<p class="western" align="justify"></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Baskerville Old Face, serif;"><span style="font-size: large;"><b>Massima</b></span></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Baskerville Old Face, serif;"><span style="font-size: large;"><i>Il principio di legalità tende a lasciare alla legge il monopolio della selezione dei fatti penalmente rilevanti, che devono essere descritti in modo preciso e tassativo, consentendo al cittadino di sapere sempre quale è il comportamento punito e al giudice di poter sussumere un dato contegno concreto del soggetto attivo, assunto punibile, nella astratta, corrispondente fattispecie penale (c.d. inadempimento-reato).</i></span></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><span style="font-size: large;"><b>Crono-articolo</b></span></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il principio </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>nullum crimen sine lege, nulla poene sine lege</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, non trae origine dal diritto romano, ma è di origine illuministica, essendo il diritto romano maggiormente legato alla c.d. legalità sostanziale. In particolare, il diritto romano di età prerepubblicana e repubblicana, fondandosi sulla casistica, rifiuta la codificazione ed ammette il ricorso all’analogia, seppure formalmente non riconoscendola come tale, sia per i </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>crimina</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (gli odierni reati) che per le pene giusta punizione c.d. “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>ad exemplum legis</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, disconoscendo così il principio di legalità formale (in ottica garantista) per come lo intendiamo oggi.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1889</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>espressamente</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1930</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il codice penale all’art.1 prevede, sulla scia del precedente del 1889, che nessuno può essere punito per un fatto che non sia “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>espressamente</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Prevede poi tutta una serie di disposizioni nelle quali appare più o meno inafferrabile il comportamento punibile, come accade – paradigmaticamente – nella fattispecie di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>plagio</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” di cui all’art.603 onde è punito gravemente (con la reclusione da 5 a 15 anni) chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1948</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">La Costituzione ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo; in particolare viene in rilievo la disposizione di cui all’art.25, comma 2, della Carta, anche in relazione all’art.24 sul diritto di difesa e all’art.27 sul principio di colpevolezza e sulle finalità di prevenzione della norma penale (e di connessa, tendenziale rieducazione della pena), che vengono frustrate se il cittadino non è in grado di capire cosa viene punito e se il giudice, per parte sua, rischia di punire o non punire a propria completa ed arbitraria discrezione.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1973</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 15 che, in tema di grida, manifestazioni e radunate sediziose (articoli 654 e 655 c.p.) emette una sentenza interpretativa di rigetto, così salvando le norme, orientando il giudice al singolo caso e, in qualche modo, sostituendolo al legislatore nell’opera di delineare con sufficiente precisione il comportamento punibile. Ciò attraverso una interpretazione del termine “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>sedizione</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, che tradizionalmente implica ribellione, ostilità ed eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni, compendiandosi in un comportamento concretamente idoneo a produrre un evento pericoloso per l’ordine pubblico.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1975</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 188 che – giudicando in tema di offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone (art.403 c.p.) – salva la disposizione ritenendo che l’esigenza di una previsione “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>tipica</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” del fatto costituente reato può essere operata anche con una descrizione sommaria o con l’uso di espressioni meramente indicative.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1980</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 22 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 177 che inaugura un atteggiamento di svolta garantista in termini di determinatezza e tassatività della fattispecie penale: viene dichiarato incostituzionale l’art. 1, n.3, della legge 1423.56 in tema di misure di prevenzione, laddove ritiene applicabile una tal misura al non meglio specificato soggetto “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>proclive a delinquere</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, sulla base di generiche manifestazioni di questa inclinazione delinquenziale non collegate a circostanze di fatto chiare dalle quali dedurre la pericolosità del prevenuto.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1981</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">L’8 giugno esce la nota sentenza della Corte costituzionale n.96 sul </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">plagio</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, con la quale viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 603 del c.p.: il fatto penalmente sanzionato, per la Corte, appare non verificabile tanto nella relativa concreta effettuazione che nel relativo risultato. La parola plagio in astratto ha un significato, ma – per come è formulata la norma (riduzione di una persona in totale stato di soggezione psichica) - nessun fatto concreto accertabile dal giudice penale corrisponde in realtà a quel significato. Il legislatore deve descrivere fatti che, sulla base dello stato attuale delle conoscenze, appaiono verificabili: solo in questo modo viene consentito al giudice penale di sussumere il fatto concretamente accertato (e verificabile) nella fattispecie astratta descritta dal legislatore, dovendo quest’ultima essere descritta in modo intellegibile (quand’anche attraverso l’impiego di espressioni indicative o di valore).</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1988</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 27 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.475 in tema di rumorosità ed igiene acustica negli ambienti di lavoro che, richiamando taluni precedenti (sentenze 27 del 1961 e 49 del 1980) , salva le norme impugnate sul presupposto onde il principio di legalità non sarebbe attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto: spesso infatti le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria e all'uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato. Secondo la Corte la necessaria integrazione della norma operata dal prudente, concreto apprezzamento del giudice che utilizza nozioni e concetti di comune esperienza o le indicazioni della tecnica, non comporta certo invasione dei poteri riservati al legislatore, trattandosi anzi di attività propria del processo interpretativo, che del magistero giudiziario é fondamentale espressione.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1989</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 18 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.11 in tema di armi giocattolo, che dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 4 e 6, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi): secondo la Corte il deficit di determinatezza della fattispecie penale può aprire le porte al giudizio di costituzionalità solo laddove non esista un </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">diritto vivente</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (nel caso di specie, si registra invece un consolidato orientamento della Cassazione) che provveda ad inverare la sufficiente determinatezza del fatto penalmente sanzionato. Nella fattispecie, si tratta di individuare quale sia il comportamento punibile in capo a soggetti diversi dai fabbricanti di armi giocattolo (per i quali ultimi invece il comportamento punibile risulta pianamente definito), e la Corte assume il “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>diritto vivente</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” capace di surrogare il deficit di tassatività della fattispecie legislativa, con orientamento tuttavia criticato dalla dottrina più garantista.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1990</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 9 ottobre vede la luce il D.P.R. n. 309 in materia di stupefacenti che, all’art.80, prevede una fattispecie aggravata specifica se il fatto riguarda “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>quantità ingenti</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” di sostanze stupefacenti o psicotrope: una dicitura generica in potenziale frizione con il principio di tassatività della fattispecie penale.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>1996</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 2 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 370 che, in tema di possesso ingiustificato di oggetti e valori (art. 708 c.p.), dichiara la norma incostituzionale per deficit di determinatezza laddove prevede che sia punibile il possesso, oltre che di denaro ed oggetti di valore, di non meglio specificate “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>altre cose</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”. La sentenza appare tuttavia più incentrata sulla irragionevole discriminazione (art.3 Cost.) tra chi ha già subito una condanna per reati contro il patrimonio e chi è invece incensurato.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2001</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 13 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10311 in tema di riduzione in schiavitù ex art. 600 c.p., che ritiene manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, salvando dunque la norma: la questione riguarda la riduzione di taluno “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>in condizione analoga alla schiavitù</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, ed il contrasto con gli articoli 3 e 25 della Costituzione (presunto deficit di tassatività della fattispecie) viene escluso attraverso un richiamo alla Convenzione di Ginevra del 1956 (ratificata dall’Italia con legge 1304.57), che prevede un elenco di ipotesi a riguardo. Peraltro, a differenza del plagio (che richiama una conculcazione dell’intimo volere difficilmente verificabile), la condizione analoga alla schiavitù si compendia nel costringere una persona al proprio esclusivo servizio avvalendosi di prassi, tradizioni, circostanze ambientali e simili, attraverso un comportamento concretamente verificabile.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2004</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 13 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.5 che vaglia la legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo n.286.98 in tema di immigrazione, laddove lo straniero – a seguito dell’ordine espulsivo impartito dal Questore – si trattiene sul territorio dello Stato “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>senza giustificato motivo</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”. La Corte salva la norma ritenendola compatibile con il principio di tassatività, partendo dal fatto che nel sistema penale sovente il legislatore utilizza delle valvole di sicurezza, delle clausole generali sintetizzate in espressioni come “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>senza giusta causa</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>arbitrariamente</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>senza giustificato motivo</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” ed altre ancora: in questi casi non si è al cospetto di cause di giustificazione, ma in ogni caso di elementi che rendono inesigibile una determinata condotta penalmente sanzionata (e quindi, nel caso di specie, rendono inesigibile il “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>non trattenersi</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” sul territorio dello Stato, e quindi l’uscire dal territorio stesso): se tali clausole generali non fossero inserite dal legislatore, le contingenze della vita potrebbero creare lacune che andrebbero a svantaggio dello stesso reo il quale - per situazioni ostative a carattere oggettivo o soggettivo, per la presenza di obblighi di segno contrario rispetto al comportamento imposto dalla norma penale, ovvero per la necessità di bilanciare in valori in gioco con riguardo ad interessi di rango almeno pari a quello tutelato dalla norma incriminatrice – deve assumersi giustificato per l’inosservanza nel caso concreto del precetto penale. Si tratta di clausole che tuttavia, ove rimettenti all’arbitrio del giudice la definizione dei casi di relativa, concreta applicabilità (nel caso di specie, il giustificato motivo che autorizza il trattenimento sul territorio dello Stato), possono finire col ridondare a svantaggio del reo; la patente di legittimazione costituzionale di dette clausole passa allora proprio dal vaglio in ordine alla tassatività della fattispecie che esse dipingono. Da questo punto di vista, la clausola elastica o l’espressione sommaria non va valutata isolatamente, ma insieme agli elementi costitutivi della fattispecie penale ed alla disciplina complessiva in cui essa si inserisce: occorre partire, secondo la Corte, dalle finalità della singola fattispecie e dal quadro normativo complessivo in cui essa si colloca, al fine di verificare se la descrizione del fatto incriminato sia tale da consentire: </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">a) al giudice, di ricondurre una fattispecie concreta alla fattispecie astratta; </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">b) al destinatario della norma, di percepire in modo sufficientemente chiaro ed immediato il valore precettivo. