<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il diritto civile e quello amministrativo, assai meno “</em>rigidi<em>” del diritto penale, vedono sovente campeggiare concetti giuridici indeterminati che compendiano autentiche “</em>valvole respiratorie<em>” del sistema, consentendo adattamenti costanti del diritto al mutare delle pertinenti contingenze di fatto; tra questi, fondamentale la coppia “</em>correttezza – buona fede<em>”, riferite (specie la seconda) non già all’atteggiamento soggettivo quanto, piuttosto, all’oggettività comportamentale dei protagonisti di ciascuna fattispecie “</em>obbligatoria<em>” (e dunque, tanto del debitore quanto del creditore: art.1175 c.c.). </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si tratta non già solo di valutare se un precostituito contegno obbligatorio sia stato mantenuto nel prisma della correttezza, ma financo di individuare obblighi autonomi, ulteriori e collaterali ad esso, che la “</em>buona fede<em>” impone a ciascuna delle parti di una relazione giuridica obbligatoria di “</em>correttamente<em>” adempiere, in una proporzionata cornice di vantaggi “</em>agli<em>” - e, correlativamente, sacrifici “</em>degli<em>” - interessi di ciascuna delle parti medesime.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1865</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia (c.d. codice Pisanelli), di stampo liberale, la cui norma di riferimento in tema di buona fede “<em>oggettiva</em>” è l’art.1124, onde i contratti devono essere eseguiti “<em>di buona fede</em>”: si tratta di una disposizione scarna e tutt’affatto generica, che peraltro impregna di sé la disciplina dei contratti, e non anche quella delle obbligazioni scaturenti da fonte diversa rispetto a quella contrattuale. La norma fa anche un riferimento al contenuto dell’obbligazione, che si estende “<em>anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso e la legge ne derivano</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Rilevante, seppure in via indiretta, l’art.1169 alla cui stregua la condizione deve assumersi avverata qualora l’evento da cui dipende il ridetto avveramento sia stato impedito dal debitore obbligatosi, per l’appunto, sotto condizione (c.d. finzione di avveramento).</p> <p style="text-align: justify;">Non manca nella dottrina dominante e in parte della giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del codice una lettura riduttiva del concetto di buona fede di cui all’art.1124 c.c., sovente ricondotto (sulla scia romanistica) all’equità e comunque sminuito nelle pertinenti potenzialità effettuali giuridicamente rilevanti.</p> <p style="text-align: justify;">Muovendo dalla ricostruzione romanistica dei contratti consensuali di buona fede (nel cui ambito il contenuto espresso del contratto non è il solo a dettarne tutta l’effettiva portata precettiva), si giunge ad attribuire all’articolo in parola – non senza qualche equivoco - un significato unitario, congiungendo il riferimento alla buona fede con quello (diverso) all’equità, agli usi e alla legge, onde solo questi ultimi tre fattori (equità, usi e legge) possono integrare il contratto, mentre la <em>bona fides</em> non fa altro che costituire lo sfondo storico culturale nel quale si colloca tale integrazione, senza dunque rivestire un ruolo autonomo più ampio del mero canone di interpretazione della volontà delle parti (a tratti, financo mitizzata e capace di sviluppare “<em>resistenze</em>” molto consistenti rispetto a prese di posizione di ordine diverso).</p> <p style="text-align: justify;">E’ in altra parte della giurisprudenza che cova il germe di una nuova – e più significativa - concezione della buona fede “<em>oggettiva</em>”, ispirata ai c.d. “<em>principi di correttezza commerciale</em>” ed intesa novellamente quale regola di condotta delle parti nell’esecuzione del contratto tra loro concluso, assumendola (ad esempio) rilevante in sede di valutazione della congruità del preavviso di recesso nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero in sede di scandaglio del leale esercizio dei diritti derivanti da una clausola penale, ovvero ancora in sede di valutazione “<em>combinata</em>” dei reciproci inadempimenti dei contraenti, massime in tema opposizione dell’eccezione di inadempimento.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1900</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore in Germania il BGB, <em>Bürgerliches Gesetzbuch</em>, ovvero il codice civile tedesco, mettendo fine all’applicazione delle Pandette e, con esse, del Diritto Romano.</p> <p style="text-align: justify;">Stando al paragrafo 242, il debitore è obbligato ad eseguire la prestazione così come richiede la buona fede tenuto conto degli usi commerciali; si tratta della nota regola del comportamento secondo buona fede in sede di attuazione dell’obbligazione e, dunque, in sede di adempimento della prestazione dovuta dal debitore nell’interesse del creditore (c.d. <em>Treu und Glaube</em>).</p> <p style="text-align: justify;">Con questa norma si assiste al superamento del tipico “<em>soggettivismo</em>” pandettistico, legato alla signoria della volontà dei contraenti, producendosi una virata in senso “<em>oggettivo</em>” dell’obbligazione e della fonte che la produce, col porre in primo piano talune clausole generali strettamente avvinte – in termini precettivi – al comportamento dovuto, quali il c.d. “<em>abuso del diritto</em>” e la stessa “<em>buona fede</em>”, con funzione anche integrativa della volontà “<em>esplicita</em>” delle parti.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1933</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 dicembre viene varato il R.D. n.1736, recante disposizioni sull'assegno bancario, sull'assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell'Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia (c.d. legge assegni).</p> <p style="text-align: justify;">Stando al relativo art.43, l'assegno bancario emesso con la clausola «<em>non trasferibile</em>» non può essere pagato se non al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato nel relativo conto corrente, questi (il prenditore) non potendo girare l'assegno se non ad un banchiere per l'incasso, il quale ultimo non può ulteriormente girarlo; le girate apposte nonostante il divieto si hanno per non scritte e la cancellazione della clausola si ha per non avvenuta (comma 1).</p> <p style="text-align: justify;">Colui poi che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l'incasso “<em>risponde</em>” (genericamente) del pagamento (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">La clausola «<em>non trasferibile</em>» deve essere apposta anche dal banchiere su richiesta del cliente (comma 3) e può essere apposta da un girante con i medesimi effetti (comma 4).</p> <p style="text-align: justify;">Tali disposizioni si applicano infine soltanto agli assegni pagabili nel territorio del Regno o nei territori soggetti alla sovranità italiana (comma 5).</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che conferisce una indubbia maggior significatività al principio di buona fede oggettivamente inteso, sol che si consideri il cospicuo numero di disposizioni ad essa dedicate e sistematicamente avvinte in un quadro unitario, sulla spinta della più innovativa giurisprudenza operante nel vigore della codificazione liberale.</p> <p style="text-align: justify;">In <em>primis</em>, secondo il fondamentale art.1175 (comportamento secondo correttezza) sia il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3991.html">debitore</a> che (anche) il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1530.html">creditore</a> devono comportarsi “<em>secondo</em>” le regole della correttezza, qualunque sia la fonte dell’obbligo che li avvince (fonte che, dunque, può anche non essere rigidamente “<em>contrattuale</em>”). Ciò, peraltro, nel quadro dell’ordinamento corporativo vigente e dunque “<em>in relazione ai principi della solidarietà corporativa</em>"</p> <p style="text-align: justify;">Già peraltro nello svolgimento delle <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1706.html">trattative</a> e nella formazione del <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1691.html">contratto</a> <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quarto/titolo-ii/capo-ii/sezione-i/art1337.html#nota_3191">(dal quale l’obbligazione sorge)</a>, le parti devono ex art.1337 comportarsi secondo <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1488.html">buona fede</a>.</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi all’art.1375 in tema di esecuzione del contratto, esso deve essere eseguito “<em>secondo buona fede</em>”; quando poi nel contratto è stata prevista una condizione e questa ancora pende, colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1722.html">condizione sospensiva</a>, ovvero lo ha acquistato sotto <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1722.html">condizione risolutiva</a>, deve, in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1727.html">pendenza della condizione</a>, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte (tanto che, ai sensi del successivo art.1359, la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1722.html">condizione</a> si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa).</p> <p style="text-align: justify;">Il contratto va peraltro, e più in generale, interpretato “<em>secondo</em>” buona fede ex art.1366; e ciò <em>in primis</em> dalle stesse parti del contratto in parola, come palesa l’art.1460 onde – se nei <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1806.html">contratti con prestazioni corrispettive</a>, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria (salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto:comma 1) - non può tuttavia rifiutarsi la esecuzione della prestazione da una delle parti se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.</p> <p style="text-align: justify;">Affiora dunque dal nuovo codice una funzione meno ambigua e, massime, meno riduttiva della buona fede rispetto a quanto scolpito nel codice del 1865, onde essa serve ad interpretare i contratti costituendo, ad un tempo, una regola autonoma che presidia la stessa esecuzione della prestazione (anche non contrattuale) e che dunque integra i precetti dettati da ciascuna fonte di obbligo precostituito (l’art.1175 è collocato nell’ambito della disciplina delle obbligazioni in generale, e non del contratto) in modo distinto rispetto a quanto fanno gli usi e l’equità con riguardo al contratto.</p> <p style="text-align: justify;">Importante anche l’art.1440 c.c. in tema di c.d. dolo incidente onde, se i <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1791.html">raggiri</a> perpetrati da un contraente ai danni dell’altro, inducendolo in errore, non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse, e tuttavia il contraente in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4545.html">mala fede</a> risponde dei danni.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1944</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 settembre viene varato il decreto legislativo luogotenenziale n.287, il cui art.3 elimina dal testo dell’art.1175 c.c. il riferimento ai principi della solidarietà corporativa.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana secondo il cui fondamentale art.2 la Repubblica se da un lato riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, richiede dall’altro l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.</p> <p style="text-align: justify;">Con riguardo alla buona fede in senso oggettivo, importantissimo anche l’art.41 alla cui stregua l'iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.</p> <p style="text-align: justify;">Di sicuro rilievo anche l’art.97 della Carta, laddove prevede che l’organizzazione degli uffici (secondo disposizioni di legge) sia funzionale al buon andamento e all’imparzialità della Pubblica Amministrazione che, dunque, deve darsi cura di preservare – per quanto possibile e nel mentre persegue l’interesse pubblico ad essa istituzionalmente affidato – l’affidamento ingenerato nell’interlocutore privato: su questo crinale, l’eccesso di potere (come sviamento o disparità di trattamento) si atteggia, come noterà presto la più accorta dottrina, a scorrettezza e, in certo qual modo, ad autentica “<em>mala fede</em>” massime quando finisce appunto col conculcare legittime aspettative ingenerate nei consociati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1963</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 febbraio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.357 stando alla quale il dovere generico di lealtà e correttezza é bensì preso in considerazione nel vigente ordinamento giuridico, specialmente in materia contrattuale, ma la violazione di tale dovere, quando la legge non ne faccia seguire una sanzione autonoma, può costituire solo un criterio di valutazione e di qualificazione di un comportamento.</p> <p style="text-align: justify;">Detto dovere non vale dunque per il Collegio a creare, per se stesso, un diritto soggettivo tutelato “<em>erga omnes</em>” dalla osservanza del precetto del “<em>neminem laedere</em>”, quando tale diritto non sia riconosciuto da un’espressa disposizione di legge.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, un comportamento contrario ai doveri di lealtà, di correttezza e di solidarietà non può essere reputato illegittimo e colposo, né può essere fonte di responsabilità per danni quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto in base ad altre norme (senza che rilevi dunque la lesione di un – del resto, assunto inesistente - diritto “<em>autonomo</em>”, fondantesi sulla ridetta buona fede).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1980</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5610 alla cui stregua, in ossequio alla c.d. teoria valutativa e nel prisma della giurisprudenza dominante, agisce correttamente il creditore o il debitore che scrupolosamente si attiene alle prescrizioni di legge, mantenendosi rigorosamente nei limiti delle stesse, ma non tenendo conto della situazione sostanziale dell’altra parte.</p> <p style="text-align: justify;">Da questo punto di vista – decisamente riduttivo – la “<em>correttezza</em>” serve solo a valutare <em>ex post</em> il contegno tenuto dalle parti del rapporto obbligatorio (e dunque, sovente, del contratto) alla luce di disposizioni specifiche vigenti, che sole possono far scattare, in caso di pertinente violazione, l’art.1175 c.c., operante come norma sub-primaria dipendente, in termini effettuali, dalle ridette, singole disposizioni specifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un atteggiamento ostile ad un’applicazione “<em>autonoma</em>” dell’art.1175 c.c., in ossequio al principio di certezza del diritto: il comportamento delle parti del rapporto obbligatorio viene valutato in termini di stretta legalità, senza lasciare troppo spazio all’applicazione di un canone generale capace di colorare i singoli precetti giuridici anche alla luce di esigenze morali.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1985</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.3817 che si occupa della c.d. assicurazione con clausola di regolamento del premio, laddove l’assicurato è obbligato a pagare all’assicuratore un premio minimo fisso in via anticipata e provvisoria, nonché un maggior premio definitivo alla scadenza di ciascun periodo assicurativo; tale maggiorazione di premio si determina sulla scorta di elementi che possono variare in ciascun periodo assicurativo, e che l’assicurato (nel cui patrimonio conoscitivo entrano) si impegna a partecipare periodicamente all’assicuratore proprio al fine del calcolo della maggiorazione di premio e del relativo “<em>regolamento</em>” definitivo (compendiantesi nella somma tra premio “<em>fisso</em>” e premio “<em>variabile</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Laddove tale comunicazione in buona fede di informazioni supplementari all’assicuratore non intervenga (per scorrettezza dell’assicurato), per la Corte la copertura assicurativa finisce con l’essere automaticamente sospesa ai sensi dell’art.1901 c.c. (mancato pagamento del premio); l’obbligo di comunicazione è infatti nel caso di specie funzionale alla determinazione complessiva del premio dovuto, onde la pertinente mancata informazione all’assicuratore reca seco l’impossibilità di quantificare in misura complessiva il premio in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, la clausola di regolazione del premio ha carattere accessorio e fa luogo ad un obbligo comunicativo (di denuncia) in capo all’assicurato che è complementare rispetto a quello di pagamento del premio, onde laddove le dovute comunicazioni (scorrettamente) difettino, resta conseguentemente sospeso il pertinente contratto assicurativo (e con esso la copertura dei rischi dell’assicurato).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 30 ottobre esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.10527 che si occupa della c.d. assicurazione con clausola di regolamento del premio, laddove l’assicurato è obbligato a pagare all’assicuratore un premio minimo fisso in via anticipata e provvisoria, nonché un maggior premio definitivo alla scadenza di ciascun periodo assicurativo; tale maggiorazione di premio si determina sulla scorta di elementi che possono variare in ciascun periodo assicurativo, e che l’assicurato (nel cui patrimonio conoscitivo entrano) si impegna a trasmettere periodicamente all’assicuratore proprio al fine del calcolo della maggiorazione di premio e del relativo “<em>regolamento</em>” definitivo (compendiantesi nella somma tra premio “<em>fisso</em>” e premio “<em>variabile</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Laddove tale comunicazione in buona fede di informazioni supplementari all’assicuratore non intervenga (per scorrettezza dell’assicurato), per la Corte la copertura assicurativa finisce con l’essere automaticamente sospesa ai sensi dell’art.1901 c.c. (mancato pagamento del premio); l’obbligo di comunicazione è infatti nel caso di specie funzionale alla determinazione complessiva del premio dovuto, onde la pertinente mancata informazione all’assicuratore reca seco l’impossibilità di quantificare in misura complessiva il premio in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, la clausola di regolazione del premio ha carattere accessorio e fa luogo ad un obbligo comunicativo (di denuncia) in capo all’assicurato che è complementare rispetto a quello di pagamento del premio, onde laddove le dovute comunicazioni (scorrettamente) difettino, resta conseguentemente sospeso il pertinente contratto assicurativo (e con esso la copertura dei rischi dell’assicurato).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2503 alla cui stregua, ove sia convenuto in un verbale di conciliazione giudiziale l’obbligo del promittente venditore di trasferire al colono (promissario acquirente) parte del fondo da lui condotto a colonia parziaria, il promittente venditore ridetto, anche in difetto di specifica previsione in tal senso, è tenuto a sottoscrivere gli atti utili al (e voluti dal) colono promissario acquirente per reperire il prezzo a mezzo di mutuo agevolato con la Cassa per la formazione della proprietà contadina, e ciò in forza del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui all’art.1375 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Dalla buona fede vengono dunque fatti discendere dal Collegio obblighi di esecuzione di prestazioni non previste dalle parti, onde la pronuncia costituisce uno dei casi di adesione della giurisprudenza della Corte alla concezione c.d. “<em>precettiva</em>” della buona fede, intesa appunto quale autonoma fonte di obblighi ulteriori rispetto a quelli esplicitamente previsti dalle parti, piuttosto che quale mero strumento valutativo del comportamento delle parti stesse alla luce delle regole legali e di quelle che esse stesse si sono date.</p> <p style="text-align: justify;">La pronuncia sembra peraltro abbracciare la tesi che vede nel principio di buona fede un compendio di regole di validità del contratto, piuttosto che di norme comportamentali imposte alle parti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 aprile esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.3775 onde - smentendo sul punto le critiche di parte della dottrina, che avevano accusato la giurisprudenza di essere inidonea a sviluppare la figura della buona fede oggettiva e ad individuarne ambito di operatività e sistema di funzionamento – va riconosciuta alla buona fede funzione integrativa e correttiva del regolamento negoziale.</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso di specie l’Ente Fiuggi, conduttore della concessione comunale delle omonime acque minerali, ha bloccato dal 1983 il prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie di acqua minerale, nonostante l’intervenuta svalutazione monetaria e l’evidente interesse dell’amministrazione comunale all’adeguamento di tale prezzo, cui è commisurato il canone di affitto. L’Ente Fiuggi rappresenta che il prezzo di vendita in fabbrica è stato stabilito non per il mercato, ma per le società distributrici, appartenenti allo stesso gruppo della società facente capo all’Ente medesimo (che ha, invece, più volte notevolmente aumentato il prezzo di vendita dell’acqua al pubblico, ritraendone consistenti introiti).</p> <p style="text-align: justify;">Per il giudice di merito che ha respinto, con la sentenza gravata, le doglianze del Comune, dai patti contrattuali non può dedursi alcun diritto in capo all’Amministrazione istante di chiedere alla controparte l’aumento del prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie per adeguarlo alla intervenuta svalutazione; in presenza di espresse pattuizioni che attribuiscono all’Ente Fiuggi piena libertà nel fissare il prezzo di vendita, non è lecito argomentare su pretesi comportamenti del predetto ente attuati in spregio delle regole della correttezza e della buona fede.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte invece cassa la sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito che dovrà, muovendo dal non disconoscibile valore normativo del principio di buona fede, apprezzarne la rilevanza nel caso concreto, in riferimento al comportamento descritto, e adottare all’esito le congruenti determinazioni in ordine alle collegate domande di risoluzione e di risarcimento dei danni proposte dal Comune.</p> <p style="text-align: justify;">Sul crinale motivazionale, per il Collegio il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) si pone nel sistema quale limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366 cod. civ.) e l’esecuzione (art. 1375 cod. civ.), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti é tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio.</p> <p style="text-align: justify;">Questo – chiosa ancora il Collegio - è il ruolo della buona fede (in senso oggettivo), onde essa concorre a creare la <em>regola iuris</em> del caso concreto, in forza del valore cogente che le norme citate le assegnano, atteggiandosi a principio cardine dell’ordinamento, induttivamente estraibile dal sistema, che costituisce una regola di governo della discrezionalità e ne vieta quindi l’abuso.