<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Con la sentenza n. 46865 del 2019 la Suprema Corte si è pronunciata in merito alla configurabilità del delitto di esercizio abusivo della professione forense da parte di colui che, non iscritto all’Ordine degli Avvocati, ma comunque fraudolentemente spendendo il relativo titolo, aveva riscosso e trattenuto il risarcimento destinato al proprio cliente. Secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11545/2011- chiosa la Corte- integra il reato di esercizio abusivo di una professione ex art. 348 c.p. il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, <strong>siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa</strong>, allorché lo stesso compimento venga realizzato con <strong>modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato. </strong>Ad integrazione del precetto penale di cui all’art. 348 c.p., la Corte richiama la legge n. 247 del 2012, che disciplina l’ordinamento della professione forense e all’art. 2, comma 6, espressamente prevede la competenza degli avvocati in relazione all’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, "<strong>se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato</strong>". La Corte ha evidenziato la lunga durata dell’assistenza “legale”, anche stragiudiziale, prestata dall’imputato, protrattasi per circa tre anni e relativa a due pratiche di risarcimento del danno, l’una concernente le conseguenze pregiudizievoli del sinistro stradale subito dal cliente querelante nel 2007, l’altra, la responsabilità professionale dei medici dell’Ospedale XXXXX che l’avevano avuto in cura; l’imputato, in particolare, era stato accreditato come avvocato esperto del settore da un’amica di famiglia e che era stata altra "cliente" del prevenuto, a riferire in seguito che l’imputato non era iscritta all’Ordine degli Avvocati, sebbene spendesse il relativo titolo, e che nel suo caso aveva illecitamente riscosso e trattenuto il risarcimento a lei destinato. Osserva la Corte che l’indice dell’organizzazione deve essere apprezzato sinergicamente con il requisito della continuità o sistematicità, di cui costituisce un predicato concernente una seppur rudimentale strutturazione dell’attività professionale abusiva, non identificabile necessariamente con la disponibilità di uno studio "legale" ovvero di un apparato strumentale che la sostenga. Inoltre, il compimento di atti non esclusivi di una professione soggetta a peculiari vincoli d’esercizio e, in particolare, all’iscrizione nel relativo albo non può ritenersi sottratta alla necessità di "tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti nell’esercizio della professione o indegni di esercitarla", aggiungendo che quando tali attività siano svolte in modo continuativo e creando tutte le apparenze (organizzazione, remunerazione, ecc.) del loro compimento da parte di soggetto munito del titolo abilitante, le stesse costituiscono espressione tipica della relativa professione e realizzano quindi i presupposti dell’abusivo esercizio, sanzionato dalla norma penale.</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza valorizza –chiosa ancora la Corte- le <strong>connotazioni di abitualità che sottendono il concetto stesso di esercizio di una professione, trattandosi di modalità suscettibili di ingenerare affidamento nei terzi rispetto all’espletamento di atti qualificanti</strong>, anche se non riservati, mediante l’accreditamento di un apparente legittimo patrocinio, conforme ai fini di tutela degli interessi del fruitore, presidiati dai presupposti di onorabilità, competenza ed etica professionale propri dello specifico ordinamento. Nella specie, l’abusiva e diffusa spendita dell’inesistente titolo professionale, accompagnata dallo svolgimento di una protratta attività di consulenza e mediazione legale con le controparti fino alla liquidazione dei danni relativi ai due sinistri denunziati, i cui importi sono stati incassati anche in forza di una procura speciale falsa all’uopo formata, danno conto della sussistenza della fattispecie ascritta, essendo stata l’attività illecita sostenuta dall’artificiosa