, da parte della vittima, dello <em>stalker</em> si porrebbe in posizione antinomica con il concetto di atti persecutori che presupporrebbe piuttosto una vittima alla mercé del proprio aggressore ed impossibilitata a reagire. Secondo la Corte la reciprocità non vale ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il relativo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita, dovendo in ultima analisi verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Per quanto infine concerne la dimostrazione dello stato di ansia o di paura, viene chiarito dalla Corte che non è necessaria la dimostrazione di un autentico stato patologico, palesandosi piuttosto sufficiente un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il decreto legislativo n.28 che innesta nel codice penale il nuovo art.131.<em>bis</em>, configurante una causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, laddove tuttavia sia accertata la non abitualità della condotta punita.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.25182 che si occupa del reato di lottizzazione abusiva inquadrandolo nel c.d. reato progressivo nell'evento, in cui possono concorrere, nell'unicità della fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello programmatorio mediante l'esecuzione di opere di urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli edifici. Pertanto, la condotta illecita, pur nella relativa unitarietà, può essere attuata per la Corte in forme (il reato è a forma libera) e momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, ecc.) onde correttamente si può configurare nel caso di specie la figura del reato progressivo nell'evento lesivo dell'interesse urbanistico protetto. La Corte prosegue affermando che in materia urbanistica, la contravvenzione di lottizzazione abusiva configura un reato progressivo nell'evento, che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando la configurazione del reato, non esauriscono il percorso criminoso che si protrae con gli interventi successivi che incidono sull'assetto urbanistico, in quanto l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica (vengono richiamati numerosi precedenti tra i quali Cass. S.U., n.4708.92 <em>Fogliani</em>; Sezione III, n. 36940.05, <em>Stiffi ed altri;</em> Sezione III, n. 12772.12, <em>Tallarini</em>, nonché Sezione III, n.5105.14). Ne consegue, per la Corte, che l'illecito lottizzatorio si realizza (o, detto altrimenti, che la relativa consumazione ha inizio) allorquando sia completato il quadro dei requisiti necessari e sufficienti per l'integrazione della fattispecie incriminatrice ed il momento consumativo perdura nel tempo sino a quando l'offesa tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro ad esso successivo, una sempre maggiore gravità; in ciò la lottizzazione abusiva, quale reato progressivo nell'evento, partecipa per la Corte della medesima disciplina del reato permanente, anche mutuandone ricadute giuridiche; con esso ha in comune la struttura unitaria, l'instaurazione di uno stato antigiuridico ed il relativo mantenimento; ma ha in aggiunta un progressivo approfondimento dell'illecito attraverso condotte successive dirette ad aggravare l'evento del reato, atteso che gli interventi susseguenti incidono sull'assetto urbanistico, compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica. La gravità dell'offesa può invero spostare il tempo del reato e la Corte rammenta come il diritto vivente, oltre al reato progressivo nell'evento, tipico dell'illecito lottizzatorio, abbia enunciato le categorie del reato a duplice schema (viene richiamata la sentenza della sezione II, n. 38812.08, <em>Barreca</em>, in tema di usura) e del reato a consumazione prolungata o frazionata (viene richiamata la sentenza della Sezione IV, n. 17036.09, <em>Palermo</em>, in tema di furto di energia elettrica) rispondenti entrambe alla medesima <em>ratio</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"> <strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 29 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.35589, che rileva in via preliminare ed assorbente l'intervenuta <em>aboltio criminis</em> a seguito della parziale depenalizzazione del reato di cui all'art. 2, comma 1-bis d.l. 12 settembre 1983 n. 463, conv. in I. 11 novembre 1983 n. 638, per effetto dell'art. 3, comma 6, d.lgs. 15 gennaio 2015, n. 8 (entrato in vigore il 6 febbraio 2016). Secondo quanto dispone l'art. 3, comma 6, d.lgs. 15 gennaio 2015, n. 8 , precisa la Corte, il delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all'art. 2, comma 1-bis d.l. 12.9.1983 n. 463, conv. in legge 11/11/1983 n. 638, è stato sostituito dalla seguente formulazione: «<em>L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è 3 punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto della violazione</em>». Ne consegue che costituiscono ancora reato le condotte di omesso versamento delle ritenute operate che superano, nell'arco temporale dell'anno, l'importo di 10.000,00 euro, importo che deve essere considerato come soglia di punibilità di un reato che la legge di depenalizzazione ha rimodulato, pur nella continuità del tipo di illecito, in ordine agli elementi che costituiscono il fatto tipico. Infatti, mentre in precedenza il reato era integrato dal mancato versamento mensile delle ritenute operate, indipendentemente dall'entità dell'importo non versato, la fattispecie deve ritenersi ora realizzata solo quando, nell'arco dell'anno, il datore di lavoro ometta di eseguire i versamenti che, indipendentemente dal riferimento ad una o più mensilità, superano la soglia di 10.000,00 euro. Il reato ha quindi una struttura unitaria e la condotta omissiva può configurarsi anche attraverso una pluralità (eventuale) di omissioni, le quali possono di per sé anche non costituire reato, sicché la consumazione può essere, secondo i casi, tanto istantanea quanto di durata e, in quest'ultimo caso, ad effetto prolungato, sebbene nel solco del periodo annuale di riferimento sino al termine del quale può realizzarsi o protrarsi il momento consumativo del reato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 agosto esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35778 onde il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è un reato a fattispecie alternative, ciascuna delle quali è idonea a realizzarlo; pertanto, ai fini della relativa configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.37232, onde il delitto previsto dall'art. 2, comma 1 bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in I. 11 novembre 1983, n. 638, che punisce l'omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, non può ritenersi abrogato per effetto diretto della I. 28 aprile 2014, n. 67, posto che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la necessità del relativo esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie e che, pertanto, quest'ultimo, fino all'emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerato violazione amministrativa (viene richiamata Sez. 3, n. 20547 del 14/04/2015, Carnazza). Tuttavia, prosegue la Corte, nelle more dell'impugnazione, è intervenuta, in conseguenza dell'esercizio da parte del governo della delega conferita con la predetta legge, la <em>abolitio criminis</em> a seguito di depenalizzazione del reato di cui all'art. 2 cit. per effetto dell'art. 3, comma 6, del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8. A mente di tale norma, la formulazione della previsione riguardante il delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all'art. 2, comma 1 bis, del d.l. 12/09/1983 n. 463, conv. in legge 11/11/1983 n. 638, è stata sostituita nei seguenti termini : «<em>L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto della violazione</em>». Stabilendo che l'omesso versamento delle ritenute previdenziali integra reato ove l'importo sia superiore a quello di 10.000 euro annui, il legislatore non si è limitato semplicemente ad introdurre un limite di "<em>non punibilità</em>" delle condotte lasciando inalterato, per il resto, l'assetto della precedente figura normativa (che, come noto, nessun limite prevedeva), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell'anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività che viene a segnare, tra l'altro, il momento consumativo dello stesso; in altri termini, il reato deve ritenersi già perfezionato, in prima battuta, nel momento e nel mese in cui l'importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell'anno considerato, superi l'importo di 10.000 euro senza che, peraltro, attesa la necessaria connessione con il periodo temporale dell'anno, le ulteriori omissioni che seguano nei mesi successivi dello stesso anno sino al mese finale di dicembre possano "<em>aprire</em>" un nuovo periodo e, dunque, dare luogo, in caso di secondo superamento, ad un ulteriore reato. Tali omissioni infatti, precisa la Corte, contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell'importo di legge sicché, da un lato, non possono semplicemente atteggiarsi quale <em>post factum</em> penalmente irrilevante e, dall'altro, approfondendo il disvalore già emerso, non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere). Ricorre in realtà dunque per la Corte, alla stessa stregua di altre figure criminose (come, ad esempio, le fattispecie di corruzione o di usura : cfr. rispettivamente, per la prima, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso; per la seconda, da ultimo, Sez. 2, n. 40380 del 11/06/2015, P.G., Tiesi in proc. Cardamone), una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell'ultima mensilità, ovvero, come noto, con il termine del 16 del mese di gennaio dell'anno successivo. Quanto sopra comporta per la Corte che, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo sia evidentemente diverso : mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile (da ultimo, Sez.3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno), nell'attuale e nuovo la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell'importo di euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l'ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell'anno successivo. La struttura del "<em>nuovo</em>" reato come tratteggiata sopra, impone inoltre – prosegue la Corte – di tenere conto, al fine dell'individuazione o meno del superamento del limite di legge di 10.000 euro, di tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno e, dunque, nella specie, anche di quelle eventualmente estinte per prescrizione: del resto, la mera declaratoria di estinzione del reato per ragioni connesse al decorso del tempo non può significare elisione della materiale sussistenza del fatto di omesso versamento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.6887 onde, in tema di reati urbanistici, ove l’immobile non risulti ultimato, la eventuale sentenza di condanna che intervenga determina la cessazione della permanenza dell'illecito urbanistico in quanto la condanna medesima va considerata, al pari del sequestro, evento impeditivo della prosecuzione dei lavori (viene richiamato il precedente della Sezione III n. 7286.94): la continuazione dei lavori stessi su immobile non ultimato (e restituito a seguito della decisione di condanna in vista della demolizione) non può che sostanziarsi dunque, per la Corte, in altro se non nella prosecuzione di un'attività vietata; peraltro la condotta successiva alla restituzione, in vista dell'ultimazione dei lavori, configura di per sè illecito penale a prescindere dall'entità dell'intervento realizzato che non può che considerarsi – per la Corte - come la prosecuzione dell'immobile illecitamente realizzato, del quale si qualifica essenzialmente come attività di rifinitura, rientrando nel regime cui è soggetto l'immobile rifinito (del quale rappresenta l'illecita prosecuzione). Da questo punto di vista, secondo la giurisprudenza, rileva la continuazione, nel senso onde – cessata la permanenza del reato (con il sequestro o con la condanna) – la ripresa dei lavori rappresenta un nuovo reato permanente, (eventualmente) esecutivo in un medesimo disegno criminoso (in sostanza, due reati permanenti in continuazione tra loro e che dunque fanno un reato continuato).</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.42574, che si riferisce ad un’ipotesi di rapporto tra maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. Nel caso di specie era stata contestata con apposito motivo di ricorso l’applicazione dell’aggravante del nesso teleologico quanto al delitto di lesioni personali, laddove il fatto di lesioni giudicate guaribili in sette giorni doveva per la difesa considerarsi elemento costitutivo delle condotte maltrattanti; in ogni caso, avrebbe dovuto essere esclusa l’aggravante del nesso teleologico, presupponente la distinzione tra le azioni costitutive dei diversi reati. La Corte in proposito rammenta il proprio insegnamento costante onde non appare configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen. in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte (vengono richiamati i precedenti della VI sezione n. 23827.13 e n. 5738.16), essendo stato più in specie già affermato in proposito che - nel caso di reato di lesione personale, commesso in occasione del delitto di maltrattamenti - i due fatti non possono essere ritenuti automaticamente aggravati dalla circostanza del nesso teleologico, prevista dall’art. 61, n. 2 cod. pen., essendo necessario accertare sul piano oggettivo che le azioni costitutive dei due reati siano distinte e, su quello soggettivo, la volontà dell’agente di commettere il reato-mezzo in direzione della commissione del reato scopo (viene richiamata la pronuncia della VI sezione n. 3368.16). Al riguardo, nella specie per la Corte la sentenza impugnata nulla ha dedotto, limitandosi ad affermare, tautologicamente, che tutte le azioni accessorie al delitto di maltrattamenti dovevano (apoditticamente) considerarsi avvinte dal nesso teleologico con detto reato, "<em>la cui condotta si sviluppa ad ampio raggio</em>", mentre le fattispecie concorrenti si ponevano come promanazione materiale di atti autonomamente iniqui ed antigiuridici, ma consentiti dal contesto ambientale determinato dalla condotta maltrattante. In sostanza, l’abitualità dei maltrattamenti in famiglia normalmente “<em>assorbe</em>” le lesioni personali lievi (che ne compendiano degli elementi costitutivi), salvi i casi in cui si dimostri l’autonomia tra le due fattispecie, ipotesi (di concorso di reati) nelle quali può rilevare anche il c.d. nesso teleologico come circostanza aggravante.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44902, che si pronuncia su una fattispecie di <em>stalking</em> in cui il ricorrente, con motivo all’uopo, ha denunciato erronea applicazione dell’art. 612 bis cod. pen. contestando, più in specie, il profilo della ricorrenza degli elementi costitutivi del reato contestato in ordine all’evento ed alla abitualità delle condotte vessatorie: nel caso di specie gli episodi contestati sarebbero il frutto di una episodica e smodata reazione dell’imputato alla notizia della distruzione delle fotografie del matrimonio e non già la manifestazione di una condotta reiterata ed abituale diretta a vessare la persona offesa; peraltro, non sarebbero stati probatoriamente acquisiti elementi idonei a dimostrare la sussistenza dell’evento del reato previsto dall’art. 612 bis cod. pen.. La Corte risponde confermando la gravata sentenza ed affermando che nella fattispecie la sussistenza degli elementi oggettivi e costitutivi del reato di <em>stalking</em> è evincibile, oltre che dalle condotte dell’imputato descritte nell’editto accusatorio, anche da quella attività di disturbo e di natura molestatoria esercitata dall’imputato nei confronti dell’ex coniuge precedentemente ai due episodi di evidente molestia specificamente ricordati. In sostanza, per la Corte taluni elementi assunti dalla difesa marginali (e ovviamente non costituenti di per sé reato) vengono in ogni caso ritenuti invece parte della condotta “<em>abituale</em>” che consente di ritenere consumato il delitto di atti persecutori.