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 22 maggio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.4598 onde in virtù del principio di buona fede - operante non solo in sede d’interpretazione ed esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.), ma anche quale fonte d’integrazione della stessa regolamentazione contrattuale (art. 1374 c.c.) - al curatore che richiede la documentazione concernente i rapporti di conto corrente intestati al fallito, sul presupposto di non avere avuto la possibilità di procurarseli direttamente da quest’ultimo e per la necessità che la relativa carica gli impone di ricostruire le vicende del patrimonio del fallito medesimo, la banca ha l’obbligo di trasmettere la richiesta documentazione, sebbene a spese del richiedente, senza poter replicare di averla già in precedenza trasmessa al fallito stesso.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 gennaio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.831 onde – abbracciando la teoria c.d. precettiva - la clausola generale di correttezza va intesa quale principio cardine delle relazioni contrattuali, non potendo ad essa riduttivamente assegnarsi mero valore valutativo, dacché dal canone della buona fede discendono autonomi e specifici obblighi il cui inadempimento impegna la responsabilità di chi li viola.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 febbraio viene varato il decreto legislativo n. 58, c.d. testo unico della finanza e degli intermediari finanziari, il cui art.21 pone a carico dell’intermediario finanziario specifici obblighi informativi anche e soprattutto nella fase precedente alla stipula del contratto (oltre che successivamente a tale stipula), a cagione della asimmetria informativa che caratterizza questo genere di contratti.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, il contratto di intermediazione finanziaria – c.d. contratto quadro – stipulato tra intermediario e cliente rende operativi tra le ridette parti una serie di obblighi reciproci, secondo uno schema assimilabile al contratto di mandato. Al contratto quadro a monte sono legate le singole operazioni di investimento a valle che, se da un lato sono negozi a sé stanti, dall’altro costituiscono attuazione di quanto previsto, a monte per l’appunto, nel contratto quadro.</p> <p style="text-align: justify;">Dal punto di vista dell’intermediario finanziario, si profilano tutta una serie di obblighi di comportamento che si collocano, sul crinale diacronico, nella fase che precede la stipula del contratto quadro (a monte) di intermediazione finanziaria, e tutt’altra serie di obblighi che si collocano invece a valle, nella fase esecutiva e di attuazione di tale contratto quadro, dovendo dunque il professionista comportarsi in modo da curare l’interesse del cliente, massime giusta aggiornamenti sull’andamento e sui rischi dell’operazione che quegli ha sottoscritto.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 9 giugno esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.5659 alla cui stregua, in ossequio alla c.d. teoria valutativa e nel prisma della giurisprudenza dominante, agisce correttamente il creditore o il debitore che scrupolosamente si attiene alle prescrizioni di legge, mantenendosi rigorosamente nei limiti delle stesse, ma non tenendo conto della situazione sostanziale dell’altra parte.</p> <p style="text-align: justify;">Da questo punto di vista – decisamente riduttivo – la “<em>correttezza</em>” serve solo a valutare <em>ex post</em> il contegno tenuto dalle parti del rapporto obbligatorio (e dunque, sovente, del contratto) alla luce di disposizioni specifiche vigenti, che sole possono far scattare, in caso di pertinente violazione, l’art.1175 c.c., operante come norma sub-primaria dipendente, in termini effettuali, dalle ridette, singole disposizioni specifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un atteggiamento ostile ad un’applicazione “<em>autonoma</em>” dell’art.1175 c.c., in ossequio al principio di certezza del diritto: il comportamento delle parti del rapporto obbligatorio viene valutato in termini di stretta legalità, senza lasciare troppo spazio all’applicazione di un canone generale capace di colorare i singoli precetti giuridici anche alla luce di esigenze morali.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 15 marzo esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.2284 alla cui stregua, in ossequio alla c.d. teoria valutativa e nel prisma della giurisprudenza dominante, agisce correttamente il creditore o il debitore che scrupolosamente si attiene alle prescrizioni di legge, mantenendosi rigorosamente nei limiti delle stesse, ma non tenendo conto della situazione sostanziale dell’altra parte.</p> <p style="text-align: justify;">Da questo punto di vista – decisamente riduttivo – la “<em>correttezza</em>” serve solo a valutare <em>ex post</em> il contegno tenuto dalle parti del rapporto obbligatorio (e dunque, sovente, del contratto) alla luce di disposizioni specifiche vigenti, che sole possono far scattare, in caso di pertinente violazione, l’art.1175 c.c., operante come norma sub-primaria dipendente, in termini effettuali, dalle ridette, singole disposizioni specifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un atteggiamento ostile ad un’applicazione “<em>autonoma</em>” dell’art.1175 c.c., in ossequio al principio di certezza del diritto: il comportamento delle parti del rapporto obbligatorio viene valutato in termini di stretta legalità, senza lasciare troppo spazio all’applicazione di un canone generale capace di colorare i singoli precetti giuridici anche alla luce di esigenze morali.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5946 alla cui stregua la fonte dell’obbligo del notaio di informare il cliente e di procedere ad accertamenti e visure, si appunta prevalentemente sul secondo comma dell’art. 1176 cod. civ. e, dunque, sull’obbligo di c.d. diligenza professionale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10511 che annette alla buona fede oggettiva valenza integrativa del regolamento negoziale divisato dalle parti, massime in termini di riconduzione del pertinente rapporto ad equità.</p> <p style="text-align: justify;">Nel dirimere la questione relativa al se possa procedersi d’ufficio alla riduzione della penale ex art. 1384 cod. civ., e nel ribaltare il precedente e, sino ad allora, consolidato orientamento secondo cui per l’esercizio di tale potere era necessaria l’istanza di parte, il Collegio, alla luce del complesso processo innestato, nei moderni sistemi giuridici, dal tramonto del mito ottocentesco della onnipotenza della volontà e del dogma dell’intangibilità delle convenzioni, rappresenta come il controllo sugli atti di autonomia privata - previsto dall’ordinamento ed esercitato dal giudice - nel contesto di intervenuta costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato, non possa non implicare anche un bilanciamento di “<em>valori</em>”, di pari rilevanza costituzionale, stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale - accanto al valore costituzionale della “<em>iniziativa economica privata</em>” che, ex art.41 Cost, si esprime attraverso lo strumento contrattuale - di un concorrente “<em>dovere di solidarietà</em>” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">Dal tale dovere di solidarietà, prosegue il Collegio, la Corte costituzionale ha già ritratto l’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (cfr. sentenza n. 19/94); esso, entrando in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359 , 1366, 1375 cod. civ.), all’un tempo gli attribuisce una <em>vis</em> normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale, nella misura in cui questa non collida con la tutela dell’interesse proprio dell’obbligato.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio, richiamate le argomentazioni già articolate nella sentenza n. 3775 del 1994 e rilevato, altresì, che, alla stregua del superiore canone ermeneutico secondo cui tra due interpretazioni possibili va prescelta quella più conforme alla Costituzione, assume alfine esercitabile anche <em>ex officio</em> il potere di riduzione della penale di cui all’art. 1384 cod. civ., configurandosi esso come potere-dovere, attribuito al giudice per la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 5 novembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.12310 onde – abbracciando la teoria c.d. precettiva - la clausola generale di correttezza va intesa quale principio cardine delle relazioni contrattuali, non potendo ad essa riduttivamente assegnarsi mero valore valutativo, dacché dal canone della buona fede discendono autonomi e specifici obblighi il cui inadempimento impegna la responsabilità di chi li viola.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 01 marzo esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.2252 onde – abbracciando la teoria c.d. precettiva - la clausola generale di correttezza va intesa quale principio cardine delle relazioni contrattuali, non potendo ad essa riduttivamente assegnarsi mero valore valutativo, dacché dal canone della buona fede discendono autonomi e specifici obblighi il cui inadempimento impegna la responsabilità di chi li viola.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 settembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.12724 onde – abbracciando la teoria c.d. precettiva - la clausola generale di correttezza va intesa quale principio cardine delle relazioni contrattuali, non potendo ad essa riduttivamente assegnarsi mero valore valutativo, dacché dal canone della buona fede discendono autonomi e specifici obblighi il cui inadempimento impegna la responsabilità di chi li viola.</p> <p style="text-align: justify;">La buona fede affiora sempre più come fonte autonoma di obbligazioni ulteriori rispetto a quelle divisate dalle parti, tanto che il dovere di correttezza viene assunto dalla Corte financo come – almeno in astratto – perno della ricorribilità in cassazione per violazione di legge (con particolare riguardo all’art.1175 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5158 alla cui stregua, in tema di responsabilità del notaio per omessa informazione delle parti circa iscrizioni pregiudizievoli, va fatto riferimento ai canoni non già solo della diligenza qualificata di cui al secondo comma dell’art. 1176 cod. civ. ma anche della buona fede nell’esecuzione del contratto (1175 e 1375 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">*L’8 aprile esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.5024 alla cui stregua, in ossequio alla c.d. teoria valutativa e nel prisma della giurisprudenza dominante, agisce correttamente il creditore o il debitore che scrupolosamente si attiene alle prescrizioni di legge, mantenendosi rigorosamente nei limiti delle stesse, ma non tenendo conto della situazione sostanziale dell’altra parte.</p> <p style="text-align: justify;">Da questo punto di vista – decisamente riduttivo – la “<em>correttezza</em>” serve solo a valutare <em>ex post</em> il contegno tenuto dalle parti del rapporto obbligatorio (e dunque, sovente, del contratto) alla luce di disposizioni specifiche vigenti, che sole possono far scattare, in caso di pertinente violazione, l’art.1175 c.c., operante come norma sub-primaria dipendente, in termini effettuali, dalle ridette, singole disposizioni specifiche.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un atteggiamento ostile ad un’applicazione “<em>autonoma</em>” dell’art.1175 c.c., in ossequio al principio di certezza del diritto: il comportamento delle parti del rapporto obbligatorio viene valutato in termini di stretta legalità, senza lasciare troppo spazio all’applicazione di un canone generale capace di colorare i singoli precetti giuridici anche alla luce di esigenze morali.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.14934 che – in materia di responsabilità del notaio - rammenta <em>in primis</em> come la giurisprudenza abbia inizialmente ancorato l’obbligo di visure all’art. 28 della legge notarile e all’art. 2913 cod. civ. (v. ad es. Cass. sez. III, 28 luglio 1969, n. 2861 (342666).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte ribadisce in proposito il principio affermato da Cass., sez. III, 15 giugno 1999, n. 5946, alla cui stregua la fonte dell’obbligo del notaio di informare il cliente e di procedere ad accertamenti e visure, si appunta prevalentemente sul secondo comma dell’art. 1176 cod. civ.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio - pur predicandone in concreto la non ricorrenza nel caso esaminato – non può nondimeno escludersi una possibile responsabilità del notaio da “<em>contatto sociale</em>”, basata sull’affidamento riposto dalla parte che riceve la prestazione in colui che, come il notaio, esercita una professione protetta.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.309, che si inserisce nel collaudato filone pretorio - Cass., sez. III, 23 ottobre 2002, n. 14934 (Rv. 558026), Cass., sez. II, 13 giugno 2002, n. 8470 (Rv. 555036), Cass., sez. III, 6 aprile 2001, n. 5158 (Rv. 545699), Cass., sez. III. 15 giugno 1999, n. 5946 (Rv. 527535) e altre – orientato a ravvisare la fonte dell’obbligo del notaio di informare il cliente e di procedere ad accertamenti e visure, prevalentemente, nel secondo comma dell’art. 1176 cod. civ. (c.d. diligenza professionale). Nella specie, si verte in fattispecie di obbligo del notaio di informare il cliente sul regime fiscale dell’atto che quegli intende stipulare.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un indirizzo giurisprudenziale che subisce critiche dalla più accorta dottrina che - tra le varie ricostruzioni prospettabili (“<em>mero obbligo morale</em>” di informazione, obbligazione integrativamente inserita nel contratto d’opera professionale da un uso normativo o contrattuale ovvero correlata ai doveri di correttezza e buona fede gravanti sui contraenti) – abbraccia massime la tesi secondo cui la fonte delle obbligazioni <em>de quibus</em> va ricercata nella regola della correttezza e buona fede, che consente di introdurre tali obbligazioni nel contratto integrandone il contenuto, sulla scorta delle argomentazioni spese dalla Cassazione nelle sentenze n. 10511 del 1999 e n. 18128 del 200529.</p> <p style="text-align: justify;">Il riferimento all’art. 1176 cod. civ. per fondare l’obbligo informativo del professionista e, più in generale, qualsiasi obbligo di informazione, non risulta appagante alla ridetta dottrina, posto che la diligenza di cui alla predetta norma non costituisce il contenuto dell’obbligazione del debitore, quanto, piuttosto, un criterio di imputazione del pertinente (ed eventuale) inadempimento. La condotta diligente non é, infatti – prosegue la dottrina ridetta - il contenuto obiettivo della prestazione costituendo, piuttosto, il parametro alla stregua del quale valutare se l’inadempimento sia colposo o meno; ne consegue, secondo l’opinione in parola, che l’obbligo del notaio di informare il cliente sul regime fiscale dell’atto che intende stipulare e, in generale, l’ampliamento degli obblighi del notaio derivanti dalla conclusione del contratto di prestazione professionale potrebbero con maggiore solidità dogmatica fondarsi sul principio di buona fede come fonte di eterointegrazione del contratto.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 19 dicembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.19561 che si occupa della c.d. assicurazione con clausola di regolamento del premio, laddove l’assicurato è obbligato a pagare all’assicuratore un premio minimo fisso in via anticipata e provvisoria, nonché un maggior premio definitivo alla scadenza di ciascun periodo assicurativo; tale maggiorazione di premio si determina sulla scorta di elementi che possono variare in ciascun periodo assicurativo, e che l’assicurato (nel cui patrimonio conoscitivo entrano) si impegna a trasmettere periodicamente all’assicuratore proprio al fine del calcolo della maggiorazione di premio e del relativo “<em>regolamento</em>” definitivo (compendiantesi nella somma tra premio “<em>fisso</em>” e premio “<em>variabile</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Laddove tale comunicazione in buona fede di informazioni supplementari all’assicuratore non intervenga (per scorrettezza dell’assicurato), per la Corte la copertura assicurativa finisce con l’essere automaticamente sospesa ai sensi dell’art.1901 c.c. (mancato pagamento del premio); l’obbligo di comunicazione è infatti nel caso di specie funzionale alla determinazione complessiva del premio dovuto, onde la pertinente mancata informazione all’assicuratore reca seco l’impossibilità di quantificare in misura complessiva il premio in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, la clausola di regolazione del premio ha carattere accessorio e fa luogo ad un obbligo comunicativo (di denuncia) in capo all’assicurato che è complementare rispetto a quello di pagamento del premio, onde laddove le dovute comunicazioni (scorrettamente) difettino, resta conseguentemente sospeso il pertinente contratto assicurativo (e con esso la copertura dei rischi dell’assicurato).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 6 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.8609 che si occupa della c.d. assicurazione con clausola di regolamento del premio, laddove l’assicurato è obbligato a pagare all’assicuratore un premio minimo fisso in via anticipata e provvisoria, nonché un maggior premio definitivo alla scadenza di ciascun periodo assicurativo; tale maggiorazione di premio si determina sulla scorta di elementi che possono variare in ciascun periodo assicurativo, e che l’assicurato (nel cui patrimonio conoscitivo entrano) si impegna a trasmettere periodicamente all’assicuratore proprio al fine del calcolo della maggiorazione di premio e del relativo “<em>regolamento</em>” definitivo (compendiantesi nella somma tra premio “<em>fisso</em>” e premio “<em>variabile</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Laddove tale comunicazione in buona fede di informazioni supplementari all’assicuratore non intervenga (per scorrettezza dell’assicurato), per la Corte la copertura assicurativa finisce con l’essere automaticamente sospesa ai sensi dell’art.1901 c.c. (mancato pagamento del premio); l’obbligo di comunicazione è infatti nel caso di specie funzionale alla determinazione complessiva del premio dovuto, onde la pertinente mancata informazione all’assicuratore reca seco l’impossibilità di quantificare in misura complessiva il premio in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, la clausola di regolazione del premio ha carattere accessorio e fa luogo ad un obbligo comunicativo (di denuncia) in capo all’assicurato che è complementare rispetto a quello di pagamento del premio, onde laddove le dovute comunicazioni (scorrettamente) difettino, resta conseguentemente sospeso il pertinente contratto assicurativo (e con esso la copertura dei rischi dell’assicurato).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione 17961 che, in un <em>obiter dictum</em> privo di pertinente supporto motivazionale, pare nondimeno abbracciare l’orientamento minoritario della giurisprudenza onde l’assegno circolare è considerato a tutti gli effetti equivalente al denaro contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno estingue immediatamente l’obbligazione pecuniaria.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 febbraio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.3370 che – con riguardo ai contratti di assicurazione corredati da c.d. clausola di regolamento del premio, inserendosi nel solco pretorio minoritario, esclude l’applicabilità dell’art.1901 c.c. e della conseguente sospensione della copertura assicurativa (tutela c.d. “<em>reale</em>”) laddove l’assicurato ometta di fornire all’assicuratore le informazioni necessarie ai fini della determinazione della quota-parte variabile del premio medesimo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.18128 che ribadisce autorevolmente doversi annettere alla buona fede oggettiva valenza integrativa del regolamento negoziale divisato dalle parti, massime in termini di riconduzione del pertinente rapporto ad equità giusta (nel caso di specie) riduzione <em>ex officio</em> della clausola penale.</p> <p style="text-align: justify;">Nel dirimere la questione relativa al se possa procedersi d’ufficio alla riduzione della penale ex art. 1384 cod. civ., e nel ribaltare il precedente e, sino ad allora, consolidato orientamento secondo cui per l’esercizio di tale potere era necessaria l’istanza di parte, il Collegio, alla luce del complesso processo innestato, nei moderni sistemi giuridici, dal tramonto del mito ottocentesco della onnipotenza della volontà e del dogma dell’intangibilità delle convenzioni, rappresenta come il controllo sugli atti di autonomia privata - previsto dall’ordinamento ed esercitato dal giudice - nel contesto di intervenuta costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato, non può non implicare anche un bilanciamento di “<em>valori</em>”, di pari rilevanza costituzionale, stante la riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale - accanto al valore costituzionale della “<em>iniziativa economica privata</em>” che, ex art.41 Cost, si esprime attraverso lo strumento contrattuale - di un concorrente “<em>dovere di solidarietà</em>” nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">Dal tale dovere di solidarietà, prosegue il Collegio, la Corte costituzionale ha già ritratto l’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (cfr. sentenza n. 19/94); esso, entrando in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359 , 1366, 1375 cod. civ.), all’un tempo gli attribuisce una <em>vis</em> normativa e lo arricchisce di contenuti positivi, inglobanti obblighi, anche strumentali, di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del <em>partner</em> negoziale, nella misura in cui questa non collida con la tutela dell’interesse proprio dell’obbligato.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio, richiamate le ridette argomentazioni - e rilevato, altresì, che, alla stregua del superiore canone ermeneutico secondo cui tra due interpretazioni possibili va prescelta quella più conforme alla Costituzione - assume alfine esercitabile anche <em>ex officio</em> il potere di riduzione della penale di cui all’art. 1384 cod. civ., configurandosi esso come potere-dovere, attribuito al giudice per la realizzazione di un interesse oggettivo dell’ordinamento.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 settembre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n. 19024 che, in tema di c.d. vizi incompleti del contratto (che non incidono sulla relativa “<em>validità</em>”, quanto piuttosto sulla relativa “<em>equità</em>”), abbraccia la tesi estensiva intesa a configurare la operatività di una responsabilità precontrattuale anche in presenza della stipula di un contratto valido ed efficace, allorché nella fase delle trattative una delle parti sia stata scorretta violando il principio del <em>neminem laedere</em>.</p> <p style="text-align: justify;">In queste ipotesi il contratto è valido, ma è stato concluso a condizioni inique per la scorrettezza di una delle parti, onde la responsabilità precontrattuale fatta valere a contratto valido ed efficace concluso serve a ricondurlo ad equità alla stregua di un principio di tipo solidaristico che impone di salvaguardare l’interesse della controparte nei limiti del non apprezzabile sacrificio del proprio.</p> <p style="text-align: justify;">Nel settore delle operazioni finanziarie, le norme imperative che impongono obblighi di informazione da parte dell’intermediario finanziario al cliente non si riferiscono all’atto negoziale strutturalmente inteso che ne consegue, quanto piuttosto al comportamento delle parti, non potendo dunque venire in rilievo regole di validità quali, ad esempio l’art.1418, comma 1, c.c.