<p style="text-align: justify;"></p> <ol style="text-align: justify;"> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">Il ricorso deve essere complessivamente rigettato.</span></li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, le ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 340, all. E, D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 30, R.D. 25 maggio 1895, n. 350, art. 5, nonché agli artt. 1453, 1454 e 2697 c.c.</span> <ol> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">I principi invocati dalle ricorrenti sono del tutto corretti. In tema di appalto di opere pubbliche della L. n. 2248 del 1865, artt. 340, 341 e 345, all. F, si limitano ad attribuire alla P.A. appaltante il potere di risolvere il contratto nei casi in cui, a suo discrezionale giudizio, ritenga che l’appaltatore sia inadempiente (Sez. 1, 23/02/2018, n. 4454); il provvedimento di rescissione adottato dalla stazione appaltante, della L. n. 2248 del 1865, ex art. 340, all. F, non impedisce all’appaltatore di agire per la risoluzione del contratto in base alle regole generali dettate per l’inadempimento contrattuale di non scarsa importanza, ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c., poiché il potere autoritativo di cui si rende espressione il provvedimento di rescissione adottato dalla P.A., non è idoneo ad incidere sulle posizioni soggettive nascenti dal rapporto contrattuale aventi consistenza di diritti soggettivi (Sez. 1, 27/09/2018, n. 23323; Sez. 1, 27/10/2015, n. 21882; sez. 1, 29/10/2014, n. 22995). </span><span style="font-weight: 400;"> </span><span style="font-weight: 400;">Anche in tema di rescissione del contratto di appalto ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 340, all. F, se è vero che l’accertamento - da parte del giudice del merito - dei presupposti stabiliti da tale norma per l’esercizio del diritto di autotutela della P.A. è autonomo, e non vincolato alla risultanze sulle quali l’Amministrazione si è basata per far valere il suo diritto potestativo, è pur vero che lo stesso deve essere compiuto in base alla disciplina privatistica degli artt. 1218 e 1453 c.c.. Tale disciplina, in particolare, non consente al giudice di isolare singole condotte di una delle parti e di stabilire se ciascuna di esse soltanto costituisca motivo di inadempienza a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma impone al giudice di procedere alla valutazione sinergica del comportamento di entrambe, compiendo una indagine globale e unitaria, coinvolgente nell’insieme l’intero loro comportamento, anche se con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell’inadempimento, perché la unitarietà del rapporto obbligatorio, a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuna delle parti non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta del contraente, ma ne esige un apprezzamento complessivo (Sez. 1, 31/10/2014, n. 23274). </span></li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">Il R.D. 25 maggio 1895, n. 350, art. 5, applicabile ratione temporis, prevedeva la necessità di una preventiva "verificazione del progetto, in relazione al terreno, al tracciamento, al sottosuolo, alle cave, alle fornaci e a quant’altro occorre per l’esecuzione dell’opera, affinché sia accertato che, all’atto della consegna, non si riscontreranno variazioni nelle condizioni di fatto sulle quali il progetto è basato o, riscontrandosene alcuna, si abbia tempo a prevenire l’apertura delle aste pubbliche o delle licitazioni, ovvero, quando trattasi di trattativa privata, la stipulazione del contratto, in base al progetto inesatto o non più esatto". Le ragioni di pubblico interesse o necessità che, ai sensi del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 30, comma 2, legittimano l’ordine di sospensione dei lavori, vanno identificate in esigenze pubbliche oggettive e sopravvenute, non previste nè prevedibili dall’Amministrazione con l’uso dell’ordinarla diligenza, così che esse non possono essere invocate al fine di porre rimedio a negligenza o imprevidenza dell’Amministrazione medesima. In particolare, nel caso che sopravvenga la necessità di approvare una perizia di variante, tale emergenza non deve essere ricollegabile ad alcuna forma di negligenza o imperizia nella predisposizione e nella verifica del progetto da parte dell’ente appaltante, il quale è tenuto, prima dell’indizione della gara, a controllarne la validità in tutti i suoi aspetti tecnici, e a impiegare la dovuta diligenza nell’eliminare il rischio di impedimenti alla realizzazione dell’opera sì come progettata (Sez. 1, 28/02/2019, n. 5969). La giurisprudenza di questa Corte, con riferimento a un caso analogo, ha ripetutamente affermato ritrovamento nel sottosuolo di reperti archeologici (c.d. "sorpresa archeologica") costituisce causa di forza maggiore, ai sensi del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 30, comma 1, che impedisce la prosecuzione dei lavori in adempimento dei doveri imposti dalla legge e senza discrezionalità alcuna da parte del committente (Sez. 1, n. 2316 del 05/02/2016, Rv. 638579-01; Sez. 1, n. 3670 del 17/02/2014, Rv. 629723-01; Sez. 1, n. 10133 del 14/05/2005, Rv. 582195-01). La Corte di appello ha ritenuto che il ritrovamento degli ordigni nel sottosuolo integrasse una causa di forza maggiore ai sensi del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 30, legittimante la sospensione (parziale) dei lavori disposta dalla stazione appaltante, quale fatto non prevedibile impeditivo della prosecuzione dei lavori a regola d’arte. A tanto si è indotta sul presupposto che le appellanti non avevano fornito elementi di sorta che rendessero nota, o ragionevolmente desumibile, prima