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.53043, che si occupa, in tema di misure di prevenzione antimafia, del c.d. divieto di associarsi a pregiudicati quale figura di reato prevista dall'articolo 75 D. L.vo 6 settembre 2011, n. 159. Per la Corte, la prescrizione relativa al divieto di frequentare o associarsi a determinate persone implica, per il significato letterale delle espressioni usate, un'abitualità o serialità di comportamenti, dovendosi, conseguentemente escludere che la relativa violazione sia integrata da un fatto episodico unico (Sez. 1, Sentenza n. 43858 del 01/10/2013, Valentino; Sentenza n. 46915 del 10/11/2009, Linaris; 31 maggio 1996, Di Rienzo). Nella stessa logica – rammenta la Corte - si è affermato che occorre un comportamento abituale, caratterizzato dalla ripetizione della condotta vietata (in motivazione, Sez. 1, Sentenza n. 48686 del 29/09/2015, Mancuso). Il reato di cui all'articolo 75 del D. L.vo 6 settembre 2011, n. 159, relativamente alla violazione del divieto in esame, rientra dunque per la Corte tra i reati necessariamente abituali; esso determina, cioè, la lesione concreta al bene giuridico solo in presenza di un minimo di condotte, avvinte da un nesso di ripetitività (che fondano il carattere dell'abitualità).Il contenuto minimo che permette alla violazione di assumere rilevanza penale non può essere individuato nel mero superamento del singolo episodio di frequentazione. Interpretazione siffatta poggia all'evidenza, per la Corte, sulla natura abituale del fatto tipico, che incrimina non la pura disobbedienza al divieto, ma la violazione reiterata che integra l'offensività concreta della fattispecie. In realtà – chiosa ancora la Corte - la lesione al bene protetto dall'incriminazione discende non dalla singola inottemperanza al divieto d'incontro, ma dall'abituale frequentazione di soggetti pregiudicati, occorrendo allora, a ben vedere, una serie di condotte idonee, per l'intrinseca caratteristica oggettiva, a fondare una frequentazione ripetuta (“<em>… non associarsi abitualmente</em>...”) che possa indurre a ritenere realizzata la trasgressione rilevante penalmente, per effetto della lesione concreta del bene protetto. Nonostante in talune decisioni si siano ritenuti sufficienti anche due soli incontri con un soggetto pregiudicato per ravvisare la violazione dell'art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 (Sez. 1, Sentenza n. 47109 del 26/11/2009, Caputo) il Collegio ritiene dunque di aderire all'orientamento più recente che postula una reiterazione delle condotte (Sez 1, sentenza n. 27049 del 09/05/2017 Ud. (dep. 30/05/2017), Massimino). Ciò perché l'abitualità che caratterizza il fatto tipico non coincide con una frequentazione occasionale o episodica, ma richiede una ripetitività che dia conto di un <em>modus</em> comportamentale. In tale ottica, occorrono per la Corte plurimi e stabili contatti e frequentazioni con soggetti pregiudicati, contatti che in ogni caso non possono essere ridotti a due.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.56961 onde il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato abituale essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall'agente con l'intenzione di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali, per una serialità minima in cui ogni condotta successiva si riallaccia alla precedente dando vita ad un illecito strutturalmente unitario (Sez. 6, n. 2359 del 09/12/1969, dep. 1970, Fl.; Sez. 6, n. 52900 del 04/11/2016, P.). La serie minima integrativa dell'abitualità della condotta non è incompatibile con l'esistenza tra i singoli atti di sopraffazione e violenza di un intervallo temporale che nel relativo cadenzato riproporsi risulti giustificato dal peculiare atteggiarsi della relazione di convivenza senza, per ciò stesso, sciogliere il legame obiettivo e soggettivo tra i singoli episodi. Può ben verificarsi, prosegue la Corte, per esigenze lavorative e di vita rispondenti alla pluralità dei modelli propri della famiglia, il rinnovato intervallarsi di convivenze alternate a periodi di allontanamento, dovendo in tal caso scrutinarsi, ai fini dell'integrazione dei maltrattamenti, la configurabilità della serie integrativa del reato nei periodi di convivenza. a Corte territoriale di Napoli ha fatto per la Corte buon governo dell'indicato principio. avendo i giudici di appello ritenuto la non influenza dei lunghi periodi di permanenza all'estero dell'imputato per ragioni di lavoro - la convivenza tra i coniugi era limitata, nel complesso, ad un paio di mesi l'anno - ad escludere la serie minima dell'abitualità del reato, nell'apprezzato rinnovato riproporsi delle condotte ad ogni rientro in famiglia del prevenuto. In siffatto quadro – prosegue la Corte - la dedotta separazione tra i coniugi dal maggio 2011 al 31 dicembre 2012, intervallata da una breve riconciliazione, è stata poi congruamente ritenuta come non idonea a definire l'insussistenza dell'abitualità della condotta già ravvisata negli episodi antecedenti e successivi alla separazione. Là dove la pluralità dei fatti, in sé idonea ad integrare la struttura del reato di maltrattamenti, si esaurisca per poi manifestarsi di nuovo, la consistenza dello iato temporale intercorrente tra le due serie di condotte non ha rilievo al fine di escludere, di ciascuna, la prescritta abitualità. L'interruzione può valere, al più, infatti, ove risulti notevolmente dilatata nel tempo, a far ritenere, delle distinte serie, la natura di due autonomi reati di maltrattamenti in famiglia, eventualmente uniti dal vincolo della continuazione nella sussistenza del medesimo disegno criminoso (in termini, al fine di scrutinare l'applicabilità al reato dell'istituto della prescrizione, Sez. 6, n. 2359 del 09/12/1969, dep. 1970, Fl. e, ancora, sulla struttura in genere del reato, Sez. 6, n. 4636 del 28/02/1995, Ca.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.56939, che si occupa di una fattispecie in cui l’imputato è stato fermato all’estero alla guida di un’automobile rubata e con documenti falsi, dichiarando nel caso di specie la giurisdizione del giudice italiano sul reato di riciclaggio ex art.6 del codice penale. La Corte rammenta avere la propria giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente precisato che, in presenza di più condotte consumative del reato di riciclaggio, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere (Sez. 2, n. 29869 del 23/06/2016, Re e altri; n. 29611 del 27/04/2016, P.M. in proc. Bokossa e altro; n. 52645 del 20/11/2014, Montalbano e altro), nella specie inequivocamente attuata sul territorio dello Stato italiano.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.108, alla cui stregua, nel caso di specie, la Corte territoriale -dopo aver dato conto delle condotte poste in essere dall'imputato nei confronti della vittima - ha esposto le ragioni per le quali tali condotte sono da ricondursi al reato di stalking in contestazione. In particolare, prosegue la Corte, la sentenza impugnata - ritenuta la ricostruzione degli avvenimenti effettuata dalla vittima pienamente attendibile - ha posto in evidenza con assoluta chiarezza il crescendo dei comportamenti invasivi della libertà personale e della sfera personale della persona offesa da parte dell'imputato, comportamenti via via sempre più ossessivi, tradottisi in appostamenti, pedinamenti, avvicinamenti anche fisici, apprezzamenti ecc.; tali condotte hanno determinato nella vittima uno stato di timore e di ansia, costringendola a modificare i proprio comportamenti. In tale contesto correttamente per la Corte i giudici d'appello: hanno ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 612 bis c.p., avendo l'imputato posto in essere una pluralità di condotte moleste - tali dovendo ritenersi gli appostamenti, gli avvicinamenti ecc. contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato - nonché reiterate, che hanno prodotto l'evento del reato in questione dello stato d'ansia con modificazione delle abitudini di vita della vittima (segnatamente cambio dell'orario di gioco al parco con i propri figli); hanno altresì ritenuto non configurabile nella fattispecie il reato 660 c.p., non avendo l'imputato recato semplice disturbo alla persona offesa, ma avendo il predetto causato intensi stati d'ansia e di timore alla donna, nonché avendo costretto la predetta a modificare le sue abitudini di vita e quelle dei suoi figli. Sul punto la Corte richiama i principi da essa affermati secondo cui, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.) non si richiede l'accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5, n. 18646 del 17/02/2017). Per quanto concerne, poi, il breve arco temporale nel quale le condotte sono state poste in essere, la Corte ha più volte evidenziato come sia configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto (anche nell'arco di una sola giornata), a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 38306 del 13/06/2016).</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3356, in tema di maltrattamenti in famiglia. Secondo la Corte, la dizione "<em>una persona della famiglia o comunque convivente</em>" che compare nel testo della norma di cui all’art.572 c.p. ha la funzione di includere altre forme di unioni familiari quali le convivenze di fatto, o altre unioni o comunità a prescindere dai rapporti di coniugio e non legate da vincolo giuridico. Da tempo – rammenta la Corte - la giurisprudenza (Sez. 6, sentenza n. 31121 del 18/3/2014) ha chiarito che la norma di cui all’art. 572 cod. pen. non riguarda solo i nuclei familiari costruiti sul matrimonio, ma qualunque relazione stabile che, per la consuetudine e la qualità dei rapporti creati all’interno di un gruppo di persone, implichi l’insorgenza, per un apprezzabile periodo di tempo, di vincoli affettivi, solidarietà, protezione reciproca e aspettative di mutua assistenza, assimilabili a quelli tradizionalmente propri del gruppo familiare, oggetto della tutela penale. È, infatti, in contesti del genere che sorge la primaria esigenza di tutela assicurata dalla norma incriminatrice, cioè quella di evitare che dai vincoli familiari nascano minorate capacità di difesa a fronte di sistematici atteggiamenti prevaricatori assunti da un componente del gruppo: evitare cioè che la relazione costituisca al tempo stesso l’occasione e la "<em>vittima</em>" di assetti patologici nei rapporti interpersonali più stretti. La fattispecie dell’art. 572 cod. pen. – prosegue la Corte - non esige affatto il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione, e neppure una continuità di convivenza, intesa quale coabitazione. È necessario piuttosto, ed unicamente, che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà. La Corte rammenta di avere già avuto modo di affermare che il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di una persona legata all’autore della condotta da una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della di lei abitazione, trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Sez. 5, sentenza n. 24688 del 17/03/2010). È poi opportuno rammentare – chiosa ancora la Corte - che con l’art. 4 comma 1 lett. d) della legge n.172 dell’1/10/2012 (di ratifica della Convenzione di Lanzarote del 25/10/2007) è stato modificato il testo dell’art. 572 cod. pen., mai mutato rispetto a quello originario del codice Rocco del 1930, a cominciare dalla terminologia della rubrica che non è più "<em>maltrattamenti in famiglia</em>" bensì "<em>maltrattamenti contro familiari o conviventi</em>" (oltre che avere apportato un incremento del trattamento sanzionatorio). La condotta incriminata riguarda il maltrattamento di "<em>una persona della famiglia o comunque convivente o sottoposta all’autorità o affidata all’autore del fatto di reato</em>". La nuova formulazione della norma ricomprende, tra le persone offese, le persone della famiglia e le persone comunque conviventi con il maltrattante, con ciò mostrando la fattispecie di tutelare anche le nuove forme di "<em>famiglie di fatto</em>" che altrimenti sarebbero prive di tutela penale in ossequio al principio di tassatività. La giurisprudenza della Corte era peraltro giunta ad estendere, in via di interpretazione, la tutela fornita dall’art. 572 cod. pen. non solo al convivente bensì anche ai membri di una relazione sentimentale legati da <em>affectio</em> personale, così come aveva esteso la tutela anche nei confronti di soggetti legati da vincolo giuridico per quanto non più conviventi come i coniugi separati. Tali orientamenti giurisprudenziali, estesi in via interpretativa, trovano oggi – afferma la Corte - codificazione nel testo novellato dell’art. 572 cod. pen. come sopra esposto. A completamento dell’iter giurisprudenziale sopra rappresentato e come espressione dello stesso orientamento si pone la recente pronuncia della Corte (Sez. 6, sentenza n.25498 del 20/4/2017) secondo la quale, in assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi è configurabile nei confronti di persona non più convivente "<em>more uxorio</em>" con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione: la permanenza del complesso di obblighi verso la prole implica il permanere in capo ai genitori che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e rispetto reciproco. Il Collegio condivide allora l’orientamento secondo cui è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014; Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015). Del pari, il Collegio ritiene che il reato persista anche in caso di separazione legale tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie in questione, la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente (Sez. 2, sentenza n. 39331 del 5/07/2016). In coerenza con tali indicazioni ermeneutiche, il Collegio ritiene che il consorzio familiare, inteso come nucleo di persone legate da relazioni di reciproco rispetto ed assistenza, sopravviva alla cessazione della convivenza e, financo, alla separazione. Tale interpretazione – chiosa ancora la Corte - resiste alla novella che ha interessato l’art. 612 bis. cod. pen. che, nel prevedere una forma aggravata del reato di atti persecutori ove questi siano rivolti nei confronti del coniuge separato, genera un concorso apparente di norme con il reato previsto dall’art. 572 cod. pen. ogni volta che, come nel caso di specie, gli atti di maltrattamento siano rivolti nei confronti del coniuge separato; conflitto da risolversi facendo ricorso al principio di specialità espressamente richiamato dalla clausola di sussidiarietà contenuta nell’incipit dell’art. 612 bis cod. pen. Nel caso di specie, la Corte territoriale in coerenza con tali indicazioni ha legittimamente ritenuto configurato il reato di maltrattamenti in famiglia anche in presenza della separazione e delle cessazione della convivenza. Di recente la Corte (Sez.5, sentenza n.41665 del 4.5.2016), riprendendo un principio di diritto già affermato (Sez.6 n.24575 del 24/11/2011, Frasca) ha ribadito che il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis cod. pen. rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie, mentre si configura l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare ovvero determinati dalla relativa esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della relativa attualità temporale. Si configura il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in costanza di una separazione legale o di fatto per la perdurante sussistenza di un vincolo familiare derivante dalla necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale dei figli minori e di osservare l’obbligo di reciproco rispetto, che incombe sui coniugi non conviventi (nel medesimo senso, Sez. 6 n. 33882 dell’8/7/2014).</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.3271, alla cui stregua integra il delitto di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.), la condotta di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, non richiedendosi, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente ad una sola persona, quando questi ultimi, arrecando offesa a diverse persone di genere femminile abitanti nello stesso edificio, provocano turbamento a tutte le altre. (Sez. 5, n. 20895 del 07/04/2011 - dep. 25/05/2011, A.,). Occorre ovviamente, per la Corte, che siano realizzati tutti elementi, di natura oggettiva e soggettiva, tipici della fattispecie criminosa in questione, nei confronti di ciascuna delle persone offese dal reato; con ciò si vuole fare riferimento alla reiterazione di condotte, costituenti minaccia o molestie, etiologicamente connesse alla determinazione, nel soggettivo passivo del reato, di un perdurante e grave stato d’ansia o di paura ovvero di un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata affettivamente ovvero di una costrizione a modificare le proprie abitudini di vita. Ovviamente, chiosa ancora la Corte, trattasi di condotte necessariamente sorrette dall’elemento soggettivo, tipico della fattispecie contestata, che, nel delitto di atti persecutori, è integrato dal dolo generico, consistente nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia con la consapevolezza dell’idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; trattandosi di reato abituale di evento, il dolo generico, richiesto dalla norma, dev’essere unitario e indicativo di un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014 - dep. 08/05/2014, C e altro). Tali assunti comportano necessariamente l’individuazione precisa dei soggetti passivi del reato e la verifica delle condizioni di sussistenza del reato di stalking per ciascuno di loro; ciò in considerazione del fatto che, in assenza di tali presupposti, si verterebbe nel campo di operatività, così come sostenuto dalla parte ricorrente nel caso di specie, di altre disposizioni penali, quale, per l’appunto, il reato di molestia, realizzabile anche con l’invio di missive anonime al diretto interessato o ad altri. In quest’ottica è bene per la Corte distinguere le due fattispecie, essendo il reato di molestia o disturbo alle persone, costituito dalla contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen., diretto a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità, attuato mediante l’offesa alla quiete privata, fattispecie distinta, autonoma e, in ipotesi, concorrente rispetto al reato di atti persecutori, di cui all’art. 612 bis, cod. pen., stante la diversità dei beni giuridici tutelati (Sez. 1, n. 19924 del 04/04/2014 - dep. 14/05/2014, Napolitano). Per l’inverso, il delitto di atti persecutori è reato abituale, che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di "<em>danno</em>", consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di "<em>pericolo</em>", consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015 - dep. 03/03/2015, P.C. in proc.G.), elemento del tutto assente nella prospettazione della contravvenzione, di cui all’art. 660 cod. pen.. Proprio tali differenziazioni e tali diversità confermano ulteriormente l’esigenza di una verifica, da effettuarsi su piano individuale, inerente a ciascuna delle posizioni della pluralità dei soggetti passivi del reato, dovendosi, all’evidenza, escludere una generalizzazione, indeterminata, all’indirizzo di una comunità non meglio specificata nelle connotazioni singolari.