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">*L’11 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 264 che – riportandosi esplicitamente all’orientamento già espresso da Cass. n. 8470 del 2002 e conformemente alla prevalente giurisprudenza sul punto - ravvisa la fonte dell’obbligo del notaio di informare il cliente e di procedere ad accertamenti e visure, prevalentemente, nel secondo comma dell’art. 1176 cod. civ.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.822 in tema di mediatore, obbligo di corretta informazione alle parti del potenziale affare ed indagini di natura tecnico-giuridica. Per la Corte, il mediatore è tenuto ad un obbligo di corretta informazione delle parti, che comprende l’obbligo di comunicare le circostanze a lui note o comunque conoscibili con la comune diligenza che si richiede al mediatore medesimo, in quanto figura professionale disciplinata dal codice civile e dalla legge n° 39 del 1989.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio precisa tuttavia che, in base alla disciplina codicistica e professionale, non si può assumere che il mediatore sia tenuto, senza uno specifico incarico <em>ad hoc</em>, al compimento di indagini di natura tecnico-giuridica, quali le visure catastali ed ipotecarie, atte ad accertare la libertà dell’immobile da pesi e vincoli.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5777 alla cui stregua il mediatore va assunto inadempiente quando ometta di fornire alle parti del potenziale affare tutte le informazioni delle quali sia a conoscenza, ivi compreso lo stato di insolvenza di una delle ridette parti.</p> <p style="text-align: justify;">Tale obbligo di corretta informazione gravante sul mediatore – chiosa ancora la Corte – comprende tanto le circostanze conoscendo le quali le parti (o talune di esse) non avrebbero dato il consenso a quel contratto, quanto le circostanze che avrebbero indotto le parti a concludere il contratto a diverse condizioni.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8619, onde nel sistema giuridico attuale, l'attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata, nel senso che essa risulta conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali, le quali, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto, ma, piuttosto, costituiscono lo strumento di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto e, perciò, della sostanza dell'accordo.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, prosegue la Corte, la volontà emergente dal consenso delle parti nel suddetto momento non può essere integrata con elementi ad essa estranei, e ciò anche quando sia invocata la buona fede come fattore di interpretazione del contratto, la quale deve intendersi come fattore di integrazione del contratto non già sul piano dell'interpretazione di questo, ma su quello - diverso - della determinazione delle rispettive obbligazioni, come stabilito dall'art. 1375 cod. civ..</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre esce la sentenza della II sezione del Tribunale di Roma alla cui stregua il principio di buona fede, nel relativo prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali quanto dal dovere generale di <em>neminem laedere</em>, è senza meno da assumersi applicabile anche ai rapporti con le Pubbliche Amministrazioni, massime se a struttura paritetica.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.27158 secondo la quale, se è vero che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante, è altrettanto vero che, costituendo l’assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la “<em>datio</em>” di tale assegno secondo gli usi negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o, comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l’obbligazione senza che occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una presa di posizione ancora minoritaria in giurisprudenza che, tuttavia, si pone in linea con la dottrina intesa a valorizzare la c.d. “<em>smaterializzazione</em>” del denaro, con conseguente efficacia solutoria delle obbligazioni pecuniarie riconoscibile a mezzi di pagamento che siano alternativi alla classica “<em>pecunia</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3462 che - enunciando in tema di buona fede un principio formulato in modo estensivo con riguardo alla responsabilità aquiliana - riguarda tuttavia <em>ex professo</em> un contratto di trasporto marittimo.</p> <p style="text-align: justify;">In una sorta di <em>obiter dictum</em>, la Corte pare superare i confini dell'illecito contrattuale per lambire quelli dell’illecito aquiliano: l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce infatti per la Corte un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale “<em>ed extracontrattuale</em>”, che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificantesi in obblighi di informazione e di avviso) nonché volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio.</p> <p style="text-align: justify;">Su questa base la Corte - con riferimento a contratto di trasporto marittimo di persone – assume violato l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza dal comportamento del vettore professionale il quale, nell'impossibilità di affrontare il viaggio di ritorno per le avverse condizioni metereologiche, ha mancato di accordarsi con altro vettore «<em>pur di non pagare qualche soldo in più rispetto al costo del biglietto pagato dai passeggeri</em>», non consentendo conseguentemente ai medesimi di rientrare in serata sul continente e di evitare il pernottamento di fortuna nel luogo di destinazione, privo di alberghi.</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, il riferimento all’illecito aquiliano appare del tutto incidentale, afferendo la fattispecie scandagliata ad un illecito contrattuale (contratto di trasporto), con conseguente piena operatività del principio di buona fede oggettivamente inteso.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4631 che – confortando sul punto l’orientamento minoritario - nega l’applicabilità dell’art.1901 c.c. in tema di sospensione di garanzia assicurativa (c.d. tutela “<em>reale</em>”) ai contratti corredati da clausola di regolamento del premio.</p> <p style="text-align: justify;">In questa tipologie di polizze, l’ammontare del premio è stabilita sia in una misura minima fissa da pagarsi al momento della conclusione del contratto, sia in una ulteriore misura che è invece variabile alla scadenza di ciascun periodo assicurativo e che va determinata sulla base di informazioni che l’assicurato è periodicamente tenuto a fornire all’assicuratore.</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza – precisa il Collegio - ha ventilato in proposito che, laddove l’assicurato ometta la comunicazione dovuta, o la renda in modo inesatto, l’assicuratore finisce col non essere in possesso delle informazioni necessarie per determinare la misura variabile del premio, circostanza che potrebbe configurare una causa di sospensione della copertura assicurativa.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte afferma, al contrario, che in questi casi non opera l’art.1901 c.c., dacché tale norma prevede la sospensione della copertura assicurativa (e dunque dell’efficacia del contratto) in caso di mancato pagamento del premio (o della rata di premio) integralmente considerato (o considerata), mentre nei ridetti contratti con clausola di adeguamento del premio si assiste in ogni caso ad un pagamento da parte dell’assicurato dell’anticipo del premio (riferito al periodo successivo) in una data anteriore a quella in cui scade per l’assicurato il termine per comunicare la variazione che sia eventualmente intervenuta, onde l’assicuratore accetta dall’assicurato tale anticipo di premio come pagamento integrale (salvo, appunto, variazione integrativa).</p> <p style="text-align: justify;">Per questo motivo, l’eventuale mancato pagamento del maggior premio dovuto al cospetto di una clausola di regolazione del premio stesso va considerato, per le SSUU, come inadempimento di una obbligazione diversa rispetto a quella scolpita all’art.1901 c.c. (e condizionante la copertura assicurativa), con l’ulteriore precipitato onde il comportamento dell’assicurato obbligato deve essere valutato alla stregua del canone di buona fede contrattuale oggettiva; sicché, in caso di mancata comunicazione all’assicuratore degli elementi variabili da parte dell’assicurato (che ha comunque pagato l’anticipo di premio, il solo avvinto alla operatività dell’art.1901 c.c.), l’assicuratore non è autorizzato ad avvalersi in modo automatico della sospensione della copertura assicurativa e della connessa garanzia per i rischi contrattualmente assunti, potendo piuttosto beneficiare delle conseguenze che l’ordinamento normalmente riconnette all’inadempimento delle obbligazioni civili.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio dunque la clausola di regolazione del premio è da assumersi autonoma, e non già accessoria a quella che prevede il premio nella relativa quota-parte fissa; mentre quest’ultima stabilisce che una parte di premio va pagata anticipatamente, l’altra dispone che un’altra parte del premio medesimo vada versata all’assicuratore a conguaglio; si tratta di una clausola che per la Corte non protegge il solo assicuratore, ma anche l’assicurato (laddove il rischio si riduca, calerà anche il premio), ed è proprio questa biunivocità operativa che impone di interpretarla in modo coerente alla relativa funzione di adeguamento del premio dovuto all’entità del rischio cui soggiace, in ciascun periodo assicurativo, il soggetto assicurato.</p> <p style="text-align: justify;">Trattandosi di clausola autonoma, ne discende che del pari autonoma è l’obbligazione di pagamento del conguaglio che (eventualmente) ne deriva, onde laddove l’assicurato che ebbe a sottoscrivere la pertinente polizza non comunichi all’assicuratore le (dovute) informazioni necessarie per procedere al ridetto conguaglio, la copertura assicurativa resta, ma il comportamento dell’assicurato medesimo va scandagliato per la Corte al metro del canone di buona fede oggettiva, quale comportamento che affiora scevro da quella lealtà ed onestà che pure dovrebbe contraddistinguere il rapporto con l’assicuratore in termini di salvaguardia dei relativi interessi, nel limite dell’apprezzabile sacrificio degli interessi propri.</p> <p style="text-align: justify;">L’esito del percorso argomentativo delle SSUU è dunque che, se da un lato la sospensione della copertura assicurativa si profila non automatica, nondimeno la scorrettezza dell’assicurato, laddove di non scarsa importanza, può facoltizzare l’assicuratore a sospendere la pertinente garanzia e la connessa copertura del rischio assicurato.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 14712 che compone un contrasto di giurisprudenza insorto circa la natura (contrattuale, extracontrattuale o <em>ex lege</em>) della responsabilità derivante dal pagamento dell'assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore ed alla conseguente durata - decennale o quinquennale - del termine di prescrizione dell'azione di risarcimento proposta dal danneggiato.</p> <p style="text-align: justify;">Con tale pronuncia le sezioni unite - ribadito preliminarmente che l'espressione "<em>colui che paga</em>", adoperata dall'art. 43, 2° comma, I.a., va intesa in senso ampio, sì da riferirsi non solo alla banca trattaria (o all'emittente, nel caso di assegno circolare), ma anche alla banca negoziatrice, che è l'unica concretamente in grado di operare controlli sull'autenticità dell'assegno e sull'identità del soggetto che, girandolo per l'incasso, lo immette nel circuito di pagamento – riconoscono natura “<em>contrattuale</em>” alla responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno munito della clausola di non trasferibilità in favore di persona non legittimata.</p> <p style="text-align: justify;">La conclusione non trova fondamento nel consueto argomento utilizzato dalla tesi contrattualistica (secondo la quale la banca girataria per l'incasso, oltre ad essere mandataria del girante, sarebbe sostituta della trattaria nell'esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all'identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento e verrebbe anch'essa a trovarsi in rapporto col traente che, nell'ipotesi di pagamento mal effettuato, potrebbe perciò esercitare nei relativi confronti l'azione contrattuale basata sulla convenzione d'assegno), ma nella c.d. teoria del “<em>contatto sociale qualificato</em>”, ravvisabile ogni qualvolta l'ordinamento imponga ad un soggetto di tenere un determinato comportamento, idoneo a tutelare l'affidamento riposto da altri soggetti sul corretto espletamento di preesistenti, specifici doveri di protezione che egli abbia volontariamente assunto.</p> <p style="text-align: justify;">In tale direzione, il Collegio rileva come le regole di circolazione e di pagamento dell'assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur svolgendo indirettamente una funzione di rafforzamento dell'interesse generale alla corretta circolazione dei titoli di credito, risultino essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati: ciascuno dei quali ha ragione di confidare sul fatto che l'assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede e la cui concreta esecuzione è rimessa ad un soggetto, il banchiere, dotato di specifica professionalità al riguardo.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte, ancora, sottolinea come la professionalità del banchiere si rifletta necessariamente su tutta la gamma delle attività da lui svolte nell'esercizio dell'impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati, per la cui corretta attuazione egli dispone di strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno: dal che, appunto, dipende, per un verso, l'affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento dei compiti inerenti al servizio bancario, e per altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla scorta di tali considerazioni, il Collegio abbraccia il principio onde la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall'art. 43 legge assegni (r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736), l'incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha - nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno - natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso.</p> <p style="text-align: justify;">La responsabilità della banca negoziatrice viene dunque ricondotta dalla Cortre nell'alveo di quella contrattuale derivante da contatto qualificato - inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. – profilandosi dunque non sostenibile la tesi secondo cui detta banca risponde del pagamento dell'assegno non trasferibile effettuato in favore di chi non è legittimato "<em>a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione del prenditore</em>" e, dunque, per responsabilità oggettiva.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 luglio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.15275 alla cui stregua il giudice di merito, quand’anche riconosca la nullità di alcune clausole contrattuali collettive, non può operare l’integrazione giudiziale del contratto avvalendosi dei principi di correttezza e buona fede e così introducendo un regolamento di interessi diverso rispetto a quello che le parti sociali hanno raggiunto.</p> <p style="text-align: justify;">Richiamandosi all’arresto delle Sezioni Unite n. 4570 del 17 maggio 1996 (Rv. 497650), per la Corte va precisato che l’integrazione giudiziale del contratto, attraverso i richiamati principi, già rigorosamente limitata nell’ambito del contratto individuale, risulta tutt’affatto esclusa con riferimento alla contrattazione collettiva, venendo qui a scontrarsi con un valore (l’autonomia collettiva) la cui intangibilità è ancora più forte.</p> <p style="text-align: justify;">Un intervento manipolativo da parte del Giudice (del tipo di quelli effettuati a volte dalla Corte Costituzionale sulle norme di legge), che non è ammesso sul contratto individuale, è tanto più impensabile sul contratto collettivo, poiché ciò significherebbe abilitare il Giudice a sostituirsi alle parti sociali e consentirgli, sulla base di personali valutazioni, di rompere l’equilibrio che dette parti avevano raggiunto con le scelte compiute.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.15669, onde - in materia di esecuzione del contratto di conto corrente bancario - il relativo scioglimento ai sensi dell’art.78 legge fall. per effetto del fallimento del cliente non estingue con immediatezza ogni rapporto obbligatorio fra le parti, sussistendo anche per l’epoca successiva una serie di obbligazioni, ancora di derivazione contrattuale, con corrispondenti posizioni di diritto soggettivo.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare la pretesa del curatore, che subentra nell’amministrazione del patrimonio fallimentare ai sensi degli artt. 31 e 42 legge fall., ad ottenere documentazione inerente al rapporto medesimo si atteggia a diritto che promana dall’obbligo di buona fede, correttezza e solidarietà, declinandosi in prestazioni imposte dalla legge (ai sensi dell’art.1374 cod. civ.), secondo una regola di esecuzione in buona fede (ex art.1375 cod.civ.) che aggiunge tali obblighi a quelli convenzionali quale impegno di solidarietà (ex art. 2 Cost.), così imponendosi a ciascuna parte l’adozione di comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del “<em>neminem laedere</em>”, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte.</p> <p style="text-align: justify;">Posto che tra i doveri di comportamento scaturenti dall’obbligo di buona fede vi è anche quello di fornire alla controparte la documentazione relativa al rapporto obbligatorio ed al relativo svolgimento, il predetto diritto alla documentazione trova fondamento e regolazione inoltre nell’art. 8 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 e compiutamente nell’art. 119 del T.U.L.B. (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), che già pone a carico della banca l’obbligo di periodica comunicazione di un prospetto inerente allo svolgimento del rapporto ed attribuisce al cliente ovvero a chi gli succeda anche solo nell’amministrazione dei beni il diritto di ottenere - a proprie spese, per gli ultimi dieci anni, indipendentemente dall’adempimento del dovere di informazione da parte della banca e anche dopo lo scioglimento del pertinente rapporto - la documentazione di singole operazioni registrate sull’estratto conto.</p> <p style="text-align: justify;">Nella specie, il Collegio cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ordina all’istituto di credito la consegna alla curatela del fallimento delle informazioni riguardanti il numero dei conti intrattenuti dal fallito, le garanzie prestate, i movimenti bancari, i saldi attivi con gli interessi maturati e le modalità di estinzione dei conti, assumendo che per tali richieste non sia necessario altro che l’inquadramento del rapporto di conto corrente, senza onere dell’istante di indicare in dettaglio gli estremi delle singole operazioni e prescindendo dall’utilizzazione finale potenziale della documentazione, essendo la richiesta non giudizialmente indirizzata e risolvendosi nella piena tutela della posizione di amministratore del patrimonio fallimentare.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 28 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 24733 che – riportandosi esplicitamente all’orientamento già espresso da Cass. n. 8470 del 2002 e conformemente alla prevalente giurisprudenza sul punto - ravvisa la fonte dell’obbligo del notaio di informare il cliente e di procedere ad accertamenti e visure, prevalentemente, nel secondo comma dell’art. 1176 cod. civ.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre esce la sentenza delle SSUU n.26617, che si occupa della questione se, nelle obbligazioni pecuniarie, abbia efficacia estintiva solo il pagamento in moneta contante, oppure anche mediante consegna di assegni circolari. Questione che si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il pagamento che il debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che avvenga con la corresponsione di denaro contante, pena l’inadempimento e gli effetti conseguenti di “<em>mora debendi</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Il tema dell’indagine – precisa la Corte - è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con dazione di moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di pagamento. La soluzione presenta per la Corte notevole interesse, considerato che nell’esperienza pratica ed ancor più nel mondo degli affari l’estinzione della maggior parte delle obbligazioni pecuniarie e della quasi totalità di quelle di importo rilevante avviene con assegni circolari o mezzi alternativi di pagamento.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo l’orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza della Corte l’invio di assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di denaro si configura come “<em>datio in solutum</em>” o più precisamente come proposta di “<em>datio pro solvendo</em>”, la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla relativa accettazione, che è ravvisabile quando trattenga e riscuota l’assegno; in tale ipotesi la prestazione diversa da quella dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell’esito della condizione “<em>salvo buon fine</em>” o “<em>salvo incasso</em>” inerente all’accettazione di un credito anche cartolare, in pagamento dell’importo dovuto in numerario.</p> <p style="text-align: justify;">L’orientamento – registra la Corte - risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle sentenze 14.4.1975, n. 1412; 3.7.1980, n. 4205; 5.1.1981, n. 24; 16.2.1982, n. 971; 8.1.1987, n. 17; 19.7.1993, n. 8013; 3.2.1995, n. 1326; 3.4.1998, n. 3427; 21.12.2002, n. 18240; 10.2.2003, n. 1939; 10.6.2005, n. 12324; 14.2.2007, n. 3254. La relativa, più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui “<em>iter</em>” argomentativo si articola nelle seguenti proposizioni.</p> <p style="text-align: justify;">Il dato letterale dell’art. 1277, comma 1, c.c. comporta che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale; sebbene l’assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna o trasmissione di esso, salva diversa volontà delle parti, si intende fatta “<em>pro solvendo</em>” e non “<em>pro soluto</em>” con esclusione dell’immediato effetto estintivo del debito; l’invio di assegno circolare in luogo della somma di denaro configura violazione sia degli artt. 1277 e 1197 c.c. (rappresentando una “<em>datio pro solvendo</em>” in assenza di consenso del creditore) che dell’art. 1182 c.c. (secondo il quale l’obbligazione avente ad oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione del domicilio del creditore con la sede dell’istituto bancario presso cui è riscuotibile l’assegno; l’art. 1277 c.c. è norma derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il creditore di somme di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se assistiti da particolari garanzie di solvibilità dell’emittente come gli assegni circolari, quando esista una manifestazione di volontà espressa o presunta del creditore in tale senso; non si può ritenere che la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento in contanti, estingua l’obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare la propria collaborazione ai sensi dell’art. 1175 c.c. in quanto la collaborazione ridetta è dovuta solo per ricevere l’oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti valgono se il debito pecuniario non supera l’importo di euro 12.500; se lo supera vige una particolare disciplina (d.l. 143/1991 convertito in L. 197/1991) che conserva, tuttavia, piena valenza all’art. 1227.