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Distinguendo allora i migranti economici da quelli che chiedono asilo, nel quadro dei molteplici interessi pubblici connessi al fenomeno migratorio, mentre per chi rischia persecuzioni fuori dall’Italia e conseguente lesione dei relativi diritti inviolabili il “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>giustificato motivo</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” di trattenimento si atteggia in un certo modo, diversa è la situazione per i migranti economici che non rischiano di veder conculcati i loro diritti fondamentali. Anche se non si è in presenza di scriminanti a tutti gli effetti, che opererebbero in modo oggettivo, per la Corte nel caso del richiedente asilo possono configurarsi situazioni ostative di peculiare pregnanza che rendono impossibile sul piano oggettivo o soggettivo adempiere alla singola intimazione penale: rispettare il precetto si configura come impossibile ovvero rischioso o difficoltoso, e dunque il contegno diventa inesigibile sul piano penale. La giurisprudenza successiva alla sentenza della Corte chiarirà poi i limiti di configurabilità del giustificato motivo di trattenimento dello straniero con peculiare riguardo alle ipotesi di difficile condizione economica dello straniero (in relazione all’acquisto del titolo di viaggio per l’uscita dal territorio dello Stato), distinguendo nella sostanza i casi di mera difficoltà (inidonei all’uopo) da quelli di grave e assoluta impossidenza (capaci invece di rendere il trattenimento giustificato), alla costante ricerca di un punto di equilibrio tra i diversi valori in campo (sicurezza pubblica da un lato e diritti fondamentali dell’individuo dall’altro).</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 19 febbraio viene varata la legge n.40 recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita, secondo il cui art.12, comma 6, chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità e' punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. La dottrina più avvertita farà rilevare come con l’espressione “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>surrogazione di maternità</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” possano in realtà indicarsi fenomeni variegati, come tali destinati ad una rilevanza giuridica non solo differenziata, ma sovente anche problematica, con conseguente deficit di tassatività, come accade proprio nella fattispecie incriminatrice in rassegna. Un inquadramento – sul crinale penalistico – vieppiù complesso laddove ci si trovi dinanzi ad un caso (tutt’altro che infrequente) di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>turismo procreativo</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, ovvero finalizzato ad usufruire di una “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>gestazione per altri</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” in luoghi ove la ridetta pratica è legittima e disciplinata, affiorandovi ulteriori questioni di diritto penale transnazionale, anch’esse condizionate, per tale dottrina, dalle difficoltà nella definizione del fatto tipico e, con esso, del </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>locus commissi delicti</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2006</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 17 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4675 (caso Porto Marghera) che assume ricadente nell’ambito della fattispecie di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">disastro “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>innominato</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> di cui all’art.434 c.p. (un “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>altro disastro</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”) il c.d. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">disastro ambientale</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (progressiva ed imponente contaminazione dei suoli, dell’acqua e dell’aria con sostanze pericolose per la pubblica incolumità, tramite condotte reiterate e diluite nel tempo), anche se esso non ha caratteristiche di (devastante) immediatezza e può realizzarsi in un arco di tempo molto ampio e prolungato; in sostanza, l’evento disastroso può anche non essere immediatamente percepibile (come è normalmente il caso di una frana o di una valanga) ma è comunque “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>altro disastro</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” in quanto ad essere compromessi sono quei contesti di sicurezza per la salute e per altri valori della persona e della collettività che consentono di predicare la configurabilità di una ipotesi, per l’appunto, di reato contro la pubblica incolumità. In sostanza, anche se non si tratta di un evento di immediata eccezionalità, si è comunque al cospetto di un macroevento punibile ai sensi dell’art.434 c.p., la cui fattispecie “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>elastica</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” (non tassativa) è idonea a ricomprenderlo.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2007</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 5 giugno esce la sentenza delle SSUU n.21833, che si occupa del contrasto che si agita intorno all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla questione se esso sia idoneo o meno ad interrompere il termine di prescrizione del reato. La Corte richiama in proposito entrambi gli orientamenti, ed in particolare quello che assume l’avviso di conclusione delle indagini preliminari idoneo ad interrompere la prescrizione ridetta, sulla base di quella giurisprudenza che – in disparte anche la sostanziale equipollenza tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, quale atto che deve sempre precedere l’esercizio dell’azione penale e che tuttavia non è espressamente previsto all’art.160 c.p., da un lato, e l’invito a presentarsi innanzi al PM per rendere l’interrogatorio di cui all’art.375 c.p.p., che è atto invece espressamente previsto al ridetto art.160 c.p., dall’altro – fa piuttosto e soprattutto leva sul fatto che l’art.415 bis c.p.p. riconosce all’indagato la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a seguito proprio della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, onde si sarebbe al cospetto di una conferma testuale dell’effetto interruttivo in parola, sol che si consideri come nell’avviso di deposito di cui all’art.415.bis c.p.p. è sostanzialmente contenuto un avviso di presentarsi al PM, che è esplicitamente assunto dall’art.160 c.p. quale atto interruttivo della prescrizione. Le SSUU nondimeno abbracciano l’opposto orientamento inteso ad assumere l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non idoneo ad interrompere la prescrizione, tratteggiandone la figura e muovendo dal presupposto onde le norme che disciplinano la prescrizione del reato – e dunque anche la relativa interruzione - hanno natura sostanziale e non già processuale, producendo l’interruzione della prescrizione un rimarchevole effetto negativo per l’indagato (o per colui che è ormai imputato): proprio muovendo da tale premessa sistematica, per il Collegio occorre tenere ben presente il principio di legalità ed in particolare il principio di determinatezza delle fattispecie penali sostanziali, siccome consacrato nell’art.25, comma 2, Cost., in una con il collaterale divieto di applicazione analogica della legge penale di cui all’art.14 delle Preleggi, onde l’elenco degli atti che determinano l’interruzione della prescrizione del reato ex art.160 c.p. deve assumersi tassativo</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2008</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 01 agosto esce la sentenza della Corte costituzionale n. 327 che – pronunciandosi sul c.d. disastro innominato di cui all’art.434 c.p. – torna sugli elementi descrittivi elastici della fattispecie: il problema si pone da quella parte della norma che richiama genericamente, punendolo, un “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>altro disastro</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”. La Corte salva anche in questo caso la norma, interpretandola in modo costituzionalmente orientato e ribadendo che l’elemento descrittivo della fattispecie tacciato di frizione con il principio di determinatezza non va letto in modo isolato, ma nel contesto complessivo della figura criminosa siccome disegnata dal legislatore e dei fini che essa si propone in termini di tutela di specifici interessi. Quello che conta è che: </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">a) il giudice possa ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta attraverso una operazione interpretativa controllabile: il giudice penale non crea la norma, ma la applica; </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">b) il destinatario della norma possa percepire il precetto penale in modo chiaro ed immediato, venendo così messo nelle condizioni di non comportarsi in modo da soggiacere a pena. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il disastro “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>innominato</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, secondo la Corte, persegue un determinato fine ed è collocato nel novero dei delitti contro la pubblica incolumità, ed è in questo complessivo quadro sistematico che la norma penale va letta, interpretata ed applicata ai casi concreti. Si tratterà pure di un disastro “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>innominato</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, ma esso non potrà – strutturalmente – che compendiarsi in un evento omogeneo ai disastri nominati: sul crinale dimensionale, non potrà che essere (come lo è una frana, una inondazione, una valanga, un disastro aviatorio) un evento distruttivo straordinario idoneo a produrre effetti di danno gravi, estesi e complessi; poiché poi la fattispecie è inserita tra quelle contro la “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>pubblica incolumità</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, detto evento dovrà anche palesare una proiezione offensiva di tipo diffusivo (pericolo per la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, quand’anche nessun soggetto in concreto muoia o venga leso). Nella stessa pronuncia la Corte solleva dubbi in ordine alla riconducibilità del disastro ambientale (proprio in ottica di omogeneità rispetto ai disastri nominati, secondo le critiche della più avvertita dottrina) tra i disastri innominati costituzionalmente legittimi, e ciò a cagione della eccessiva dilatazione della portata applicativa dell’art.434, con conseguente deficit di tassatività della fattispecie: viene allora invitato il legislatore a disciplinare </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>ex professo</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> il disastro ambientale, in modo da scongiurarne la punizione giusta applicazione “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>a maglie larghe</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” dell’art.434 c.p. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2011</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 01 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 9927 che, in tema di aggravante della ingente quantità di stupefacenti, ritiene la norma (art. 80 del D.P.R.309/90) costituzionalmente legittima (questione manifestamente infondata) seguendo i parametri di cui alla sentenza della Corte costituzionale n.327.08: il destinatario della norma può percepire in modo sufficientemente chiaro ed immediato il precetto sanzionato, mentre il giudice ha dinanzi una fattispecie resa sufficientemente concreta dalla giurisprudenza che si è via via formata sul punto (quantitativo oggettivamente eccezionale sotto il profilo ponderale; grave pericolo per la salute pubblica; dosi ricavabili elevatissime e conseguente, elevatissimo numero di consumatori potenzialmente soddisfacibili), sì da potersi assumere scongiurato il pericolo di interpretazioni arbitrarie basata su una formulazione generica del precetto.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2012</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Esce il 20 settembre la sentenza delle SSUU n. 36258 in tema di aggravante della </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">ingente quantità di stupefacenti</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, che si occupa anche del profilo della tassatività della fattispecie: secondo la Corte, occorre valorizzare il “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>diritto vivente</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” quando ci si trovi dinanzi a previsioni legislative (oltre che astratte, anche) indeterminate che vanno rese concrete proprio in ossequio al principio di tassatività della fattispecie penale. Muovendo da questo presupposto, poiché il legislatore del 1990 ha inteso discriminare, giusta criterio tabellare (e, dunque, quantitativo) l’uso personale da quello, penalmente represso, che va oltre gli stretti bisogni dell’individuo, anche ai fini dell’aggravamento di pena di cui alla ingente quantità occorre giocoforza fare riferimento ad un parametro di tipo numerico: la punibilità è prevista, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>ex lege</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, attraverso un limite quantitativo “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>verso il basso</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” (e cioè al di sotto del quale la condotta non è punibile), ed è compito della giurisprudenza individuare in limite quantitativo “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>verso l’alto</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” (e cioè al di sopra del quale la punizione non solo è prevista, ma è addirittura aggravata): prendendo a parametro la giurisprudenza più accreditata, le SSUU finiscono col dire che solo quando, rispetto al valore tabellare espresso in milligrammi, la quantità detenuta supera di 2000 volte il valore soglia (e non al di sotto di questo limite) potrà parlarsi, se il giudice di merito lo accerti in concreto, di una rilevante quantità di sostanza stupefacente. Si assiste dunque ad una tendenza alla concretizzazione numerica delle fattispecie indeterminate, al fine di garantire al massimo grado proprio il principio di tassatività della fattispecie penale.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2014</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">L’11 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 172 che, in tema di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>stalking</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> ex art. 612.bis c.p., salva la norma dandone una interpretazione costituzionalmente orientata sì da renderla conforme all’art. 25, comma 2, Cost. Ancora una volta la Corte – a differenza del giudice remittente, che palesa un approccio atomistico alla fattispecie – si accosta alla fattispecie medesima in modo integrato e sistemico, evitando l’isolamento dei singoli elementi descrittivi maggiormente sospetti e, piuttosto, leggendoli in collegamento con gli altri elementi costitutivi del fatto tipico e con l’integrale disciplina della figura. Da questo punto di vista, il fatto tipico è verificabile in termini di sussunzione ad esso della fattispecie concreta </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>ope iudicis</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">; il destinatario della norma, per parte sua, può adeguatamente percepire il senso del precetto ed astenersi da comportamenti penalmente sanzionati. Se per definire i concetti di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>minaccia</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” e “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>molestia</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” è sufficiente fare riferimento, per la Corte, alla giurisprudenza formatasi – rispettivamente - sugli articoli 612 e 660 c.p., la “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>reiterazione</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” implica un disvalore aggravato rispetto alle singole minaccia o molestia, sicché occorrono per compendiarla almeno due condotte (di minaccia o molestia) in successione tra loro; per quanto poi concerne i tre eventi alternativi (perdurante e grave stato di ansia e di paura; fondato timore per l’incolumità propria o altrui; alterazione delle abitudini di vita), il coefficiente emotivo e psicologico che li connota (specie i primi due) impone la verifica del grado di destabilizzazione che la vittima ha subito giusta il comportamento del molestatore. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 21 luglio viene pubblicata la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 32170 che, in un caso di dispersione incontrollata di polveri di amianto, assume configurarsi un disastro innominato ex art. 434 c.p. anche al cospetto non di un macroevento immediato, singolo, unico, dirompente, ma di singoli episodi di inquinamento dell’ecosistema prolungati nel tempo, purché la loro complessiva valutazione possa farli considerare di eccezionale gravità (disastro ambientale) per essere essi capaci di produrre un concreto pericolo per la vita o la salute di un numero indeterminato di persone.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2015</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 23 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7941 (caso </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>Eternit</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">), che conferma la giurisprudenza intesa ad assumere configurabile un “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>disastro innominato</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” ex art.434 c.p. non solo dinanzi a macroeventi dalla portata distruttiva immediata e devastante (arco di tempo ristretto), ma anche dinanzi ad eventi che in un periodo di tempo prolungato e senza immediata percezione visiva siano comunque idonei, alla lunga, a compromettere il bene sicurezza per la salute (e per altri interessi della persona costituzionalmente tutelati), sì da far luogo ad un reato contro la “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>pubblica incolumità</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” attraverso imponenti processi di deterioramento dell’habitat umano attraverso un torno temporale anche di lunga o lunghissima durata.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 22 maggio esce la legge n. 68 che, raccogliendo l’invito della Corte costituzionale del 2008, disciplina la figura di reato del disastro ambientale, collocandola all’art. 452.quater c.p. e prevedendo la punibilità, a titolo alternativo, del macroevento (di dimensioni consistenti), ovvero dell’evento non macroscopico ma comunque in grado di essere offensivo del bene giuridico dell’ambiente (che, pur se contermine a quello della pubblica incolumità, non si sovrappone integralmente ad esso, sicché l’ambiente, a differenza della pubblica incolumità, sarebbe potenzialmente aggredibile anche da eventi di tipologia non macro, magari diluiti nel tempo).</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">L’8 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, C-105/14, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">caso </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>Taricco</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> con la quale la Corte – muovendo dall’art.325 del TFUE in tema di tutela degli interessi finanziari dell’Unione – dichiara l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p. in tema di prescrizione quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini prescrizionali più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledano interessi finanziari dell’Unione. Si tratta di un caso di disapplicazione in </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>malam partem</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> imposta a livello europeo che incide sui diritti dei singoli imputati nei processi penali pertinenti. E’ dubbio altresì, secondo la dottrina, quando </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">una frode possa assumersi “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>grave</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> ai fini dell’applicazione di questa sentenza, ed è altresì dubbio il “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>numero considerevole di casi</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> in cui il limite prescrizionale è da considerarsi tale da pregiudicare la tutela degli interessi finanziari della UE, con ovvi riflessi anche su tassatività e principio di legalità penalistico.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2016</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 3 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 46170 che, nel rendere una prima interpretazione dell’art. 452 bis c.p., fornisce chiarimenti per definire l’esatta portata di alcuni elementi della fattispecie. L’avverbio “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>abusivamente</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” (“</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”), secondo la Corte, deve essere inteso in un’accezione ampia, comprendente la violazione tanto di leggi (statali o regionali) quanto di prescrizioni amministrative. Con riferimento, invece, ai concetti di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>compromissione</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” e “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>deterioramento</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, entrambi indicano una modifica del bene ambiente, ma secondo una scala di gravità crescente essendo caratterizzati il primo da un condizione di squilibrio funzionale, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema e il secondo in uno squilibrio strutturale, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di quest’ultimi. Infine, la “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>significatività</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” (intesa come incidenza e rilevanza) e la “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>misurabilità</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” (intesa come apprezzabilità quantitativa oggettivamente rilevante) della compromissione o del deterioramento della matrice ambientale o dell’ecosistema possono essere valutate liberamente dal giudice, non essendo egli vincolato per la Corte a parametri imposti dalla disciplina di settore, pur potendo tuttavia trarre dai medesimi elementi di giudizio.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2017</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 26 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 che rinvia nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE al fine di ottenere la corretta interpretazione della sentenza resa sul </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">caso </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>Taricco</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> in materia di prescrizione dei reati connessi a frodi finanziarie gravi e tali da pregiudicare la tutela degli interessi finanziari dell’UE. In particolare la Corte sottopone alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE, le seguenti questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato: a) se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">base legale sufficientemente determinata</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">; b) se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale ed è soggetta al principio di legalità; c) se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>Taricco</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro (c.d. controlimiti).</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 1° giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27458 onde, in ossequio ai principi di tassatività e di legalità in materia penale, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">non è consentito sanzionare una condotta o ritenere sussistente una circostanza che aggravi la pena attraverso un'interpretazione di tipo analogico </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>in malam partem</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, spettando al legislatore le scelte di natura sanzionatoria e dovendosi quindi rigettare quegli orientamenti interpretativi che, pur se ispirati all'ottenimento di un più efficace contrasto alla diffusione delle droghe a tutela di situazioni di maggiore vulnerabilità per le persone, conducano ad un’estensione delle aggravanti previste per fattispecie analoghe. In particolare, un’aggravante che fa riferimento a “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>scuole di ogni ordine e grado</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” quale luogo protetto in ragione dell’età dei soggetti frequentanti, non può essere applicata anche alle università stanti le diversità di sistemi e di principi applicabili alle due diverse realtà; tuttavia, il contesto universitario può far scattare l’aggravante in questione poiché rientrante nella diversa espressione “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>comunità giovanile</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” senza, in tal caso, ricorrere al ragionamento analogico.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 14 luglio viene varata la legge n.110, con la quale viene introdotto nel sistema penale italiano il reato di tortura, come reato di natura abituale. Più in specie, con l’art.1 viene innestato nel codice penale l’art.613.bis, secondo il cui comma 1 chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona: si tratta di una norma incriminatrice che viene tacciata dalla più attenta dottrina come deficitaria sul crinale della tassatività, sia laddove prevede </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">la crudeltà</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> come elemento costitutivo della fattispecie (meno problemi pone l’indefinito concetto di crudeltà laddove compendi mera circostanza aggravante, come nell’ipotesi di cui all’art.61, n.4, c.p.); sia laddove parla di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">trattamento inumano e degradante</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, sulla scia dell’art.3 della CEDU che tuttavia, secondo l’interpretazione fornitane dalla stessa Corte EDU, non appare nozione confinabile in una definizione rigida.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 5 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 40076 che, mutando la giurisprudenza fino ad allora consolidata, dichiara che l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall’art. 75, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione. Tale pronuncia aprirà la strada all’intervento della Corte Costituzionale, in quanto la dottrina rileva immediatamente come si sia di fronte ad una portata ‘para-costituzionale’ della sentenza che ribadisce il sacrosanto principio della illegittimità di formulazioni incriminatrici vaghe ed indeterminate attraverso la strada sbagliata della interpretazione conforme, piuttosto che devolvere la questione all’organo deputato a sindacare la legittimità costituzionale delle leggi. Oltre ad entrare in collisione con l’architettura dei poteri delineata dalla Carta repubblicana, la soluzione sperimentata dalle Sezioni Unite non tutela i diritti dei destinatari di giudicati di condanna emessi in epoca antecedente. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 20 novembre viene varata la legge n. 167 “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Con tale intervento il legislatore amplia il novero delle condotte punibili con il reato di negazionismo, inserendo anche la “minimizzazione” e la “apologia”. La portata effettiva della novella è tuttavia limitata, in quanto, trattandosi di un’aggravante e non di una fattispecie autonoma di negazionismo, le condotte tipiche devono innestarsi su quelle “principali” di propaganda, istigazione e incitamento. Inoltre, il legislatore inserisce il reato di cui all’art. 3 della Legge Reale-Mancino e la relativa aggravante di negazionismo fra i reati presupposto della responsabilità degli enti.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 5 dicembre esce la sentenza della </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Grande Sezione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> della </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Corte di Giustizia UE</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> nella causa C-42/17, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>M.A.S. e M.B.</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">relativa alla rimessione della Corte Costituzionale del gennaio dello stesso anno in tema di prescrizione (c.d. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>Taricco II</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">), ove viene affermata la prevalenza dei principi di non-retroattività e di determinatezza, quali specificazioni del principio di legalità dei reati e delle pene rispetto agli interessi dell’Unione, fermi tuttavia gli impegni degli Stati membri ad adeguare le proprie normative al contrasto di fenomeni elusivi. In sostanza, per la Corte <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=6%3DNVNUR%26C%3DHb%26A%3DSHTUW%266%3DTNVJXU%26L%3DyMGG_9tpq_J4_Erjs_O7_9tpq_I9JND.76IzMGFv06L0M6Qz4.6K_9tpq_I9A6DL_Erjs_O7HZ_Erjs_O7QcWaQaTaJX_Erjs_O7ZE_CIzGz07BB_5z_E28rE6Kr_IE6C496_0N9C_65yCz0B_5z_MHKvExIv_090_zGG698FJz_96ErGM0rK6_5vE9_v5BBEv_hHI6I22.yM0C_9tpq_J9HK4_LBL962_Ihvm_Tug2h_58JJ38GKvK_Erjs_OWBM0_Dv76L4_Kntg_V16446C_4x2r9tpq_IYHK4_6xD74685_Kntg_V1evj%261%3D%2600%3DUVZKT" target="_blank" rel="noopener noreferrer">il principio di legalità prevale sull'obbligo di tutelare gli interessi finanziari dell'Unione Europea</a>. Per la Corte l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso di imporre al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione rientranti nel diritto sostanziale nazionale che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i ridetti casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato; ciò a meno che una disapplicazione siffatta – che è ovviamente </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>in malam partem</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> - comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">insufficiente determinatezza della legge applicabile</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2018</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 31 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 115 che chiude la c.d. “vicenda Taricco” in tema di prescrizione. La Corte di giustizia nel 2017 ha chiarito che, in virtù del divieto di retroattività in </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>malam partem</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> della legge penale, la c.d. “regola Taricco” non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l’ha dichiarata, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015. Ciò però non equivale a ritenere la questione priva di rilevanza, perché riconoscere solo sulla base della sentenza M.A.S. l’avvenuta prescrizione significherebbe comunque fare applicazione della “regola Taricco”, sia pure individuandone i limiti temporali. Indipendentemente dalla collocazione dei fatti, il giudice comune non può applicare loro la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, comma 2, Cost. Ciò posto, appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la "regola Taricco"), sia la "regola Taricco" in sé. Quest'ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell'art. 325 TFUE, è irrimediabilmente indeterminata nella definizione del "numero considerevole di casi" in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.). </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">La Corte evidenzia come sia indeterminato l'art. 325 TFUE perché il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della "regola Taricco". Il principio di determinatezza ha una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell'attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque "una percezione sufficientemente chiara ed immediata" dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta. Pertanto, quand'anche la "regola Taricco" potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a "colmare l'eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale". Peraltro, conclude la Consulta, è persino intuitivo (anche alla luce della sorpresa manifestata dalla comunità dei giuristi nel vasto dibattito dottrinale seguito alla sentenza Taricco, pur nelle sfumature delle diverse posizioni) che la persona, prendendo contezza dell'art. 325 TFUE, non potesse (e neppure possa oggi in base a quel solo testo) immaginare che da esso sarebbe stata estrapolata la regola che impone di disapplicare un particolare aspetto del regime legale della prescrizione, in presenza di condizioni del tutto peculiari. Se è vero che anche "la più certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed interpretazioni sistematiche", resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>praevia lex scripta</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, con cui si intende garantire alle persone "la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d'azione". Ciò è come dire che una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso, diversamente da quanto accade con la "regola Taricco". Fermo restando che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell'Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la sentenza M.A. S., un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 13 luglio esce la sentenza della Cassazione Penale, Sez. II, n. 32170, che si pronuncia sul reato di adescamento di minorenni, dichiarando manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del reato di adescamento di minorenne previsto dall’art. 609 undecies, c.p. in relazione agli artt. 13, 25, 21, 27 Cost. perché, integrando un reato di pericolo concreto, volto a neutralizzare il rischio di commissione dei più gravi reati a sfondo sessuale lesivi del corretto sviluppo psicofisico del minore e della sua autodeterminazione, non contrasta con il principio di offensività; necessitando, ai fini della verifica del dolo specifico, del ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa dedursi il movente sessuale della condotta, non viola il principio di determinatezza della fattispecie penale; punendo, con una cornice edittale equa proporzionatamente inferiore rispetto a quella prevista per i reati fine, comportamenti idonei a mettere in pericolo un bene giuridico primario, meritevole di intensa tutela, è compatibile con il principio della rieducazione della pena. La Cassazione sancisce perciò la compatibilità del delitto di adescamento diminorenni (art. 609 undecies c.p.), introdotto dalla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, con i principi costituzionali di offensività e di determinatezza. La Corte, nel ribadire la discrezionalità del legislatore nel ricorrere a fattispecie di pericolo, valorizza il carattere “poliforme” del dolo specifico per una più chiara definizione del precetto.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43264 che definisce l’elemento oggettivo del delitto di devastazione. In particolare, la Corte spiega come il concetto di devastazione, ai fini penalistici, consista in qualsiasi azione, posta in essere con qualsivoglia modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento - comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo - di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un’offesa e un pericolo concreti dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 24 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 207, in tema di reato di aiuto al suicidio. Sostiene </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>la Corte che il reato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) non è incostituzionale</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, in quanto funzionale alla tutela del diritto alla vita, specialmente di persone che potrebbero essere indotte a una scelta estrema e irreparabile da condizioni di debolezza e vulnerabilità. Queste esigenze di tutela vengono meno, tuttavia, nei casi in cui sia già ammesso il diritto di lasciarsi morire rifiutando trattamenti di sostegno vitale. Al soggetto capace di autodeterminarsi, dipendente da tali trattamenti, e che sia altresì affetto da una patologia irreversibile, fonte di insopportabili e non lenibili sofferenze, deve dunque essere riconosciuta la facoltà di ottenere un aiuto nel morire. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Trattandosi, tuttavia, di materia che richiede un’articolata disciplina di dettaglio, ad evitare il rischio di abusi e vuoti di tutela, è compito del Parlamento intervenire. Il giudice costituzionale rinvia dunque a una successiva udienza l’eventuale decisione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., lasciando al legislatore il tempo per approvare una legge rispettosa di tali indicazioni, </b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">ed evitando altresì che, nel frattempo, la norma penale possa trovare ancora applicazione ai casi individuati in motivazione. La Corte costituzionale ha “messo in mora” il legislatore affinché disciplini modalità di accesso al suicidio medicalmente assistito da parte di chi sia affetto da patologie irreversibili e sofferenze intollerabili, in deroga al reato di agevolazione del suicidio (deroga desunta, con esiti problematici, dall’ormai consolidato,mainvero differente, diritto di rifiutare trattamenti anche salvavita). Aquel reato però, in linea di principio, si riconosce la valida funzione di salvaguardare la vita di soggetti vulnerabili. Quest’ultima considerazione sembra trovare un fondamento empirico e scientifico in certe acquisizioni suicidologiche, che invitano a non assecondare dinamiche psichiche indotte dalla c.d. suicidal vulnerability; la ratio puniendi ricavabile in virtù di questo approccio segna peraltro, al contempo, un limite di tipicità dell’art. 580 c.p., la cui estensione al caso di chi chieda un aiuto al morire perché versa in una condizione patologica di irrimediabile dolore globale finisce con l’apparire irragionevole. Si può dunque ritenere che, rispetto a questa differente situazione, sia opportuno semmai far operare un diritto non “costrittivo”, che non muove da generalizzazioni e non minaccia pene, ed invece delinea procedure - ispirate dalle migliori prassi di cure palliative - entro le quali la scelta di libertà sul proprio morire da parte di chi sia capace di intendere e volere (art. 8 CEDU) venga orientata da un dialogo rispettoso della sua dignità e della sua singolare, angosciosa esperienza, anche attraverso l’offerta di valide alternative. La norma incriminatrice, in quest’ambito, potrebbe al più operare “a tutela di funzioni”.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>2019</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 17 gennaio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 2124 che, sulla scorta dell’evoluzione avutasi con la sentenza delle SU Paternò, rimette alle Sezioni Unite la questione relativa alla definizione dei “pubblica riunione” dal momento che in giurisprudenza si rinvengono due orientamenti contrastanti e che tale incertezza è in grado di incidere sulla determinatezza della norma.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 31 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 4878 che ribadisce, ai fini del rispetto del canone della tassatività della norma, l’orientamento secondo il quale, nel reato di fronte tossica, per sostanze nocive devono intendersi quelle che possono arrecare concreto pericolo alla salute dei consumatori. Tale pericolosità, quindi, non è data dalla ipotetica ed astratta possibilità di nocumento della sostanza alimentare, ma dalla attitudine concreta di essa a provocare danno alla salute pubblica.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 25 che dichiara l’illegittimità </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">costituzionale dell’art. 75, comma 2, del d.lgs 159/11 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">vivere onestamente</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” e di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">rispettare le leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”; dichiara altresì incostituzionale, in via consequenziale, l’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">vivere onestamente</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” e di “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">rispettare le leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">La Corte premette che l’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>abolitio criminis</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> – per </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>ius superveniens</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> o a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale – è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all’esito (simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato. In un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato; l’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante, ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo. La Corte (sentenza n. 230 del 2012) − in una situazione similare che vedeva la sopravvenienza di un orientamento delle Sezioni unite penali secondo cui non costituiva reato la condotta oggetto di una sentenza di condanna passata in giudicato, di cui era chiesta la revoca ex art. 673 cod. proc. pen. per abolizione del reato − ha sottolineato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">diritto vivente</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi a esso. E ha ribadito che «[a]</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">l pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>eius est abrogare cuius est condere</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">)». Inoltre, si è affermato che l’ordinamento nazionale «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (sentenza n. 210 del 2013). E, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato da una pronuncia della Grande camera della Corte EDU, ha aggiunto che «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> […] </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">sub iudice»; a maggior ragione è allora rilevante un dubbio di legittimità costituzionale della norma incriminatrice in tutti i casi in cui il giudicato non si è ancora formato, ma sta per formarsi proprio in ragione della pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione che la Corte rimettente ritiene debba essere emessa, a meno che non sia accolta la questione di costituzionalità e sia dichiarata l’illegittimità della norma incriminatrice.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Entrando nel merito della questione, il parametro nazionale evocato dalla Corte rimettente è il principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato, da ciò discendendo il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. La Corte costituzionale ha valutato la conformità a tale principio della fattispecie penale prevista dall’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all’epoca vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito in legge 31 luglio 2005, n. 155, che disponeva nel comma 1 che il «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» e nel comma 2, allora censurato, che se «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">». Tra le prescrizioni della sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era già previsto – dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956 − l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. Tali disposizioni (l’art. 5 e l’art. 9) si ritrovano riprodotte negli stessi termini, in parte qua, nell’art. 8 e nel censurato art. 75 cod. antimafia. La Corte ha ricordato che per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce; e, in particolare, ha ribadito che «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">»; ha, quindi, concluso ritenendo che la prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi non violasse il principio di legalità in materia penale: da una parte, le «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» sono tutte le norme a contenuto precettivo, non solo quelle la cui violazione è sanzionata penalmente; d’altra parte, l’obbligo di «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">vivere onestamente</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» va «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">collocat</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">[o] </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» e quindi ha il valore di un monito rafforzativo di queste ultime senza un autonomo contenuto prescrittivo.