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.6064, alla cui stregua la sentenza impugnata, nel caso di specie, offre corretta applicazione dei principi interpretativi elaborati dalla giurisprudenza della Corte e secondo i quali il reato di molestia o disturbo alle persone, secondo consolidato insegnamento giurisprudenziale, non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché può essere realizzato anche con una sola azione (Cass., Sez. 1, n. 29933 dell'08/07/2010, Arena), purché particolarmente sintomatica dei requisiti della fattispecie tipizzata. L'atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma dev'essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole, motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri. In particolare, chiosa ancora la Corte, si è affermato che, per integrare il delitto di molestie, commesso per petulanza, è richiesto un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, con la conseguenza che la pluralità di azioni di disturbo integra l'elemento materiale costitutivo del reato (Cass. sez. 1, n. 6908 del 24/11/2011, Zigrino; n. 29933 del 08/07/2010, Arena). La Corte aggiunge che, in ossequio al principio sopra esposto, nel caso di specie non è configurabile l'ipotesi del reato continuato, la pluralità di azioni disturbanti integrando piuttosto il carattere tipico dell'abitualità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 10424, che si occupa della questione di diritto se, in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti, l'importo complessivo superiore ad euro 10.000 annui, rilevante ai fini del raggiungimento della soglia di punibilità, debba essere individuato con riferimento alle mensilità di pagamento delle retribuzioni, ovvero a quelle di scadenza del relativo versamento contributivo. Per una esaustivo inquadramento della problematica sottoposta, appare utile alla Corte prendere le mosse da una - sia pur sintetica - ricognizione dell'assetto normativo pertinente. L'art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, nella relativa attuale formulazione, conseguente alle modifiche apportate dall'art. 3, comma 6, d.lgs. 5 gennaio 2016, n. 8, stabilisce che l'omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032, mentre, se l'importo è inferiore, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Il datore di lavoro non è tuttavia passibile di sanzione penale, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione. L'art. 8 d.lgs. n. 8 del 2016 stabilisce l'applicazione delle disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto (6 febbraio 2016), sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili, nel qual caso il giudice dell'esecuzione provvede alla revoca della sentenza o del decreto penale. Il successivo articolo 9 disciplina le modalità di trasmissione all'autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data. Prima dell'intervento modificativo, chiosa la Corte, l'omesso versamento era penalmente sanzionato senza alcuna considerazione degli importi. Non era dunque contemplata la c.d. soglia di punibilità. Per tale ragione, il reato veniva qualificato dalla giurisprudenza della Corte come omissivo istantaneo, rispetto al quale il momento consumativo coincideva con la scadenza del termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, fissato dall'art. 18, comma 1, d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, come modificato dall'art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 19 novembre 1998, n. 422, al giorno 16 del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi (Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, Bongiorno; Sez. 3, n. 10974 del 21/02/2012, Norelli; Sez. 3, n. 615 del 14/12/2010, dep. 2011, Ciampi; Sez. 3, n. 20251 del 16/04/2009, Casciaro; Sez. 3, n. 29275 del 25/06/2003, Braiuca). La natura del reato così individuata dalla menzionata giurisprudenza determinava, quale conseguenza, che ad ogni mensilità per la quale si verificava l'omissione del versamento dei contributi corrispondesse un singolo reato, con significativi effetti anche rispetto al calcolo dei termini di prescrizione. Avuto quindi riguardo ad ogni mensilità, detti termini andavano calcolati, per ciascun reato, secondo un uniforme orientamento giurisprudenziale, partendo dal giorno 16 del mese successivo a quello al quale si riferivano i contributi, computando anche l'ulteriore termine di sospensione di cui all'articolo 2, comma 1-quater, del decreto-legge n. 463 del 1983, il quale stabilisce che, durante il termine di cui al comma 1-bis (tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione, concessi al datore di lavoro per provvedere al versamento e beneficiare della causa di non punibilità), il corso della prescrizione rimane sospeso. Tanto chiarito per quel che riguarda la giurisprudenza di legittimità sotto la vigenza della precedente normativa, la Corte passa ad analizzare gli orientamenti messi a punto dopo la modifica legislativa del 2016. Della diversa situazione determinata dalle modifiche normative ha invero subito preso atto la giurisprudenza (Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016, Lanzoni; Sez. 3, n. 35589 del 11/05/2016, Di Cataldo), traendone le necessarie conseguenze: in particolare, nella sentenza Lanzoni si è precisato che, nello stabilire la soglia di punibilità, il legislatore ne ha configurato il superamento, collegato al periodo temporale dell'anno, quale specifico elemento caratterizzante il disvalore di offensività, che consente anche di individuare il momento consumativo del reato, da ritenere perfezionato nel momento e nel mese in cui l'importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell'anno considerato, abbia superato i 10.000 euro, escludendo peraltro, proprio in ragione della connessione con il dato temporale dell'anno, che eventuali successive omissioni nell'arco del medesimo periodo e fino al mese finale di dicembre possano dare luogo ad ulteriori reati. Richiamando, dunque, analoghe situazioni configurabili in relazione ad altre ipotesi delittuose (segnatamente, la corruzione e l'usura), la sentenza individua una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno rappresentano momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell'ultima mensilità, indicata nel giorno 16 del mese di gennaio dell'anno successivo. Nella individuazione del momento consumativo del reato, secondo la nuova configurazione, la sentenza Lanzoni prospetta diverse ipotesi di superamento della soglia di punibilità, la prima delle quali caratterizzata dallo sforamento di detta soglia, a partire dal mese di gennaio, senza che facciano seguito altre omissioni; la seconda da più omissioni ricorrenti nel medesimo anno e la terza riferita all'intero arco temporale annuale, tenendo però conto del fatto che, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, va considerata la data del 16 gennaio dell'anno successivo. Negli stessi termini si esprime la coeva sentenza Di Cataldo, che qualifica il reato come avente struttura unitaria, rispetto alla quale la condotta omissiva può configurarsi anche attraverso una pluralità (eventuale) di omissioni, che possono di per sé anche non costituire reato, con la conseguenza che la consumazione può essere, secondo i casi, tanto istantanea quanto di durata e, in quest'ultimo caso, ad effetto prolungato, sebbene nel solco del periodo annuale di riferimento, sino al termine del quale può realizzarsi o protrarsi il momento consumativo del reato. Successive pronunce – chiosa ancora la Corte - hanno aderito alla soluzione interpretativa offerta dalle sentenze Lanzoni e Di Cataldo, riproducendo, talvolta testualmente, i contenuti della prima (<em>ex plurimis</em>, Sez. 3, n. 55762 del 21/09/2017, Di Sipio; Sez. F, n. 39882 del 29/08/2017, Tumino; Sez. 3, n. 47902 del 18/07/2017, Abrate; Sez. 3, n. 41621 del 07/07/2017, Rizzo; Sez. 3, n. 14475 del 07/12/2016, dep. 2017, Mauro; Sez. 7, n. 6545 del 04/11/2016, dep. 2017, Adamo; Sez. 3, n. 649 del 20/10/2016, dep. 2017, Messina; Sez. 3, n. 42070 del 05/07/2016, Ruggeri). Altre sentenze fanno, invece, espresso riferimento all'anno "<em>solare</em>" (Sez. 3, n. 28046 del 29/11/2016, Lazzeri; Sez. 3, n. 20217 del 26/10/2016, Pelli; Sez. 3, n. 14211 del 31/05/2016, Lorusso; Sez. 3, n. 14206 del 31/05/2016, Vona; Sez. 3, n. 52858 del 22/03/2016, Giosuè; Sez. 3, n. 46896 del 09/03/2016, Verratti; Sez. 3, n. 41457 del 25/02/2016, Bordon; Sez. 3, n. 53722 del 23/02/2016, Guastelluccia), precisando, in un caso, che, utilizzando il termine "annui", il legislatore ha voluto riferirsi all'anno solare globalmente inteso ed alle singole omissioni di versamento commesse in quello stesso anno (Sez. 3, n. 53722 del 23/02/2016, Guastelluccia) e, in altra pronuncia, rimasta tuttavia isolata, applicando la prescrizione considerando quali singoli delitti le condotte di omesso versamento riferite ad ogni mensilità dell'anno. Va peraltro rilevato che, dal tenore delle richiamate decisioni, il richiamo all'anno "<em>solare</em>" è chiaramente riferito non ad un periodo di 365 giorni, bensì a quello compreso tra il 1 gennaio ed il 31 dicembre, quindi all'anno "<em>civile</em>" (come - più correttamente - avrebbe dovuto essere indicato). Altre pronunce infine, rammenta ancora la Corte, nel considerare la soglia di punibilità, richiamano l'anno senza ulteriori specificazioni (Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016, Ratti; Sez. 3, n. 6545 del 04/11/2016, Adamo; Sez. 3, n. 14210 del 31/05/2016, Ramunno). Le ricordate decisioni, inoltre, sono concordi nel ritenere che, ai fini del calcolo del superamento della soglia di punibilità, non rileva la prescrizione, eventualmente già dichiarata, delle omissioni mensili relative all'annualità in contestazione, in considerazione del fatto che la soglia è attualmente riferita al periodo annuale ed è perciò indipendente da fatti estintivi diversi da quello, invece rilevante, del pagamento. Inoltre, riguardo ai fatti pregressi, il problema della individuazione della norma più favorevole è stato risolto, dalla citata sentenza Lanzoni, nel senso che, in caso di mancato superamento della soglia di punibilità, va applicata la nuova previsione normativa in base all'art. 2, comma 4, cod. pen., mentre, se la soglia è superata, l'individuazione delle disposizioni più favorevoli impone il confronto tra vecchia e nuova disciplina, con particolare riferimento al momento consumativo determinante al fine di individuare la decorrenza del termine di prescrizione, tenendo conto, in entrambe le fattispecie, del periodo di sospensione di tre mesi di cui all'art. 2, comma 1-quater, del decreto-legge n. 463 del 1983, non interessato dagli interventi modificativi (nello stesso senso, Sez. 3, n. 30201 del 10/05/2017, Boselli; Sez. 3, n. 42070 del 05/07/2016, Ruggeri; Sez. 3, n. 14206 del 31/05/2016, Adamo; Sez. 3, n. 14210 del 31/05/2016, Ramunno). La questione del computo delle mensilità ai fini del superamento della soglia di punibilità, che le decisioni in precedenza ricordate hanno esaminato in via incidentale, è stata presa in esame in maniera specifica in altra sentenza (Sez. 3, n. 22140 del 11/01/2017, Mor), nella quale – rammenta la Corte - si assume che l'anno di riferimento è quello nel quale il debito è sorto, secondo un principio di competenza e non di cassa, dovendosi aver riguardo alla entità complessiva delle omissioni, tenendo conto del momento in cui le relative obbligazioni, poi rimaste inadempiute, sono sorte e prescindendo dal termine di scadenza per il versamento, che rileva solamente ai fini della individuazione del momento consumativo del reato. Alla sentenza Mor si è successivamente adeguata altra decisione (Sez. 3, n. 56432 del 18/07/2017, Franzini), che, richiamandone i contenuti, unitamente a quelli delle sentenze Lanzoni e Di Cataldo, si riferisce espressamente all'anno solare (evidentemente inteso, come negli altri casi ricordati in precedenza, come anno civile); essa, dovendo considerare un'omissione contributiva relativa al periodo compreso tra il dicembre 2011 e l'ottobre 2012, per un ammontare complessivo pari a 32.098 euro, ai fini del computo degli importi per il superamento della soglia di punibilità, ha escluso il mese di dicembre, disponendo, in relazione a quella mensilità, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata «<em>perché il fatto non è previsto dalla legge come reato</em>» ed ordinando la trasmissione degli atti all'INPS, ai sensi dell'art. 9 d.lgs. n. 8 del 2016. Alla luce della richiamata giurisprudenza, risulta alla Corte evidente la rilevanza della questione prospettata, poiché dalla individuazione del criterio di imputazione temporale derivano conseguenze diverse, che determinano l'inclusione o l'esclusione di determinate mensilità nel computo dell'anno di interesse per il superamento della soglia di punibilità. Invero, prosegue la Corte, dal complessivo esame delle decisioni esaminate risulta pressoché unanime, sebbene talvolta solo implicitamente espresso, il richiamo alle modalità di individuazione dell'arco temporale dell'anno rilevante per l'accertamento dell'eventuale superamento della soglia di punibilità, con riferimento alle mensilità di erogazione della retribuzione. Tale scelta interpretativa, come ricordato in premessa, non risulta tuttavia coincidente con quella recepita dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali (con le note n. 6995 del 6 aprile 2016 e n. 9099 del 3 maggio 2016) e dall'Istituto previdenziale (circolare n. 121 del 5 luglio 2016) e sulla base della quale quest'ultimo ha emanato proprie disposizioni, riorganizzando i processi amministrativi di gestione e commissionando appositi programmi informatici, computando, ai fini del calcolo della soglia di punibilità dei 10.000 euro annui, come specificato nella comunicazione diretta alla Corte, il periodo compreso tra il mese di dicembre dell'annualità considerata - con versamento da effettuare entro il 16 gennaio successivo - ed il mese di novembre della stessa annualità, con versamento entro il successivo 16 dicembre, sebbene, in seguito, l'Ispettorato Nazionale del Lavoro (con nota del 25 settembre 2017, diretta agli ispettorati interregionali e territoriali), modificando le precedenti indicazioni operative, abbia tenuto conto di quanto evidenziato nel frattempo dalla giurisprudenza di legittimità. È appena il caso di rilevare riguardo ai contenuti delle disposizioni impartite dai soggetti appena indicati, e, segnatamente, per ciò che concerne la Circolare n. 121 del 5 luglio 2016 (allegata alla richiamata comunicazione), il carattere assolutamente non vincolante degli stessi, trattandosi di atti interni con finalità di mero ausilio interpretativo (si vedano, sul tema, con riferimento alla materia tributaria, Sezioni Unite civili, n. 23031 del 02/11/2007 e, alla disciplina urbanistica, Sez. 3, n. 42675 del 18/02/2015, De Simone; Sez. 3, n. 25170 del 13/06/2012, La Mura; Sez. 3, n. 6619 del 07/02/2012, Zampano; Sez. 3, n. 36093 del 03/06/2004, Salerno). Tuttavia, precisa la Corte, l'obiettiva incertezza determinata dal mutato assetto normativo richiede una ulteriore valutazione della questione, specificamente affrontata, come si è detto, soltanto con la sentenza Mor. Ciò posto, deve osservarsi per le SSUU che la formulazione della norma, a causa del generico riferimento all'importo «<em>superiore a euro 10.000 annui</em>», rende del tutto plausibile, in astratto, il ricorso ad entrambe le soluzioni interpretative prospettate. Nondimeno, l'art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, così come la legge-delega n. 67 del 2014, si riferiscono, menzionando la soglia di punibilità dei 10.000 euro annui, alle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e, cioè, a quelle somme che il datore di lavoro trattiene per versarle all'INPS in loro vece e delle quali non può disporre, in quanto di pertinenza dei dipendenti, prima, e dell'Istituto previdenziale, poi. Significativa, a tale proposito, è la natura dei contributi come individuata dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 27641 del 28/05/2003, Silvestri): è stato infatti chiarito che l'intenzione del legislatore è sostanzialmente quella di reprimere, non tanto il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, quanto, piuttosto, il più grave fatto commissivo dell'indebita appropriazione, da parte del datore di lavoro, di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti, con la conseguenza che l'obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate, non rilevando, peraltro, le vicende finanziarie dell'azienda (Sez. 3, n. 26712 del 14/04/2015, Vismara; Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013, dep. 2014, Assirelli; Sez. 3, n. 29616 del 14/06/2011, Vescovi; Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007, Tafuro). Vanno