</p> <p style="text-align: justify;">Il concetto fondamentale – riprende il Collegio - è che l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria avviene attraverso il trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani del creditore. L’obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi monetari). La titolarità della disponibilità monetaria è collegata al possesso e la relativa circolazione importa la dazione di pezzi monetari considerati quali cose da trasferire in proprietà al creditore.</p> <p style="text-align: justify;">Come è stato osservato, l’adempimento con denaro contante realizza l’attribuzione della moneta al creditore con gli strumenti del terzo libro del codice civile attraverso le categorie del possesso e della proprietà.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza della Corte la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro, estingue l’obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all’adempimento dell’obbligazione a norma dell’art. 1175 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Sono espressive di questo orientamento le sentenze 16.2.1998, n. 1351; 7.7.2003, n. 10695. L’orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari, in ragione delle pertinente modalità di emissione, assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata. Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo il loro rifiuto da parte del creditore. Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante né ha ragione di dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue l’obbligazione di pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.</p> <p style="text-align: justify;">L’obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l’assegno, mentre di regola ha diritto di ricevere la prestazione al proprio domicilio, è superata con il riferimento alla crescente considerazione sociale degli assegni circolari e con il fatto che normalmente il creditore ha un conto bancario sul quale deposita denaro e titoli.</p> <p style="text-align: justify;">La valutazione si sposta allora dal comportamento del debitore a quello del creditore ed ha come oggetto la verifica della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del principio della correttezza e della buona fede oggettiva. Il principio, desunto dall’art. 1175 (che impone l’obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza) e dall’art. 1375 c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), costituisce il limite oltre il quale il rifiuto del creditore diventa illegittimo ed il pagamento con assegno circolare spiega efficacia solutoria salvo buon fine.</p> <p style="text-align: justify;">Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell’obbligazione pecuniaria il principio della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle esigenze della realtà concreta dove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari garantisce maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.</p> <p style="text-align: justify;">In dottrina si è osservato che sulla base del criterio della correttezza dell’adempimento si possono raggiungere i medesimi risultati dell’ordinamento tedesco che al § 362 del BGB stabilisce il principio onde il rapporto obbligatorio si estingue quando la prestazione dovuta ha efficacia per il creditore e, cioè, quando si è definitivamente consolidata nel patrimonio dello stesso; questo principio ha consentito alla giurisprudenza tedesca di affermare che il pagamento eseguito mediante mezzi alternativi (nel caso mediante bonifico bancario) diventa definitivamente efficace per il creditore quando la somma di denaro entra nella relativa piena e libera disponibilità (BGH 28.10.1998 in <em>Neue Juristiche Wochenschrift</em>, 1999, 210).</p> <p style="text-align: justify;">Costituisce riflesso dell’orientamento minoritario – prosegue il Collegio - l’affermazione contenuta nella sentenza della Corte 6.9.2004, n. 17961, secondo la quale l’assegno circolare è considerato a tutti gli effetti equivalente al denaro contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno estingue immediatamente l’obbligazione. Si tratta peraltro, chiosa la Corte, di un “<em>obiter</em>” privo di supporto giustificativo.</p> <p style="text-align: justify;">Contiene una chiara esposizione dell’orientamento la sentenza 19.5.2006, n. 11851, laddove rileva come la Corte non abbia affermato che l’assegno circolare costituisce un mezzo di pagamento, ma soltanto che il rifiuto di esso nei rapporti tra debitore e creditore può essere contrario al principio di buona fede, stante la sicurezza del buon fine ed il minimo aggravio per il creditore, pur senza prendere posizione sulla questione ed anzi confermando che l’assegno circolare rimane un titolo di credito con tutte le conseguenze che ne derivano in base alla legge sulla circolazione del titolo.</p> <p style="text-align: justify;">Condivide l’orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la quale, se è vero che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante, è altrettanto vero che, costituendo l’assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la “<em>datio</em>” di tale assegno secondo gli usi negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o, comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l’obbligazione senza che occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.</p> <p style="text-align: justify;">Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è l’unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va “<em>scardinata</em>” e va riconosciuta efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l’assegno circolare, dovendosi intendere per “<em>somma di denaro</em>” la funzione ideale del mezzo monetario. In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni bancarie, che riposa in definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi di pagamento, come la cambiale, precisandosi che l’effetto satisfattorio si realizza con la creazione della disponibilità monetaria a favore del creditore.</p> <p style="text-align: justify;">L’idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro. Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al quale il debitore si libera dal proprio debito con una quantità di moneta corrispondente a quella “<em>nominalmente</em>” dovuta a prescindere dalle variazioni del relativo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di pagamento e, cioè, la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la qualità dei mezzi di pagamento.</p> <p style="text-align: justify;">La linea di tendenza è verso l’eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l’impiego di notevoli quantità di numerario), perché la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti. L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all’estinzione del debito, nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.</p> <p style="text-align: justify;">Ove avvenga con mezzi diversi, l’adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando realizza i medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando pone il creditore nelle condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, senza che rilevi se la disponibilità sia riconducibile ad un rapporto di credito verso una banca presso la quale la somma sia stata accreditata. Si è osservato che nell’ordinamento manca una regola di parificazione della moneta avente corso legale a quella scritturale; tale regola si può, però, desumere da un’abbondante legislazione speciale che si inserisce nella generale tendenza alla decodificazione caratteristica dell’epoca attuale.</p> <p style="text-align: justify;">Nell’interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei debiti pecuniari non si può prescindere per le SSUU dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno introdotto sistemi alternativi, rendendoli frequentemente obbligatori. In questo ambito assumono particolare rilievo il d.l. 3.5.1991, n. 143, convertito con modificazioni in L. 5.7.1991, n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro contante e titoli al portatore per somme superiori ad euro 12.500, ed il d. l. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni in L. 4.8.2006, n. 248, secondo cui i compensi in denaro per l’esercizio di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante assegni non trasferibili o bonifici o altre modalità di pagamento bancario o postale nonché mediante sistemi di pagamento elettronici, salvo che per importi inferiori ad euro 100.</p> <p style="text-align: justify;">A seguito di questi interventi l’area di applicazione della normativa codicistica si è a tal punto ristretta che il sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale. Né vale l’osservazione che siccome il d.l. 143/1991 conserva valenza all’art. 1277 c.c. il creditore ha il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, sia pure attraverso l’intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore (Cass. 10.6.2005, n. 12324), in quanto la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema alternativo di pagamento, con la precisazione che il rischio di convertibilità e, cioè, l’eventualità che la banca non sia in grado di garantire la conversione in moneta legale dipende in definitiva dal grado di affidabilità della banca.</p> <p style="text-align: justify;">La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie – riprende a questo punto la Corte - è contenuta negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c. Come già detto, l’interpretazione dell’art. 1277 privilegiata dalla prevalente giurisprudenza del Collegio è che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ed il creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l’assegno circolare che pure è assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.</p> <p style="text-align: justify;">In dottrina si è osservato che l’art. 1277 non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale e la necessità, quindi, che i mezzi monetari impiegati si riferiscano ad esso, evidenziando che secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui l’ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura dei valori monetari o secondo una concezione più raffinata “<em>ideal unit</em>”, astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.</p> <p style="text-align: justify;">Considerato che nell’ambiente socio-economico l’assegno circolare e quello bancario costituiscono mezzi normali di pagamento; che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con strumenti sempre più sofisticati affrancati dalla consegna materiale di numerario per ragioni di sicurezza e velocizzazione dei rapporti; che, collateralmente alla disciplina codicistica, è cresciuta una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si impone un’interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell’art. 1277 che superi il dato letterale e, cogliendone l’autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.</p> <p style="text-align: justify;">Si ritiene, pertanto, che l’espressione “<em>moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento</em>” significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio. In altri termini, la moneta avente corso legale non è per la Corte l’oggetto del pagamento, che è piuttosto rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro.</p> <p style="text-align: justify;">Con questa interpretazione dell’art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento, purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta. Tale effetto sicuramente produce l’assegno circolare con il quale, stante la pre-costituzione della provvista, tramite l’intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del creditore. Il rischio di convertibilità e, cioè, l’eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la conversione dell’assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell’operazione.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre precisare per la Corte che lo schema della “<em>datio pro solvendo</em>” con l’applicazione della regola stabilita dall’art. 1197 c.c. rimane estraneo all’impiego del mezzo alternativo di adempimento in quanto la moneta avente corso legale non è l’oggetto del pagamento, costituito piuttosto dal valore monetario o quantità di denaro, per cui tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di adempimento. Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi diversi di pagamento, imposti per somme superiori a 12.500 euro, non siano ammessi per somme inferiori.</p> <p style="text-align: justify;">La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell’art. 1182 c.c. sul luogo dell’adempimento. Vale in proposito considerare per la Corte che l’obbligazione pecuniaria non è assimilabile all’obbligazione di dare cose fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di obbligazione, mentre assume rilevanza l’interesse del creditore alla giuridica disponibilità della somma invece che al possesso dei pezzi monetari. In questa prospettiva, per la Corte il concetto di domicilio del creditore non coincide con il relativo domicilio anagrafico soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto.</p> <p style="text-align: justify;">Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di importo inferiore ad euro 12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di pagamento, il creditore non può rifiutare il pagamento e l’effetto liberatorio si verifica al momento della consegna della somma di denaro, se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che deve allegare ed all’occorrenza anche provare; in questo caso l’effetto liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.</p> <p style="text-align: justify;">La valutazione del comportamento del creditore va fatta – chiosa a questo punto la Corte - in base alla regola della correttezza e della buona fede oggettiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il contrasto va, pertanto, risolto per la Corte nel senso che nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a propria scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l’estinzione dell’obbligazione con l’effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce la sentenza delle SSUU n. 26724 che, in tema di operazioni finanziarie e c.d. vizi incompleti del contratto (che non incidono sulla relativa “<em>validità</em>”, quanto piuttosto sulla relativa “<em>equità</em>”), fa propria la tesi intesa a configurare la operatività di una responsabilità precontrattuale anche in presenza della stipula di un contratto valido ed efficace, allorché nella fase delle trattative una delle parti sia stata scorretta violando il principio del <em>neminem laedere</em>.</p> <p style="text-align: justify;">In queste ipotesi il contratto è valido, ma è stato concluso a condizioni inique per la scorrettezza di una delle parti, onde la responsabilità precontrattuale fatta valere a contratto valido ed efficace concluso serve a ricondurlo ad equità alla stregua di un principio di tipo solidaristico che impone di salvaguardare l’interesse della controparte nei limiti del non apprezzabile sacrificio del proprio.</p> <p style="text-align: justify;">Non è possibile in simili casi predicare la natura di norma imperativa dell’art.1337 c.c., per giungere alla declaratoria di nullità del contratto ex art.1418, comma 1, c.c.: la violazione delle norme imperative, per ridondare in nullità del contratto, deve infatti per le SSUU incidere sulla struttura o sul contenuto del contratto, mentre le scorrettezze informative del contraente (o anche quelle commesse in fase esecutiva) restano fondamentalmente esterne a tale struttura (causale e contenutistica).</p> <p style="text-align: justify;">Quello che si censura è la scorrettezza comportamentale di una parte verso l’altra, e dunque la violazione di regole di comportamento, di norme comportamentali, che sono distinte dalle regole di validità del contratto: la violazione delle norme di comportamento, se anteriore alla stipula del contratto, può ridondare in responsabilità precontrattuale con obbligo di risarcimento del danno, mentre se successive ed afferenti alla fase esecutiva, possono rilevare come causa di risoluzione del contratto per inadempimento.</p> <p style="text-align: justify;">Per lo specifico caso delle regole di comportamento violate in fase di trattative, quello che si può ottenere dalla controparte è solo la condanna (“<em>obbligatoria</em>”, e non “<em>reale</em>”) al risarcimento del danno ex art.1337 c.c., che le SSUU assumono azionabile anche laddove il contratto sia stato concluso e sia valido ed efficace: va riconosciuto alla controparte lesa dal comportamento scorretto dell’interlocutore sleale il c.d. interesse differenziale, ripristinandone la situazione economica rispetto a come essa si sarebbe atteggiata senza il comportamento violativo dell’obbligo di buona fede (in termini di maggior vantaggio, minor aggravio economico o altri danni direttamente collegati al comportamento scorretto subito).</p> <p style="text-align: justify;">Con riguardo alla tematica specifica delle operazioni finanziarie, le disposizioni che impongono all’intermediario finanziario un comportamento secondo buona fede, diligenza e correttezza hanno carattere imperativo, stante come si tratti di norme dettate nell’interesse non già solo del singolo cliente investitore, ma anche della integrità dei mercati finanziari (interesse generale); cionondimeno, la pertinente violazione non può assumersi sufficiente a determinare la nullità del contratto ex art.1418, comma 3, c.c. e ciò poiché tale sanzione non è espressamente prevista dal legislatore; neppure può per la Corte scattare il comma 2 del medesimo art.1418 c.c., dacché l’informazione precontrattuale non può assumersi rientrare tra gli elementi essenziali del contratto, il relativo difetto non traducendosi dunque nel difetto di un requisito di validità del contratto pertinente.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, le norme imperative che impongono obblighi di informazione da parte dell’intermediario finanziario al cliente non si riferiscono all’atto negoziale strutturalmente inteso che ne consegue, quanto piuttosto al comportamento delle parti, non potendo dunque venire in rilievo regole di validità quali, ad esempio l’art.1418, comma 1, c.c., quanto piuttosto (ed esclusivamente) regole di comportamento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.10182 che si occupa dell’art. 1175 c.c. quale espressione codicistica del principio costituzionale di solidarietà in una fattispecie di esecuzione di un contratto, lambendo tuttavia ancora una volta, a livello di <em>obiter dictum</em>, il perimetro della responsabilità aquiliana nella relativa connessione con il principio di buona fede oggettiva.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, la buona fede nell'esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del <em>neminem laedere</em>, trovando tale impegno solidaristico il proprio limite precipuo unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a proprio carico.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte assume legittimo il comportamento di un condominio che, dopo aver richiesto con precetto una somma accertata come giudizialmente dovuta da un condomino, si è rifiutato di ricevere un adempimento parziale e ha successivamente proceduto, trascorso un congruo lasso di tempo, all'esecuzione individuale solo dopo aver reiteratamente e inutilmente sollecitato il debitore alla corresponsione anche dell'importo residuo, dovuto per gli accessori di cui ha fornito puntuale conteggio.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.20106 che si segnala per il particolare rilievo che attribuisce al giudice nel governo del contratto.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 cod. civ., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, essi consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Sempre secondo la Corte si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, eserciti tale diritto con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti.</p> <p style="text-align: justify;">Ricorrendo tali presupposti, per il Collegio è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso (<em>rectius</em>, dei diritti che ne derivano).</p> <p style="text-align: justify;">Nella fattispecie scandagliata dalla Corte si fa riferimento alla pretesa violazione - da parte di una società produttrice di automobili - del principio di buona fede oggettiva e dell’esercizio abusivo del recesso <em>ad nutum</em> previsto da una clausola del contratto di concessione di vendita; violazione lamentata da alcuni concessionari e da una loro associazione. Le domande volte alla declaratoria di illegittimità del recesso e alla condanna della casa automobilistica al risarcimento dei danni subiti per effetto dello stesso sono state disattese in entrambi i gradi di merito.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, che richiama espressamente alcuni precedenti arresti di legittimità, costituiscono principi generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l’esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla relativa formazione ed alla relativa interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni relativa fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue per il Collegio che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principi di buona fede e correttezza del resto, precisa ancora la Corte, sono entrati, nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico, l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituendo infatti un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462).</p> <p style="text-align: justify;">Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, il principio deve poi essere inteso per la Corte quale specificazione degli “<em>inderogabili doveri di solidarietà sociale</em>” imposti dall’art. 2 Cost., e la relativa rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.</p> <p style="text-align: justify;">In questa prospettiva, prosegue la Corte, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. Per il Collegio, disporre di un potere negoziale non è condizione sufficiente di un relativo, legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell’ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione.</p> <p style="text-align: justify;">Rammenta ancora il Collegio che l’abuso del diritto – del quale vengono indicati gli elementi costitutivi - é criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva: tale abuso, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il relativo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.</p> <p style="text-align: justify;">Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.