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Dei due parametri convenzionali, evocati nell’ordinanza di rimessione, che però esprimono lo stesso canone di prevedibilità della condotta prevista dalla norma nazionale perché possa giustificarsi una limitazione della libertà personale, è stato preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU, in particolare, l’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">previste dalla legge</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">». Il sistema nazionale delle misure di prevenzione </span><span style="font-family: Arial, sans-serif;">‒</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">−</span> <span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">è</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> stato censurato per essere formulato «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">in termini vaghi ed eccessivamente ampi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» tali da non rispettare il criterio della «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">prevedibilità</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte. La quale in particolare − pur dando atto della (non collimante) interpretazione accolta dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 282 del 2010 con riferimento all’omologo principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost. − ha ritenuto, all’opposto, che gli obblighi di «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">vivere onestamente e rispettare le leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (oltre che di «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">non dare ragione alcuna ai sospetti</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">», prescrizione questa non più rilevante perché non riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non fossero delimitati in modo sufficiente e che, pertanto, fosse violato il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale, segnatamente quello posto dall’art. 2 del Protocollo n. 4. La pronuncia della Corte EDU è stata decisiva nell’orientare la puntualizzazione giurisprudenziale espressa dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, n. 40076 del 2017 (cosiddetta “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">sentenza Paternò</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”); le Sezioni unite penali si sono pronunciate con riferimento alla fattispecie penale di violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto analoga a quella oggetto dell’ordinanza di rimessione. La Corte di cassazione si confronta con la sentenza de Tommaso, avendo ben presente che – come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 2009) − compete al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla CEDU; considera, in particolare, che «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)». La Corte procede quindi a una «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» e perviene alla conclusione che «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">il richiamo “agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno” può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”». La conclusione è che «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">». Aggiungono le Sezioni unite: «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">». Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione: non sussiste il reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Tuttavia – per quanto sopra ritenuto in ordine alla rilevanza e all’ammissibilità delle questioni – non si è di fronte a un’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>abolitio criminis</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> per successione nel tempo della legge penale; ciò comporta che, proprio per l’affermata non riconducibilità dell’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto a uno </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i>ius superveniens</i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, sussiste non di meno una limitata area in cui occorre ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta, schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale, sia conforme, o no, al principio di legalità in materia penale, vuoi costituzionale che convenzionale. Area questa costituita – come già sopra rilevato − sia dall’esecuzione del giudicato penale di condanna, sia dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente infondate e quindi inammissibili. In questi stretti limiti si pone, in sostanza, la questione di costituzionalità come possibile completamento dell’operazione di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, già fatta dalle Sezioni unite nei limiti in cui l’interpretazione giurisprudenziale può ritagliare la fattispecie penale escludendo dal reato condotte che prima si riteneva vi fossero comprese. L’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformità alla CEDU non implica anche necessariamente l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. È ricorrente che gli stessi principi o analoghe previsioni si rinvengano nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia. La Corte costituzionale ha già affermato che, quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">il rispetto degli obblighi internazionali</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> […] </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">può e deve</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> […] </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (sentenza n. 317 del 2009). È quanto si è verificato da ultimo (sentenza n. 120 del 2018) con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che dalla CEDU (art. 11). Non c’è però, nel progressivo adeguamento alla CEDU, alcun automatismo, come risulta già dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, stante, nell’ordinamento nazionale, il «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (sentenza n. 49 del 2015). Da una parte, la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce della Corte costituzionale sia identificabile un «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">approdo giurisprudenziale stabile</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (sentenza n. 120 del 2018) o un «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">diritto consolidato</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente − rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU. Va infatti ribadito che, «[a] </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">differenza della Corte EDU, questa Corte</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> […] </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">margine di apprezzamento</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Vi è poi da considerare che la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">di vivere onestamente</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» e «</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">di rispettare le leggi</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura. Può, pertanto, pervenirsi alla conclusione che la norma censurata viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 CEDU e in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost..</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 27 febbraio esce la sentenza n. 24 della Corte Costituzionale, che si pronuncia dichiarando </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">illegittimo sottoporre alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi”, dovendosi condividere la valutazione di eccessiva genericità dei potenziali destinatari delle disposizioni ora censurate, già espressa nel 2017 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia De Tommaso contro Italia: l’espressione “traffici delittuosi” non è, in particolare, in grado di indicare con sufficiente precisione quali comportamenti criminosi possano dar luogo all’applicazione della sorveglianza speciale o della confisca dei beni, conseguendone la violazione del principio di legalità, che esige che ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo si fondi su di una legge che ne determini con precisione i presupposti di applicazione. Vanno assunte sufficientemente precise, e dunque conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose dacché, secondo la giurisprudenza più recente, le misure in questione possono essere applicate solo a chi, sulla base di precisi elementi di fatto, si può ritenere che abbia commesso, in un significativo arco temporale, delitti fonte di profitti che abbiano costituito il suo unico reddito, o quanto meno una componete significativa del reddito: tutti questi elementi devono dunque essere dimostrati dal pubblico ministero o dall’autorità di polizia nel procedimento di prevenzione affinché il Tribunale possa applicare la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza o la confisca dei beni presumibilmente acquistati grazie alle attività delittuose e dei quali il soggetto non possa giustificare l’origine lecita. Restano impregiudicate le norme che consentono di applicare misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva, corruzione, atti persecutori. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Va dichiarata dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità)</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1); va dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a); va dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 22 marzo esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. V, che attua una </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>interpretazione estensiva della responsabilità penale prevista per il direttore del periodico, ai sensi dell’art. 57 c.p</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">.. L’applicabilità dell’art. 57 c.p. all’editoria periodica on line ha subito un revirement interpretativo per mezzo di tale sentenza della V Sezione della Cassazione. Si tratta di una piccola “rivoluzione copernicana”, se si considera che la giurisprudenza di legittimità aveva sempre mantenuto una piena aderenza al principio di tassatività nel negare la responsabilità penale del direttore di un periodico telematico. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 27 maggio viene pubblicata in G.U. la legge 21 maggio n. 43, sul “Voto di scambio”, che modifica all’art. 416 ter c.p. in materia di voto di scambio politico-mafioso Per la terza volta nel giro di appena un lustro, il legislatore è tornato a modificare il delitto di scambio elettorale politico-mafioso. Pur avendo emendato alcune evidenti imprecisioni contenute nelle originarie versioni dei disegni di legge presentati in Parlamento, la riforma appena varata si rivela, però, tutt’altro che soddisfacente. Per un verso, la maggior parte delle novità introdotte risulta meramente simbolica, nulla apportando in termini di maggiore estensione delle condotte punibili come invece immaginato dal legislatore; per altro verso, le modifiche relative alla condotta incriminata ed al piano sanzionatorio appaiono irragionevoli e difficilmente compatibili con i principî, rispettivamente, di determinatezza, offensività ed extrema ratio, e di proporzionalità e rieducazione della pena. Ed invero la scelta di incriminare anche la mera disponibilità del promissario a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione, così come la previsione per le parti del patto illecito delle stesse pene previste per la partecipazione mafiosa, nonché di un’aggravante della ‘elezione’ con aumento fisso della metà della pena sembrano entrare in frizione con i principî costituzionali prima richiamati.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 7 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 141, sulla legge c.d. Merlin. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Nell’ambito del caso Tarantini, la Corte d’Appello di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, nn. 4) e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. Legge Merlin), nella parte in cui si attribuisce rilevanza penale alla condotta di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione “volontariamente e consapevolmente esercitata”, ravvisando, inter alia, una possibile violazione del principio di necessaria offensività, considerato (già) nella sua dimensione di offensività “in astratto”. Il Giudice delle Leggi ha ritenuto, tuttavia, non fondate le eccezioni in quanto «anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo». La Consulta, inoltre, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>nel riaffermare la costituzionalità delle scelte di criminalizzazione in materia di prostituzione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, sembra valorizzare una nozione oggettiva (o impersonale) del bene “dignità”.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 25 settembre esce la sentenza n. 27 febbraio della Corte Costituzionale, n. 25, che si pronuncia sulla violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, tassatività e frizione con la giurisprudenza CEDU. Sostiene la Corte che l’ </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” non può integrare il delitto di violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, dovendo dunque essere dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 75, secondo comma, del Dlgs n. 59/2011 (Codice antimafia); ciò anche nell’ottica del processo di adeguamento ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo nella sentenza “de Tommaso”, laddove ha riscontrato la vaghezza e la genericità delle prescrizioni di “vivere onestamente e “rispettare le leggi” ed ha perciò affermato la violazione della CEDU; anche le Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza “Paternò’” hanno riconosciuto che tali prescrizioni sono prive di quel contenuto determinato e specifico che sarebbe stato necessario per dare loro un valore precettivo. L’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati – ragion d’essere delle misure di prevenzione – resta comunque soddisfatta dalla facoltà per il giudice di indicare e modulare prescrizioni specifiche nell’ambito della sorveglianza speciale. La pertinente dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa anche al meno grave reato contravvenzionale che si configura quando la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” è commessa dal sorvegliato speciale, senza obbligo o divieto di soggiorno.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; va dichiarata altresì , in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 19 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, n. 46595, che affronta la tematica delle misure di sicurezza e prevenzione, ovvero sulla applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ex art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159/2011, principio di tassatività, CEDU e prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. La corte afferma il seguente principio di diritto: la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico.La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: "Se, ed in quali limiti, la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile, in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli artt. 8 e 75 d. Igs. n. 159 del 2011”.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Sostiene la Corte che l'art. 75, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011 punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni l'inosservanza degli obblighi e prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno. Gli obblighi e le prescrizioni sono dettati dal tribunale che dispone la misura di prevenzione: l'art. 8, comma 2 del d. Igs. n. 159, infatti, prevede che «qualora il tribunale disponga l'applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all'art. 