poi considerati per la Corte altri aspetti di un certo rilievo, quali, ad esempio, le modalità di inoltro, per via telematica, delle denunce mensili contenenti i dati retributivi e le informazioni utili al calcolo dei contributi, attualmente effettuata utilizzando il sistema UNIEMENS, che ha progressivamente sostituito le modalità di invio delle informazioni precedentemente contenute nei modelli DM10. La procedura prevede un controllo di congruità delle dichiarazioni, con possibilità di correzione o rettifica, ricorso a successivi processi di regolarizzazione ed ulteriori attività di verifica che possono dar luogo ad eventuali variazioni contributive, sia a credito che a debito. Ne consegue che anche sulla base di tali adempimenti può compiutamente definirsi l'ammontare del debito contributivo, attraverso un sistema, per così dire, fluido, che in alcuni casi consente l'esatta individuazione degli importi dovuti solo all'esito di determinati calcoli. Dunque, se è vero, come si sostiene nella sentenza Mor, che il debito previdenziale sorge a seguito della corresponsione delle retribuzioni, al termine di ogni mensilità, è altrettanto vero che la condotta del mancato versamento assume rilievo solo con lo spirare del termine di scadenza indicato dalla legge, sicché appare più coerente riferirsi, riguardo alla soglia di punibilità, alla somma degli importi non versati alle date di scadenza comprese nell'anno e che vanno, quindi, dal 16 gennaio (per le retribuzioni del precedente mese dicembre) al 16 dicembre (per le retribuzioni corrisposte nel mese di novembre). Tale ultima soluzione, peraltro, appare alla Corte maggiormente in linea con il contenuto letterale della norma in esame e con le finalità della stessa e consente al datore di lavoro una più agevole individuazione delle eventuali conseguenze penali della propria condotta. Deve, pertanto, enunciarsi per le SSUU il seguente principio di diritto: in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti, l'importo complessivo superiore ad euro 10.000 annui, rilevante ai fini del raggiungimento della soglia di punibilità, deve essere individuato con riferimento alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi (periodo 16 gennaio-16 dicembre, relativo alle retribuzioni corrisposte, rispettivamente, nel dicembre dell'anno precedente e nel novembre dell'anno in corso). Alla luce della soluzione adottata, resta ferma l'individuazione del momento consumativo del reato nei termini già efficacemente indicati dalla sentenza Lanzoni con le modalità in precedenza descritte, tenendo quindi conto della natura della violazione quale reato unitario a consumazione prolungata, sebbene, in caso di superamento della soglia dei 10.000 euro, il termine di prescrizione andrà calcolato con riferimento al periodo appena indicato. Va inoltre considerata, per i fatti pregressi, la necessità di individuare la norma più favorevole in concreto tra vecchia e nuova disciplina, tenendo conto delle differenze in precedenza specificate.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 marzo esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.11889, che rimette alle SSUU una serie di questioni relative alla disciplina dell’immigrazione di cui <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=A%3d7YMZA%26F%3dGg%26t%3dVKaCZ%265%3dY7YIcD%26O%3dxRzJ_8yYt_I9_xuix_80_8yYt_HD3QC.BoLyRzIuEoO9RoTy9.oN_8yYt_HDt9CQ_xuix_80Gc_xuix_80PhFdPfDXGf_xuix_80YKsCwPgTyMt9_sJgHtCyNyLg_JuP_jC9RoHwSkLu_Pk50M_h59C_j5_sGx75Qz54Xk_5wEx5B9tNy_Lk7uQy58Gu_O4_AnCqPoGuLzI_t9rFu_1kTyMtC_kLoNu.FzG2_PWwf_alO0K_yIAPi9_8yYt_IBJ9W_LkQ9JkN0Cx_Lg1V_VLSzG9g5q_3CjCAK_xuix_98uKgC2_PWwf_ZBO0K_i53NgCwL_xuix_98TCM%268%3d%26yQ%3d9YNgC">al comma 3 dell'art. 12 d.lgs. n. 268/98, chiedendosi in particolare se ci si trovi dinanzi a circostanze aggravanti del delitto di cui al comma 1 (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) oppure a figure autonome di reato e, in questa seconda ipotesi, se integrano un reato di pericolo o a consumazione anticipata che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l'ingresso dello straniero nel territorio dello stato o richiedono l'effettivo ingresso illegale dell'immigrato</a>.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.18175, sul tema ancora una volta dei maltrattamenti in famiglia. Il Collegio rappresenta come – a differenza del giudice di primo grado, che aveva ritenuto le due denunce sporte dalla persona offesa indicative di due episodi di maltrattamenti distinti ed in continuazione tra loro, con conseguente applicazione del criterio previsto dall’art. 16, comma 1, cod. proc. pen. ai fini della competenza territoriale, la Corte di appello ha ritenuto erronea la valutazione in ragione della natura abituale del reato di maltrattamenti, caratterizzato da una serie di condotte verificatesi in un apprezzabile lasso di tempo, che isolatamente considerate potrebbero anche essere non punibili o non perseguibili, ma che acquistano rilevanza penale per effetto della reiterazione nel tempo, cosicché le condotte devono essere considerate unitariamente e non sono scindibili né frazionabili in relazione al mutamento del luogo e al diverso contesto temporale in cui vengono poste in essere: pertanto, ha ritenuto applicabile la disciplina prevista per il reato permanente. Pur muovendo da una premessa esatta, la Corte di appello per il Collegio è tuttavia pervenuta ad un’errata conclusione, in quanto, se è vero che l’antigiuridicità delle condotte nel reato di maltrattamenti è correlata alla reiterazione di più atti lesivi dell’integrità fisica e morale della vittima ovvero da una serie di atti lesivi, in cui ogni singola azione è elemento della serie, al realizzarsi della quale si perfeziona il reato, ne discende che la struttura del reato è perdurante e continuativa, in quanto ogni azione si salda alla precedente, dando vita ad un reato unitario, definito "<em>reato di durata</em>", che mutua la disciplina della prescrizione dai reati permanenti, ma che si perfeziona con il compimento dell’ultimo atto della serie. La Corte rammenta di avere già avuto modo di affermare che è erronea l’equiparazione tra reato abituale e reato permanente al fine di individuare il luogo di consumazione del reato e quindi, il giudice competente, in quanto nel reato permanente l’azione è unica ed assume autonoma valenza antigiuridica fin dal primo atto della relativa esecuzione, e protraendosi nel tempo, assume la qualità di condotta permanente, mentre nel reato abituale si è in presenza di singole condotte, da sole non idonee ad integrare quel determinato reato, che perdono la loro individualità come percosse, minacce, o quali condotte non rilevanti penalmente, per assumere la diversa configurazione giuridica per effetto della reiterazione. In tal caso – prosegue la Corte - è del tutto irrilevante giuridicamente individuare il momento iniziale della consumazione, in relazione ad una condotta di cui non può prevedersi l’inquadramento futuro, o improcedibile per mancanza di una condizione di punibilità, ma che assume rilevanza penale nella considerazione del comportamento complessivo. In tale ipotesi, il luogo del commesso reato ai fini della determinazione della competenza è quello in cui l’azione diviene complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento, e si identifica nel luogo in cui la condotta viene consumata all’atto della presentazione della denuncia (Sez. 6, n. 52900 del 04/11/2016; n. 43221 del 25/09/2013).</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.18833 in tema di “<em>violenza assistita</em>” dei minori in ambito di maltrattamenti, e dunque di minori maltrattati perché “<em>assistono</em>” ad atti di violenza perpetrati su soggetti diversi da loro (sovente, uno dei genitori). In linea generale, per la Corte mette conto di rilevare come il reato di maltrattamenti sia un reato contro la famiglia (precisamente contro l’assistenza familiare) e come il relativo oggetto giuridico sia costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica (<em>ex plurimis</em> Sez. 6 del 24/11/2011 n. 24575). In ossequio alla <em>ratio</em> ed al bene giuridico protetto, il raggio di copertura dell’incriminazione non può, pertanto, non estendersi a comprendere tutti i soggetti che facciano parte della sfera familiare e che possano subire un pregiudizio alla propria integrità psico-fisica a cagione dei comportamenti aggressivi maturati in detto contesto. D’altra parte, prosegue la Corte, va sottolineato come la norma all’art. 572 cod. pen. sanzioni la condotta di chi "<em>maltratta</em>", espressione verbale all’evidenza ampia (tanto da risultare, ad avviso di taluna dottrina, indeterminata), nell’ambito della quale possono pertanto rientrare non soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla relativa dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali (Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, P), potendo il reato essere difatti integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sé, non costituiscono reato (Sez. 6, n. 13422 del 10/03/2016, O.). Ne discende che la condotta sanzionata dall’art. 572 cod. pen. non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, e può realizzarsi tanto con un’azione, quanto con un’omissione, potendo derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo (Sez. 5 del 22/10/2010 n. 41142; Sez. 6 del 21/12/2009, n. 8592). Occorre rimarcare poi – chiosa ancora la Corte - come l’ampiezza dei confini della materialità del reato sia stata "<em>controbilanciata</em>" in via interpretativa dalla duplice prescrizione che, da un lato, le condotte vessatorie siano state reiterate nel tempo (<em>id est</em> che sussista la c.d. abitualità); dall’altro lato, che l’agire criminoso sia connotato da idoneità offensiva rispetto al bene giuridico tutelato, e cioè che abbia cagionato uno stato di sofferenza psico-fisica nella vittima. Su questa linea, la Corte rammenta di avere affermato che il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da comportamenti vessatori che si protraggano per un lasso di tempo limitato, a condizione che ciò sia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Sez. 6, n. 1999 del 09/12/1992 - dep. 1993, Gelati). Non è dunque necessario un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto perché il reato è caratterizzato da un’unità significante costituita da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo: cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze (Sez. 6, n. 24727 del 27/04/2015, non massimata). Deve dunque per la Corte escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (in motivazione, la Corte ha precisato che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma la propria autonomia di reati contro la persona) (Sez. 6, n. 27/05/2003, Caruso). Sotto diverso aspetto, prosegue la Corte, va notato come, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza civile, i maltrattamenti inflitti da un coniuge all’altro in presenza dei figli possono condurre alla dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, a norma dell’art. 330 cod. civ., per le inevitabili ripercussioni negative sull’equilibrio fisiopsichico della prole e sulla serenità dell’ambiente familiare e poiché, ancora, denotano mancanza di quel minimo di disponibilità affettiva e pedagogica richiesto in chi esercita la potestà parentale. Va, infine, rammentato come il reato di maltrattamenti richieda non un dolo intenzionale - inteso quale perseguimento dell’evento (sofferenza della vittima) come scopo finale dell’azione -, ma soltanto il dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (Sez. 6, n. 15680 del 28/03/2012, F.). Tanto premesso quanto agli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del reato di cui all’art. 572 cod. pen., non è revocabile in dubbio per la Corte che il delitto di maltrattamenti possa essere configurato anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano (solo) indirettamente quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri fra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche, cioè allorquando essi siano vittime di c.d. violenza assistita. La condotta di chi costringa il minore, suo malgrado, a presenziare - quale mero testimone - alle manifestazioni di violenza, fisica o morale, è certamente suscettibile di realizzare un’offesa al bene tutelato dalla norma (la famiglia), potendo comportare gravi ripercussioni negative nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata. D’altronde, prosegue la Corte, costituisce approdo ormai consolidato della scienza psicologica che anche bambini molto piccoli, persino i feti ancora nel grembo materno, siano in grado di percepire quanto avvenga nell’ambiente in cui si sviluppano e, dunque, di comprendere e di assorbire gli avvenimenti violenti che ivi si svolgano, in particolare le violenze subite dalla madre, con ferite psicologiche indelebili ed inevitabili riverberi negativi per lo sviluppo della loro personalità. Ritiene, nondimeno, il Collegio che il delitto di maltrattamenti scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perché fondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell’agente e la vittima - essendo l’azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocità delle offese fra i genitori - postula una prova rigorosa che l’agire - in ipotesi - illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall’incriminazione, <em>id est</em> abbia cagionato secondo un rapporto di causa-effetto - uno stato di sofferenza di natura psicofisica nei minori spettatori passivi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 21948 in tema di pubblicazione su sito web di istruzioni per creare ordigni esplosivi. L'art. 2-bis della legge 2 ottobre 1967, n. 895, introdotto dall'art. 8, comma 5, D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2005, n. 155 (intitolato "<em>Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale</em>"), punisce – rammenta la Corte - chiunque, fuori dei casi consentiti da disposizioni di legge o di regolamento e salvo che il fatto costituisca più grave reato, "<em>fornisce istruzioni in qualsiasi forma, anche anonima, o per via telematica sulla preparazione o sull'uso di materiali esplosivi, di armi da guerra, di aggressivi chimici o di sostanze batteriologiche nocive o pericolose e di altri congegni micidiali</em>". Tale ipotesi di reato, secondo quanto precisato nella relazione alla legge di conversione del menzionata decreto legge, era stata introdotta allo scopo di calibrare "<em>la fattispecie e la relativa sanzione con il disposto degli articoli 1, 2 e 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, riguardante le armi da guerra, quelle chimiche e batteriologiche e gli altri congegni micidiali</em>". Dalla lettura combinata della disposizione prevista dall'art. 2-bis I. 895 del 1967 e di quelle di cui agli artt. 1 della I. 895/1967 (che punisce colui il quale fabbrica, introduce nello Stato o pone in vendita o cede a qualsiasi titolo armi da guerra o tipo guerra o parti di esse senza licenza dell'autorità) e 1 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (secondo cui l'autorità di pubblica sicurezza, alla quale spetta, ai sensi dell'art. 28 dello stesso decreto, il rilascio della licenza, veglia al mantenimento dell'ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà), si evince che la fattispecie in esame è posta a tutela dell'ordine pubblico e, più precisamente, a protezione dell'interesse alla prevenzione dei reati e, in particolare, della vita e della incolumità individuale. Interpretazione confermata – secondo la Corte - dal raffronto con l'art. 695 cod. pen., che disciplina la contravvenzione di "<em>fabbricazione o commercio non autorizzati di armi</em>", che la dottrina pone a tutela del bene giuridico dell'ordine pubblico, inteso nell'accezione indicata. Tale fattispecie realizza, all'evidenza, una anticipazione della tutela penale, punendo non già l'uso di determinati dispositivi ad alto potenziale offensivo, quanto piuttosto la mera divulgazione delle informazioni necessarie per la relativa preparazione, secondo il paradigma tipico dei reati di pericolo. All'interno di tale categoria, come condivisibilmente ritenuto dalla Corte territoriale, rientrano anche talune fattispecie caratterizzate dalla possibilità che pur realizzandosi l'azione tipica <em>uno actu</em>, si verifichi comunque una durevole compromissione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice (cd. reati "<em>eventualmente permanenti</em>"). Nel caso di specie, invero, il reato è stato integrato, appunto, <em>uno actu</em>, attraverso il semplice inserimento, nel sito web allestito dall'imputato, di informazioni finalizzate a consentire, a terzi soggetti, la realizzazione di pericolosi ordigni. Al contempo, tale condotta ha realizzato una prolungata protrazione dell'offesa, tale da consentire di ricondurla ai reati permanenti. In questo modo, peraltro, il <em>dies a quo</em> del termine prescrizionale è stato correttamente individuato, secondo le regole generali, non già nel momento in cui la fattispecie è stata perfezionata (ovvero nel 27/10/2005, data della immissione delle istruzioni sul sito web), quanto piuttosto nell'ultimo momento, successivo alla pubblicazione del dato, in cui si ha conoscenza del fatto che le istruzioni <em>de quibus</em> fossero ancora visibili, ovvero il 31/01/2008.