<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 14 febbraio 2020 n. 18</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri di figli affetti da handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), ritualmente accertato in base alla medesima legge.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Le questioni sono fondate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1.– La disciplina della detenzione domiciliare speciale, contenuta nell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, è stata introdotta dall’art. 3, comma 1, della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori) ed è stata in seguito parzialmente modificata dal legislatore con l’art. 3, comma 2, lettere a) e b), della legge 21 aprile 2011, n. 62, recante «Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori». Tale istituto è finalizzato ad ampliare, oltre i casi in cui può essere concessa la detenzione domiciliare ordinaria ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), ordin. penit., la possibilità, per le madri condannate a pena detentiva, di scontare quest’ultima con modalità esecutive extracarcerarie, per meglio tutelare il loro rapporto con i figli.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infatti, il richiamato art. 47-ter, comma 1, lettera a), ordin. penit., relativo alla detenzione domiciliare ordinaria, si può applicare quando la madre debba scontare la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Viceversa, la detenzione domiciliare speciale non incontra il limite relativo alla durata della pena, in quanto l’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., prevede, per quanto rileva in questa sede, che «[q]uando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In tal modo, il legislatore ha consentito anche alle madri condannate a pene detentive superiori a quattro anni, o che devono ancora scontare più di quattro anni di reclusione, di accedere alla detenzione domiciliare speciale, a condizione però che i figli non abbiano superato i dieci anni di età.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.2.– Tale condizione, relativa all’età dei figli, sussisteva in origine anche per la detenzione domiciliare ordinaria, di cui all’art. 47-ter. Tuttavia questa Corte, con la sentenza n. 350 del 2003, ha inciso su tale disposizione estendendo la possibilità di concedere la detenzione domiciliare ordinaria nei confronti della madre condannata, convivente con un figlio portatore di disabilità totalmente invalidante, anche se di età superiore ai dieci anni. Successivamente il legislatore, nel sostituire per intero, tra l’altro, la disciplina di cui al comma 1 dell’art. 47-ter, ha riprodotto il contenuto normativo su cui aveva inciso la sentenza n. 350 del 2003 (art. 7, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251, recante «Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione»), ma non ha fatto venire meno l’effetto di tale sentenza, dovendo l’addizione da essa introdotta riferirsi anche alla nuova disposizione, che riproduce la medesima norma su cui questa Corte si è pronunciata (come emerge pacificamente dalla giurisprudenza di legittimità: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 14 maggio-30 settembre 2019, n. 39991; 31 ottobre 2018-10 gennaio 2019, n. 1029; 19 dicembre 2017-5 giugno 2018, n. 25164; 18 settembre-13 ottobre 2015, n. 41190; 29 maggio-20 settembre 2012, n. 36247; nonché, tra le altre, Corte di cassazione, sezione quarta penale, 4 aprile-19 maggio 2006, n. 17405).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il giudice rimettente rileva un vizio di illegittimità costituzionale nella asimmetria che si è venuta a creare tra la detenzione domiciliare ordinaria di cui all’art. 47-ter e quella speciale di cui all’art. 47-quinquies ordin. penit., in quanto – allo stato attuale – le due misure, pur perseguendo la medesima finalità, presentano differenze quanto ai presupposti per la fruizione, essendo esclusa, per la sola detenzione domiciliare speciale qui in discussione, la possibilità di accedervi nel caso in cui il figlio abbia un’età superiore ai dieci anni, ma sia affetto da disabilità totalmente invalidante.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.3.– In effetti, in riferimento alle finalità perseguite, questa Corte ha già sottolineato che entrambe le misure, oltre che alla rieducazione del condannato, sono primariamente indirizzate a consentire la cura dei figli e a preservarne il rapporto con la madre (così la sentenza n. 211 del 2018; per la equiparazione delle due misure sotto il profilo delle finalità perseguite dalla legge e del loro contenuto, pur nella differenza dei presupposti per la loro applicazione, si veda anche la sentenza n. 177 del 2009). In particolare, pronunciandosi sulla detenzione domiciliare ordinaria, questa Corte ha affermato che essa ha lo scopo di favorire «le esigenze di sviluppo e formazione del bambino il cui soddisfacimento potrebbe essere gravemente pregiudicato dall’assenza della figura genitoriale» (sentenza n. 350 del 2003). Con specifico riferimento all’istituto della detenzione domiciliare speciale, questa Corte ha ripetuto che nell’istituto «assume rilievo prioritario la tutela di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, qual è il minore» (sentenza n. 76 del 2017 e, analogamente, sentenza n. 239 del 2014).