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare»; il comma 4 elenca le prescrizioni che il tribunale deve dettare «in ogni caso», tra cui quella «di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza» e quella «di non partecipare alle pubbliche riunioni». La rimessione alle Sezioni Unite è stata disposta per le questioni interpretative concernenti la seconda prescrizione, ma i due ricorrenti sono stati condannati anche per la violazione della prima, di cui si tratterà nella parte finale della presente sentenza. I commi 5 e 6 della norma permettono, inoltre, al tribunale di imporre altre prescrizioni al sorvegliato speciale: tutte quelle «che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale»; alcune di esse sono tipizzate dal legislatore. Il contenuto precettivo del reato di cui all'art. 75 cit., quindi, è costruito per relationem agli obblighi e alle prescrizioni previsti dall'art. 8 dello stesso decreto. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">La norma in esame - che costituisce la integrale trasposizione della fattispecie originariamente prevista dall'art. 9, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 - è stata oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo; tali pronunce, peraltro, non hanno valutato soltanto la fattispecie penale in sé, ma il complesso normativo relativo alle misure di prevenzione: quindi, la selezione dei destinatari della misura di prevenzione, l'individuazione e la natura delle prescrizioni e degli obblighi che possono o devono essere dettati, la loro sanzionabilità penale in base alla fattispecie incriminatrice in esame. Anche il legislatore è intervenuto su tali tematiche. Si sono, quindi, limitate le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione cancellando quella dei «proclivi a delinquere» (Corte Cost., sent. n. 177 del 1980) e quella di coloro che dovevano ritenersi «abitualmente dediti a traffici delittuosi» (Corte Cost., sent. n. 24 del 2019); il legislatore del 2011 non ha riprodotto, tra le prescrizioni che devono essere dettate in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale, quelle «di non dare ragioni di sospetto» e «di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in casi di prostituzione», previste dall'art. 5, comma terzo, legge n. 1423 del 1956; le Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò hanno escluso, in via interpretativa, che la fattispecie penale punisca anche la violazione dell'obbligo del sorvegliato speciale di portare con sé ed esibire la carta di permanenza (art. 8, comma 7 D. Igs. n. 159 del 2011), qualificando la condotta come violazione dell'art. 650 cod. pen. (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019), nonché la violazione delle prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi"; con la sentenza n. 25 del 2019 la Corte Costituzionale è intervenuta su tali ultime prescrizioni, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, commi 1 e 2 d. Igs. n. 159 del 2011 nella parte in cui puniscono come contravvenzione o come delitto la loro inosservanza. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Le diverse pronunce hanno affrontato, innanzitutto, il tema della precisione delle norme e della possibilità per l'interessato di conoscere e individuare le condotte vietate e di prevedere le decisioni giudiziarie. La tematica, peraltro, viene in rilievo sotto due profili: l'individuazione delle categorie di soggetti che possono essere sottoposti alle misure di prevenzione e la descrizione degli obblighi e delle prescrizioni dettate al sottoposto alla misura di prevenzione, la cui violazione è sanzionata penalmente.Le due sentenze della Corte Costituzionale già ricordate hanno espunto le categorie dei «proclivi a delinquere» e di coloro «che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» proprio per la «radicale imprecisione» della descrizione normativa con la conseguente discrezionalità per gli operatori. In conseguenza dei due interventi, l'applicazione delle misure di prevenzione dovrebbe essere ormai limitata a persone effettivamente pericolose nonché in grado di prevedere, in conseguenza delle loro condotte, una decisione in questo senso. Il secondo profilo interessa in questa sede. La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò ha distinto tra le prescrizioni generiche e le prescrizioni specifiche, negando un reale contenuto precettivo delle prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi", in quanto indeterminate e imprecise e non indicanti alcun comportamento specifico da osservare. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Una seconda tematica affrontata è quella del rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità. Anche se le misure di prevenzione vengono applicate a soggetti effettivamente pericolosi, non tutte le violazioni delle prescrizioni dettate dal Tribunale possono essere penalmente sanzionate: le Sezioni Unite, Sinigaglia hanno evidenziato che, per essere penalmente sanzionate, le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni devono consistere in condotte «eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno»; non è possibile, cioè, «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a soggetto qualitativamente pericoloso»: piuttosto, devono essere puniti soltanto quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità, quelle inosservanze che determinano un "annullamento" di fatto della misura. Sulla base di tali considerazioni, unite all'interpretazione testuale delle norme, è stato affermato che il mancato porto della carta di permanenza non integra il reato di cui all'art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, ma la contravvenzione di cui all'art. 650 cod. pen. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Una terza problematica - contigua, ma non coincidente con la precedente - si interroga sulla legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelare altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Proprio con riferimento al divieto di partecipare alle pubbliche riunioni, la Corte EDU, De Tommaso ha espresso preoccupazione per il fatto «che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l'assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice». Come osserva incidentalmente l'ordinanza di rimessione, il precetto viene criticato per la eccessiva ampiezza del divieto piuttosto che in rapporto al deficit di conoscibilità: mentre, quanto agli obblighi di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte EDU censura la norma che li prevede perché «non formulata in modo sufficientemente dettagliato e [perché] non chiarisce con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate ad una persona», la «preoccupazione» espressa dalla Corte EDU con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni riguarda soprattutto l'assolutezza della compressione della relativa libertà. Non vi è dubbio che il riferimento finale alla «restrizione [...] lasciata interamente alla discrezione del giudice» sembra evocare anche il vizio della incertezza del contenuto della prescrizione: si tratta, tuttavia, di un accenno non del tutto chiaro, tenuto conto, da una parte, che il tribunale che applica la misura di prevenzione non ha discrezionalità nel graduare la restrizione della libertà di partecipare alle riunioni pubbliche (che «deve in ogni caso prescrivere» ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011), dall'altra che - salva la tematica dell'interpretazione della nozione di "pubbliche riunioni" - la prescrizione, per essere concretamente applicabile, non necessita di ulteriori specificazioni (come, invece, avviene, ad esempio, per la prescrizione «di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una determinata ora», per la quale occorre la specificazione dell'orario nel decreto). </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">La Corte Costituzionale è ripetutamente intervenuta sul complesso della normativa, come già anticipato, valutandola alla luce delle tre tematiche appena enucleate. Con la sentenza n. 27 del 1959, la Corte risolse in senso affermativo il quesito relativo alla compatibilità delle due prescrizioni in esame con il dettato costituzionale, pur in presenza di limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione, affermando che esse trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. La Corte osservò che l'art. 13 della Costituzione riconosce la possibilità di restrizioni alla libertà personale, così come gli articoli 16 e 17 ammettono limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno e consentono il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. La Corte escluse che la riserva di legge prevista dalla Costituzione desse luogo ad una «potestà illimitata del legislatore ordinario» e, in qualche modo, delimitò la portata della pronuncia sotto due profili: la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all'esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione. Affrontando il quesito «se [...] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», la Corte riconobbe un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare è, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive». </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Le due sentenze emesse a seguito della pronuncia della Corte EDU, De Tommaso hanno permesso alla Corte Costituzionale di riassumere e precisare i principi fin qui riportati. In particolare, le due pronunce hanno affrontato il tema della tassatività e della precisione delle fattispecie di pericolosità generica (sentenza n. 24 del 2019) e della legittimità della sanzione penale per la violazione delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» (sent. n. 25 del 2019). Con riferimento alla prima questione, la Corte ha ritenuto che, al di fuori della materia penale, l'esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto può essere soddisfatta anche sulla base dell'interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall'uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, risultando essenziale che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l'applicazione della misura stessa. Quanto, invece, alla legittimità della sanzione penale per le violazioni delle prescrizioni generiche, la Corte, dando atto del giudizio negativo della Corte EDU, ha ritenuto necessario completare l'adeguamento della normativa alla CEDU operato, in via interpretativa, dalle Sezioni Unite, Paternò, osservando che l'esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati «è comunque soddisfatta alle prescrizioni specifiche che l'art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno». </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">È già stato ricordato il contenuto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. La prima rimarcava l'importanza dei principi di offensività e di proporzionalità per l'interpretazione delle norme che in questa sede rilevano: richiamando «i severi presidi costituzionali costituiti dagli artt. 13 e 25 della Carta Costituzionale» ed osservando che, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, «le prescrizioni imposte al sorvegliato hanno la funzione di garantire la effettività della tutela preventiva, allo scopo di scongiurare (o, almeno, limitare) la commissione di futuri reati», la sentenza affermava che la sanzione penale nei confronti del sorvegliato che non si conformi alle direttive può riguardare solo «condotte "eloquenti", in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano o connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella sostanziale vanificazione di cui fa parola la sentenza Da Silva» (richiamando un passaggio incidentale della sentenza Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985, De Silva, Rv. 170592). Veniva richiamata anche la sentenza della Corte EDU, Labita c. Italia per confermare «la necessità di una stretta correlazione tra misura restrittiva - repressiva e scopo perseguito». La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò riprendeva queste considerazioni, sottolineando che la sentenza SU, Sinigaglia supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di "vanificazione" della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le "inottemperanze" del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità. Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un "annullamento" di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell'interesse dell'autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell'ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella relativa applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale fin qui riassunto, è possibile rispondere alla questione di diritto sollevata con l'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>L'orientamento espresso dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini non può essere accolto. La ricognizione della normativa che fa riferimento alle "pubbliche riunioni", svolta al fine di evidenziare la mancanza di una definizione univoca della nozione, non appare convincente sotto diversi profili.</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> Di per sé, il fatto che un concetto assuma significati differenti (o parzialmente differenti) in diversi settori della normativa non costituisce una anomalia inaccettabile e si riscontra frequentemente; appare, quindi, improprio accostare normative differenti e rivolte a destinatari diversi. In ogni caso, la sentenza non verifica la possibilità di individuare una definizione di "pubblica riunione" che possa essere valida per tutte le norme evidenziate: se il problema è la conoscibilità della norma da parte del destinatario, occorre verificare se le diverse nozioni di "pubblica riunione" costituiscano o meno degli insiemi che presentano un'intersezione comune a tutti; in altre parole, era necessario accertare se esiste una nozione di "pubblica riunione" - ovviamente più ristretta - che tutte le norme contengono, espressamente o meno. Se tale nozione esiste, è possibile ritenere che i destinatari della prescrizione siano in grado di conoscerne il contenuto; non possano, cioè, avere dubbi sul fatto che in una situazione corrispondente a quella nozione ristretta essi stiano sicuramente partecipando ad una "pubblica riunione".</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Questa nozione ristretta e comune a tutte le norme menzionate esiste: è la riunione non occasionale di più persone in luogo pubblico. Ripercorrendo l'analisi delle norme menzionate dalla sentenza citata, si può rilevare, quanto all'art. 266, comma 3, cod. pen., che l'ipotesi di istigazione commessa in luogo pubblico e alla presenza di più persone è espressamente contemplata dal n. 2; quanto all'art. 18 T.U.L.P.S., che la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1958, dichiarando illegittima la norma nella parte in cui impone il preavviso della riunione al questione anche per le riunioni non tenute in luogo pubblico, ha limitato l'obbligo solo a quelle tenute in luogo pubblico; quanto all'art. 4 legge 18 aprile 1975, n. 110, che il divieto di portare armi si applica certamente anche alle riunioni in luogo pubblico. Contrariamente a quanto sostiene la sentenza Sez. 1, Pellegrini, quindi, esiste una soluzione interpretativa che rende determinato il contenuto della norma incriminatrice, elimina l'eccessiva discrezionalità del giudice penale nell'applicazione della norma e permette la conoscibilità del precetto, così orientando il comportamento dei destinatari. 14. Inoltre la sentenza, per sopperire al vizio di indeterminatezza, adotta una "interpretazione convenzionalmente orientata" con la quale sostanzialmente disapplica la previsione normativa senza sollevare una questione di legittimità costituzionale. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, la disapplicazione di una disposizione di legge interna da parte del giudice, perché ritenuta non conforme alle previsioni della CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, è illegittima, perché in contrasto con la stessa Costituzione. Alle norme della Convenzione EDU deve, invece, assegnarsi il rango di «fonti interposte», destinate ad integrare il parametro di cui all'art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al legislatore di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi. Pertanto, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, non possa essere risolto in via interpretativa, va esclusa la possibilità di applicare direttamente la norma convenzionale interposta «obliterando il contrario disposto di una norma interna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, non mass. sul punto; Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, non mass. sul punto; Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 25328901, non mass. sul punto): in questo caso, dovrà essere sollevato l'incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell'indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell'interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell'ordinamento costituzionale italiano. Non si può dimenticare che la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato la legittimità della norma in questione; con la sentenza n. 126 del 1983, anche con riferimento alla possibile violazione del principio di legalità, ritenendo la prescrizione espressa in termini tassativi. Del resto, come già osservato al par. 6, la censura mossa dalla Corte EDU, De Tommaso in ordine alla prescrizione in esame era di natura differente rispetto a quelle formulate per le prescrizioni di "vivere onestamente" e "rispettare le leggi". </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">In effetti, la prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni non può essere equiparata all'obbligo di portare la carta di permanenza e alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, oggetto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Nel primo caso la decisione delle Sezioni Unite era basata sul dato formale della mancata inclusione dell'obbligo nelle prescrizioni, sul fatto che la previsione di legge è rivolta principalmente all'autorità che deve compilare e consegnare la carta di permanenza al soggetto e solo dopo al sottoposto e, ancora, sull'estraneità di quell'obbligo alla ratio della misura di prevenzione di sottoporre a sorveglianza particolare il soggetto al fine di prevenire la consumazione di reati. Le Sezioni Unite, Paternò, invece, avevano escluso che gli obblighi di vivere onestamente e rispettare le leggi potessero considerarsi vere e proprie prescrizioni, aventi reale contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici, ma contenendo un mero ammonimento "morale" che, per di più, vale per ogni consociato: la norma, in definitiva, non individua condotte socialmente dannose che devono essere evitate né prescrive quelle socialmente utili che devono essere perseguite. Invece il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non grava su tutti gli associati; al contrario, la Costituzione tutela il contrario diritto di riunirsi, anche in luoghi aperti al pubblico. All'esistenza di un diritto corrisponde la possibilità di formulare un divieto, perché la condotta può essere delimitata oggettivamente, il concetto di "riunione" presupponendo una realtà fisica, concreta; in sostanza, si tratta di una prescrizione specifica e non generica. Per di più, la prescrizione è strettamente connessa alla finalità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, poiché la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficoltosa proprio la sorveglianza del sottoposto alla misura di prevenzione, che deve essere rafforzata soprattutto se si tratta di misura accompagnata dall'obbligo o divieto di soggiorno; quindi rende più facile e meno controllabile la consumazione di reati oppure l'incontro con soggetti pregiudicati o sottoposti a misure. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Per quanto appena osservato, la soluzione interpretativa adottata rende superflua la soluzione proposta da Sez. 1, Sassano di una verifica obbligatoria da parte del giudice penale della concreta offensività della violazione della prescrizione. In effetti, si tratta di soluzione che appare forzata e non necessaria. A ben vedere, in conseguenza della riduzione del numero delle prescrizioni obbligatorie penalmente sanzionate ad opera del legislatore, dell'interpretazione delle Sezioni Unite Sinigaglia e Paternò e dell'intervento della Corte Costituzionale, l'art. 8, comma 4 d. Igs. 159 del 2011 ne prevede cinque (di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso, di non associarsi ai pregiudicati o sottoposti a misure, di rimanere la notte in casa, di non detenere e portare armi e di non partecipare a pubbliche riunioni), tutte significative rispetto alla finalità perseguita dal legislatore di consentire una sorveglianza sul soggetto pericoloso al fine di evitare la commissione di reati. Appare ragionevole, quindi, la sanzione penale della violazioni di quelle prescrizioni che il legislatore indica, appunto, come sintomo della pericolosità del soggetto e finalizzata ad annullare la sorveglianza speciale disposta dal tribunale. </span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>In definitiva, deve essere affermato il seguente principio di diritto: La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico».</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 20 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale, n. 278, che ribadisce le argomentazioni recentemente sviluppate con la sentenza n. 141 del 2019, affermando la legittimità dell’incriminazione, cui all’art. 3, comma 1, n. 3) e n. 8), prima parte, l. n. 75/1958. Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 3) e 8), prima parte, della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), sollevate, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Reggio Emilia. Con la sentenza n. 141 del 2019, successiva all’ordinanza di rimessione, la Corte ha già dichiarato non fondate questioni analoghe, sollevate in rapporto alle ipotesi criminose del reclutamento e del favoreggiamento della prostituzione, di cui all’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), prima parte, della legge n. 75 del 1958 (disposizioni che puniscono, rispettivamente, «chiunque recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione» e «chiunque in qualsiasi modo favorisca […] la prostituzione altrui»). La Corte ha rilevato come tali figure delittuose costituiscano espressione della generale strategia di intervento adottata in materia dalla legge n. 75 del 1958: quella, cioè, di configurare la prostituzione come attività in sé lecita, vietando, però, nel contempo, sotto minaccia di sanzione penale, qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in termini di promozione, agevolazione o sfruttamento), sia sul piano morale (in termini di induzione). Ciò, nella prospettiva di non consentire alla prostituzione stessa «di svilupparsi e di proliferare». In simile cornice, le fattispecie criminose in discussione – anche nella parte in cui risultano riferibili alla prostituzione volontariamente esercitata – sono state ritenute, dalla Corte, compatibili con il principio di offensività, inteso come precetto che impone al legislatore di limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”): precetto che non esclude il ricorso al modello del reato di pericolo (sentenza n. 225 del 2008), anche presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986), a condizione che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto non risulti irrazionale o arbitraria (sentenza n. 109 del 2016). Di là dalle oscillazioni della giurisprudenza in ordine all’individuazione del bene protetto dalle norme penali della legge n. 75 del 1958 – cui accenna anche l’odierno rimettente – le previsioni punitive in discorso sono apparse rispettose dei canoni dianzi indicati, ove riguardate «nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta». In tale prospettiva, l’incriminazione delle cosiddette “condotte parallele” alla prostituzione, senza rappresentare una soluzione costituzionalmente imposta (potendo il legislatore fronteggiare anche in altro modo i pericoli insiti nel fenomeno considerato), rientra, però, «nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastanti con la Costituzione». Resta ferma, in ogni caso, con riguardo alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività nella sua proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva (sentenza n. 141 del 2019). Le considerazioni ora ricordate risultano estensibili anche alla fattispecie della tolleranza abituale dell’esercizio della prostituzione, che l’odierno rimettente coinvolge nella verifica di compatibilità con il principio di offensività unitamente a quella del favoreggiamento, già in precedenza scrutinata da questa Corte. A mente dell’art. 3, primo comma, numero 3), della legge n. 75 del 1958, risponde di tale reato «chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si dànno alla prostituzione».La previsione punitiva si colloca specificamente nell’ambito della terna di figure criminose poste a presidio del divieto di esercizio delle case di prostituzione. Il numero 1) dell’art. 3 punisce la costituzione di case di prostituzione; il numero 2), la cessione di un locale a tale scopo; il numero 3) – oggi in esame – il consentire, per acquiescenza abituale dell’esercente, che la prostituzione si svolga all’interno di un pubblico esercizio. La norma incriminatrice censurata costituisce, pertanto, anch’essa espressione della strategia d’intervento, dianzi indicata, che ispira la legge n. 75 del 1958: strategia alla quale è globalmente riferibile la valutazione già operata da questa Corte, in punto di esclusione del contrasto con il principio di offensività. Nessun argomento a sostegno della tesi dell’indeterminatezza del precetto può essere, d’altra parte, ricavato dall’indirizzo giurisprudenziale – cui si fa riferimento anche dall’odierno rimettente – secondo il quale, ai fini della punibilità, la condotta di favoreggiamento deve essersi risolta in un aiuto alla prostituzione, e non già alla persona dedita ad essa. «L’affermazione è, infatti, sintonica al testo della norma censurata – il quale esige che la condotta incriminata favorisca l’attività, e non la persona che la esercita – e mira proprio ad evitare indebite dilatazioni della sfera applicativa della figura criminosa» (sentenza n. 141 del 2019). Le questioni vanno dichiarate, di conseguenza, non fondate.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">2020</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Il 20 gennaio esce la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, n. 201/17, in tema di app per monitorare le intenziosi di voto. Pronunciandosi su un caso “unghrese” in cui si discuteva della legittimità della decisione delle autorità giudiziarie di infliggere una multa nei confronti di un partito politico che aveva lanciato un'applicazione per gli smartphone che consentiva agli elettori di fotografare, caricare in modo anonimo e commentare i voti non validi espressi durante un referendum sull'immigrazione nell’anno 2016, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo, con una schiacciante maggioranza (16 voti favorevoli e 1 contrario), ha riscontrato la violazione dell’</span><span style="color: #0000ff;"><u><a href="http://www.quotidianogiuridico.it/RedirectManagerRichLegge?chiave=10LX0000105470ART13&art=&codice=&est=&cap=&codOpera=&dir=out" target="_blank" rel="noopener noreferrer"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">art. 10</span></a></u></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (diritto alla libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La Corte ha riscontrato in particolare che la disposizione del diritto elettorale nazionale invocata dalle autorità (una violazione del principio dell'esercizio del diritto conformemente allo scopo normativamente richiesto) non aveva consentito al partito politico di prevedere la possibilità di essere sanzionato per aver fornito tale “app”, che aveva costituito un esercizio della libertà di espressione. La notevole incertezza sui potenziali effetti della disposizione aveva superato ciò che era accettabile ai sensi della Convenzione e la mancanza di sufficiente tassatività nella previsione di legge, idonea ad escludere qualsiasi possibile arbitrio e consentire al partito politico di regolare di conseguenza il proprio comportamento, aveva determinato una violazione della norma della Convenzione.</span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Questioni intriganti</b></span></p> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Quali sono i tre principi complementari in tema di tassatività?</b></span></p> <ol type="a"> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">il principio di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>precisione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">: i </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>diritti di libertà</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> del cittadino vanno preservati attraverso la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>precisa indicazione </b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">del</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b> fatto</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> penalmente rilevante e della </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>sanzione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> comminata, limitando la discrezionalità del giudice;</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">il principio di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>determinatezza</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">: il fatto penalmente rilevante va </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>descritto</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> in modo da poter essere </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>accertato e provato</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> nel processo attraverso </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>scienza ed esperienza</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> attuali;</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">il principio di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>tassatività</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> in senso stretto (o </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>divieto di analogia</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">): il legislatore e soprattutto </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>il giudice</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> non possono estendere la disciplina oltre i </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>casi espressamente previsti</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> dalla norma incriminatrice.