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.27201 in tema di maltrattamenti perpetrati da una maestra e abitualità del reato. Osserva la Corte il ragionamento formulato dal giudice essere nel caso di specie viziato per il fatto che il reato di maltrattamenti configura un’ipotesi di reato abituale e si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti, fermo restando che, attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di maltrattamento compiuta si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; ne deriva che è legittimo l’arresto che avviene il giorno della flagranza della condotta tenuta (Sez. 6, n. 52900 del 04/11/2016). Tanto più – prosegue la Corte - che il reato in contestazione si realizza attraverso la sottoposizione della vittima ad una serie di sofferenze, fisiche e morali, che isolatamente considerate potrebbero anche non costituire reato, in quanto la ratio dell’antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione, protrattasi in un arco di tempo che può anche essere limitato e nella persistenza dell’elemento intenzionale (Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011). Con riguardo al caso di specie, per la Corte il compendio probatorio quale emerge dalle intercettazioni e dalle immagini estrapolate dai filmati versati in atti, delinea un quadro di sistematiche percosse, violenze fisiche e psicologiche, coercizioni e condizionamenti da parte della maestra della scuola materna in danno dei bambini alla medesima affidati, facendo ricorso sistematico alla violenza, assunto quale usuale metodo educativo. Le relative condotte costituiscono risposte certamente sproporzionate rispetto alle cause ed alle finalità perseguite, fotografano l’utilizzo, in funzione educativa, da parte dell’indagata, di metodi di natura fisica, psicologica e morale esorbitanti dai limiti del mero rinforzo della proibizione o del messaggio educativo, in ragione dell’arbitrarietà dei presupposti, dell’eccesso nella misura della risposta correttiva - anche tenuto conto della tenera età delle persone offese - in ragione del frequente ricorso alla violenza fisica. Ritiene allora il Collegio che, contrariamente a quanto deciso dal giudice, tali condotte travalichino i limiti dell’uso dei mezzi di correzione, potendosi ritenere tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tendano cioè alla educazione della persona affidata alla cura dell’insegnante e, quindi, allo sviluppo armonico della personalità, sensibile ai valori della tolleranza e della pacifica convivenza, senza trasmodare nel ricorso sistematico a mezzi violenti che tali fini formativi contraddicono. Come la Corte ricorda di avere già chiarito, l’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da "<em>animus corrigendi</em>", non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti (Sez. 6, n. 36564 del 10/05/2012), affinché possa essere configurato il reato di abuso dei mezzi di correzione in luogo del reato di maltrattamenti, la risposta educativa dell’istituzione scolastica dovendo essere sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell’alunno e, in ogni caso, non potendo mai consistere in trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità del minore (Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017; n. 53425 del 22/10/2014; 14/06/2012, n. 34492; n. 36564 del 10/05/2012). Non costituisce poi un elemento dirimente per far rientrare il sistematico ricorso ad atti di violenza commessi nei confronti di minori nella meno grave previsione di cui all’art. 571 cod. pen. anziché in quella dell’art. 572 cod. pen. (Sez. 3 n. 53425 del 22/10/2014; Sez. 6, n. 45467 del 23/11/2010) l’intenzione soggettivamente educativa del soggetto agente. Ed invero, l’intenzione soggettiva non è idonea a far entrare nell’ambito della fattispecie meno grave dell’art. 571 cod. pen. ciò che oggettivamente ne è escluso, in quanto il nesso tra mezzo e fine di correzione va valutato sul piano oggettivo, con riferimento al contesto culturale ed al complesso normativo fornito dall’ordinamento giuridico e non già dalla intenzione dell’agente; deve pertanto essere escluso che l’uso sistematico della violenza quale ordinario "<em>trattamento</em>" del minore, sia pure sostenuto da "<em>animus corrigendi</em>", possa rientrare nell’alveo dell’art. 571 cod. pen., in considerazione della sicura illiceità di tale uso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.27475 che dichiara legittimo e dunque convalidabile l’arresto in flagranza operato dagli operatori di p.g. in caso di reato abituale (nello specifico atti persecutori ex art. 612 bis c.p.), nel corso della consumazione del medesimo. La Corte di Cassazione ha rammentato, con riferimento a diverso reato quale i maltrattamenti in famiglia ex 572 c.p., il principio onde è da assumersi legittimo l’arresto in flagranza per tale delitto, qualora la Polizia Giudiziaria, dopo avere raccolto le dichiarazioni della persona offesa su comportamenti di reiterata sopraffazione, assista personalmente ad un singolo episodio, che, pur non integrando autonoma ipotesi di reato si pone inequivocabilmente in una situazione di continuità con le condotte denunziate dalla persona offesa medesima. Per la Corte, l’analogo tenore della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., che presuppone anch’essa una pluralità di atti, lesivi della integrità psichica del soggetto passivo, non tutti necessariamente riconducibili ad autonome fattispecie di reato, dà conto del che l’episodio di cui si è reso autore il soggetto attivo, l’aver schiaffeggiato la persona offesa alla presenza degli Agenti di Polizia, costituisca ultimo atto di una serie di comportamenti espressione di un atteggiamento persecutorio da parte del soggetto attivo sul soggetto passivo. Qualora dunque la Polizia Giudiziaria, dopo aver raccolto le dichiarazioni della persona offesa su comportamenti di reiterata sopraffazione, assista personalmente ad un singolo episodio, che, pur non integrando autonoma ipotesi di reato, si pone inequivocabilmente in una situazione di continuità delle condotte denunziate dalla persona offesa, legittimamente può procedere all’arresto in flagranza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 luglio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.31361 in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Per la Corte, nonostante non emerga nel caso di specie, dalla decisione impugnata, un esplicito riferimento al momento in cui è cessata la permanenza, deve rilevarsi l’infondatezza del rilievo che intende contestare l’intervenuta condanna del ricorrente per la condotta omissiva successiva al decorso della maggiore età della figlia. I giudici di primo e secondo grado hanno infatti condannato il ricorrente esclusivamente in ordine alla fattispecie di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., condotta chiaramente venuta meno al raggiungimento della maggiore età del discendente. Secondo pacifica giurisprudenza, rammenta la Corte, la fattispecie in esame prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro, escludendosi l’integrazione del reato in ipotesi di violazione dell’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza nei confronti dei figli maggiorenni o non inabili al lavoro, anche se studenti (Sez. 6, Sentenza n. 34270 del 31/05/2012, M). È pur vero – prosegue la Corte - che l’imputazione enuncia cumulativamente l’art. 3 l. 8 febbraio 2006, n. 54 con riferimento all’art. 12 sexies, l. 1 dicembre 1970; n. 898 - reato che punisce l’omessa corresponsione di quanto statuito dal giudice civile anche in favore dei figli maggiorenni economicamente non indipendenti (Sez. 6, n. 36263 del 22/09/2011) - e l’art. 570, secondo comma, n. 2, cod. pen., per la condotta connessa alla violazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno stabilito dal giudice civile nel procedimento per separazione in favore della figlia minore, dall’aprile del 2006 con permanenza. Tuttavia, l’implicita esclusione dell’art. 3 l. 8 febbraio 2006, n. 54 da parte delle sentenze di merito che hanno motivato solo in ordine alla sussistenza del delitto di cui all’art. 570, comma secondo, cod. pen. affrontando specificatamente la questione connessa alla sussistenza dello stato di bisogno, l’esplicito riferimento della Corte territoriale alla condotta posta in essere in danno della figlia minore (come enunciato nella imputazione), l’applicazione di una unica pena senza la previsione di aumenti connessi all’ipotizzata continuazione (né è stato effettuato, anche solo fugacemente, alcun riferimento all’eventuale assorbimento delle condotte), consente per la Corte, da un lato, di escludere che il ricorrente sia stato ritenuto responsabile in ordine ad una condotta posta in essere dopo il raggiungimento della maggiore età della figlia e, dall’altro, conseguentemente, di ritenere l’intervenuta cessazione della permanenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 luglio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.33464, in tema di abusivo esercizio della professione. Per la Corte viene in considerazione nel caso di specie, nella relativa duplice accezione, la nozione appunto di abusivo esercizio della professione che è tale sia perché svolta nella sua natura liberale-ordinistica in assenza della prescritta abilitazione sia perché si è comunque tradotta in una pluralità di atti che, pur non riservati in via esclusiva alla competenza specifica di una professione, nel loro continuo, coordinato ed oneroso riproporsi ingenerano una situazione di apparenza evocativa dell’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato, con conseguente affidamento incolpevole della clientela (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Cani). Per la Corte, della legge n. 4 del 2013, contenente "<em>Disposizioni in materia di professioni non organizzate</em>", si è data nell’impugnata sentenza una corretta cornice di operatività per debito distinguo tra le figure professionali cc.dd. protette, e quelle non protette. Le une organizzate per sistemi ordinistici a previsione costituzionale (art. 33 Cost.) - per le quali, con il meccanismo del rinvio alla disposizione extrapenale, l’art. 348 cod. pen. diviene una "<em>norma penale in bianco</em>" in quanto presuppone l’esistenza di altre norme volte ad individuare le professioni per le quali è richiesta la speciale abilitazione dello Stato e le condizioni, soggettive e oggettive, tra le quali l’iscrizione in un apposito albo, in mancanza delle quali l’esercizio della professione risulta abusivo (sul punto, Sez. 6, n. 2691 del 09/11/2017, dep. 2018, Dus, in motivazione, p. 9) - e le altre in cui lo svolgimento dell’attività libero-intellettuale, in attuazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione e nel rispetto dei principi dell’Unione Europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione (art. 1 legge n. 4 cit.), resta emancipato dalle indicate forme. Il tutto, comunque, per una complessiva disciplina in cui si accompagnano, nella coesistenza dei due sistemi, alle spinte di ispirazione convenzionale, dirette a favorire il mercato e la concorrenza, quelle, interne, di tutela delle professioni liberali, riservate. Il tema dell’<em>ovveruling</em> – prosegue poi la Corte - pure oggetto del primo motivo e che si vorrebbe integrato, nelle difese articolate dall’imputato, dalle affermazioni in diritto contenute nella sentenza della Corte a Sezioni Unite n. 11545 del 15/12/2011, riceve debito apprezzamento da parte dei giudici di appello là dove essi evidenziano la mancanza, nei principi in sentenza sostenuti, del carattere dell’imprevedibilità, in quanto elaborazione di una precedente giurisprudenza di legittimità. Tale è stata nella giurisprudenza della Corte l’affermazione della non rilevanza ai fini della configurabilità del reato di abusivo esercizio di una professione della distinzione tra i cc.dd. atti tipici della professione o atti riservati in via esclusiva a soggetti dotati di speciale abilitazione ed atti cc.dd. caratteristici o strumentalmente connessi ai primi ove compiuti in modo continuativo e professionale (Sez. 6, n. 49 del 08/10/2002, dep. 2003, Notaristefano). La <em>prospective overrulig</em> – prosegue ancora la Corte - che ha ricevuto elaborazione della giurisprudenza civile di legittimità vuole un mutamento di orientamento, repentino ed inopinato, della regola del processo che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa e che richieda una tutela dell’affidamento incolpevole della parte nella norma in precedenza enunciata (Sez. 6 - L, Ordinanza n. 8445 del 05/04/2018; Sez. 6, Ordinanza n. 15530 del 27/07/2016). Si tratta di modifica dei termini processuali la cui affermazione non si attaglia alla fattispecie scrutinata dalle indicate Sezioni Unite Cani in tema appunto di abusivo esercizio della professione, nella squisita valenza sostanziale della disciplina nella stessa prevista.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.35446 che si occupa della circonvenzione di incapace, in rapporto alla realizzaizione di una sequenza preliminare-definitivo. La propria giurisprudenza – rammenta la Corte - ha ricollegato già alla stipula del contratto preliminare possibili effetti pregiudizievoli idonei ad essere valutati ai sensi dell’art. 643 cod.pen., e ciò senza negare la natura traslativa e quindi ulteriormente dannosa di un contratto definitivo di vendita. Deve infatti essere ribadito per il Collegio che in presenza di stipula da parte di soggetto ritenuto incapace di preliminare e successivo definitivo, il delitto di circonvenzione di persone incapaci assume la forma tipica del delitto a consumazione frazionata poiché più episodi dannosi si consumano in danno della medesima vittima ad opera dello stesso autore. E poiché ciascuno dei suddetti negozi giuridici comporta effetti dannosi per la vittima incapace, il preliminare perché da esso sorgono obblighi, ed il definitivo poiché ad esso è collegato l’effetto traslativo della proprietà ove si tratti di vendita, ciascuno di essi è idoneo ad integrare l’ipotesi di cui all’art. 643 cod.pen., con la conseguenza che ove vengano stipulati entrambi si profila una prosecuzione della condotta delittuosa in distinti momenti entrambi poi rilevanti ai fini della individuazione della data del commesso reato e quindi del momento iniziale da cui far decorrere il termine prescrizionale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.35852, con la quale il Collegio risponde al quesito se nella continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri con rito abbreviato la riduzione di un terzo della pena, a norma dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., debba essere applicata solo sui reati giudicati con rito abbreviato. Nel contesto motivazionale della pronuncia, la Corte rammenta che, come chiarito da Sez. 1, n. 1534 del 09/11/2017, dep. 2018, Giglia, non va confuso il profilo perfezionativo del reato associativo con la protrazione della consumazione dello stesso, in ragione della relativa natura permanente; il reato si realizza (e va inteso: "<em>è commesso</em>") nel momento in cui si realizza un <em>minimum</em> di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria per la sussistenza del reato, coincidente con quello in cui sono programmate, ideate e dirette le attività dell'associazione, ovvero nel quale si esteriorizza l'associazione attraverso l'esecuzione dei delitti programmati, in tal modo manifestandosi e realizzandosi, secondo un criterio di effettività, l'operativa della società criminosa (in questo senso, tra le più recenti: Sez. 3, n. 35578 del 21/04/2016, Bilali; Sez. 4, n. 16666 del 31/03/2016, Cosmo). La parte successiva di condotta, pur essendo posteriore al momento di raggiungimento della tipicità, non è affatto irrilevante, approfondendo la lesione, ma è anch'essa caratterizzata dalla tipicità e si lega con il precedente segmento di condotta in un'unità normativa e fattuale per cui si può dire che il reato non solo è unico ma cessa, si esaurisce, solo al momento di cessazione della condotta partecipativa. È questo – prosegue la Corte - lo schema concettuale del reato permanente, definibile come quello in cui si ha la previsione legislativa di una condotta di durata continuativa in costanza di tutti gli elementi del fatto tipico. L'individuazione di questa "<em>durata</em>" della condotta tipica, successiva alla soglia minima di tipicità, ma pur essa attratta nell'area della tipicità e dunque "<em>rilevante</em>", costituisce la premessa per una serie di conseguenze applicative importanti: così, ad esempio, l'amnistia non è applicabile ai reati la cui permanenza o abitualità siano cessate dopo la data di efficacia del provvedimento di clemenza; la prescrizione non decorre dal momento in cui è stata raggiunta la "<em>soglia minima</em>" della tipicità, ma, nuovamente, dalla cessazione della permanenza o della abitualità; il concorso di persone nel reato è configurabile ancora una volta fino a questo estremo limite (in questi termini, Sez. 6, n. 52546 del 04/11/2016). Al contrario, non altrettanto può dirsi ai fini dell'operatività dell'istituto della continuazione, il cui presupposto indefettibile (l'unicità del disegno criminoso) è da intendere quale preordinazione unitaria da parte del soggetto agente delle diverse condotte violatrici, almeno nelle loro linee essenziali. Come tale, prosegue il Collegio, essa non può che collocarsi in una fase antecedente al momento perfezionativo di tutte le condotte delittuose che si assumono esserne espressione, sì da manifestare una ridotta pericolosità sociale e giustificare il conseguente trattamento sanzionatorio più mite rispetto al cumulo materiale. In definitiva, il partecipe all'associazione accede al delitto nel momento in cui si determina a fare ingresso nel sodalizio ed è a questo dato temporale che deve riferirsi la verifica della programmazione unitaria dei reati fine.