del 4/11/1999 la presenza in loco di ordigni bellici, non potendosi certamente esigere dal committente la previa e indiscriminata bonifica di tutti i siti. In tal modo la Corte di appello ha espresso una valutazione rientrante nei poteri discrezionali di apprezzamento del fatto propri del giudice di merito, incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivata (Sez. 1, 10/07/2013, n. 17096; sez. 3, 13/05/2009, n. 11024; Sez. lav., 23/11/2004, n. 22065; sez. lav., 21/10/1992, n. 11488). </span></li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">La censura, totalmente generica e riversata nel merito, non si confronta con le specifiche ragioni sulla base delle quali la Corte territoriale ha fondato la ritenuta illegittimità della sospensione dei lavori da parte dell’impresa e del rifiuto di riprenderli, esposti nei § 13.2, 13.3. e 13.4. della sentenza impugnata. </span></li> </ol> </li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, le ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1375, 1453, 1454 e 1460 c.c. </span> <ol> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">La Corte di appello aveva ritenuto ingiustificata la sospensione dei lavori da parte dell’impresa e il rifiuto di riprenderli sia per il contrasto con il suo precedente comportamento biennale, sia per la possibilità di eseguire una parte dei lavori in misura assai rilevante. </span></li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">La prima affermazione sarebbe in contrasto con i principi generali che ammettono sempre la parte adempiente a chiedere la risoluzione anche nel corso del giudizio volto a chiedere l’adempimento ex art. 1453 c.c., comma 2. Tale disposizione, secondo la quale la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione, non è affatto pertinente. In questo caso, l’appaltatrice non aveva promosso alcun giudizio nè per la risoluzione, nè per l’adempimento; la sua scelta stragiudiziale di consentire inizialmente l’adempimento tardivo alla committente inadempiente e poi di richiedere la risoluzione tramite diffida ad adempiere, non è stata censurata in quanto tale, sul presupposto cioè di una inesistente preclusione, ma sulla base di un apprezzamento prettamente di merito e legato alle specifiche particolarità della fattispecie concreta e pertanto, ancora una volta, insindacabile in questa sede, circa la non conformità al paramento della buona fede contrattuale.</span></li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">L’obiezione, ancora evidentemente implicante una valutazione nel merito, non appare neppur pertinente rispetto alla ratio della sentenza impugnata, poichénon si confronta con l’assunto della Corte secondo cui era oggettivamente possibile, nell’attesa dell’iter di approvazione della variante eseguire opere rientranti nel contratto e non tener bloccata la macchina produttiva.</span></li> </ol> </li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;">Con l’ottavo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, le ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1223, 1227, 1453 c.c.</span> <ol> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;"> Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di appalto di opere pubbliche, in caso di rescissione, da parte dell’ente pubblico, del contratto, che ne determina ipso iure la risoluzione con effetto retroattivo, il danno risarcibile, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 340, comma 2, all. F, applicabile ratione temporis, consiste nella maggiore spesa sostenuta al fine di garantire la realizzazione dell’opera o la continuità del servizio, tramite l’esecuzione d’ufficio o la stipulazione di un nuovo contratto. (Sez. 1, n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631449-01); dalla rescissione del contratto di appalto di opera pubblica per inadempimento dell’appaltatore, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 340, all. F, non consegue ex se un danno risarcibile per la P.A. appaltante, pari all’astratto incremento dei costi dell’opera, indipendentemente dal riappalto dei lavori; il danno previsto e disciplinato dalla norma in questione è esclusivamente quello che la P.A. committente subisce nello stipulare un nuovo contratto o nel provvedere mediante l’esecuzione di ufficio - danno che quindi non ricorre in mancanza di un nuovo contratto o dell’esecuzione d’ufficio - fermo restando il diritto dell’appaltante di ottenere il risarcimento del danno ulteriore e diverso secondo le norme comuni (Sez. 1, n. 21407 del 04/11/2005, Rv. 586073-01); il danno risarcibile, può consistere anche nella maggiore spesa determinata dalla sola incidenza sfavorevole del fenomeno inflattivo nel frattempo intervenuto, in quanto l’incremento del corrispettivo del secondo contratto, conseguente all’adeguamento ai prezzi di mercato, è destinato ad incidere negativamente sulle finanze pubbliche, mentre il tempestivo adempimento del primo contratto avrebbe consentito di elidere gli effetti depauperativi dell’inflazione. (Sez. 1, n. 18958 del 08/08/2013, Rv. 627612-01).</span></li> <li style="font-weight: 400;"><span style="font-weight: 400;"> La recriminazione circa la mancata applicazione dell’art. 1227 c.c., è formulata in modo del tutto generico, quanto alle specifiche condotte individuate quali presupposti, e ancora una volta svincolato dal contenuto della relazione tecnica richiamate per relationem in sentenza; anche in questo caso la censura non è suscettibile di valutazione critica quanto a rilevanza e pertinenza.</span></li> </ol> </li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><i><span style="font-weight: 400;">Lorenzo Quadrini</span></i></p> <p style="text-align: justify;"> </p>