</span></p> </li> </ol> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Quale è l’atteggiamento della Corte costituzionale in fattispecie sospette di essere in rotta di collisione con il principio di tassatività?</b></span></p> <ol type="a"> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">dichiarare direttamente la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>incostituzionalità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> della norma (come nel caso paradigmatico del plagio);</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">salvare la norma, dandone una </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>interpretazione costituzionalmente orientata</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (come nel caso del disastro ambientale e dello </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>stalking</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">).</span></p> </li> </ol> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Quali sono i valori da salvaguardare attraverso il principio di tassatività della fattispecie penale?</b></span></p> <ol> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">evitare una </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>operazione creativa del diritto</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> da parte del giudice penale;</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">garantire in ogni caso – non essendo la legge </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>onniloquente</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> come pretendevano gli Illuministi - che il dato giuridico sia adeguato al </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>divenire della realtà sociale</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, attraverso l’utilizzo di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>formule elastiche</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> che tuttavia non sconfinino nella </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>genericità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e siano comunque capaci di identificare un </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>comportamento verificabile</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e, dunque, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>punibile</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">;</span></p> </li> </ol> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Quale problema pongono in tema di tassatività gli elementi normativi extra-giuridici della fattispecie penale?</b></span></p> <ol type="a"> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">essi richiamano </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>norme di natura non giuridica</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e dunque </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>norme etiche</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>norme sociali</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>norme di costume</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>norme tecniche</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>norme scientifiche</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">; </span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">la relativa presenza compendia un </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>elemento elastico o flessibile</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> della fattispecie penale (non un elemento </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>rigido e descrittivo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> facilmente </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>verificabile</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, di tipo ad esempio </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>numerico</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">) che da un lato garantisce il </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>costante adeguamento</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> del sistema sanzionatorio al </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>divenire della realtà sociale</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, ma dall’altro può implicare problemi di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>compatibilità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> con il principio di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>tassatività, precisione e sufficiente determinatezza</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> della fattispecie.</span></p> </li> </ol> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Come si pone il problema della tassatività della fattispecie penale in relazione ai diversi elementi che la compendiano?</b></span></p> <ol type="a"> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Se si tratta di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>elementi vaghi ed indeterminati</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, la fattispecie non rispetta il requisito della tassatività: il giudice, dopo aver percepito, valuta in modo del tutto arbitrario il fatto concreto riconducendolo o meno, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>a suo libito</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, alla fattispecie astratta;</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Se si tratta di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>elementi elastici</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>c.d. clausole di illiceità speciale</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (es, “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>senza giustificato motivo</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”, “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>arbitrariamente</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” o simili), anche se il grado di apprezzamento del giudice non è totalmente vincolato, essi possono in ogni caso - a determinate condizioni - </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>essere compatibili</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> con il principio di tassatività; sono i casi in cui esiste comunque </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>uno iato</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> tra l’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>attività percettiva</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> del giudice e quella di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>valutazione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> a fini di riconducibilità del fatto concreto alla fattispecie astratta;</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">Se si tratta di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>elementi rigidi</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, in cui il giudice </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>percepisce</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e al medesimo tempo </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>valuta</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> la fattispecie concreta </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>riconducendola in via immediata</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> a quella astratta (</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>non vi è iato</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> tra </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>percezione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>valutazione</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> a fini di punibilità) non si pone alcun problema di frizione col principio di tassatività.</span></p> </li> </ol> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>Quali problemi interpretativi pone il nuovo art. 452.quater c.p. in tema di disastro ambientale?</b></span></p> <ol type="a"> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">una prima questione riguarda la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>clausola di sussidiarietà</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, per la quale la norma diventa operativa “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>fuori dai casi previsti dall’art.434</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">”: a.1) una tesi legge tale clausola nel senso onde essa conferma la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>non sussumibilità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> del disastro ambientale nelle nozioni di </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>disastro</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (nominato o innominato) previste tradizionalmente dall’art.434 c.p.; a.2) secondo un’altra tesi, al contrario, il disastro ambientale </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>è sussumibile</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, a seconda dei casi, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>nell’art.434</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (che richiede </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>un evento invasivo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> di contaminazione ambientale </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>e insieme, congiuntamente,</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> un pericolo per la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>pubblica incolumità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">) ovvero </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>nell’art. 452.quater</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (per applicare il quale basta </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>o</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> l’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>evento invasivo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> di contaminazione ambientale </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>ovvero, alternativamente,</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> il pericolo per la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>pubblica incolumità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">), il che condurrebbe peraltro ad un esito irragionevole e violativo dell’art.3 Cost. in quanto i </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>casi più gravi</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> sono quelli in cui è presente </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>congiuntamente</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> sia l’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>evento invasivo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> che il pericolo per la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>pubblica incolumità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, e ad essi finisce tuttavia con l’applicarsi – proprio in forza della clausola di sussidiarietà – l’art. 434 c.p. </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>la cui pena è più mite</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> rispetto a quella dell’art. 452.quater c.p.;</span></p> </li> <li> <p class="western" align="justify"><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">una seconda questione – maggiormente afferente al principio di tassatività della fattispecie - riguarda il riferimento che </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>l’art. 452.quater c.p.</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> fa (al </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>n.3</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">) alla </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">“</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>offesa</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” alla </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>pubblica incolumità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">: la pubblica incolumità è tuttavia aggredibile </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>soltanto con una</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> delle </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>due possibili declinazioni</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> dell’</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>offesa</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> penalisticamente intesa, vale a dire con la </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>messa in pericolo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (che è concetto </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>potenziale</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, applicabile ad un numero indeterminato di persone), mentre è </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>inapplicabile</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> alla indistinta “</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>pubblica incolumità</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">” una offesa </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><i><b>sub specie</b></i></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b> di danno</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, stante come quest’ultimo non possa che fare riferimento – all’opposto - ad un numero </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>determinato</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> di persone (quelle, per l’appunto, </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>danneggiate in concreto</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> dall’evento disastroso ambientale); a venire sanzionato è allora </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>solo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> chiunque </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>cagiona un pericolo</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> (offesa) per la pubblica incolumità, ed in tal modo viene decritto per essere assoggettato a pena un </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>contegno generico </b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">(quando può</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b> realmente dirsi messa in pericolo </b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">la</span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b> pubblica incolumità</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">?), descritto in modo da escludere qualunque </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>capacità selettiva</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> dei comportamenti in concreto punibili e per giunta configurante </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>un reato di pura condotta</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;">, e non già un reato di evento (l’evento-disastro ambientale), con palmare </span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"><b>deficit di tassatività</b></span><span style="font-family: Arial Narrow, sans-serif;"> e frizione con l’art.25, comma 2, Cost.</span></p> </li> </ol>