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 settembre esce la sentenza delle SSUU n.40986, in tema di condotta ed evento in tempi diversi, successione di leggi penali e momento consumativo rilevante, che offre alla Corte l’occasione per fare il punto in tema di consumazione nei reati permanenti, in quelli abituali ed in quelli di reato “<em>a tempi plurimi</em>”, categoria generale nella quale rientra quella di reato “<em>ad evento differito</em>” (rispetto alla condotta). Nel contesto motivazionale, la Corte rammenta tutta una serie di importanti pronunce, la prima delle quali èè Sez. 4, n. 22379 del 17/04/2015, Sandrucci, intervenuta in una fattispecie concreta in cui l’evento mortale si era verificato molti anni dopo la condotta e, nell’intervallo di tempo tra l’una e l’altro, erano sopravvenute due modifiche legislative che avevano comportato l’innalzamento dei limiti edittali dell’art. 589 cod. pen. (la legge 21 febbraio 2006, n. 102 e il d. l. 23 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, con legge 24 luglio 2008, n. 125). Disattendendo i rilievi della difesa volti a censurare l’applicazione della più sfavorevole disciplina vigente al momento dell’evento, la sentenza Sandrucci – rammenta la Corte - ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito secondo cui per il trattamento sanzionatorio deve aversi riguardo "<em>a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell’evento lesivo</em>", sicché non vi è ragione di evocare l’art. 2, quarto comma, cod. pen. "<em>per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato</em>". È dunque "<em>rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta</em>"; in altri termini, è al momento della consumazione che bisogna avere riguardo per individuare la normativa applicabile e (solo) "<em>rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta</em>": il che doveva escludersi nel caso in esame. Rammenta anche Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita, che ha ritenuto corretta l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (oggi, art. 416-bis.l. cod. pen.) in relazione ai reati di importazione e conseguente detenzione di armi da guerra, nei confronti di un imputato il quale aveva intrapreso trattative con il venditore prima dell’introduzione della circostanza aggravante, laddove la condotta illecita si era perfezionata, per effetto dell’apporto di altri concorrenti, dopo l’entrata in vigore della nuova norma: osserva la sentenza Calamita – rammenta la Corte - per un verso, che "<em>il tempus commissi delicti è quello in cui si perfeziona la condotta o si verifica l’evento</em>" e, per altro verso, che l’indirizzo giurisprudenziale in tema di reati permanenti (in particolare, associativi) deve trovare applicazione "<em>anche per i reati non permanenti, quando l’azione abbia avuto durata apprezzabile e si sia, comunque, conclusa (e dunque il reato abbia avuto consumazione) sotto la vigenza della nuova legge</em>". Come osservato dall’ordinanza di rimessione, prosegue la Corte, la sentenza Calamita presenta una duplice peculiarità, in quanto a venire in rilievo è una condotta ad "<em>esecuzione frazionata</em>" e le diverse "<em>frazioni</em>" sono state realizzate da diversi concorrenti: sotto questo secondo profilo, il problema dell’individuazione del <em>tempus commissi delicti</em> si intreccia, nel caso affrontato dalla sentenza in esame (dalla quale, peraltro, non risulta univocamente quale segmento del fatto si sia perfezionato dopo l’introduzione della circostanza aggravante e, in particolare, se si tratti solo dell’evento ovvero anche di una parte della condotta posta in essere dai concorrenti), con le diverse questioni attinenti all’individuazione dei requisiti necessari affinché la singola "<em>frazione</em>" di condotta assuma rilevanza ai fini del concorso di persone nel reato: questioni, afferenti sia al piano dell’elemento materiale, sia a quello dell’elemento soggettivo della fattispecie concorsuale, estranee al tema ora rimesso all’esame delle Sezioni unite. Le quali ricordando ancora, con riguardo ad un diverso orientamento, Sez. 4, n. 8448, del 05/10/1972, Bartesaghi, intervenuta in una fattispecie concreta di omicidio colposo per violazione delle norme sulla circolazione stradale: tra la condotta e l’evento era stata introdotta la legge 11 maggio 1966, n. 296, che prevedeva un più severo trattamento sanzionatorio, applicato dal giudice di appello che, <em>in parte qua</em>, aveva riformato la sentenza di primo grado. Aderendo all’impostazione del giudice di primo grado, la sentenza Bartesaghi – rammenta la Corte - ha osservato che "<em>al fine di stabilire la legge applicabile, non si tratta di individuare il momento della consumazione, ma quello nel quale il reato è stato commesso, come espressamente stabilisce la legge. E se vi sono reati nei quali commissione e consumazione coincidono, ve ne sono altri nel quali il momento della consumazione, col realizzarsi dell’evento, si verifica successivamente o può verificarsi successivamente</em>". Seguendo la tesi del giudice di appello, osserva ancora la sentenza Bartesaghi, si giungerebbe all’"<em>applicazione retroattiva della legge nel caso di nuove o più gravi statuizioni penali, quando la condotta si sia esaurita sotto l’imperio di una legge che non prevedeva il fatto come reato, o che lo prevedeva meno grave di quanto non sia considerato dalla nuova. Ed in tal modo il reo verrebbe ad essere punito più gravemente per il fatto puramente casuale che nel periodo di tempo intercorrente tra la sua condotta e l’evento sia sopraggiunta la nuova legge, in tal modo determinandosi quell’incertezza sul grado di illiceità del comportamento umano che è escluso in modo assoluto dal principio dell’irretroattività</em>". Poiché il legislatore, uniformandosi ai principi di irretroattività e di non ultrattività, ha voluto distinguere tra commissione e consumazione del reato, rileva conclusivamente la sentenza Bartesaghi, non è lecito all’interprete identificare i due momenti: "<em>e ciò tanto più appare esatto in quanto il precetto penale, alla cui violazione consegue quella determinata sanzione è rivolto al soggetto condizionandone l’attività psichica, che si estrinseca nella condotta nella misura nella quale tale condotta, in quanto causa di evento penalmente sanzionato, sia considerata illecita</em>". Peraltro, per le SSUU nella disposizione codicistica sulla successione di leggi penali, il riferimento al "<em>reato</em>", e non al "<em>fatto</em>", non assume la valenza ad esso attribuita dal Procuratore generale nel caso di specie, ossia la considerazione del "<em>reato</em>" nella "<em>triade dei suoi elementi costitutivi, condotta nesso causale - evento naturalistico</em>": invero, con il termine "<em>fatto</em>" il primo e il secondo comma dell’art. 2 cod. pen. evocano la fattispecie non (o non più) penalmente sanzionata, mentre il termine "<em>reato</em>" di cui al quarto comma indica quella penalmente sanzionata (e assoggettata al regime appunto della successione di leggi penali). D’altra parte, su un piano generale - ed anche al fine di meglio definire la portata della questione posta all’esame delle Sezioni unite e del principio di diritto che sarà enunciato - mette conto sottolineare per la Corte come l’individuazione del <em>tempus commissi delicti</em> non possa essere delineata in termini generalizzanti, ma vada riferita ai singoli istituti e ricostruita sulla base della ratio di ciascuno di essi e dei principi - prima di tutto costituzionali - che li governano: conclusione, questa, condivisa dalla dottrina secondo cui l’indagine volta all’individuazione del <em>tempus</em> non può che essere riferita ai singoli istituti per i quali assume rilevanza il dato cronologico della commissione del reato. Non si rinviene, infatti per le SSUU, nel codice penale una definizione, per così dire, "<em>onnicomprensiva</em>" del <em>tempus commissi delicti</em>. Tale, in particolare, non può essere considerata quella offerta dall’art. 6 cod. pen. (alla quale sembra far riferimento la sentenza Calamita sopra richiamata), che, al fine di individuare i reati commessi nel territorio dello Stato, fa coincidere la commissione del reato con il verificarsi nel territorio stesso della condotta (anche in parte) ovvero dell’evento; tuttavia, l’alternatività - o, meglio, l’equivalenza - ai fini dell’art. 6 cod. pen. del criterio della condotta e del criterio dell’evento rende ragione dell’inidoneità di detta disciplina a fissare il <em>tempus commissi delicti</em> ai fini della successione di leggi, posto che, come i casi in esame ora alle SSUU testimoniano, la distanza temporale che può riscontrarsi tra condotta ed evento impone di individuare in termini unitari (e non già alternativi) il <em>tempus</em>. Del resto, mentre una disciplina <em>ad hoc</em> è dettata in tema di decorrenza del termine di prescrizione (art. 158), formulazioni sostanzialmente espressive del sintagma "<em>reato commesso</em>" si rinvengono in numerose disposizioni codicistiche relative ad istituti diversi (ad esempio, alla recidiva: art. 99; alla sospensione condizionale della pena: art. 163, secondo e terzo comma; al perdono giudiziale: art. 169; all’amnistia: art. 151), ciascuno connotato da una ratio ed inserito in contesti normativi specifici. Il riferimento dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. alla "<em>commissione del reato</em>", dunque, non si presta, di per sé solo, ad accreditare, in termini appunto generalizzanti, il criterio della condotta: sotto questo profilo, la sentenza Bartesaghi, pur rimarcando correttamente la non sovrapponibilità della nozione di consumazione rispetto a quella di commissione del reato, sembra, in alcuni passaggi, enfatizzare la portata del dato testuale. Se, tuttavia, le ragioni di ordine prima di tutto sistematico non possono dar corpo a un criterio generale di individuazione del <em>tempus commissi delicti</em> a qualsiasi fine e rispetto a qualsiasi istituto, il riferimento letterale alla "<em>commissione del reato</em>" non è di ostacolo all’individuazione della condotta dell’agente quale punto di riferimento cronologico della successione di leggi: la mancanza, nel codice penale, di una nozione onnicomprensiva del <em>tempus commissi delicti</em> e la valenza dei richiami al "<em>fatto</em>" e al "<em>reato</em>" nell’art. 2 cod. pen. convergono nell’individuazione di un’area semantica dell’espressione "<em>reato commesso</em>" nella quale è riconducibile, in via interpretativa, il criterio della condotta, senza fuoriuscire dall’ambito dei significati autorizzati dal testo legislativo, ossia dai quarto comma dello stesso art. 2. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, "<em>l’interpretazione adeguatrice dei giudici ha possibilità di esplicazione soltanto quando una disposizione abbia carattere "</em>polisenso<em>" e da essa sia enucleabile, senza manipolare il contenuto della disposizione, una norma compatibile con la Costituzione</em>" attraverso l’impiego degli ordinari canoni ermeneutici (Sez. U, n. 23016 del 31/03/2004, Pezzella): canoni, quelli di seguito valorizzati nel perimetro delineato dal testo della disposizione, che escludono per il Collegio la necessità di promuovere un incidente di legittimità costituzionale. Per le SSUU la problematica affrontata si riconnette alla peculiarità della fattispecie concreta, caratterizzata (così come quelle prese in considerazione dalle sentenze Sandrucci e Bartesaghi), per un verso, da uno sviluppo dell’<em>iter criminis</em> nel quale interviene un significativo iato temporale tra condotta ed evento e, per altro verso, dalla sopravvenienza, in tale intervallo temporale, di una legge penale più sfavorevole: sì tratta, dunque, di quelle che in dottrina sono state definite ipotesi di reato "<em>a distanza</em>" o ad evento differito, ipotesi ricondotte alla più generale figura del reato "<em>a tempi plurimi</em>". Esigenze di completezza impongono infine alla Corte di esaminare, alla luce delle ragioni poste a fondamento dell’adesione al criterio della condotta, la questione dell’individuazione del <em>tempus</em> ai fini della successione di leggi penali con riguardo ad alcune figure di reato caratterizzate (non già dalla "<em>distanza</em>" tra condotta ed evento, bensì) dal protrarsi nel tempo della stessa condotta tipica. Una protrazione della condotta suscettibile di conoscere, nel suo svolgimento, il sopravvenire di una legge penale più sfavorevole si registra nel reato permanente, rispetto al quale la giurisprudenza di legittimità individua il <em>tempus commissi delicti</em>, ai fini della successione di leggi penali, nella cessazione della permanenza posto che, qualora la condotta antigiuridica si protragga nel vigore della nuova legge, è quest’ultima che deve trovare applicazione (<em>ex plurimis</em>, Sez. 3, n. 43597 del 09/09/2015, Fiorentino; Sez. 5, n. 45860 del 10/10/2012, Abbatiello; Sez. 3, n. 13225 del 05/02/2008, Spera; Sez. 1, n. 20334 del 11/05/2006, Caffo; Sez. 1, n. 3376 del 21/02/1995, Gullo): il protrarsi della condotta sotto la vigenza della nuova, più sfavorevole, legge penale assicura la calcolabilità delle conseguenze della condotta stessa che, come si è visto, dà corpo alla <em>ratio</em> garantistica del principio di irretroattività. È dunque la legge più sfavorevole vigente al momento della cessazione della permanenza che deve trovare applicazione, ferma restando la necessità che sotto la vigenza della legge più severa si siano realizzati tutti gli elementi del fatto-reato (e, quindi, per il sequestro di persona, ad esempio, un’apprezzabile durata della limitazione della libertà personale della vittima). Naturalmente, l’applicazione della legge più sfavorevole introdotta quando la permanenza del fatto delittuoso era già in atto presuppone, come ha rimarcato la dottrina, la colpevole violazione della nuova legge e, dunque, la possibilità - di regola assicurata dalla <em>vacatio legis</em> - di conoscerla e, "<em>calcolandone</em>" le conseguenze penali, di adeguare la condotta dell’agente. I medesimi rilievi valgono anche per la Corte per il reato abituale, in relazione al quale il <em>tempus commissi delicti</em>, ai fini della successione di leggi penali, coincide con la realizzazione dell’ultima condotta tipica integrante il fatto di reato. Il tema è stato affrontato dalla più recente giurisprudenza di legittimità soprattutto a proposito dell’introduzione del reato di atti persecutori e, dunque, in presenza non già di uno ius superveniens portatore di un trattamento sanzionatorio più severo, bensì di una nuova incriminazione, la cui applicabilità presuppone la realizzazione, dopo l’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. (e non solo, ad esempio, di un’ultima condotta persecutoria preceduta da altre intervenute prima della novella legislativa che ha previsto il reato): "<em>per l’applicabilità della nuova norma non è quindi sufficiente che sia stato compiuto l’ultimo atto dopo la sua entrata in vigore, ma occorre che tale atto sia stato preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice</em>" (Sez. 5, n. 54308 del 25/09/2017), mentre atti posti in essere prima dell’introduzione del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, con la legge 23 aprile 2009, n. 38, "<em>non possono rientrare nella condotta prevista e punita dall’art. 612-bis cod. pen</em>.", ma neppure "possono proiettare la loro irrilevanza penale su atti successivi - degradandoli a <em>post factum non punibile</em>" (Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 - dep. 2013, Rv. 255330; conf. Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260410; Sez. 5, n. 48268 del 27/05/2016, Rv. 268162).</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.47455, onde – pronunciandosi in tema di prescrizione – la Corte richiama la propria costante affermazione (cfr. Sez. 3, n. 46340 del 27/10/2011 e Sez. 3, n. 21808 del 18/04/2007) onde i reati contravvenzionali previsti dalla normativa in materia di prevenzione infortuni sul lavoro hanno natura permanente e la situazione antigiuridica si protrae e persiste fino a quando il responsabile non abbia provveduto ad adottare le prescritte misure cautelari ovvero, in difetto, fino a quando il giudice non si pronunci con sentenza di condanna, anche se non passata in giudicato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 ottobre esce l’ordinanza n.27002 della sezione Civile lavoro della Cassazione alla cui stregua <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=8%3d2XTW6%26E%3dNd%26o%3dVWZ7Y%26B%3dV2XPZ9%26N%3d5OuI_EvTs_P6_stpu_39_EvTs_OAxPJ.9jK6OuH2BjNFOjS66.jM_EvTs_OAo8JN_stpu_39NW_stpu_39WeAcWd2VSe_stpu_39i6wHEJ_eH00tM68p_Ex_QjH961BBIf_K6Bv4E9bGG0_m_BEMjMH6m8_xNtNAUjHA0_tB_zJo96BvKx_8pF2_Mf4GJ_jLG6oMxIfH_zJo_83AfMGD_q8EHbG2IuB.5OnE_EvTs_PAvM0_NpNE8f_KnxQ_V1ifj_A0xL90uM2M_stpu_3YHOn6b4x_F29jN0_MRvm_Xe806jE_EvTs_OavM0_8bFC6j0A_MRvm_Xeg2l%26e%3d%26BF%3dY2bSZ">in tema di lavoro domestico, le violazioni riguardanti l’irrituale assunzione di lavoratori a domicilio rappresentano reati istantanei con effetti permanenti poiché il legislatore fissa un termine preciso, per l’adempimento delle prescrizioni relative, coincidente non oltre il termine di costituzione del rapporto di lavoro.