<p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, I, sentenza del 03.04.2020, n. 7668</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nell’esaminare la controversia in epigrafe, la Corte di Cassazione muoveva dalle seguenti ragioni di</p> <p style="text-align: justify;">FATTO E DIRITTO</p> <p style="text-align: justify;">Le istanti impugnavano il decreto con il quale veniva escluso il potere dell'ufficiale di stato civile di modificare l'atto di nascita di Li. Co., inserendovi il riferimento alla doppia maternità delle signore Co. e Sa.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, le ricorrenti denunciavano: violazione e falsa applicazione degli artt. 11, comma 3, e 12, comma 1, del D.P.R. n. 396 del 2000, per avere affermato che l'ufficiale di stato civile non aveva il potere-dovere di adeguare le formule ministeriali previste per la redazione dell'atto di nascita, inserendovi le annotazioni necessarie in relazione alle circostanze della fattispecie concreta; violazione e falsa applicazione degli artt. 11, comma 3, e 12, comma 1, del D.P.R. n. 396 del 2000, anche in relazione all'art. 451 c.c., atteso che la Corte di merito aveva ignorato il principio secondo cui gli atti dello stato civile devono rispecchiare la disciplina sostanziale degli status che è posta a base degli effetti giuridici da certificare, disconoscendo la liceità del percorso riproduttivo seguito dalle ricorrenti; violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Cedu, in tema di tutela della vita privata e familiare e di non discriminazione, e dell'art. 3 della Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza; omessa pronuncia sulla domanda di rettificazione dei dati personali, ai sensi degli artt. 7, comma 3, lett. b), D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e 13 del Regolamento UE n. 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, e violazione del diritto alla corretta rappresentazione dei dati personali.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte le doglianze dedotte dalle ricorrenti erano infondate.</p> <p style="text-align: justify;">In via preliminare la Cassazione stigmatizzava gli elementi di fatto della vicenda: una delle ricorrenti, entrambe cittadine italiane conviventi, era madre biologica della piccola Li. (che ha partorito) e della quale aveva la responsabilità genitoriale (Fr. Co.) e l'altra (Da. Sa.) dichiarava di essere genitrice intenzionale per avere dato il consenso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita cui si era sottoposta la Co.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo il Collegio la sentenza impugnata aveva fatto corretta applicazione del divieto per le coppie formate da persone di sesso diverso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita cui possono accedere solo le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi.</p> <p style="text-align: justify;">Tale divieto – per la Corte desumibile anche da altre disposizioni (D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, comma 1; D.P.R. 17 luglio 2015, art. 1, comma 1, lett. c, che ha sostituito l'art. 7, comma 1, lett. a, del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223) - era attualmente vigente all'interno dell'ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove fosse avvenuta la pratica fecondativa.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio rappresentava che la Corte costituzionale aveva ritenuto il divieto conforme a Costituzione (sent. n. 221 del 2019). La Consulta all’interrogativo se fosse configurabile - e in quali limiti - un "diritto a procreare", comprensivo non solo dell'an e del quando, ma anche del quomodo, rispondeva in senso negativo prendendo le mosse da due idee di base: 1) la funzione delle tecniche considerate, in quanto la legge configura queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile; 2) la struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione, atteso che la legge prevede una serie di limitazioni di ordine soggettivo all'accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre.</p> <p style="text-align: justify;">La validità delle suddette conclusioni non era inoltre inficiata dai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità sui temi dell'adozione di minori da parte di coppie omosessuali (cfr. Cass. n. 12962 del 2016) e del riconoscimento in Italia di atti formati all'estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 19599 del 2016, n. 14878 del 2017).</p> <p style="text-align: justify;">Sul punto la Corte richiamava le ragioni illustrate dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, onde vi era una differenza essenziale tra l'adozione e la PMA: l'adozione presuppone l'esistenza in vita dell'adottando (essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo) e pertanto nel caso dell'adozione il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela l'interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate (interesse che va verificato in concreto); la PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali e pertanto il bambino deve ancora nascere con la conseguenza che non è irragionevole che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni "di partenza".</p> <p style="text-align: justify;">La Cassazione rilevava altresì che la possibilità di ottenere il riconoscimento in Italia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne dello stesso sesso si giustificava in virtù del fatto che diverso è il parametro normativo applicabile: il principio di ordine pubblico (la legge 31 maggio 1995, n. 218, artt. 16 e 64, comma 1, lett. g)) in forza del quale si è ritenuto non contrastare il divieto normativamente imposto in Italia alle coppie formate da persone di sesso diverso di accedere alle PMA, in relazione ad atti validamente formati all'estero per i quali è impellente la tutela del diritto alla continuità (e conservazione) dello status filiationis acquisito all'estero; e ciò diversamente dalle coppie omosessuali maschili, per le quali la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso la pratica distinta della maternità surrogata che è vietata da una disposizione (l'art. 12, comma 6, della L. n. 40 del 2004) che si è ritenuta espressiva di un principio di ordine pubblico, a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull'interesse del minore, salva la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione (Cass., sez. un., n. 12193 del 2019).</p> <p style="text-align: justify;">Secondo il Collegio non era dunque pertinente il riferimento, sul quale le ricorrenti insistevano, alla nozione ristretta di ordine pubblico, essendo l'atto di nascita che si chiedeva di rettificare formato in Italia (dove la bambina era nata) e non rilevando che la pratica fecondativa medicalmente assistita fosse avvenuta all'estero.</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, per la Corte il ricorso andava rigettato e le spese erano compensate, in considerazione della complessità delle questioni dibattute.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><em>Alessandro Piazzai</em></p>