</p> <p style="text-align: justify;">Premesso, inoltre, che nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto, il Collegio richiama espressamente numerosi arresti di legittimità con cui si è fatta applicazione dei principi di buona fede e del divieto di abuso del diritto in diversi settori dell’ordinamento:</p> <ul style="text-align: justify;"> <li>in materia societaria (Cass., sez. I, 19 dicembre 2008, n. 29776 (Rv. 605930); Cass., sez. III, 16 maggio 2007, n. 11258 (Rv. 597779); Cass., sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387 (Rv. 585532); Cass., sez. I, 11 giugno 2003, n. 9353 (Rv. 564140); Cass. 25 gennaio 2000, n. 804 (Rv. 533122);</li> <li>in materia di rapporti bancari (Cass., sez. I, 28 settembre 2005, n. 18947 (Rv. 583495); Cass.,sez. I, 21 febbraio 2003, n. 14 2642 (Rv. 560636); Cass., sez. I, 14 luglio 2000, n. 9321 (Rv. 541074); Cass., sez. I, 21 maggio 1997, n. 4538 (Rv. 504586));</li> <li>in materia contrattuale, con particolare riferimento al contratto di mediazione (Cass., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5348 (Rv. 606947)), al contratto di <em>sale and lease back</em> connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass., sez. V, 8 aprile 2009, n. 8481 (Rv. 607731); Cass., sez. III, 22 marzo 2007, n. 6969 (Rv. 595967); Cass., sez. III, 26 giugno 2001, n. 8742 (Rv. 547758); Cass., sez. III, 16 ottobre 1995, n. 10805 (Rv. 494256), ed al contratto autonomo di garanzia ed <em>exceptio doli</em> (Cass., sez. I, 7 marzo 2007, n. 5273 (Rv. 595446); Cass., sez. III, 28 luglio 2004, n. 14239 (Rv. 575451); Cass., sez. I, 1° ottobre 1999, n. 10864 (Rv. 530387));</li> <li>nonché in materia tributaria (Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, nn, 30055 (Rv. 605850), 30056 (non massimata) e 30057 (Rv. 605907)).</li> </ul> <p style="text-align: justify;">Sulla base della richiamata giurisprudenza di legittimità, la Corte afferma doversi assumere ormai acclarato che anche il principio dell’abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata e valutare le condotte che, nell’ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano, onde va concluso nel senso che oggi, i principi della buona fede oggettiva, e dell’abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.</p> <p style="text-align: justify;">In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico, e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata; prospettando l’abuso la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.</p> <p style="text-align: justify;">Precisato che il principio della buona fede oggettiva deve accompagnare il contratto nel relativo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, e che, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche e che, inoltre, la relativa violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato, il Collegio soggiunge che il criterio della buona fede costituisce uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi.</p> <p style="text-align: justify;">Il giudice, quindi, nell’interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell’ottica dell’equilibrio fra i detti interessi. Su tali basi – assume il Collegio - la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - ed in particolare quella che prevedeva il recesso <em>ad nutum</em> - anche al fine di riconoscere l’eventuale diritto al risarcimento del danno per l’esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è ormai pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di legittimità, sicché devono ritenersi irrilevanti le considerazioni svolte nel caso di specie dai giudici di merito in tema di libertà economica e di libero mercato (in tema di abuso del diritto si segnalano anche Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726 (Rv. 599316) e Cass., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15476 (Rv. 603542).</p> <p style="text-align: justify;">A tale riguardo – chiosa ancora il Collegio - se è pur vero che le scelte decisionali in materia economica non sono oggetto di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell’imprenditore operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle scelte effettuate, in questo contesto l’esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall’autonomia privata deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, la libertà di scelta economica dell’imprenditore, pertanto, in sé e per sé, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l’abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell’atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere. L’irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principi espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.</p> <p style="text-align: justify;">Ed in questa ottica, il controllo e l’interpretazione dell’atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell’altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata. Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l’atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l’atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.</p> <p style="text-align: justify;">Erra pertanto, soggiunge la Corte, il giudice di merito quando afferma che vi è un’impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo di poter conseguentemente controllare l’esercizio del potere di recesso ed assumendo al contempo che, diversamente, si tratterebbe di una valutazione politica. Il problema per il Collegio non è politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l’abuso dell’autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell’incremento delle situazioni di disparità di forze fra gli operatori economici.</p> <p style="text-align: justify;">Al giudicante è richiesta allora, attraverso il controllo e l’interpretazione dell’atto di recesso - al fine di affermarne od escluderne l’abusivo esercizio, alla luce dei principi più volte enunciati - proprio ed esclusivamente una valutazione eminentemente giuridica (e non già “<em>politica</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Le conseguenze cui condurrebbe l’interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, conclude la Corte, sono allora inaccettabili, l’esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza anche dell’eventuale esercizio abusivo del recesso consentendo infatti che il recesso <em>ad nutum</em> si trasformi in un recesso, arbitrario, cioè <em>ad libitum</em>, di sicuro non consentito dall’ordinamento giuridico.</p> <p style="text-align: justify;">Nella giurisprudenza di legittimità – conclude il Collegio - è stato più volte ribadito, nel corso dell’ultimo decennio, che il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la relativa violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato, pur se non sempre risulta evidente, dalle motivazioni di molte sentenze esaminate il riferimento all’integrazione del contratto e, cioè, al meccanismo di cui al combinato disposto degli artt. 1374 e 1375 cod. civ. (il riferimento è, tra le tante, a Cass., sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310 (Rv. 530897); Cass., sez. III, 16 ottobre 2002, n. 14726 (Rv. 557940); Cass., sez. III, 30 luglio 2004, n. 14605 (Rv. 575710); Cass., sez. III, 11 febbraio 2005, n. 2855 (Rv. 582069); Cass. sez. III, 7 giugno 2006 n. 13345 (Rv. 591115); Cass. sez. I, 27 ottobre 2006, n. 23273 (Rv. 593456); Cass., sez. III, 15 febbraio 2007, n. 3462 (Rv. 598434); Cass., sez. I, 6 agosto 2008, n. 21250 (Rv. 604664), Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28056 (Rv. 605685); Cass., sez. I, 22 gennaio 2009, n. 1618 (Rv. 606271); Cass., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5348 (Rv. 606947); Cass. sez. III, 4 maggio 2009, n. 10182 (Rv. 608010); Cass., sez. III, 31 maggio 2010, n. 13208 (Rv. 613381).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.25047 che – con caratteristiche che la dottrina ha definito eccentriche - conferma la sentenza di merito la quale – dopo aver escluso la sussistenza della violazione dei principi di buona fede e correttezza nella fase delle trattative di un contratto preliminare relativo alla vendita di un terreno – ha assunto non conferente l’evocazione dei medesimi principi in ordine alla pattuizione della condizione risolutiva del contratto preliminare di compravendita di un terreno in caso di mancata approvazione del piano di lottizzazione entro un certo termine, con l’obbligo di restituzione del solo prezzo anticipatamente corrisposto, maggiorato degli interessi a partire da una certa data.</p> <p style="text-align: justify;">Nel respingere le censure avverso la ridetta sentenza di merito, siccome sollevate dai ricorrenti, il Collegio afferma che il principio di correttezza e buona fede comporta il dovere della parte di fornire alla controparte, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, ogni dato conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza rilevante ai fini della stipulazione dello stesso, nonché il dovere di agire nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto in modo da preservarne gli interessi, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di espresse previsioni normative.</p> <p style="text-align: justify;">Nondimeno – e ponendosi in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato - la violazione del principio in questione, pur essendo fonte di responsabilità per il danno che ne sia derivato, non inficia per la Corte il contenuto del contratto con cui le parti abbiano regolato i rispettivi interessi, salvo che tanto non si risolva (per la consistente invalidità che lo connota) in una specifica causa di nullità o annullabilità del contratto stesso, evidenziando che tale violazione non può essere invocata qualora venga dedotta l’inadeguatezza delle clausole pattuite a garantire l’equilibrio delle prestazioni o le aspettative economiche di uno dei contraenti (c.d. etero-governo, <em>ope iudicis</em>, del contratto).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.3487 alla cui stregua, in tema di c.d. silenzio inadempimento, va interpretata in senso sostanziale la previsione dell’obbligo di provvedere posto a carico dall’amministrazione.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio sussiste l’obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari dove “<em>ragioni di giustizia e di equità</em>” impongano l'adozione di un provvedimento e quindi “<em>tutte le volte in cui</em>” in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione richiesta.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 marzo esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.3 che, in un pertinente passaggio motivazionale, rammenta come l’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo abbia previsto, con disposizione analoga all’art. 1227 del codice civile, che nel determinare il risarcimento del danno c.d. “<em>provvedimentale</em>” il giudice valuti tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, escluda il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tale disposizione, per l’Adunanza plenaria - rispetto al danno provocato da un provvedimento amministrativo - si deve in primo luogo verificare la avvenuta proposizione o meno, da parte del privato che se ne assuma leso, della domanda (caducatoria) di annullamento. La mancata impugnazione tempestiva del provvedimento che si assuma produttivo del danno porta difatti per il Collegio ad escludere il nesso di causalità rispetto ai danni lamentati, in relazione alla sussistenza di un onere di impugnazione derivante dai principi di correttezza e buona fede che gravano sulle parti (e, dunque, anche sul creditore) e dal divieto di abuso del diritto, sulla base del principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tali canoni, con una interpretazione estensiva rispetto alla tradizionale interpretazione dell’art. 1227 del codice civile - per la quale, all’opposto, l’ordinaria diligenza esclude l’onere di intraprendere azioni giudiziarie – l’Adunanza Plenaria afferma invece che nell’ordinaria diligenza, ai sensi dell’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, rientra anche l’impugnazione tempestiva del provvedimento amministrativo che si assuma lesivo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 27 aprile esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.2468 alla cui stregua, in tema di c.d. silenzio inadempimento, va interpretata in senso sostanziale la previsione dell’obbligo di provvedere posto a carico dall’amministrazione.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio sussiste l’obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari dove “<em>ragioni di giustizia e di equità</em>” impongano l'adozione di un provvedimento e quindi “<em>tutte le volte in cui</em>” in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione, “sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione richiesta.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.17642 alla cui stregua la buona fede va assunta quale principio etico-giuridico (pur afferendo la fattispecie scandagliata ad un rapporto strettamente patrimoniale).</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio ne riconosce la connessione, già più volte affermata, all'istituto dell'abuso del diritto, onde – precisa la Corte - in tema di fideiussione, il generale principio etico-giuridico di buona fede nell'esercizio dei propri diritti e nell'adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è un'espressione, svolge una funzione integrativa dell'obbligazione assunta dal debitore (nella specie, la banca), quale limite all'esercizio delle corrispondenti pretese, avendo ciascuna delle parti contrattuali il dovere di tutelare l'utilità e gli interessi dell'altra, nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.23232 alla cui stregua il riferimento – contenuto nel ricorso scandagliato - a risalenti pronunce della Corte medesima si palesa del tutto inidoneo a fini decisori, atteso come l'orientamento consolidato cui ormai da alcuni anni la Corte e' pervenuta sia nel senso che il principio di correttezza e buona fede (il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, "<em>richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore</em>") deve essere inteso in senso oggettivo.</p> <p style="text-align: justify;">Esso enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la propria rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (cfr. tra molte: S.U. n. 28056/08; Sez. 1, n.1618/09; Sez. 3 n. 22819/10).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.10906, che si occupa di una fattispecie di richiesta di risarcimento del danno rivolta da un partner ai danni dell’altro a cagione della nascita indesiderata di un figlio da un rapporto sessuale tra gli stessi intercorso, facendo appello – sul crinale civile – al principio di correttezza e buona fede.</p> <p style="text-align: justify;">Il primo motivo di ricorso – rammenta la Corte – denuncia in particolare, ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 2 Cost. e 1175 c.c., per non avere la corte territoriale "<em>tenuto nella dovuta considerazione</em>" il principio generale e costituzionale "<em>della necessaria condotta di buona fede e correttezza delle parti nelle reciproche relazioni</em>", e per non aver attribuito "<em>ingiusto e decisivo rilievo al necessario accertamento della veridicità o meno delle informazioni</em>" fornite al ricorrente dalla controparte, e se queste "<em>fossero state date in buona o in mala fede</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Sostiene il ricorrente che, prima del rapporto sessuale con la controparte in cui venne concepito il loro figlio, la donna gli aveva detto di essere in quel momento infertile per avere concluso proprio quel giorno il suo ciclo mestruale; ma tale informazione sarebbe stata una consapevole menzogna che avrebbe indotto il ricorrente, pur non volendo egli generare, a compiere l'atto sessuale senza alcuna precauzione, per cui l'inganno della propria controparte sarebbe stato "<em>da configurare quale vera e propria truffa</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Deve darsi atto – prosegue la Corte - che nella successiva memoria il ricorrente, oltre a ribadire quanto già esposto e in particolare il principio costituzionale della solidarietà (art. 2), invoca pure l'art. 1 l. 194/1978, laddove (primo comma) afferma che "<em>lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Non si può non rilevare preliminarmente – per il Collegio - che il motivo opera una commistione dell'illecito civile con l'illecito penale, senza chiarire neppure il tipo di danno che da tale non identificato illecito gli sarebbe derivato: non è chiaro se si tratta di danno patrimoniale per il sostentamento del minore oppure di un danno non patrimoniale di tipologia esistenziale, avendo addotto, come si è visto, il ricorrente che sarebbe stata sconvolta la relativa vita e che egli non potrebbe più costruire una famiglia regolare, stante come le proprie, successive compagne non vi sarebbero disposte per l'esistenza di tale (indesiderato) bambino.</p> <p style="text-align: justify;">Richiamando le norme di cui denuncia la violazione nella rubrica del motivo (artt. 2 Cost. e 1175 c.c.) il ricorrente parrebbe indurre a ritenere che il <em>thema decidendum</em> sia un illecito civile, ovviamente aquiliano. Peraltro, prosegue la Corte, la giurisprudenza che è stata dal ricorrente citata, pur correlando l'art. 1175 c.c. all'art. 2 Cost. come espressione primaria del diritto a fruire solidarietà e del correlativo obbligo a fornire solidarietà, concerne <em>ex professo</em> fattispecie contrattuali.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, la citata Cass., sez. 3, 15 febbraio 2007, n. 3462, pur enunciando un principio formulato in modo indubbiamente estensivo, riguarda un contratto di trasporto marittimo, per cui non può non qualificarsi <em>obiter dictum</em> quanto nel principio supera i confini dell'illecito contrattuale (così la massima: "<em>L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificantesi in obblighi di informazione e di avviso) nonché volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (Nell'affermare il suindicato principio la S.C., con riferimento a contratto di trasporto marittimo di persone ha ritenuto violato l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza dal comportamento del vettore professionale il quale, nell'impossibilità di affrontare il viaggio di ritorno per le avverse condizioni metereologiche, aveva mancato di accordarsi con altro vettore «</em>pur di non pagare qualche soldo in più rispetto al costo del biglietto pagato dai passeggeri<em>», non consentendo conseguentemente ai medesimi di rientrare in serata sul continente e di evitare il pernottamento di fortuna nel luogo di destinazione, privo di alberghi</em>)".</p> <p style="text-align: justify;">L'ulteriore arresto citato nel ricorso, registra ancora la Corte, con riguardo all’argomentazione relativa all'art. 1175 c.c. - quale espressione codicistica del principio costituzionale di solidarietà (Cass., sez. 3, 4 maggio 2009, n. 10182) - concerne a propria volta l'esecuzione di un contratto e un conseguente debito patrimoniale (così la massima: "<em>La buona fede nell'esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del </em>neminem laedere<em>, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (Nella fattispecie, la S.C., in accoglimento di un ricorso per revocazione, ha rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza di appello resa in un giudizio di opposizione all'esecuzione, ritenendo legittimo il comportamento di un condominio che, dopo aver richiesto con precetto una somma accertata come giudizialmente dovuta da un condomino, si era rifiutato di ricevere un adempimento parziale e aveva successivamente proceduto, trascorso un congruo lasso di tempo, all'esecuzione individuale solo dopo aver reiteratamente e inutilmente sollecitato il debitore alla corresponsione anche dell'importo residuo, dovuto per gli accessori di cui avesse fornito puntuale conteggio</em>)".</p> <p style="text-align: justify;">Questa giurisprudenza – prosegue la Corte - indubbiamente comunque del tutto "<em>eccentrica</em>" rispetto a un rapporto sessuale, si inserisce in un orientamento ormai risalente e consolidato, che, pure sulla base della stessa Relazione al codice, ovvero di un inquadramento precostituzionale, riconosce che tra le parti di un contratto deve inserirsi una reciproca tutela da parte dell'uno rispetto all'interesse dell'altro, così realizzando quello che l'art. 1175 definisce "<em>correttezza</em>" e che viene usualmente ricondotto pure al lato concetto di buona fede (si noti che nel dettato originario dell'art. 1175 c.c. era già presente un riferimento espresso alla solidarietà, seppure in un'ottica conforme ai tempi in cui il codice fu promulgato, con il seguente testo: "<em>il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, in relazione ai principi della solidarietà corporativa</em>"; l'inciso - a partire da "<em>in relazione</em>" - è stato abrogato dall'art. 3 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 287).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta invero, prosegue la Corte, di un ampio flusso giurisprudenziale, nel quale, tra quelli maggiormente correlabili agli arresti citati dal ricorrente, si rinvengono per esempio Cass., sez. 1, 27 ottobre 2006, n. 23273 ("<em>Il principio di correttezza e buona fede, il quale secondo la Relazione ministeriale al Codice Civile, "</em>richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore<em>", deve essere in teso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 della Costituzione, che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. Dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere </em>ex se<em>, ove provato, un danno risarcibile</em>"; si trattava di una questione puramente patrimoniale relativa a un rapporto tra un istituto bancario e dei fideiussori che aveva dato luogo ad una illegittima iscrizione dell'ipoteca giudiziale).</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, vanno richiamate per il Collegio Cass., sez. 3, 10 novembre 2010, n. 22819 (conforme all'appena richiamata pronuncia e relativa ancora a rapporti patrimoniali, in questo caso tra un istituto bancario, cui viene attribuito un obbligo di protezione dei cliente, e un relativo correntista) e Cass., sez. 1, 15 ottobre 2012, n. 17642, quest'ultima qualificante la buona fede addirittura come principio etico-giuridico pur trattandosi di rapporto strettamente patrimoniale (e non personale) - una fideiussione -, e riconoscendo la relativa connessione, già più volte d'altronde affermata nell'ambito dell'orientamento in esame, all'istituto dell'abuso del diritto ("<em>In tema di fideiussione, il generale principio etico-giuridico di buona fede nell'esercizio dei propri diritti e nell'adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è un'espressione, svolge una funzione integrativa dell'obbligazione assunta dal debitore (nella specie, la banca), quale limite all'esercizio delle corrispondenti pretese, avendo ciascuna delle parti contrattuali il dovere di tutelare l'utilità e gli interessi dell'altra, nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori</em>").</p> <p style="text-align: justify;">In effetti, conferma la Corte, condursi in un rapporto giuridico senza rispettare correttezza/buona fede può integrare proprio la plasmabile fattispecie dell'abuso del diritto, poiché il diritto di chi in tal modo si comporta non viene esercitato tenendo in conto la solidarietà dovuta agli interessi della controparte.</p> <p style="text-align: justify;">È evidente peraltro – prosegue la Corte - che non è possibile traslare l'orientamento appena sintetizzato a quanto addotto dal ricorrente nel caso di specie. A suo avviso, egli sarebbe stato ingannato dalla propria partner nell'ambito di un rapporto sessuale. Non si comprende invero, per il Collegio, come un rapporto sessuale possa essere sussunto nell'esercizio del diritto e nell'adempimento del corrispondente obbligo di solidarietà. Né, d'altronde, appare pertinente il riferimento all'art. 1, primo comma, l. 194/1978, poiché in esso è sì garantito "<em>il diritto alla procreazione cosciente e responsabile</em>", ma come diritto pubblico, garantito infatti dallo Stato, e non come obbligo del partner.