</a></p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 51950 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l'unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poichè le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 52619 che, in tema di portata applicativa dell’art. 131 bis c.p., ribadisce l’orientamento secondo cui L'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis c.p., non può essere dichiarata con riferimento al reato di abusivo esercizio di una professione, in quanto tale delitto presuppone una condotta che, in quanto connotata da ripetitività, continuità o, comunque, dalla pluralità degli atti tipici, è di per sè ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 57355 in tema di applicazione dell’art. 131 bis c.p. onde la non abitualità della condotta criminosa non coincide con la occasionalità della stessa, nè urta con il riconoscimento della recidiva e non risulta preclusa dalla ricorrenza di un precedente penale, seppure della stessa indole.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, il comportamento è abituale quando l'autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame, laddove la nozione di comportamento abituale non può essere assimilata a quella della recidiva, che opera in un ambito diverso ed è fondata su un distinto apprezzamento di talchè, ai fini dell'emersione della nozione di abitualità, rilevano anche le eventuali condotte criminose commesse successivamente al fatto per cui si procede e d'altronde tale conclusione risulta del tutto conforme alla Relazione illustrativa al nuovo testo normativo in cui era espressamente escluso che un precedente giudiziario avrebbe costituito elemento preclusivo all’applicazione dell'istituto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce la sentenza delle Sezioni Unite civili n. 5200 in tema di illecito disciplinare dell’avvocato onde l'azione disciplinare nei confronti dell'avvocato si prescrive nel termine di cinque anni, che decorrono dal giorno di realizzazione dell'illecito, ovvero, se questo consista in una condotta protratta, definibile in termini penalistici permanente o continuata, dalla data di cessazione della condotta stessa</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">L’8 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 15316 onde il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, di cui all'art. 388 c.p., comma 1, è a consumazione istantanea e si perfeziona nel momento in cui il debitore non ottempera alla ingiunzione di adempiere, in quanto il danno del creditore si verifica al momento dell'inottemperanza del debitore e la eventuale permanenza dell'inadempimento rappresenta semplicemente la protrazione degli effetti di un fenomeno che si è già realizzato</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 17437 che, con riferimento alla identificazione della data di consumazione del reato ribadisce che il delitto di truffa contrattuale è reato istantaneo e di danno, il momento della cui consumazione - che segna il "dies a quo" della prescrizione - va determinato alla luce delle peculiarità del singolo accordo, avuto riguardo alle modalità ed ai tempi delle condotte, onde individuare, in concreto, quando si è prodotto l'effettivo pregiudizio del raggirato in correlazione al conseguimento dell'ingiusto profitto da parte dell'agente. Con specifico riguardo alla truffa a consumazione prolungata, ovvero al caso in cui la percezione dei singoli emolumenti sia riconducibile ad un originario ed unico comportamento fraudolento, si è deciso invece che il momento della consumazione del reato - dal quale far decorrere il termine iniziale di maturazione della prescrizione - è quello in cui cessa la situazione di illegittimità.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 maggio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 11739 onde ai fini della configurabilità del mobbing l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 19255 che ribadisce l’orientamento secondo cui ai fini della configurabilità del reato di stalking, non è necessario che la reiterazione delle condotte, per risultare persecutorie, si dipani in un arco temporale apprezzabilmente lungo, poichè ciò che rileva è che esse, considerate unitariamente, risultino idonee a ingenerare nella vittima un progressivo stato di disagio e di prostrazione psicologica, tale da dare luogo a uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice. Il reato di atti persecutori, quindi, è integrato anche da singole condotte reiterate in un arco temporale ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di essi, benchè temporalmente concentrata, sia eziologicamente connessa con uno degli eventi considerati dall'art. 612 bis c.p.,</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 21375 onde il reato di favoreggiamento della prostituzione può essere perfezionato con ogni genere di interposizione agevolativa tra cliente e prostituta e, trattandosi di un reato soltanto eventualmente abituale, può essere integrato anche da un solo episodio agevolativo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa si compendia la consumazione del reato?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>per comprendere <strong>plasticamente</strong> il concetto di <strong>consumazione del reato</strong> (del fatto inadempimento reato) occorre muovere dal <strong>d. <em>iter criminis</em></strong>, ovvero dal <strong>percorso</strong> che conduce a tale <strong>consumazione</strong>, la quale ne costituisce <strong>l’ultimo stadio</strong>;</li> <li>la prima fase è quella della <strong>ideazione</strong>, che si conclude con la <strong>risoluzione criminosa</strong>;</li> <li>la seconda fase è quella della <strong>preparazione</strong>, nel cui contesto il soggetto agente <strong>si procura i mezzi necessari</strong> e <strong>studia</strong> dal punto di vista delle coordinate spazio-temporali <strong>il modo in cui realizzare</strong> la propria risoluzione criminosa;</li> <li>la terza fase è quella dell’<strong>esecuzione</strong>, in cui il progetto criminale ideato e preparato <strong>viene concretamente realizzato</strong>;</li> <li>la quarta fase è proprio <strong>la consumazione</strong>, laddove, a valle della fase esecutiva, si realizza <strong>un fatto inadempimento reato pienamente conforme alla previsione incriminatrice astratta</strong> tipizzata dal legislatore.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>E’ possibile distinguere dalla consumazione la c.d. perfezione del reato?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><strong>no</strong>: quando il reato è <strong>perfetto</strong> è <strong>anche consumato</strong>;</li> <li><strong>si</strong>, almeno in alcuni casi: il reato, <strong>prima di essere consumato</strong>, è <strong>perfetto</strong> quando <strong>tutti gli elementi strutturali</strong> della fattispecie incriminatrice sono <strong>presenti</strong>, ma esso <strong>non ha ancora raggiunto</strong>, sul piano concreto, quella <strong>gravità massima</strong> che <strong>sola</strong> può implicarne “<strong><em>consumazione</em></strong>”; in altri termini, e guardando dalla prospettiva dell’<strong>offesa concretamente arrecata all’interesse</strong> (bene) penalmente protetto, la sola <strong>realizzazione degli elementi strutturali</strong> può in taluni casi <strong>non coincidere con la ridetta offesa</strong>, tenuto conto della consistenza che a tale offesa intendeva conferire il soggetto agente: in simili ipotesi il fatto-inadempimento reato, pur <strong>perfetto</strong>, <strong>non è ancora consumato</strong>. Se un reato è perfetto, ma non ancora consumato, per parte della dottrina si è <strong>già al di fuori della sfera di operatività del tentativo</strong> e delle connesse figure della <strong>desistenza</strong> e del <strong>recesso</strong>, onde in questa prospettiva il fatto inadempimento reato o rileverà <strong>come consumato</strong> o <strong>non rileverà affatto</strong> (ma in realtà non si vede per quale motivo un reato “<strong><em>perfetto</em></strong>” non possa <strong>ridondare, <em>ex post,</em></strong> come <strong>tentativo</strong> di reato poi <strong>non consumato</strong>); possono invece già trovare spazio di operatività, <strong>fino al momento della consumazione</strong>, la <strong>legittima difesa</strong>, il <strong>concorso di persone nel reato</strong> (perfetto e in fase di consumazione) ed il <strong>concorso di reati</strong>; sul crinale <strong>processuale</strong>, è tuttavia la <strong>consumazione</strong> che consente di <strong>fissare il <em>locus</em> e <em>tempus commissi delicti</em></strong> ai fini della individuazione del <strong>giudice competente</strong> e della <strong>decorrenza della prescrizione</strong>, mentre nel tempo che corre tra <strong>perfezione</strong> e <strong>consumazione</strong> è operativa la <strong>flagranza</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i casi più noti di scissione tra perfezione e consumazione del reato, e a cosa occorre porre attenzione?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>i reati con il <strong>fatto tipico</strong> a <strong>struttura “<em>iterativa</em>”</strong>, come il <strong>reato abituale</strong> e quello <strong>permanente</strong>: si configura una <strong>ripetitività</strong> o una <strong>costanza di azioni od omissioni</strong> che tuttavia <strong>fanno luogo ad un solo reato</strong> (e <strong>non</strong> a <strong>più reati in concorso</strong> tra loro): qui in effetti la <strong>perfezione</strong>, come presenza di <strong>tutti gli elementi strutturali</strong> disegnati dal legislatore, può <strong>non voler dire ancora consumazione</strong> che si ha solo quando – sorretta la <strong>ripetizione</strong> (o <strong>iteratività</strong>) attiva od omissiva (reato <strong>abituale</strong>), ovvero la <strong>costanza attiva od omissiva</strong> (reato <strong>permanente</strong>), da un <strong>medesimo atteggiamento psicologico</strong> – può dirsi configurata <strong>l’offesa all’interesse penalmente tutelato</strong>;</li> <li>i reati <strong>a dolo specifico</strong>, quelli <strong>di attentato</strong> e quelli <strong>di pericolo</strong>: in queste ipotesi in realtà la <strong>perfezione</strong> <strong>equivale</strong> a <strong>consumazione</strong>, in quanto – pur avendo il legislatore <strong>anticipato la perfezione</strong> del reato ad una <strong>fase anteriore</strong> a quella in cui il <strong>fatto naturalistico divisato</strong> dal soggetto agente può dirsi <strong>completo</strong>, e con esso <strong>l’ampiezza dell’offesa all’interesse penalmente tutelato</strong> – resta il fatto che <strong>proprio per tale scelta di politica criminale</strong> il fatto <strong>è inadempimento reato</strong>, e come tale consumato, già in questa fase, proprio in funzione di <strong>tutela anticipata</strong> dell’interesse presidiato; a ragionare diversamente <strong>dovrebbe intendersi il fatto tipico perfetto</strong>, ma <strong>consumato solo</strong> laddove il soggetto agente abbia <strong>in concreto raggiunto il fine che si proponeva</strong> (dolo specifico), ovvero <strong>ottenuto lo scopo che si prefiggeva</strong> (realizzare il fine dell’attentato o creare il danno cui il pericolo è orientato);</li> <li>i <strong>reati aggravati dall’evento</strong> e quelli per i quali è prevista dal legislatore <strong>una condizione obiettiva di punibilità</strong>, in cui tuttavia, ancora una volta il <strong>fatto inadempimento reato</strong> appare <strong>già perfetto e consumato</strong> al momento in cui <strong>tutti gli elementi strutturali</strong> della fattispecie sono <strong>presenti</strong>, rimanendo la sola <strong>punibilità</strong> subordinata – per ragioni di <strong>politica criminale</strong> – ad un <strong>evento esterno ed ulteriore</strong> rispetto alla fattispecie disegnata dal legislatore; a ragionare diversamente, il <strong>fatto tipico</strong> dovrebbe intendersi <strong>perfetto</strong> nel momento in cui sono presenti <strong>tutti gli elementi strutturali</strong>, e <strong>consumato solo a valle dell’evento che lo aggrava</strong> o che <strong>ne costituisce condizione obiettiva di punibilità</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le caratteristiche dei reati c.d. abituali?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di <strong>reati a condotta plurima</strong> o, più precisamente, <strong>a condotta reiterata</strong>; circostanza quest’ultima che <strong>li differenzia dagli altri reati a struttura complessa</strong>;</li> <li>sono necessarie <strong>più condotte</strong> tra loro <strong>identiche</strong> o <strong>quanto meno omogenee</strong>, <strong>reiterate</strong> nel tempo;</li> <li>il legislatore le <strong>raccoglie in un solo reato</strong>, detto appunto “<strong><em>abituale</em></strong>”; gli <strong>episodi plurimi</strong> sono avvinti sul crinale <strong>oggettivo</strong> dalla <strong>frequenza persistente</strong> e, su quello <strong>soggettivo</strong>, da un <strong>dolo</strong> (o più raramente da una colpa) di <strong>tipo sostanzialmente unitario</strong>;</li> <li>occorre <strong>evitare di punire in modo eccessivamente gravoso condotte identiche od omogenee</strong> che o, <strong>prese singolarmente</strong>, <strong>non raggiungono la soglia del reato</strong> (tutte o solo alcune di esse), ovvero <strong>la raggiungono</strong> e dunque <strong>sono ciascuna reato</strong>, ma sono <strong>statisticamente avvinte da una frequenza ripetuta</strong> dal punto di vista <strong>realizzativo</strong>, onde appare <strong>eccessivo applicare il concorso di reati ed il cumulo di pene</strong>; in sostanza, secondo l’osservazione di <strong>quanto statisticamente accade</strong>, si tratta di <strong>più atti</strong> che – <strong>cumulativamente osservati</strong> nella relativa <strong>realizzazione ripetitiva</strong> – fanno luogo ad <strong>una sola (ed unitaria) offesa</strong> all’interesse penalmente tutelato;</li> <li><strong>non</strong> si tratta di prendere atto di una <strong>condotta di vita del soggetto agente</strong> – il che cozzerebbe con la <strong>responsabilità penale personale</strong> di cui all’<strong>27 Cost.</strong> - imponendo dunque un <strong>aggravamento del trattamento sanzionatorio,</strong> ma di <strong>punire più condotte omogenee e ripetute</strong> poste in essere dallo stesso in un contesto che <strong>tutte le avvince in ottica di offesa</strong> (unica) al bene protetto, con sostanziale <strong>alleggerimento della punizione</strong>;</li> <li>si assiste dunque alla <strong>frammentazione di una condotta penalmente rilevante</strong> in <strong>più atti omogenei e reiterati</strong> che la legge penale assume <strong>non avere, ciascuno, rilevanza in sé</strong>, ma quale <strong>frazione appunto di una condotta abituale</strong> che ne è <strong>la risultante</strong>;</li> <li>gli atti o fatti punibili sono <strong>omogenei</strong> rispetto al <strong>bene (interesse) penalmente tutelato</strong>, onde a fronte di tale bene, tali o atti o fatti si connotano per una <strong>carica offensiva omogenea o identica</strong>;</li> <li>al <strong>bene unico penalmente tutelato</strong> corrisponde, pur al cospetto di <strong>episodi (fatti o atti) plurimi</strong>, <strong>una sola offesa</strong>, ciò derivando proprio dalla <strong>identicità od omogeneità di tali plurimi episodi</strong> e dal relativo essere <strong>avvinti dal nesso oggettivo della frequenza persistente</strong>, dacché affiora appunto <strong>il reato “<em>abituale</em>”</strong>;</li> <li>sul crinale <strong>soggettivo</strong>, il <strong>dolo</strong> si atteggia anch’esso ad <strong>unitario</strong>, tanto se visto <strong><em>ex ante</em></strong> e dunque nel contesto di un <strong>programma preordinato di episodi di aggressione</strong> al bene (interesse) penalmente tutelato (dottrina tradizionale), quando se visto <strong><em>ex post</em></strong>, come <strong>consapevolezza della frequenza maturata “<em>in itinere</em>”,</strong> onde il soggetto agente <strong>non si prefigurava <em>ex ante</em></strong> un <strong>disegno di episodi frequenti e persistenti coordinati</strong> tra loro, ma <strong>ha di volta in volta aggiunto un episodio nuovo</strong> <strong>consapevolmente avvinto ai pregressi</strong>, così facendo luogo ad un <strong>plesso unitario di offese identiche od omogenee</strong> al ridetto bene; da questo punto di vista, nel <strong>reato abituale doloso</strong> il soggetto agente <strong>si rappresenta i comportamenti aggressivi pregressi</strong> ed il fatto che <strong>ve ne aggiunge via via di ulteriori</strong>, mentre nel <strong>reato abituale colposo</strong> tale consapevolezza effettiva degrada a <strong>mera rappresentabilità</strong>;</li> <li>in qualche caso il reato è <strong>eventualmente abituale</strong>, come nell’incesto: anche <strong>un solo atto</strong> lo compendia come tale, onde se gli atti <strong>vengono reiterati</strong> si ha una <strong>condotta a più atti</strong>, come tale “<strong><em>abituale</em></strong>” ma <strong>non necessariamente tale</strong>;</li> <li>i <strong>reati abituali</strong> si distinguono in: k.1) <strong>propri</strong>: <strong>nessuna delle condotte</strong> omogenee e reiterate <strong>è di per sé punibile</strong> (sfruttamento della prostituzione); <strong>alcune delle condotte omogenee e reiterate</strong> sarebbero di per sé <strong>punibili</strong> <strong>ed altre no</strong> (maltrattamenti in famiglia); k.2) <strong>impropri</strong>: <strong>tutte</strong> le condotte omogenee e reiterate <strong>sarebbero di per sé punibili</strong> (relazione incestuosa);</li> <li>esistono <strong>delitti abituali</strong> (classico il caso dei <strong>maltrattamenti in famiglia</strong> ex art.572 c.p. e dello <strong><em>stalking</em></strong> ex art.612.bis c.p.) e <strong>contravvenzioni abituali</strong>, come nel caso dell’<strong>esercizio abusivo di mestieri girovaghi ex art.669 c.p</strong>. (che tuttavia è stato <strong>depenalizzato</strong>);</li> <li>il reato abituale <strong>non è teoricamente incompatibile</strong> con la <strong>configurazione colposa</strong>, potendo ben darsi una <strong>abituale violazione di norme cautelari omogenee o identiche</strong>;</li> <li>più che di consumazione, può parlarsi di <strong>periodo consumativo</strong>, sicché laddove subentri un <strong>regime penale nuovo e più grave</strong> di quello pregresso, esso <strong>può senz’altro applicarsi</strong> <strong>senza</strong> che possa discorrersi di <strong>retroattività della nuova disciplina più sfavorevole</strong>; discorso diverso va fatto quando il legislatore <strong>forgi <em>ex novo</em> un reato a struttura abituale</strong>, mentre gli <strong>episodi di aggressione</strong> al bene (interesse) penalmente tutelato sono stati <strong>in parte già realizzati prima dell’entrata in vigore</strong> della nuova incriminazione, dovendosi in questo caso predicare <strong>inapplicabile la ridetta nuova incriminazione</strong>: il nuovo reato abituale potrà applicarsi solo guardando <strong>all’ultimo atto o fatto (episodio) rilevante</strong> posto in essere dal soggetto agente, e verificando se esso – <strong>da solo o in connessione con altri episodi aggressivi</strong> del pari posti in essere <strong>quando già è in vigore la nuova disciplina</strong> – configuri appunto la <strong>nuova fattispecie</strong>.