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Se tale è la finalità che accomuna le due misure, incentrata sulla tutela di un soggetto debole, peraltro estraneo alle vicende che hanno portato alla condanna, ne consegue, come correttamente deduce la Corte rimettente, l’illegittimità costituzionale della preclusione della detenzione domiciliare speciale per le madri con figli di età superiore ai dieci anni, ma affetti da disabilità totalmente invalidante.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– Decisivi anche per le questioni oggi in giudizio sono gli argomenti sviluppati da questa Corte nella sentenza n. 350 del 2003 già menzionata, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, Cost., dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), ordin. penit., nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare ordinaria «anche nei confronti della madre condannata, e, nei casi previsti dal comma 1, lettera b), del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A fondamento di tale decisione, questa Corte aveva posto a confronto le esigenze di cura del figlio minore di dieci anni con quelle del figlio gravemente disabile di qualsiasi età. In proposito, aveva affermato che nel caso del figlio gravemente invalido «il riferimento all’età non può assumere un rilievo dirimente, in considerazione delle particolari esigenze di tutela psico-fisica il cui soddisfacimento si rivela strumentale nel processo rivolto a favorire lo sviluppo della personalità del soggetto. La salute psico-fisica di questo può essere infatti, e notevolmente, pregiudicata dall’assenza della madre, detenuta in carcere, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Corte aveva perciò ritenuto che precludere la detenzione domiciliare dopo il compimento dei dieci anni di età del figlio recasse una violazione sia al primo sia al secondo comma dell’art. 3 Cost., alla luce del perdurante bisogno di cura e di assistenza da parte dei genitori del figlio totalmente disabile. La Corte ravvisava una violazione del primo comma dell’art. 3 Cost., in quanto la disposizione censurata stabiliva «un trattamento difforme rispetto a situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dieci, ma con un certo margine di autonomia, almeno sul piano fisico, e quella della madre di un figlio disabile e incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, a qualsiasi età, ha maggiore e continua necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci». Inoltre, risultava violato anche il secondo comma del medesimo art. 3 Cost., perché l’esecuzione della pena nella forma della detenzione domiciliare è volta «al fine di favorire il pieno sviluppo della personalità del figlio», sicché «la possibilità di concedere la detenzione domiciliare al genitore condannato, convivente con un figlio totalmente handicappato, appare funzionale all’impegno della Repubblica, sancito nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non è inutile notare in proposito che la giurisprudenza di legittimità che ha dato seguito a quella sentenza ha poi aderito agli argomenti svolti da questa Corte, osservando come l’assenza della madre, per il figlio gravemente invalido, costituisca «un pregiudizio ancora più grave» di quanto non lo sia per il figlio sano di età inferiore ai dieci anni (Corte di cassazione, sezione prima penale, 18 settembre-13 ottobre 2015, n. 41190).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.– Considerazioni del tutto analoghe a quelle spese nella sentenza n. 350 del 2003 a proposito della detenzione domiciliare ordinaria inducono ora questa Corte a giudicare costituzionalmente illegittima la disciplina della detenzione domiciliare speciale, di cui al censurato art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., nella parte in cui esclude dal suo ambito di applicazione le madri detenute di figli gravemente disabili di qualunque età, quale è la figlia della detenuta parte del giudizio principale, portatrice di handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Analogamente a quanto affermato a proposito della detenzione domiciliare ordinaria, questa Corte ritiene che il limite di età dei dieci anni previsto dall’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., contrasti con i principi costituzionali di cui all’art. 3, primo e secondo comma, Cost., unitamente a quello di cui all’art. 31, secondo comma, Cost., pure invocato dalla Corte rimettente, che prevede la tutela della maternità, cioè del legame tra madre e figlio che non può considerarsi esaurito dopo le prime fasi di vita del bambino. Tali principi esigono che una misura alternativa alla detenzione, qual è quella prevista dall’art. 47-quinquies – finalizzata principalmente a tutelare il figlio, terzo incolpevole e bisognoso del rapporto quotidiano e delle cure del detenuto – debba estendersi all’ipotesi del figlio portatore di disabilità con «connotazione di gravità» ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, il quale si trova sempre in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e psichica indipendentemente dall’età. Nei casi di disabilità grave, l’autonomia personale è così ridotta «da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» a qualunque età (art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992). Il dato di esperienza, anzi, rivela che le condizioni di vita e di salute delle persone colpite da disabilità grave tendono ad aggravarsi e ad acuirsi con l’avanzare dell’età. Sicché delimitare il beneficio penitenziario in questione in ragione di un parametro meramente anagrafico è costituzionalmente illegittimo quando si tratta di persona gravemente disabile.