</p> <p style="text-align: justify;">L'obbligo del partner di rispettare la volontà della persona con cui intende compiere un atto sessuale completo si rinviene, invece, nell'ambito penale, come tutela però della libertà sessuale (artt. 609-bis ss. c.p.), e non della fertilità o infertilità dell'atto sessuale come scelta che l'uno possa imporre all'altro. Potrebbe sotto questo profilo semmai integrarsi, se uno degli esecutori dell'atto sessuale ha costretto l'altro ad adottare o a non adottare mezzi che incidono su tale potenzialità procreativa, il reato di violenza privata (art. 610 c.p.c.) che, peraltro, si commette appunto "<em>con violenza o minaccia</em>", ovvero costrizione, e non con una eventuale menzogna.</p> <p style="text-align: justify;"> E il reato che il ricorrente ha poi invocato, cioè l'art. 640 c.p. (truffa), è reato contro il patrimonio: ma l'acquisizione di una paternità indesiderata non è riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 640 c.p., dato che questo prevede come conseguenza dell'inganno il fatto che chi delinque "<em>procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Ritornando allora alle argomentazioni del motivo che tentano di convogliare la pretesa del ricorrente nel settore civile, deve darsi atto che non può, logicamente, assimilarsi ad un rapporto contrattuale un rapporto sessuale tra due persone ad esso consenzienti (e tra l'altro, pacificamente, non riconducibile ad alcuna attività di prostituzione), ed inserire in esso l'obbligo di ciascuno di informare l'altro del suo stato di fertilità o meno.</p> <p style="text-align: justify;">Al contrario, ciò rientra, a ben guardare, nel diritto alla riservatezza della persona che è invece, senza dubbio, tutelato dall'ordinamento. Né, d'altronde, lo stesso ricorrente adduce di avere stipulato un contratto con la controricorrente, ma anzi spinge la questione sul piano dell'extracontrattuale. Già si è constatato, allora, che non è configurabile alcuna fattispecie penale. E quanto all'illecito aquiliano, se una persona fornisce alla persona con cui intende compiere un atto sessuale completo una informazione non corrispondente al vero in ordine al propria attuale stato di fertilità o infertilità, a tacer d'altro, in concreto nulla ne può derivare in termini risarcitori, per il combinato disposto dell'art. 1227 cpv. e dell'art. 2056, primo comma, c.c.: una persona che è in grado di svolgere un atto sessuale completo, infatti, non può - alla luce del notorio - ignorare l'esistenza di mezzi contraccettivi, il cui reperimento e utilizzo sono di tale agevolezza che non possono non essere ascritti alla "<em>ordinaria diligenza</em>" per chi, appunto, in quel determinato caso intende esclusivamente soddisfare un proprio desiderio sessuale e non vuole invece avvalersi delle proprie potenzialità generative.</p> <p style="text-align: justify;">Su questa linea, in effetti, condivisibilmente si colloca la vera e propria <em>ratio decidendi</em> della sentenza impugnata. Osserva infatti la corte territoriale, alla conclusione del relativo iter motivazionale, che l'attuale ricorrente, "<em>in quanto portatore di un così forte e intenso desiderio di non procreare, avrebbe dovuto adottare sicure misure precauzionali</em>", onde, non facendolo, egli stesso ha "<em>assunto il rischio delle conseguenze dell'azione</em>".</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.12477 in tema di pagamento da parte della banca di un assegno non trasferibile a soggetto diverso da quello legittimato ad incassarlo.</p> <p style="text-align: justify;">La questione di diritto sulla quale le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi attiene all'interpretazione dell'art. 43, 2° comma I.a., che stabilisce che "<em>colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l'incasso, risponde del pagamento</em>".</p> <p style="text-align: justify;">La previsione, cui espressamente rinviano gli artt. 86, 1° comma e 100 I.a. (legge assegni), va estesa anche alle ipotesi in cui siano pagati a persona diversa dal prenditore un assegno circolare o un assegno bancario libero della Banca d'Italia non trasferibili, nonché (secondo quanto già affermato da Cass. S.U. n. 14712 del 2007) un assegno di traenza (usualmente utilizzato, in luogo del bonifico bancario, per il pagamento di un soggetto che non sia titolare di un conto corrente o di cui non si conoscono le coordinate bancarie) munito della clausola di intrasferibilità.</p> <p style="text-align: justify;">La ricorrente, imputando alla corte del merito di aver violato l'art. 43, 2° comma cit., sostiene che tale norma, da essa invocata a fondamento della domanda risarcitoria, configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, che deve essere affermata per il solo fatto del pagamento dell'assegno non trasferibile a persona non legittimata, prescindendo dall'accertamento di una condotta colposa della banca per averlo effettuato senza osservare la dovuta diligenza; a dire dalla ricorrente, l'inadempimento dell'istituto di credito negoziatore all'obbligazione posta a relativo carico dalla legge deve considerarsi interruttivo di ogni altro antecedente causale e di per sé idoneo a determinare l'illecito e perciò il danno.</p> <p style="text-align: justify;">Ricorrono – precisa a questo punto il Collegio - i presupposti perché la Corte si pronunci, ai sensi dell'art. 363, 3° comma, c.p.c., sul problema interpretativo che la censura pone, mai sottoposto al vaglio delle sezioni unite ma più volte affrontato dalla prima sezione civile, che vi ha dato, nel tempo e in alternanza, soluzioni fra loro contrapposte.</p> <p style="text-align: justify;">In una prima, risalente, pronuncia (Cass. n. 3133 del 1958) si sostenne che l'art. 43, 2° comma I.a. non configura un'obbligazione risarcitoria della banca verso il prenditore, ma attiene all'obbligazione cartolare originaria, che non è stata validamente adempiuta e che deve perciò essere ancora adempiuta con un nuovo pagamento a favore del legittimato, senza che rilevi (in alcun modo) la difficoltà nell'identificazione del presentatore del titolo e, dunque, senza che rilevi la colpa della banca negoziatrice.</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, secondo questa tesi la banca che paga l’assegno a chi non sia legittimato a riscuoterne l’importo non risponde perché “<em>sanzionabile</em>” di un comportamento colposo (sono le stesse norme che, giusta clausola di “<em>non trasferibilità</em>”, prevedono il divieto di circolazione del titolo a disporre che esso, per l’appunto, non deve circolare e non va pagato a chi non sia legittimato a riscuoterlo); risponde piuttosto a titolo di responsabilità oggettiva perché l’art.43 della legge assegni ha lo scopo, ben più pregnante, di porre il prenditore (vero legittimato) a riparo dagli effetti dello spossessamento, così impedendo a chi si sia indebitamente appropriato dell’assegno “<em>non trasferibile</em>” medesimo di riscuoterlo, dopo averlo necessariamente contraffatto.</p> <p style="text-align: justify;">L'orientamento espresso nella citata decisione nondimeno – prosegue la Corte - fu abbandonato a partire da Cass. n. 2360 del 1968: la sentenza (cui successivamente si uniformarono Cass. nn. 3317/78, 5118/79, 686/83, 4187/87, 4087/92, 10460/94, 9888/97) affermò che chi esegue il pagamento di un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore, ma che si legittima cartolarmente come tale, ne risponde verso l'effettivo prenditore soltanto se non ha usato la dovuta diligenza nell'identificazione del presentatore del titolo (e, dunque, solo se versante in colpa), posto che la norma di cui all'art. 43 2° comma I.a. - da correlare al disposto del 1° comma dell'articolo, che pone un divieto assoluto di circolazione del titolo non trasferibile - si riferisce, per l'appunto, alla legittimazione cartolare e quindi non comporta deroga ai principi generali in tema di identificazione del presentatore dei titoli a legittimazione nominale.</p> <p style="text-align: justify;">In sostanza, in questo diverso prisma ermeneutico qualora la banca provi di avere impiegato il necessario sforzo diligente per scongiurare il pagamento al falso legittimato – pienamente rispettando dunque le regole che presidiano alla corretta circolazione del titolo (che, in quanto “<em>non trasferibile</em>”, non potrebbe per l’appunto circolare) - e, nonostante questo, si sia prodotto danno in capo al vero legittimato, la banca negoziatrice dovrebbe assumersi andare esente da responsabilità.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la sentenza 2360.68 dunque, lo scopo della clausola di intrasferibilità non sarebbe quello di assicurare in ogni caso all'effettivo prenditore il conseguimento della prestazione dovuta, ma quello di impedire la circolazione del titolo, e tanto troverebbe conferma nell'art. 73 I.a. che, proprio perché l'assegno non trasferibile non può essere azionato da un portatore di buona fede, ne esclude - in caso di smarrimento, sottrazione o distruzione - l'ammortamento (che serve proprio a scongiurare, in altri titoli di credito, che essi possano essere riscossi da un portatore di buona fede ai danni dell’effettivo avente diritto), conferendo nel contempo al prenditore, ma solo come conseguenza indiretta, la maggior sicurezza di poterne ottenere un duplicato denunciandone lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione al trattario o al traente.</p> <p style="text-align: justify;">Gli argomenti addotti da Cass. n. 2360/1968 furono ritenuti non appaganti da Cass. n. 1098 del 1999, che, con un vero e proprio <em>revirement</em>, ripercorsa la motivazione posta a fondamento della sentenza del 1958, la confermò nel relativo nucleo essenziale. La pronuncia, riprende il Collegio, tornò dunque a sostenere che l'art. 43 I.a. regola in modo autonomo l'adempimento dell'assegno non trasferibile - con deviazione sia dalla disciplina generale sul pagamento dei titoli di credito a legittimazione variabile sia dalla disciplina di diritto comune di cui all'art. 1189 c.c., secondo il quale il debitore che esegua il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede - ed impone alla banca di pagarlo unicamente al soggetto indicato come prenditore; con la conseguenza che la banca che abbia effettuato il pagamento a chi non era legittimato a riscuoterlo non è liberata dalla propria obbligazione finché non paghi il prenditore esattamente individuato (o il banchiere giratario per l'incasso), e ciò a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione dello stesso prenditore.</p> <p style="text-align: justify;">La finalità della norma, secondo tale decisione, andrebbe ravvisata non già nell'intento di sanzionare la violazione del divieto di circolazione dell'assegno, atteso che, così interpretata essa risulterebbe pleonastica, ma di porre il prenditore al riparo degli effetti dello spossessamento, impedendo a chi si sia indebitamente appropriato del titolo medesimo di riscuoterlo, dopo averlo necessariamente contraffatto.</p> <p style="text-align: justify;">Al principio enunciato da Cass. n. 1089/1999 si sono conformate Cass. nn. 1978/2000, 9141/2001, 10190/2001, 3654/2003, 7949/2010. Più di recente, alle pronunce conformi (Cass. nn. 3405/2016, 14777/2016) se ne sono affiancate altre (Cass. nn. 1377/2016, 16332/2016, 26947/2016) che hanno ripreso a riassegnare centralità al criterio della colpa, facendo dipendere la responsabilità della banca negoziatrice (nonché quella della banca trattaria che abbia pagato il titolo in stanza di compensazione) dall'inosservanza del dovere di diligenza richiesto al banchiere dall'art. 1176, 2° comma, c.c.</p> <p style="text-align: justify;">E' a questo secondo indirizzo che le sezioni unite ritengono a questo punto di prestare adesione.</p> <p style="text-align: justify;">L'analisi che verrà condotta trova il proprio punto di partenza – precisa il Collegio - nella sentenza, anch'essa resa a S.U., n. 14712 del 2007, che è intervenuta a comporre un precedente contrasto di giurisprudenza sorto circa la natura (contrattuale, extracontrattuale o <em>ex lege</em>) della responsabilità derivante dal pagamento dell'assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore ed alla conseguente durata - decennale o quinquennale - del termine di prescrizione dell'azione di risarcimento proposta dal danneggiato.</p> <p style="text-align: justify;">Con tale pronuncia le sezioni unite - ribadito preliminarmente che l'espressione "<em>colui che paga</em>", adoperata dall'art. 43, 2° comma, I.a., va intesa in senso ampio, sì da riferirsi non solo alla banca trattaria (o all'emittente, nel caso di assegno circolare), ma anche alla banca negoziatrice, che è l'unica concretamente in grado di operare controlli sull'autenticità dell'assegno e sull'identità del soggetto che, girandolo per l'incasso, lo immette nel circuito di pagamento - hanno riconosciuto natura contrattuale alla responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno munito della clausola di non trasferibilità in favore di persona non legittimata.</p> <p style="text-align: justify;">La conclusione non trova fondamento nel consueto argomento utilizzato dalla tesi contrattualistica (secondo la quale la banca girataria per l'incasso, oltre ad essere mandataria del girante per l’incasso, sarebbe sostituta della trattaria nell'esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all'identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento e verrebbe anch'essa a trovarsi in rapporto col traente che, nell'ipotesi di pagamento mal effettuato, potrebbe perciò esercitare nei relativi confronti l'azione contrattuale basata sulla convenzione d'assegno), ma nella c.d. teoria del “<em>contatto sociale qualificato</em>”, ravvisabile ogni qualvolta l'ordinamento imponga ad un soggetto di tenere un determinato comportamento, idoneo a tutelare l'affidamento riposto da altri soggetti sul corretto espletamento di preesistenti, specifici doveri di protezione che egli abbia volontariamente assunto.</p> <p style="text-align: justify;">In tale direzione, la sentenza ha rilevato come le regole di circolazione e di pagamento dell'assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur svolgendo indirettamente una funzione di rafforzamento dell'interesse generale alla corretta circolazione dei titoli di credito, risultino essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati: ciascuno dei quali ha ragione di confidare sul fatto che l'assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede e la cui concreta esecuzione è rimessa ad un soggetto, il banchiere, dotato di specifica professionalità al riguardo; ed ha altresì sottolineato che la professionalità del banchiere si riflette necessariamente su tutta la gamma delle attività da lui svolte nell'esercizio dell'impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati, per la cui corretta attuazione egli dispone di strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno: dal che, appunto, dipende, per un verso, l'affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento dei compiti inerenti al servizio bancario, e per altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla scorta di tali considerazioni, che il Collegio dichiara a questo punto di pienamente condividere, va ribadito il principio enunciato nella citata pronuncia, secondo cui la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall'art. 43 legge assegni (r. d. 21 dicembre 1933, n. 1736), l'incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha - nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno - natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso.</p> <p style="text-align: justify;">Una volta ricondotta la responsabilità della banca negoziatrice nell'alveo di quella contrattuale derivante da contatto qualificato - inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. - non appare più sostenibile la tesi secondo cui detta banca risponde del pagamento dell'assegno non trasferibile effettuato in favore di chi non è legittimato "<em>a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione del prenditore</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Una responsabilità oggettiva può infatti concepirsi – prosegue il Collegio - solo laddove difetti un rapporto in senso lato "<em>contrattuale</em>" fra danneggiante e danneggiato, ed il primo sia chiamato a rispondere del fatto dannoso nei confronti del secondo non per essere con questi entrato in contatto, ma in ragione della particolare posizione rivestita o della relazione che lo lega alla <em>res</em> causativa del danno.</p> <p style="text-align: justify;">Non a caso, dottrina e giurisprudenza hanno individuato ipotesi di responsabilità oggettiva nelle fattispecie tipiche delineate dagli artt. 2048/2053 c.c., tutte annoverabili nel più ampio <em>genus</em> dell'illecito extracontrattuale.</p> <p style="text-align: justify;">Non è questa la sede – precisa a questo punto il Collegio - per avventurarsi in classificazioni che potrebbero apparire velleitarie, né per tracciare confini tra categorie, che potrebbero rivelarsi assai labili. E' tuttavia principio consolidato nella giurisprudenza della Corte che il criterio che presiede alla valutazione della responsabilità da contatto sociale qualificato è quello delineato dagli artt. 1176 e 1218 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue, per tornare al caso di specie, che, nell'azione promossa dal danneggiato, la banca negoziatrice che ha pagato l'assegno non trasferibile a persona diversa dall'effettivo prenditore è ammessa a provare che l'inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi del 2° comma dell'art. 1176 c.c., dalla relativa qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve.</p> <p style="text-align: justify;">La conclusione raggiunta non rende pleonastico il disposto dell'art. 43, 2° comma, I.a. Sotto un primo profilo va infatti rilevato che la clausola di intrasferibilità ha pur sempre funzione, oltre che di assicurare il pagamento al beneficiario, di impedire la circolazione del titolo. La sanzione di responsabilità cartolare - il cui presupposto risiede nella circostanza che non si è pagato ad un soggetto legittimato come prenditore del titolo (il destinatario del pagamento non è soggetto legittimato a riceverlo) - non va quindi confusa con la responsabilità civile derivante dall'errata identificazione dell'effettivo prenditore (l’effettivo prenditore, legittimato a ricevere il pagamento, viene erroneamente identificato).</p> <p style="text-align: justify;">Per altro aspetto, va rilevato che la disposizione, regolando anche le ipotesi di responsabilità derivanti dall'errore sull'identificazione, si pone in rapporto di specialità sia rispetto alla norma di diritto comune, dettata in tema di obbligazioni, di cui all'art. 1189, 1° comma, sia rispetto a quella, riferita ai titoli a legittimazione variabile, di cui all'art. 1992, 2° comma c.c., le quali circoscrivono entrambe detta responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave (essendo sufficiente, in questa specifica fattispecie, la “<em>mera</em>” colpa lieve per radicare la responsabilità della banca).</p> <p style="text-align: justify;">Va, in conclusione, enunciato per il Corte il principio di diritto onde, ai sensi dell'art. 43, 2° comma, legge assegni (r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato- per errore nell'identificazione del legittimo portatore del titolo- dal pagamento di assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dall'effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l'inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall'art. 1176, 2°comma, c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Interessante notare come le SSUU affermino la responsabilità “<em>contrattuale</em>” della banca negoziatrice (e, dunque, della banca che concretamente paga l’assegno a soggetto non legittimato) sulla scorta appunto del principio di buona fede e dei c.d. obblighi di protezione – configurabili in capo al professionista (nel caso di specie, la banca) – che ne discendono; non già sulla (per vero, più bizantina) diversa tesi che ritrae la medesima conclusione dal meccanismo onde la banca negoziatrice medesima, girataria per l’incasso da parte del soggetto falsamente legittimato, oltre ad essere mandataria di quest’ultimo (che ne è il girante: si tratta della sua banca), si atteggia nel contempo a sostituta della banca trattaria (in ipotesi, diversa: è la banca del traente, emittente l’assegno) nel disimpegno del servizio bancario e, dunque, nella identificazione del presentatore dell’assegno (alla quale ne segue il pagamento), onde anche tale banca negoziatrice – che pure non è la banca del traente – verrebbe a trovarsi in rapporto con quest’ultimo che potrebbe dunque invocarne la responsabilità “<em>contrattuale</em>” sulla base della c.d. convenzione di assegno.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12863 alla cui stregua deve assumersi violare l’obbligo di buona fede oggettiva nell’esecuzione del pertinente contratto e di conservazione della cosa ricevuta in pegno ex art. 2790 cod. civ. il creditore garantito che, a fronte di un rischio oggettivo e sensibile di deterioramento del bene in garanzia, non si attivi per procedere all’eventuale liquidazione del medesimo; del pari, è per il Collegio da ritenere contrario al canone di buona fede il comportamento del creditore garantito che non dia tempestivo e motivato riscontro alle sollecitazioni di liquidazione provenienti dal terzo datore, che paventi il rischio concreto di deterioramento del bene in garanzia.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte non può essere dubbio che, nei confronti del tema rappresentato dal rischio di deterioramento del bene in pegno, il datore della garanzia sia portatore di un interesse serio e importante a che si proceda alla vendita conservativa: la preservazione del valore economico risultando funzionale all’esigenza di non impegnare a garanzia dei beni ulteriori, per il caso di sopravvenuto deterioramento effettivo della prestata garanzia specifica; come pure a potere tornare a utilizzare liberamente il corrispondente valore economico del bene in garanzia, una volta portato a buon fine il rapporto in essere in quel momento.</p> <p style="text-align: justify;">Convergente con l’interesse del datore dovrebbe poi risultare, in linea di principio, quello del creditore garantito (nel presupposto, naturalmente, dell’effettività del rischio di deterioramento del bene di cui si discute e salvi in ogni caso i rilievi relativi alle modalità e termini di vendita dello stesso). Che’ l’interesse di questi naturalmente si volge al mantenimento di una garanzia efficiente per la misura del credito che risulta in essere ovvero disponibile (nella “<em>sufficienza sicurezza</em>” del rientro di tale credito, d’altronde, l’interesse del creditore incontra l’invalicabile limite della pertinente rilevanza: eloquente al proposito si manifesta la diversa conformazione dei presupposti del potere di attivazione del giudice, che l’articolo 2795 pone, al comma 1, per il creditore e, al comma 3, per il datore).