Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza del 25.03.2020 n. 10647.
Con la decisione in commento, la Corte di Cassazione individua gli elementi che distinguono il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dal delitto di estorsione.
Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 393 c.p., si distingue dal reato di estorsione, disciplinato dall’art. 629 c.p., innanzitutto sulla circostanza della provata esistenza di un credito nei confronti della persona offesa, che deve essere pertanto certo, liquido ed esigibile.
Nel caso in cui si trattasse di un credito inesistente o di una somma maggiore di quella dovuta, allora si ritiene integrato il delitto di estorsione.
Un altro criterio fa riferimento al soggetto che pone in essere la condotta penalmente rilevante.
Infatti, la stessa rientra nell’ambito dell’art. 393 c.p. solo se posta in essere personalmente da un determinato soggetto attivo, il creditore, laddove si configura l’estorsione se la condotta di violenza o minaccia venga posta in essere da un terzo che sia estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica vantata nei confronti della persona offesa.
Nella sentenza in commento, ed in relazione alla fattispecie concreta, la Corte pone maggiore attenzione al criterio del grado della gravità della condotta violenta o minacciosa, con la conseguenza che si rimane nell’ambito dell’estorsione, ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima, mentre sarebbe configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo.
Silvia Lucietto