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.– Occorre ancora osservare che la giurisprudenza costituzionale ravvisa nelle relazioni umane, specie di tipo familiare, fattori determinanti per il pieno sviluppo e la tutela effettiva delle persone più fragili, e ciò in base al principio personalista garantito dalla nostra Costituzione, letto anche alla luce degli strumenti internazionali, tra i quali, in questo ambito, soprattutto la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 marzo 2009, n. 18 (in tale ultimo senso, le sentenze n. 83 del 2019 e n. 2 del 2016).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte, infatti, in linea con una giurisprudenza ricca e costante, ha affermato che «una tutela piena dei soggetti deboli» richiede anche «la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana» (sentenza n. 203 del 2013), e ha altresì ulteriormente ribadito che il diritto del disabile di «ricevere assistenza nell’àmbito della sua comunità di vita» rappresenta «il fulcro delle tutele apprestate dal legislatore e finalizzate a rimuovere gli ostacoli suscettibili di impedire il pieno sviluppo della persona umana» (sentenza n. 232 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Può essere utile aggiungere che di recente lo stesso legislatore, in dichiarata attuazione dei citati principi costituzionali e internazionali, con la legge 22 giugno 2016, n. 112 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare), cosiddetta legge del “Dopo di noi”, ha ritenuto che proprio in relazione alle persone con grave disabilità il sostegno offerto dai genitori è essenziale, preoccupandosi di stabilire che, alla morte dei genitori o al sopravvenire dell’incapacità di assistere il figlio, siano predisposte le necessarie «misure di assistenza, cura e protezione nel superiore interesse delle persone con disabilità grave», volte ad assicurarne «il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia», ulteriori rispetto ai livelli essenziali di assistenza e agli altri interventi di cura e di sostegno comunque già previsti dalla legislazione vigente in favore delle persone con disabilità (artt. 1 e 2).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.– Sulla base delle considerazioni che precedono, l’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma, e 31, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere la detenzione domiciliare speciale anche nei confronti delle condannate madri di figli affetti da disabilità grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, ritualmente accertato in base alla medesima legge.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È appena il caso di aggiungere che la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale non incide sugli ulteriori requisiti per la concessione della misura. Restano pertanto ferme le previsioni dell’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., che stabiliscono che le detenute possono essere ammesse alla detenzione domiciliare nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, solo «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (ovvero, nei casi previsti dall’art. 47-quinquies, comma 1-bis, ordin. penit., solo «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga»).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte non può fare a meno di ribadire, come già in altre precedenti analoghe occasioni (sentenze n. 187 e n. 99 del 2019, n. 211 del 2018, n. 76 del 2017 e n. 239 del 2014), che in sede di valutazione in concreto dei presupposti di concessione della detenzione domiciliare e di determinazione delle concrete modalità del suo svolgimento, il tribunale di sorveglianza sarà chiamato a contemperare ragionevolmente tutti i beni in gioco: le esigenze di cura del disabile, così come quelle parimenti imprescindibili della difesa sociale e di contrasto alla criminalità. Nella stessa linea, del resto, la Corte di cassazione richiede esplicitamente che i provvedimenti che valutano le istanze di detenzione domiciliare della madre condannata diano conto di avere compiuto la necessaria «verifica comparativa complessa», bilanciando in concreto le esigenze della sicurezza e della difesa sociale con quelle del soggetto debole diverso dal condannato e particolarmente bisognoso di assistenza da parte della madre (così Corte di cassazione, sezione prima penale, 27 marzo-17 giugno 2019, n. 26681; Corte di cassazione, sezione prima penale, 10 ottobre-24 novembre 2017, n. 53426; ma anche, tra le altre, Corte di cassazione, sezione prima penale, 7 marzo-19 settembre 2013, n. 38731).</em></p>