</li> <li>il reato abituale ha <strong>diversi</strong> <strong>punti in comune</strong> anche con la <strong>diversa figura</strong>, di foggia soprattutto <strong>giurisprudenziale</strong>, dei <strong>d. reati ad azione frazionata</strong>, ed in particolare della <strong>truffa in danno di enti previdenziali</strong>, della <strong>truffa in danno dello Stato per percezioni indebite di finanziamenti e contributi con erogazione rateizzata nel tempo</strong>, della <strong>indebita erogazione di prestazioni in danno dello Stato</strong>, dell’<strong>usura</strong>, della <strong>corruzione</strong> e della <strong>lottizzazione abusiva</strong>; da un lato – con riguardo alla <strong>decorrenza della prescrizione</strong> – si guarda alla <strong>parte cronologicamente finale dell’aggressione al bene protetto</strong> (in sostanza, quando cessa tale aggressione), e ciò è <strong>elemento comune</strong> rispetto al reato abituale; dall’altro in tali fattispecie <strong>l’aggressione all’interesse penalmente tutelato</strong>, sostanzialmente ripetuta in modo continuativo e con diversi episodi, è per l’appunto <strong>discontinua e frazionata</strong> come accade anche nel <strong>reato abituale</strong>;</li> <li>nel reato abituale si configura infine un <strong>conflitto apparente di norme</strong>: quello che potrebbe essere un <strong>concorso materiale di reati</strong> – stante la presenza di <strong>più fatti che</strong>, nel reato abituale <strong>improprio</strong>, sono <strong>tutti penalmente rilevanti</strong> – viene <strong>abbracciato e raccolto in un’unica fattispecie di reato</strong>, onde su più fatti storici converge <strong>una sola norma penale</strong>.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le caratteristiche dei reati c.d. permanenti?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di reati che <strong>non sono istantanei</strong>, nei quali ultimi il reato è sempre – nel medesimo istante – <strong>perfetto e consumato</strong>;</li> <li>hanno <strong>struttura iterativa</strong> sul crinale della <strong>continuità dell’offesa all’interesse penalmente tutelato</strong>;</li> <li>una volta che il reato <strong>è perfetto</strong>, parte una <strong>fase diuturna di offesa all’interesse penalmente tutelato</strong> che <strong>non ha soluzione di continuità</strong>, e la cui <strong>durata non è determinabile <em>a priori</em></strong>;</li> <li>la <strong>protrazione dell’offesa </strong>all’interesse tutelato si accompagna, sul piano soggettivo, ad una (del pari <strong>persistente) volontà conforme</strong> del soggetto agente, il quale <strong>consapevolmente vuole tale protrazione</strong> <strong>di offesa</strong>, pur sapendo che, se lo volesse, <strong>potrebbe farla cessare</strong>; laddove invece il soggetto agente <strong>perda la consapevolezza che dipende da lui la possibilità di far cessare</strong> l’aggressione all’interesse penalmente tutelato, deve assumersi <strong>cessata la permanenza sul piano soggettivo</strong> e dunque, laddove si tratti di reato doloso, <strong>il dolo</strong>, e con esso <strong>il reato</strong>: in sostanza il bene (interesse) penalmente tutelato <strong>continua ad essere compresso</strong>, ma <strong>non già in forza di un reato</strong> in corso di consumazione, quanto piuttosto come <strong>effetto di un reato</strong> (permanente) <strong>già consumato</strong> e del quale <strong>è cessata la permanenza</strong>;</li> <li>chi <strong>non scinde</strong> dal punto di vista <strong>strutturale</strong> tra <strong>perfezione</strong> e <strong>consumazione,</strong> sul crinale <strong>funzionale</strong> parla di “<strong><em>periodo consumativo</em></strong>”: viene <strong>mantenuta costante l’aggressione all’interesse tutelato</strong>, in presenza di una norma che lo vieta e che dovrebbe <strong>dissuadere</strong> il soggetto agente; ove peraltro a tale norma <strong>ne succeda un’altra con trattamento più grave</strong> (e dunque maggiormente dissuadente), essa <strong>si applica</strong> <strong>non potendosi assumere retroattiva</strong>, in quanto il reato <strong>non è già consumato</strong>, ma <strong>ancora in fase consumativa</strong>;</li> <li>il <strong>reato permanente</strong>, a seconda delle <strong>diverse prese di posizione</strong> succedutesi: f.1) è di <strong>creazione legislativa e tassativa</strong>, onde è <strong>il legislatore</strong> che – in determinati e specifici casi - <strong>riconduce determinati effetti punitivi</strong> alla <strong>permanenza dell’offesa all’interesse penalmente tutelato</strong>; f.2) è <strong>tale in senso naturalistico</strong>, in quanto determinate offese ad interessi sono <strong>tali solo se permanenti</strong>, limitandosi il legislatore a <strong>prendere atto</strong> di (e a riconoscere, senza creare) <strong>tale naturale diuturnità dell’offesa</strong> laddove ne prevede la punizione; in sostanza la fattispecie <strong>ha struttura unitaria e permanente già sul piano naturalistico</strong>, ed il <strong>rilievo giuridico della permanenza</strong> è <strong>intimamente avvinto</strong> a tale <strong>rilievo naturalistico di base</strong>; f.3) è in realtà <strong>una serie di reati omogenei in successione tra loro</strong>, giacché <strong>dopo la perfezione iniziale</strong> si realizzano una <strong>pluralità di eventi consumativi in successione tra loro</strong> (<strong>tesi c.d. pluralistica</strong>); f.4) può avere ad oggetto <strong>solo beni immateriali</strong> come la libertà personale (si pensi al sequestro di persona di cui all’art.605 c.p.), e <strong>non anche beni materiali</strong>: una tesi ormai <strong>sconfessata</strong> da chi ha dimostrato che, semmai, quello che conta è la <strong>comprimibilità del bene</strong> (e dell’interesse penalmente tutelato ad esso sotteso), sicché <strong>unici beni non suscettibili di essere oggetto materiale</strong> di un reato permanente sono quelli in relazione ai quali <strong>tale comprimibilità appare impossibile</strong>, profilandosi la <strong>sola alternativa</strong> tra <strong>esistenza</strong> (con una certa consistenza) e <strong>distruzione</strong> o “<strong><em>consumazione</em></strong>” (si veda, in tema di <strong>usufrutto</strong>, la omologa differenza tra <strong>cose consumabili “<em>di un tratto</em>”</strong> e cose <strong>solo deteriorabili</strong>, ex articoli 995 e 996 c.c.), mentre laddove il bene <strong>appaia comprimibile senza essere distrutto</strong> dalla condotta permanente del soggetto agente, il reato permanente appare <strong>configurabile</strong> ancorché si tratti di <strong>bene materiale</strong> (come dimostra il reato di <strong>invasione di terreni o edifici</strong> ex art.633 c.p.); f.5) è di <strong>connotazione strutturalmente bifasica</strong>, in quanto la <strong>prima fase</strong>, che perfeziona la fattispecie e <strong>dà inizio alla permanenza</strong>, può atteggiarsi alternativamente ad <strong>attiva od omissiva</strong>, mentre la seconda fase (nel corso della permanenza) è <strong>necessariamente omissiva</strong>, in quanto il soggetto agente <strong>omette</strong> per l’appunto di <strong>far cessare la permanenza</strong> (atteggiandosi come <strong>inadempiente</strong> ad un <strong>obbligo giuridico di contro-agire</strong>), onde <strong>non è applicabile l’art.131.bis c.p.,</strong> che è <strong>causa di non punibilità</strong> che postula testualmente la “<strong><em>non abitualità della condotta</em></strong>”, ovviamente in frizione con due (o più condotte): si oppone tuttavia a tale ricostruzione la relativa <strong>artificiosità</strong>, rappresentandosi peraltro come nel <strong>sequestro di persona</strong> chi <strong>fa la guardia al sequestrato</strong> in realtà <strong>agisce e non omette</strong> e, sotto altro profilo, in realtà <strong>non vi sono due norme violate</strong> dal soggetto agente (una che <strong>vieta di comprimere il bene tutelato</strong> e l’altra che <strong>obbliga a decomprimerlo riespandendolo</strong>) quanto piuttosto <strong>una sola</strong> che impone di <strong>non comprimere né di mantenere compresso</strong> l’interesse (bene) penalmente tutelato, onde il legislatore penale <strong>punisce unitariamente</strong> tanto il <strong>dare l’abbrivio</strong> a tale compressione, quanto il <strong>mantenerla operativa</strong>, sicché la condotta è una sola (quand’anche articolantesi in più atti) ed è <strong>pienamente applicabile</strong> la <strong>causa di non punibilità</strong> di cui all’art.131.bis c.p.;</li> <li>il reato permanente <strong>si riconosce</strong>: g.1) dal fatto che i relativi <strong>effetti lesivi si protraggono nel tempo</strong>; è una tesi criticata perché anche nel caso di <strong>reato istantaneo ad effetti permanenti</strong> si registra, appunto, tale <strong>protrazione degli effetti lesivi</strong>; g.2) dal fatto che la <strong>lesione continuativa</strong> ha ad oggetto <strong>beni giuridici di peculiare rilievo</strong>; è una tesi criticata perché un reato è permanente in quanto <strong>strutturalmente tale</strong>, in disparte la <strong>tipologia di bene</strong> (interesse) giuridico aggredita; g.3) dalla <strong>fattispecie astratta che lo configura</strong>, disegnando una <strong>offesa diuturna al bene</strong> (interesse) aggredito (dottrina maggioritaria);</li> <li>il reato connotato da permanenza <strong>si distingue</strong> in: h.1) <strong>necessariamente permanente</strong>: la fattispecie normativa astratta <strong>esige <em>diuturnitas</em> nell’offesa all’interesse giuridico tutelato</strong>; h.2) <strong>eventualmente permanente</strong>: la fattispecie normativa astratta ammette (senza imporla necessariamente) <strong>la <em>diuturnitas</em> nell’offesa</strong> all’interesse giuridico tutelato. In realtà secondo la dottrina più accreditata o il reato <strong>è (naturalisticamente) permanente</strong> o <strong>non lo è</strong>, in quanto nella ipotesi di un <strong>reato unico che sia connotato da una pluralità di atti tipici a successione discontinua</strong> (e non continua), il reato è appunto <strong>unico</strong>, ma <strong>non permanente</strong>;</li> <li>il reato permanente si distingue dal <strong>reato continuato</strong> in quanto il primo – reato permanente – è <strong>tale sul piano naturalistico</strong>, compendiandosi in un <strong>unico reato</strong> in cui la <strong>lesione dell’interesse penalmente tutelato è continuativa</strong>; il secondo - reato continuato – si configura come <strong>pluralità di reati</strong> in cui <strong>l’unificazione è meramente normativa</strong> e con <strong>finalità unicamente sanzionatorie</strong> (<strong><em>quoad poenam</em></strong>, <strong><em>pro reo</em></strong>);</li> <li>il reato permanente è (strutturalmente) <strong>accomunato al reato abituale</strong> dalla <strong>unicità</strong> e dalla <strong>durata</strong>, trattandosi in entrambi i casi, per l’appunto, di <strong>reati unici e di durata</strong>; tuttavia nel reato <strong>permanente</strong> si ha <strong>condotta continuata</strong> (protrazione continua e senza soluzione di continuità) che produce una <strong>lesione del pari continuata al bene</strong> (interesse) penalmente tutelato, mentre nel reato <strong>abituale</strong> si ha una <strong>condotta frammentaria</strong> (reiterazione <strong>discontinua</strong>), cui corrisponde una <strong>lesione normalmente</strong> (ma non necessariamente) <strong>frammentaria</strong> del ridetto bene, seppure in un quadro connotato da <strong>una unitarietà soggettiva</strong> (dolo) <strong>ed oggettiva</strong> (frequenza abituale e persistente);</li> <li>il reato permanente ha punti in comune e punti di divergenza con la <strong>diversa figura</strong>, di foggia soprattutto <strong>giurisprudenziale</strong>, dei c.d. <strong>reati ad azione frazionata</strong>, ed in particolare della <strong>truffa in danno di enti previdenziali</strong>, della <strong>truffa in danno dello Stato per percezioni indebite di finanziamenti e contributi con erogazione rateizzata nel tempo</strong>, della <strong>indebita erogazione di prestazioni in danno dello Stato</strong>, dell’<strong>usura</strong>, della <strong>corruzione</strong> e della <strong>lottizzazione abusiva</strong>; se da un lato – con riguardo alla decorrenza della <strong>prescrizione</strong> – si guarda alla <strong>parte cronologicamente finale dell’aggressione</strong> al bene protetto (in sostanza, quando cessa tale aggressione), e ciò è elemento <strong>comune</strong> rispetto al reato permanente, dall’altro in tali fattispecie l’aggressione all’interesse penalmente tutelato, pur <strong>sostanzialmente ripetuta in modo continuativo</strong>, <strong>non è diuturna e senza soluzione di continuità</strong> come appunto accade nelle fattispecie di reato permanente.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia la legittima difesa della vittima nei reati permanenti e in quelli abituali, in rapporto al requisito dell’attualità/persistenza del pericolo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’art.52 c.p. opera pacificamente nelle fattispecie di pericolo persistente - come nell’ipotesi paradigmatica dei reati permanenti - laddove l’aggressione, che ha già preso l’abbrivio, non si è ancora conclusa, giustificando la reazione dell’aggredito al fine di scongiurare il protrarsi degli effetti dannosi da essa in parte già prodotti (circostanza che si verifica peraltro anche quando, nei reati istantanei, non si sia ancora passati dalla fase di pericolo a quella di danno effettivo, come nelle fattispecie di furto in cui l’aggredito reagisce per scongiurare l’effettivo impossessamento, da parte dell’aggressore, del bene sottratto, laddove la dottrina tende a considerare il pericolo “attuale” in termini di protrazione fino a che si configurino ancora gli estremi della c.d. quasi-flagranza ex art.382 c.p.p.);</li> <li>più problematica la persistenza del pericolo che giustifica la legittima difesa dell’aggredito nelle ipotesi di reati abituali, laddove si considerino gli intervalli temporali che separano i singoli episodi offensivi, dacché – potendo in tali casi farsi ricorso al potere coercitivo pubblico – il pericolo creato dall’aggressore non può per l’appunto configurarsi attuale sub specie di “persistente”, tornando invece a configurarsi tale, e dunque imminente, ogni qual volta tornino a riaffacciarsi le condizioni che normalmente determinano la reiterazione offensiva (come nel classico caso, evocato in dottrina, del padre ubriaco che abitualmente maltratta i propri familiare, e che crea un pericolo attuale non già mentre è fuori a bere, quanto piuttosto nel momento in cui rientra in casa sotto i fumi dell’alcool).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p>