</p> <p style="text-align: justify;">D’altro canto, nemmeno va dimenticato, in proposito, che l’effettuazione della vendita conservativa e’, per propria natura, destinata a concludersi con la sostituzione – nella garanzia del credito – del ricavato della vendita in luogo del bene ceduto (cfr. cosi’, in modo espresso la norma dell’articolo 2803 c.c.; per un’applicazione del principio di base per cui <em>pretium succedit in locum rei</em> la Corte richiama poi la norma dell’articolo 2742 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;">Ora, in presenza delle coordinate appena richiamate, il canone generale della buona fede oggettiva per il Collegio non può non imporre al creditore garantito – come pure, peraltro, al datore della garanzia (nonché al debitore, ove diverso da questi) – di prendere in considerazione ed esaminare il tema di un’eventuale vendita anticipata del bene preso in garanzia, laddove il rischio di un relativo deterioramento venga sensibilmente a manifestarsi in modo oggettivo.</p> <p style="text-align: justify;">Non di meno, il detto canone viene a comportare il dovere del creditore di fornire una risposta adeguata e tempestiva al datore che lo solleciti a procedere alla liquidazione del bene, allegando una concreta sussistenza del rischio in discorso; e di fornire, nel caso di manifestato dissenso, una motivata risposta (in modo da dare, in tale ultima ipotesi, spazio sostanziale all’effettiva applicazione della norma dell’articolo 2795 c.c., comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">Per pervenire a simili esiti, non v’e’ bisogno – chiosa ancora il Collegio – di fare immediato riferimento ai principi di ordine costituzionale, secondo la prospettiva pur suggerita dalla requisitoria del P.M. (e per certi versi affacciata anche dal ricorrente), che si richiama a un importante indirizzo della Corte inteso appunto a valorizzare, nella prospettiva della buona fede oggettiva, soprattutto il canone della solidarietà costituzionale (tra le altre, il riferimento va, per i tempi piu’ recenti, alla nota pronuncia di Cass., 12 luglio 2016, n. 14188).</p> <p style="text-align: justify;">Per la specie in esame, appare in realtà sufficiente dare seguito e corso alla tradizionale impostazione che la Corte assume, nei termini di sostanza basica della clausola generale di buona fede oggettiva: e così richiamare il dovere di necessaria salvaguardia dell’interesse altrui, nel limite in cui non venga a pregiudicare il proprio interesse oggettivo (cfr., ad esempio, Cass., 31 maggio 2010, n. 13202; Cass., 10 novembre 2011, n. 22819).</p> <p style="text-align: justify;">Ciò posto, non può condividersi per il Collegio l’impostazione della Corte milanese per cui non viola il canone di buona fede oggettivo il comportamento del creditore garantito che rimane inerte di fronte al delinearsi di un rischio sensibile di deterioramento del bene preso in garanzia. Una simile prospettiva assume, in realtà, che la linea guida del comportamento di tale creditore rimanga in ogni caso la libera (e dunque insindacabile) cura del proprio esclusivo interesse. Il che equivale, lo si e’ appena visto, a ritenere il vigente sistema disciplinare della garanzia pignoratizia (se non altro) impermeabile ai dettami della buona fede oggettiva, ovvero alla stessa sottratto.</p> <p style="text-align: justify;">Senza tenere in alcun conto oltretutto, prosegue la Corte, che la posizione del datore risulta connotata – per regola (e nell’assoluta normalità dei casi, comunque) – dalla titolarità del diritto di proprietà del bene del cui deterioramento si discute (e può non essere inutile rilevare, in proposito, pure che le spese necessarie per la conservazione della cosa sono, nella previsione legislativa dell’articolo 2790 c.c., comma 2, poste a carico non già del “<em>debitore</em>”, bensì del “<em>datore</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Nemmeno può convincere, d’altra parte, l’ulteriore affermazione della Corte milanese, per cui – nel caso di rischio oggettivo di deterioramento del bene in garanzia – il sistema comunque non prevede un “<em>ruolo attivo</em>” del creditore garantito.</p> <p style="text-align: justify;">In proposito, appare invero opportuno precisare per la Corte che, per il tema in questione (del rischio di sopravvenuta perdita di valore del bene in garanzia), il canone della buona fede non si limita a integrare in via diretta, ex articolo 1375 c.c., il contenuto del rapporto contrattuale corrente tra datore e creditore garantito, imponendo a quest’ultimo di riscontrare le sollecitazioni liquidatorie che il primo formuli allegando un rischio concreto di deterioramento.</p> <p style="text-align: justify;">Il ridetto canone di buona fede oggettiva viene altresi’ a incidere sui termini del rapporto contrattuale corrente tra i detti soggetti attraverso la costruzione contenutistica del dovere di custodia e conservazione del bene che la norma dell’articolo 2790 c.c. assegna appunto al creditore garantito: in via indipendente dall’iniziativa del datore e per il caso, appunto, in cui il rischio in discorso risulti oggettivamente e sensibilmente apprezzabile.</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza della Corte ha in particolare chiarito che la custodia del creditore che risulta prescritta dalla ridetta disposizione, “<em>si sostanzia nell’obbligo di mantenere la cosa nel medesimo stato e modo di essere in cui si trovava al momento costitutivo dell’obbligo, con la conseguente necessità’ di adottare tutte le misure al riguardo idonee in relazione alle circostanze concrete del caso, della relativa perdita e deterioramento il creditore pignoratizio rispondendo secondo le regole generali</em>” (cfr. Cass., 30 ottobre 2007, n. 22860; ma da segnalare, in specie, e’ anche la pronuncia di Cass., 1 marzo 1986, n. 1309, per cui il creditore garantito da pegno su quote di s.r.l. ha il dovere, nei confronti del datore, di “<em>vigilare sul buon andamento dell’amministrazione della società</em>, <em>al fine di proteggere l’integrità del patrimonio di questa</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Il dovere di custodia, dalla norma dell’articolo 2790 c.c. posto a carico del creditore garantito, integra dunque un obbligo di protezione della posizione del datore, che – in caso di rischio sensibile di deterioramento del bene – risulta funzionale al sostanziale mantenimento di un valore economico corrispondente a quello originario.</p> <p style="text-align: justify;">Intima alla prescrizione del dovere di conservazione – così come pure coerente con il canone della buona fede – viene perciò per la Corte a manifestarsi l’assunzione, da parte del creditore garantito, di un ruolo attivo, e propositivo di una cooperazione con il datore, in ordine a una tempestiva ed efficiente liquidazione del bene che mostri un sensibile rischio di deterioramento.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, la giurisprudenza della Corte medesima non ha mancato di precisare pure che – (anche) in relazione alla prescrizione del dovere di conservazione del bene in garanzia – “<em>laddove la custodia venga… effettuata da soggetti qualificati da particolare qualità soggettive (banche, intermediari finanziari, ecc.) e’ alla diligenza professionale ex articolo 1176 c.c., comma 2, che deve aversi riguardo</em>” (cfr. ancora, Cass., n. 22860/2007). Ne’ può sottovalutarsi al riguardo come, nella fattispecie concreta in esame, oggetto della garanzia pignoratizia fossero titoli quotati nel mercato regolamentato (la sussistenza in proposito, di un ruolo anche attivo in capo al creditore garantito, che si e’ appena riscontrata, non esclude – e’ necessario pure puntualizzare per dar conto esatto del sistema vigente – l’eventualità di un’applicazione, nel caso, della norma dell’articolo 1227 c.c., comma 2, tenuto conto del comportamento e della natura del creditore garantito, come pure della natura del datore e di tutte le altre circostanze che risultino proposte dalla fattispecie concreta, così da portare, in ipotesi, pure a una qualche riduzione del risarcimento dovuto).</p> <p style="text-align: justify;">A maggior ragione errata – afferma ancora il Collegio – si manifesta l’affermazione della Corte milanese per cui il datore, interessato a procedere alla liquidazione del bene in sensibile rischio di deterioramento, avrebbe comunque l’onere – nel momento in cui richieda al creditore garantito di “<em>adoperarsi per la vendita</em>” dei titoli – di offrire in sostituzione del bene in essere altra “<em>idonea garanzia sostitutiva</em>”. In effetti, la sentenza cade in proposito in un radicale fraintendimento della norma dell’articolo 2795 c.c., posto che la norma non richiede in alcun modo un “<em>raddoppio</em>” di impegno economico in capo al garante (al bene da liquidare prima e al riscosso poi, aggiungendosi un bene ulteriore, sempre in garanzia). Raddoppio di cui, del resto, viene a sfuggire l’utilità e il bisogno.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.13568 onde - secondo quanto rilevato dalla sentenza di Cass., Sezioni Unite, 21 maggio 2018, n. 12477 - ai sensi dell'art. 43, comma 2 r.d. n. 1736/1933 (c.d. legge assegni), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato - per errore nell'identificazione del legittimo portatore del titolo - dal pagamento dell'assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dall'effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l'inadempimento non le è imputabile, per avere esse assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall'art. 1176, comma 2, cod. civ., trattandosi di responsabilità da inadempimento derivante dalla violazione di obblighi di protezione, siccome perpetrata dalla banca negoziatrice collocantesi in un prisma operativo collidente con il principio di correttezza e buona fede che, di quegli obblighi, costituisce il presupposto indefettibile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2020</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 febbraio esce la sentenza della XVII sezione del Tribunale di Roma, ancora una volta in tema di pagamento di assegno non trasferibile a soggetto non legittimato.</p> <p style="text-align: justify;">Come noto – rappresenta il Tribunale - agli effetti di cui all’art. 43 L.A. “<em>Colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò deve ritenersi sufficiente ad escludere la responsabilità dell’emittente l’assegno che non è neppure responsabile della relativa trasmissione. Diverso discorso è da farsi per le banche negoziatrici. In siffatta materia – riprende il Tribunale - la giurisprudenza ha chiarito che l’art. 43 L.A. deroga sia l’art. 1992 che l’art. 1189 c.c., di modo che il debitore è liberato solo se paga al prenditore esattamente identificato (o al banchiere che sia relativo giratario per l’incasso), sicché se egli cade in errore, anche senza colpa nell’identificazione, pagando al legittimato apparente, deve pagare una seconda volta al vero prenditore (Cass. 1098/1999).</p> <p style="text-align: justify;">Ciò considerando che, per la Suprema Corte, a carico della banca è posto non solo l’onere in generale di identificazione del soggetto presentatore, ma anche di verifica della assoluta regolarità formale e materiale del titolo, in quanto l’onere di esatta identificazione del prenditore dell’assegno presuppone la genuinità del titolo, ovvero l’assenza di alterazioni nell’indicazione nominativa del prenditore ove si risolvano in un’incertezza sull’identificazione del soggetto legittimato a ricevere la prestazione, dovendo in ipotesi di positiva verifica della regolarità formale, con la normale diligenza relativa all’attività bancaria, necessariamente provvedere a pagare (Cass. 1087/1999; Cass. 11976/1999; Cass. 6524/2000).</p> <p style="text-align: justify;">Trattasi di diligenza che impone un minimo di cautela superiore rispetto al tipo di attività esercitata, consono ad un livello di professionalità che deve essere necessariamente elevato. Va però considerato, chiosa ancora il Tribunale, che nel caso di specie, alla verifica da parte dell’operatore, gli assegni non presentavano alterazioni, né risultavano oggetto di denuncia di furto.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, va considerato che a partire dal 2007, in occasione dell’entrata in vigore del D. Lgs. 21.11.2007 n. 231, istitutivo tra l’altro dell’Archivio Unico Informatico, l’obbligo della verifica dell’identità di chi compie operazioni saltuarie è divenuto non solo più intenso ma anche di facile esecuzione, a ragione della possibilità di una verifica immediata dei dati da inserirsi in sistemi informatici idonei ad eseguire in pochi secondi la verifica necessaria.</p> <p style="text-align: justify;">L’ultimo obbligo in discorso, alla cui attuazione tutti i banchieri sono tenuti, rende facilmente individuabile una responsabilità a carico della banca che paghi al falso titolare dell’assegno. I fatti di cui è causa si sono svolti nel 2012 e cioè dopo l’entrata in vigore della normativa e del sistema sopra indicato, di modo che alla convenuta era possibile rilevare che chi poneva in riscossione il titolo non fosse l’effettivo titolare. Mentre l’eventuale alterazione dell’assegno a nome di un soggetto diverso, soprattutto con riferimento a quegli assegni compilati manualmente poteva essere rilevata solo dalla banca negoziatrice dell’assegno.</p> <p style="text-align: justify;">Va ancora rilevato per il Tribunale che secondo giurisprudenza consolidata soprattutto di legittimità (Cass. 14777/2016; 18183/2014 e conformi) il pagamento a soggetto diverso dal titolare costituisce una ipotesi di responsabilità oggettiva a tenore dell’art. 43 l.a. che costituisce norma speciale rispetto all’art. 1189 c.c. ed anche rispetto all’art. 1992 c.c. comma secondo. L’art. 43 infatti, riprende il Tribunale, non si esprime in termini di buona fede o colpa ma di mero nesso tra fatto e conseguenza (configurando dunque, da questo punto di vista, una responsabilità di tipo oggettivo).</p> <p style="text-align: justify;">La ratio della norma risiede nella totale affidabilità e certezza del sistema sulla clausola di “<em>non trasferibilità</em>” che mira a garantire efficacemente che il pagamento del titolo avvenga solo a favore dell’effettivo beneficiario. Trattasi di una norma di chiusura che stabilisce di far gravare il rischio dell’operazione su chi è più in grado di gestirlo, ossia sul banchiere professionalmente addetto alla gestione del credito e dei pagamenti.</p> <p style="text-align: justify;">Ove peraltro – precisa ancora il Tribunale - si optasse in termini di responsabilità per colpa, in ogni caso la condotta delle banche negoziatrici non apparirebbero, nel caso di specie, comunque satisfattive del parametro della diligenza tecnica della banca professionista. Infatti nelle ipotesi di cui al presente giudizio le banche negoziatrici avrebbero dovuto notare tutti i campanelli di allarme, comuni a tutte le condotte truffaldine: ovvero la richiesta di versare l’assegno su contro aperto contestualmente o <em>ad hoc</em> in una filiale lontana dalla propria residenza.</p> <p style="text-align: justify;">Va peraltro ravvisato un concorso di colpa ex art 1227 c.c. nel comportamento imprudente della compagnia assicurativa che, pur conoscendo il rischio che siano commessi illeciti con gli assegni di traenza, in quanto fenomeno non nuovo e ben noto agli operatori del settori, continui a far inviare via posta ordinaria gli assegni invece di prediligere altre forme di pagamento o consegna dell’assegno.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 marzo esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n.2011 che, nello scandagliare una complessa vicenda in materia di DIA edilizia e termini per l’attivazione di un terzo che se ne assuma pregiudicato, rammenta come l’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo abbia previsto, con disposizione analoga all’art. 1227 del codice civile, che nel determinare il risarcimento del danno c.d. “<em>provvedimentale</em>” il giudice valuti tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, escluda il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tale disposizione, rammenta il Collegio, la giurisprudenza amministrativa - a partire dall’Adunanza plenaria n. 3 del 2011 - è consolidata nel ritenere che rispetto al danno provocato da un provvedimento amministrativo, si debba in primo luogo verificare la avvenuta proposizione, da parte del privato che se ne assuma leso, della domanda (caducatoria) di annullamento.</p> <p style="text-align: justify;">La Adunanza plenaria n. 3 del 2011 ha, infatti, ritenuto che la mancata impugnazione del provvedimento che si assuma produttivo del danno porti ad escludere il nesso di causalità rispetto ai danni lamentati, in relazione alla sussistenza di un onere di impugnazione derivante dai principi di correttezza e buona fede che gravano sul creditore e dal divieto di abuso del diritto, sulla base del principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tali principi, con una interpretazione estensiva rispetto alla tradizionale interpretazione dell’art. 1227 del codice civile - per cui l’ordinaria diligenza escludeva l’onere di intraprendere azioni giudiziarie – l’Adunanza Plenaria ha invece affermato che nell’ordinaria diligenza, ai sensi dell’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, rientri anche l’impugnazione del provvedimento amministrativo che si assuma lesivo.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto non sussista una pregiudiziale amministrativa dell’azione di annullamento rispetto all’azione di risarcimento del danno, quindi, la mancata impugnazione dell’atto lesivo assume specifico rilievo ai fini della configurazione del nesso di causalità fra fatto lesivo e danno risarcibile, recidendo il nesso causale con il danno lamentato dall’appellante (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 3 luglio 2019, n. 4547; 20 aprile 2016, n. 1565; sez. VI, 21 maggio 2014, n. 2610; Sez. V, 1 dicembre 2014, n. 5917).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 aprile esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.10 che si occupa del c.d. accesso civico generalizzato, in rapporto all’accesso tradizionale di cui alla legge 241.90, con particolare riguardo al settore della esecuzione dei contratti pubblici.</p> <p style="text-align: justify;">In un importante passaggio del relativo iter motivazionale, il Collegio rileva che l’esperienza applicativa del FOIA nei primi tre anni dalla relativa introduzione – siccome emerge dai dati pubblicati dal Dipartimento della funzione pubblica - rivela un uso “<em>normale</em>” delle istanze di accesso civico; infatti, le istanze pervenute ai Ministeri sono aumentate da 1146 nel 2017 a 1818 nel 2018, con una media, nel secondo anno, di 11 richieste mensili per ministero, assolutamente in linea con la media europea e con un tasso di risposte evase da parte dei ministeri nel termine di legge (trenta giorni), in aumento, dal 74% nel 2017 all’83% nel 2018.</p> <p style="text-align: justify;">E’ ovvio peraltro, chiosa ancora il Collegio, che l’accesso, finalizzato a garantire, con il diritto all’informazione, il buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), non può finire per intralciare proprio il funzionamento della PA stessa, sicché il relativo esercizio deve rispettare il canone della buona fede e il divieto di abuso del diritto, in nome, anzitutto, di un fondamentale principio solidaristico (art. 2 Cost.): in sostanza, i cittadini possono pretendere (“<em>pretesa sociale</em>”) di accedere in via generalizzata (salvi i limiti previsti dalla legge) agli atti delle singole Amministrazioni al fine di assicurare un controllo democratico sull’attività pubblica, ma ciò sempre nell’ottica della c.d. buona fede oggettiva.</p> <p style="text-align: justify;">Su questo crinale, il diritto di accesso civico generalizzato (atteggiantesi a pretesa sociale), se ha un’impronta essenzialmente personalistica, quale esercizio di un diritto fondamentale, conserva per l’Adunanza una connotazione solidaristica, nel senso che l’apertura della pubblica amministrazione alla conoscenza collettiva è funzionale alla disponibilità di dati di affidabile provenienza pubblica per informare correttamente i cittadini ed evitare il propagarsi di pseudoconoscenze e pseudocoscienze a livello diffuso, in modo – come è stato efficacemente detto – da «<em>contribuire a salvare la democrazia dai suoi demoni, fungendo da antidoto alla tendenza</em> […] <em>a manipolare i dati di realtà</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Sarà così – conclude sul punto il Collegio - possibile e doveroso evitare e respingere: richieste manifestamente onerose o sproporzionate e, cioè, tali da comportare un carico irragionevole di lavoro idoneo a interferire con il buon andamento della pubblica amministrazione; richieste massive uniche (v., sul punto, Circolare FOIA n. 2/2017, par. 7, lett. d; Cons. St., sez. VI, 13 agosto 2019, n. 5702), contenenti un numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi; richieste vessatorie o pretestuose, dettate dal solo intento emulativo, da valutarsi ovviamente in base a parametri oggettivi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.79 in tema di processo locatizio che, in un pertinente passaggio motivazionale, afferma come nel caso di specie non appaia pertinente il riferimento da parte del Tribunale rimettente al parametro di cui all’art. 2 Cost., e quindi a un’assunta violazione del canone di solidarietà nell’ambito del rapporto negoziale, poiché il principio di buona fede oggettiva, che pure ne permea la disciplina anche nella fase esecutiva, nemmeno può venire in rilievo quando a fronte di un inadempimento grave di una parte, l’altra abbia esercitato la propria legittima facoltà di agire in giudizio per la risoluzione negoziale, facoltà il cui esercizio, peraltro, di norma preclude l’adempimento tardivo (art. 1453, terzo comma, cod. civ.).