creazione e dal successivo mantenimento di un rapporto fiduciario con i propri clienti “assistiti”, avente le caratteristiche di continuità, onerosità e prestazione di mezzi e asserite competenze tipiche dell’esercizio della professione legale. Quanto alla fattispecie di truffa, questa Corte ha chiarito, con insegnamento cui deve darsi continuità, che <strong>l’integrazione del reato non implica la necessaria identità fra la persona indotta in errore e la persona offesa, e cioè titolare dell’interesse patrimoniale leso, ben potendo la condotta fraudolenta essere indirizzata ad un soggetto diverso dal titolare del patrimonio, sempre che sussista il rapporto causale tra induzione in errore e gli elementi del profitto e del danno</strong> (Sez. 2, n. 10085 del 21/02/2008 - dep. 05/03/2008, Minci, Rv. 239508; n. 2281 del 06/10/2015, dep. 2016, PM in proc. Della Monica e altro, Rv. 265773; n. 39958 del 19/07/2018, Ferrigno, Rv. 273820). L’isolato, difforme, precedente citato dalla difesa, secondo cui è necessaria la identità soggettiva tra il soggetto che, indotto in errore dall’autore del reato, compie l’atto di disposizione patrimoniale e il soggetto passivo del danno, acquisendo rilievo l’atto di disposizione patrimoniale del terzo ingannato solo nel caso in cui questi abbia la gestione degli interessi patrimoniali del titolare e la possibilità di compiere atti aventi efficacia nella sfera patrimoniale aggredita (Sez. 5, n. 18968 del 18/01/2017, F, Rv. 271060), è relativo ad una vicenda che vedeva il ricorrente imputato per furto aggravato dal mezzo fraudolento e costituisce affermazione resa nell’ambito della diagnosi differenziale tra il reato giudicato e quello di truffa in assenza di un’analisi ermeneutica suscettibile di inficiare gli approdi dell’orientamento dominante. Infatti, secondo lo schema normativo, nella truffa l’induzione in errore deve conseguire l’ingiusto profitto con altrui danno e nell’indispensabile rapporto eziologico tra la condotta strumentale e l’evento non è giuridicamente necessitata la coincidenza dell’indotto in errore con il soggetto passivo del danno che pure, nella specie, ricorre. Infatti, il cliente dell’imputato che aveva a quest’ultimo affidato la cura dei propri interessi, conferendogli apposita delega per trattare il risarcimento del danno a seguito dei sinistri di cui era rimasto vittima nel 2007, per effetto dell’accreditamento dell’imputato come avvocato, subiva il danno costituito dalla mancata percezione delle somme a tale titolo liquidate dalla Compagnia assicuratrice e lucrate dal ricorrente. Le Compagnie assicuratrici che procedettero all’erogazione degli importi oggetto di transazione hanno, dunque, compiuto atti dispositivi che non risultano frutto dell’induzione in errore operata dall’imputato, attesa l’effettiva esistenza dei contenziosi risarcitori per i danni subiti dall’assistito, agendo in veste di obbligati al risarcimento per conto del responsabile del sinistro stradale e dell’Istituto Ospedaliero. L’oggetto della condotta truffaldina è invece costituito dalla gestione, ottenuta fraudolentemente dal prevenuto, dei diritti risarcitori dell’assistito, nei confronti dei soggetti obbligati e coperti da assicurazione per i sinistri causati, la cui liquidazione, lungi dal confluire nel patrimonio dell’offeso, veniva volta a profitto personale da parte del ricorrente. Palesemente destituito di pregio risulta anche l’ulteriore rilievo in punto di qualificazione giuridica giacché, come già chiarito, l’induzione in errore cade nella fase di affidamento dell’incarico "professionale" al ricorrente, che evidentemente fin dall’inizio intendeva agire in rem propriam al fine di appropriarsi degli importi liquidati. Questa Corte ha, infatti, in più occasioni precisato che sussiste il delitto di truffa e non quello di appropriazione indebita quando l’artificio e il raggiro risultino necessari alla appropriazione (Sez. 2, n. 35798 del 18/06/2013, Actis, Rv. 257340;Sez. 2, n. 51060 del 11/11/2016, Losito, Rv. 269234).</p> <p style="text-align: justify;"><em>Domiziana Pinelli</em></p> <p style="text-align: justify;"></p>