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in generale della c.d. buona fede in senso oggettivo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>viene normalmente concepita e trattata come un <em>quid</em> giuridicamente unitario, a differenza di quanto accade con la buona fede “<em>soggettiva</em>”(atteggiamento psicologico), che viene studiata con riguardo a ciascun singolo istituto in cui essa rileva (come nel caso del pagamento al creditore apparente da parte del debitore in buona fede ex art. 1189 c.c. o in quello, non meno paradigmatico, della buona fede del possessore a fini di usucapione abbreviata ex art.1159 c.c.);</li> <li>per buona fede “<em>oggettiva</em>” si fa riferimento alla lealtà e correttezza comportamentale, compendiando dunque essa una regola di comportamento che, laddove violata nell’ambito di un rapporto obbligatorio, può ai sensi dell’art.1175 (e 1375, in caso di obbligazione “<em>contrattuale</em>”) ridondare in inadempimento ai sensi dell’art.1218 c.c.;</li> <li>quella della “<em>buona fede</em>” in senso oggettivo viene peraltro additata quale clausola elastica connotata, <em>ex se</em>, da un elevato grado di flessibilità e di duttilità, cui corrisponde – sul crinale ermeneutico – una ampia discrezionalità dell’interprete e, massime, del giudice, che può tuttavia intenderla in senso “<em>minimalista</em>” (come è accaduto per diversi anni in epoca più remota) attribuendole il solo scopo di illuminare lo scandaglio sull’esatto adempimento delle (sole) obbligazioni siccome già divisate dalle parti, in ossequio al c.d. dogma della volontà onde il contratto obbliga le parti solo a ciò che esse hanno esplicitamente (ed <em>ab interno</em>) voluto, dovendosi prescindere da surrettizie integrazioni di tipo “<em>oggettivo</em>” rifluenti <em>ab externo</em> e, in sostanza, promosse dal giudice di ciascun singolo caso;</li> <li>il fuoco dell’attenzione si è andato nondimeno via via spostando sull’obbligazione come rapporto giuridicamente rilevante: tanto il creditore quanto il debitore vedono modellato e in qualche modo forgiato il contegno reciprocamente “<em>dovuto</em>” al metro dei principi di correttezza, lealtà e probità, tenendo conto non già solo della soddisfazione del proprio interesse ma anche, ed allo stesso tempo, dell’interesse (ciascuno) del proprio interlocutore; senza peraltro trascurare i “<em>terzi</em>” che vengano in qualche modo lambiti dall’attuazione del rapporto obbligatorio: il riferimento che l’art.1175 c.c. fa al “<em>dovere</em>” piuttosto che all’obbligo lascia intendere che tanto il creditore nel ricevere la prestazione quanto il debitore nell’eseguirla devono tenere conto, presidiandoli (“<em>proteggendoli</em>”: obblighi di protezione) di eventuali terzi coinvolti nell’attuazione ridetta del rapporto obbligatorio ridetto;</li> <li>affiora dunque una “<em>clausola generale</em>”, di ascendenza germanica, quale principio sufficientemente flessibile e duttile da garantire al rapporto obbligatorio di “<em>respirare</em>” e di adattarsi – con rilevanza giuridica - ad esigenze le più varie che possano di volta in volta presentarsi, così temperando la (quanto meno potenziale) rigidità delle singole norme legali o convenzionali in ottica di declinata attuazione, nell’ambito interprivato, del canone di solidarietà scolpito all’art.2 della Costituzione;</li> <li>tale clausola generale palesa, in ordine diacronico, due “<em>facce</em>” complementari: f.1) quella più remota della “<em>correttezza</em>”, avvinta alla (sola) fase dinamica del rapporto obbligatorio e dunque connessa alla pertinente attuazione, il comportamento tenuto dalle parti potendo essere scandagliato dal giudice alla luce del pertinente canone (teoria c.d. “<em>valutativa</em>”); la clausola di correttezza appare in quest’ottica come proiezione dei valori espressi dall’ordinamento in un dato contesto spazio-temporale, che vanno realizzati in sede di attuazione di ciascun rapporto obbligatorio e, dunque, di adempimento di ciascuna obbligazione; proprio muovendo da questa premessa, la clausola generale della correttezza consente al giudice di valutare <em>ex post</em> (criterio valutativo di secondo grado) il comportamento delle parti del rapporto obbligatorio al fine di verificare se esse hanno concretamente inverato i valori ordinamentali sintetizzati nella clausola ridetta; la buona fede – in un simile prisma ermeneutico – ne esce tuttavia svalutata, compendiando una sorta di norma sub-primaria che interviene solo se esistono norme primarie che ne autorizzino l’operatività (tesi recessiva); f.2) quella più recente della “<em>buona fede</em>”, quale principio cardine delle relazioni interprivate “<em>contrattuali</em>” e criterio di valutazione non già sub-primario, quanto piuttosto primario - e dunque “<em>di primo grado</em>” - operante già in seno alla fase della negoziazione (trattative) e capace di modificare già <em>ex ante</em> il contenuto (testuale) del singolo regolamento negoziale, giusta predisposizione di specifici ed autonomi obblighi delle parti la cui violazione (in sostanza, un inadempimento) trova del pari specifica risposta di tutela giusta azione di adempimento, risarcitoria e inibitoria (teoria c.d. “<em>precettiva</em>”); la moderna buona fede non si risolve dunque nella mera correttezza valutativa <em>ex post</em>, ma in una autonoma fonte di obbligazioni (quand’anche “<em>accessorie</em>”) dalla quale nascono dunque – già <em>ex ante</em> - obblighi anche non esplicitamente pattuiti dalle parti ed ulteriori rispetto a quelli scaturenti dal regolamento negoziale siccome da loro testualmente negoziato ed alfine “<em>voluto</em>” dalle parti medesime; buona fede dunque in senso “<em>precettivo</em>”, quale fonte autonoma di obbligazioni di varia foggia al cui eventuale inadempimento si può reagire, in veste di attori, anche in ottica demolitoria (risoluzione del contratto, nei limiti dell’art.1455) e, in veste di convenuti, con peculiari eccezioni “<em>atipiche</em>” (prima fra tutte l’<em>exceptio doli generalis</em>); volendo - segnatamente - elencare tali obblighi “<em>ulteriori ed autonomi</em>”, seppure senza pretesa di esaustività, si distinguono: f.2.1) obblighi di informazione e di avviso; f.2.2) obblighi di corretto esercizio di poteri privati discrezionali; f.2.3) obblighi di tollerare modifiche alla prestazione della controparte che non siano tali da comprometterne la sostanziale utilità nell’interesse del creditore; f.2.4) obblighi di modifica del proprio comportamento in sede di esecuzione del contratto, e così via;</li> <li>la teoria “<em>valutativa</em>” e quella “<em>precettiva</em>” ridette evocano la distinzione che tradizionalmente campeggia in termini di rapporti tra interpretazione (anche estensiva) ed integrazione (cui in genere viene ricondotta l’analogia): ad una buona fede meramente “<em>interpretativa</em>” – e dunque riduttivamente assunta – si giustappone una buona fede “<em>integrativa</em>”, capace come tale di generare obbligazioni autonome, cui sono connesse prestazioni autonome, adempimenti (o inadempimenti) autonomi ed autonomi strumenti di reazione quanto a pertinente tutela giurisdizionale;</li> <li>la buona fede in senso “<em>precettivo</em>”, nel relativo atteggiarsi a potenziale fonte integrativa di obblighi in seno da un rapporto precostituito, dà la stura sul crinale patologico ad un inadempimento del soggetto (massime, del debitore) “<em>in mala fede oggettiva</em>” che – quando pubblico – si identifica con la PA compendiando un “<em>eccesso di potere</em>” ex art.97 Cost., palesandosi il singolo apparato pubblico incapace di garantire il “<em>buon andamento</em>” e l’imparzialità della propria azione, come dimostra la stessa possibilità per il privato interlocutore di invocarne il risarcimento del danno (se del caso, financo sganciato dall’annullamento dell’atto: art.30 del c.p.a.) a titolo di tutela per equivalente che si affianca alla classica tutela demolitoria in forma specifica (la quale ultima, nondimeno, può a propria volta rilevare – laddove non tempestivamente attivata – ai sensi dell’art.1227 c.c., e dunque a danno del “<em>creditore</em>” privato).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare del principio di buona fede oggettiva “<em>precettiva</em>” in rapporto a tipologia di regole e tutele?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, il fatto che la buona fede non sia solo uno strumento valutativo del rapporto tra le parti, giungendo piuttosto ad integrarlo in ottica “<em>precettiva</em>” (fonte di obblighi autonomi), può sospingere ad assumere un contratto invalido quando della buona fede se ne siano violati i canoni; in tal modo, la buona fede viene vista quale regola di validità del contratto, assai più che come regola di comportamento delle parti che lo animano, onde – sul crinale della tutela – deve parlarsi di invalidità del contratto stesso assai più che di pertinente risoluzione per inadempimento; ciò stante la stretta connessione che avvincerebbe l’art.1175 c.c. all’art.1322, comma 2, c.c., onde l’autonomia contrattuale va assunta come strumento per realizzare fini di natura solidaristica da scandagliare al metro della correttezza, con l’ulteriore precipitato della invalidità di un contratto dal quale affiorino, per l’appunto, profili di “<em>scorrettezza</em>” di una parte verso l’altra; proprio il nesso tra gli articoli ridetti consente di predicare – in questo prisma ermeneutico - la nullità virtuale, ex art.1418, comma 1, c.c., di un contratto che – quand’anche formalmente valido – si palesi alfine sostanzialmente scorretto e, dunque, “<em>ingiusto</em>”(tesi minoritaria e più remota); sono regole di validità – espressione del c.d. dogma della volontà - quelle che fissano i requisiti strutturali dell’atto negoziale e, muovendosi <em>ex ante</em>, orientano le parti sul modo corretto di addivenire ad una valida conclusione del negozio stesso giusta esplicitazione, del pari corretta, delle volontà reciproche; si tratta di regole “<em>statiche</em>”, diretta espressione del principio di legalità, che hanno l’obiettivo di garantire - in via immediata e diretta - la certezza dei rapporti giuridici (presidiando la conformità del concreto regolamento di interessi, siccome divisato dalle parti, ad un precostituito schema legale), e solo indirettamente la giustizia sostanziale dei pertinenti rapporti; dal punto di vista dell’autorità giudicante, quando si discorre di regole di validità si fa riferimento a disposizioni precise,”<em>tipiche</em>” (nell’ottica della certezza del diritto), poste in via immediata e diretta dalla legge, che il giudice deve limitarsi ad applicare, d’ufficio (si pensi alla nullità) o su sollecitazione delle parti; dalla violazione di simili regole di comportamento – che incidono sulla “<em>genesi</em>” del negozio - discende dunque la nullità (o, nei casi meno gravi, l’invalidità) del negozio stesso;</li> <li>per diversa opzione ermeneutica, all’opposto, la buona fede non serve a scandagliare la validità del contratto (e, dunque, la pertinente giustezza sostanziale), quanto piuttosto il comportamento delle parti che quel contratto sono chiamate ad eseguire (o che quel rapporto obbligatorio sono chiamate ad attuare), giusta integrazione del pertinente contenuto con obblighi ulteriori diretti alle parti stesse ed incidenti sui rispettivi comportamenti dovuti; la singola prestazione può risultare modificata alla luce della buona fede, onde renderla maggiormente coerente con l’interesse del creditore che essa deve realizzare, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio di chi deve eseguirla, dovendosi realizzare l’assetto di interessi divisato dalle parti giusta contegni non eccessivamente (e gratuitamente) rigidi, ma “<em>in buona fede</em>” e “<em>corretti</em>”, che possono essere controllati secondo il pertinente metro sfociando non tanto in invalidità contrattuali quanto, piuttosto, in inadempimenti sanzionabili, con conseguente atteggiarsi della buona fede oggettiva a regola di condotta delle parti, e non già a regola di validità del negozio tra esse intercorso (tesi più recente e maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza); sono regole di comportamento quelle che – temperando gli effetti della volontà - guardano, in una prospettiva maggiormente <em>ex post</em>, alle regole comportamentali appunto che le parti sono chiamate a reciprocamente osservare, misurando la legittimità dell’esercizio del potere affidato ad una parte nei confronti dell’altra; si tratta di regole “<em>dinamiche</em>” in cui il principio di legalità rileva in via indiretta, e che hanno l’obiettivo di garantire piuttosto - in via immediata e diretta - la “<em>giustizia sostanziale</em>” dei rapporti giuridici attraverso un controllo di come ciascuna parte “<em>esercita</em>” i propri poteri (al metro, nel caso di specie, della c.d. correttezza); dal punto di vista dell’autorità giudicante, quando si discorre di regole di comportamento, è il giudice che deve evincere dal principio di correttezza e buona fede la regola di comportamento – “<em>atipica</em>”, perché norma sociale di volta i volta “<em>giuridicizzata</em>” - imposta a ciascuna parte, senza poterla ritrarre direttamente dalla legge, con possibilità – in caso di pertinente violazione concretamente accertata – di condannare il responsabile al risarcimento del danno (se del caso, previa risoluzione del contratto per inadempimento); dalla violazione delle regole di comportamento – che incidono sullo “<em>svolgersi</em>” del negozio - discende responsabilità contrattuale o, se del caso, precontrattuale di chi le perpetra; ove tali regole di comportamento impongano alle parti di comportarsi secondo correttezza, palesandosi come tali avvinte al principio costituzionale della solidarietà sociale, la tutela che alla pertinente violazione fa seguito non è di tipo demolitorio, quanto piuttosto conservativo (come accade nei negozi annullabili, che restano efficaci se il vizio della volontà non viene azionato – in presenza dei requisiti previsti <em>ex lege</em> – dalla parte che vi ha interesse), rimanendo sempre salvo il diritto del soggetto inciso al risarcimento dei danni che, nel caso della violazione di doveri comportamentali (con particolare riguardo a quello di correttezza e buona fede), appaiono legati in guisa consistente alle circostanze del singolo caso concreto.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare dei c.d. obblighi di protezione e del c.d. abuso del diritto?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>quanto agli obblighi di protezione, nessuna norma di legge li definisce o comunque ne parla in senso esplicito;</li> <li>ne è affiorata tutta la consistenza e la pregnante consapevolezza da quando – anche sulla base della spinta della dottrina - la buona fede ha assunto un valore precettivo, e non già meramente valutativo, forgiando obblighi autonomi rispetto a quelli previsti dalla singola fonte della pertinente obbligazione;</li> <li>ciascun “<em>obbligo di protezione</em>” sembra trovare una propria foggia in ragione dello specifico rapporto cui è avvinto, circostanza che ha impedito alla dottrina e alla giurisprudenza di estrapolare una definizione univoca e generalizzante;</li> <li>sorto un rapporto obbligatorio, l’obbligo di protezione – nella pertinente economia, tanto che si tratti di obbligo nascente da contratto che da altra fonte “<em>atipica</em>” (art.1173 c.c.), con particolare riguardo al c.d. “<em>contatto sociale qualificato</em>” di origine germanica - ha ad oggetto la salvaguardia della sfera giuridica del proprio interlocutore, onde ciascun soggetto del ridetto rapporto obbligatorio è tenuto a scongiurare che dal proprio comportamento consegua un pregiudizio al ridetto interlocutore;</li> <li>la <em>sedes materiae</em> dalla quale è via via affiorato il concetto di obbligo di protezione appare essere, <em>ab ovo</em>, quella della c.d. responsabilità precontrattuale, ad opera massime dei giuristi tedeschi (BGB), con particolare riguardo a <em>Jhering</em>: avuto l’abbrivio una data trattativa precontrattuale, viene scorta la presenza imprescindibile di un obbligo protettivo della “<em>controparte</em>” in capo a ciascuno dei protagonisti di tale trattativa; obbligo protettivo che, laddove violato, implica una responsabilità del soggetto agente per i danni cagionati al proprio interlocutore “<em>negoziante</em>”: se non vi fosse una correttezza e una buona fede oggetto di uno specifico “<em>dovere</em>” di ciascuna delle parti, il responsabile non potrebbe rispondere, osserva lo <em>Jhering</em>, né a titolo aquiliano (che peraltro in Germania è tipico, e non già atipico come in Italia), né a titolo “<em>contrattuale</em>”. Muovendo da queste premesse e portandole ad ulteriori conseguenze, secondo il giurista tedesco <em>Stoll</em> è possibile isolare una categoria, per l’appunto, di “<em>obblighi di protezione</em>”, onde il rapporto tra debitore e creditore non si risolve nel solo c.d. obbligo “<em>di prestazione</em>” (che, quale obbligazione “<em>principale</em>”, pure polarizza in qualche modo il rapporto obbligatorio sul crinale della soddisfazione dell’interesse creditorio) ma anche, per l’appunto, in “<em>collaterali</em>” obblighi “<em>di protezione</em>” in cui la salvaguardia “<em>altrui</em>” si atteggia a guisa di fonte atipica di tali obblighi;</li> <li>in Germania come in Italia, la figura degli obblighi “<em>di protezione</em>” (posti accanto all’obbligo “<em>di prestazione</em>”) recano seco la eventuale responsabilità da inadempimento riconoscibile in capo a chi si macchi della pertinente violazione, sottraendo spazio al c.d. illecito extracontrattuale che del resto, in un mondo sempre più interconnesso, già di per sé appare recessivo rispetto a quello da c.d. obbligo precostituito: si parla in proposito in dottrina di “<em>esodo dalla responsabilità aquiliana</em>” stante, proprio sul crinale della natura della pertinente responsabilità, il particolare rapporto tra debitore danneggiante e creditore danneggiato che viene a configurarsi; muovendo dalla tutela della sfera giuridica patrimoniale altrui, ad una nota e tradizionale dicotomia (che corrisponde, sul crinale patologico, alla diade: illecito “<em>contrattuale</em>” – illecito extracontrattuale o aquiliano) viene via via a sovrapporsi una nuova tripartizione onde: f.1) ciascun soggetto attivo dell’ordinamento, dinanzi al patrimonio “<em>in atto</em>” degli altri consociati, vive la libertà di rispettarlo o di vulnerarlo, circostanza quest’ultima violativa del canone romanistico di <em>alterum non laedere</em>; qui campeggia il “<em>non facere</em>”, dalla cui violazione discende responsabilità aquiliana; f.2) un soggetto attivo dell’ordinamento (debitore), dinanzi al patrimonio “<em>in potenza</em>” di un altro consociato (creditore), vive lo specifico obbligo di soddisfarne l’interesse giuridicamente protetto (credito, pretesa: art.1174 c.c.) giusta apposito sforzo diligente (art.1176 c.c.), ovvero di non soddisfarlo, circostanza quest’ultima violativa del canone romanistico di <em>suum cuique tribuere</em>; qui campeggia il “<em>facere</em>”, dalla cui violazione discende responsabilità “<em>contrattuale</em>”; f.3) conformemente ad una (nuova) terza categoria, il destinatario dell’obbligo di protezione è chiamato ad un “<em>non facere faciendo</em>”, essendo tenuto, in sede esecutiva e di adempimento (“<em>faciendo</em>”), a non recare pregiudizio (<em>non facere</em>) al proprio interlocutore - oltre che ad eventuali terzi: ecco perché talvolta si discorre di “<em>doveri</em>” di protezione – ; con ciò esercitando, nel prisma della buona fede, correttezza e solidarietà sociale, un “<em>facere con diligentia</em>”, che consente di assumergli applicabile, al metro della responsabilità, la disciplina dell’illecito “<em>contrattuale</em>” in luogo di quella dell’illecito aquiliano;</li> <li>contermine ai c.d. obblighi di protezione è il c.d. abuso del diritto (IN ORDINE AL QUALE SI RINVIA AL PERTINENTE CRONO-PERCORSO) che affonda le proprie radici nella medesima matrice giuridica (principio di solidarietà, massime nella relativa declinazione economico-sociale: art.2 Cost.) e che si compendia in un contenuto assimilabile (ma nella versione negativa e patologica) a quello dei ridetti obblighi di protezione: qualora il titolare di una situazione giuridica soggettiva di vantaggio la eserciti con modalità o finalità tali da far luogo ad un pregiudizio ingiustificato o comunque sproporzionato agli interessi del proprio interlocutore (così “<em>abusandone</em>”), egli finisce col violare la regola che impone ad una parte di tenere nella debita considerazione gli interessi dell’altra, nel limite dell’apprezzabile sacrificio alla propria sfera giuridica e dunque, in sostanza, la regola della correttezza e della buona fede oggettivamente intesa; circostanza che può implicarne, a seconda dei casi, responsabilità civile ovvero – sul crinale processuale – financo concreta privazione della tutela giuridica astrattamente accordata dal sistema alla ridetta situazione soggettiva di vantaggio (c.d. “<em>abuso del processo</em>”, meglio inquadrabile sul piano tecnico come abuso del diritto di azione); il prevalere della declinazione “<em>precettiva</em>” della buona fede consente peraltro alla giurisprudenza di riplasmare il ruolo del giudice in sede di governo del contratto, sostanzialmente abilitandolo a ricondurre il ridetto contratto ad equità, massime in presenza di fattispecie di c.d. abuso del diritto perpetrata da una delle parti ai danni dell’altra.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa consiste il c.d. contatto sociale qualificato, e cosa lo avvince alla buona fede in senso oggettivo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>non si configura alcun contratto formalmente inteso;</li> <li>affiora, nondimeno, un rapporto che avvince due (o più) soggetti, almeno uno dei quali tecnicamente qualificato;</li> <li>il soggetto senza qualificazione tecnica (ad esempio, un paziente; uno scolaro) fa affidamento sullo sforzo diligente, nel proprio interesse (ad esempio, la cura di una malattia; l’educazione scolastica), da parte del soggetto tecnicamente qualificato (negli esempi fatti, un medico o, rispettivamente, un insegnante);</li> <li>il contatto “<em>qualificato</em>” dalla competenza tecnica tra i soggetti di questo rapporto si atteggia a fonte atipica di obbligazione ai sensi dell’art.1173 c.c. (“<em>qualunque altro atto o fatto idoneo</em>”;</li> <li>trattandosi di una fonte (atipica) di obbligazioni, il contatto qualificato è idoneo a produrre anche obblighi di protezione, che sono tipicamente inquadrabili – per dottrina e giurisprudenza – nell’ambito della c.d. buona fede oggettiva;</li> <li>più nel dettaglio, il soggetto tecnicamente qualificato (professionista: il medico, l’insegnante e così via) è chiamato ad uno sforzo diligente idoneo a “<em>proteggere</em>” la controparte senza competenza tecnica, onde scongiurare che questi soffra dei pregiudizi;</li> <li>qualora tale eventualità patologica si verifichi (per gli alunni è ad esempio il caso delle autolesioni procuratesi in ambito scolastico), il soggetto tecnicamente qualificato è tenuto a risarcire il danno secondo la disciplina dell’inadempimento e, dunque, ex art.1218 c.c., e non già ex art.2043 c.c., non trattandosi di illecito imputabile ad un “<em>passante</em>” quanto piuttosto, ed appunto, ad un professionista con il quale il danneggiato è entrato in “<em>contatto</em>” qualificato;</li> <li>una delle fattispecie in cui rileva il c.d. “<em>contatto socialmente qualificato</em>” è – sul fronte pretorio – quello della banca (professionista) che paghi un assegno “<em>non trasferibile</em>” a soggetto che non sia legittimato a riscuoterlo, così recando pregiudizio a chi invece è titolare della ridetta legittimazione a riscuotere.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare del rapporto tra buona fede oggettiva ed obblighi di informazione?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’informazione completa, esaustiva e corretta è imprescindibile presupposto per l’esercizio della libertà contrattuale di ciascun consociato;</li> <li>strutturali (o funzionali) asimmetrie e squilibri informativi sono alla base di possibili ingiustizie negoziali, massime nei rapporti contrattuali che vedono protagonisti dei consumatori o, comunque, delle parti in posizione di maggior debolezza rispetto al proprio interlocutore;</li> <li>specie nella fase c.d. precontrattuale, campeggia l’obbligo di informazione quale declinazione della c.d. buona fede oggettiva, dovendo le circostanze rilevanti in ottica contrattuale essere rese vicendevolmente note dalle parti che intrecciano trattative, incorrendosi nel caso opposto a reticenza; ciò anche in considerazione della circostanza onde ciascuna parte della trattativa - massime se strutturalmente “<em>più debole</em>” dell’altra, come nel caso del consumatore - fa specifico affidamento sul comportamento corretto del proprio interlocutore, specie ove quest’ultimo sia un “<em>professionista</em>”;</li> <li>vanno comunicate al proprio interlocutore, più in specie, tutte le circostanze idonee ad incidere <em>ex ante</em> sulla validità, sulla efficacia o sull’utilità del futuro contratto (che è ad esempio inutile quando lo si sottopone ad una condizione risolutiva che una delle parti sappia di certo, futuro avveramento), nonché le cause di (anche parziale) inadempimento <em>ex post</em> del contratto medesimo (come accade allorché il venditore, in sede di trattative, ometta di informare il compratore dei vincoli che sa gravanti sulla cosa venduta), mentre esorbita dagli obblighi di informazione precontrattuale tutto ciò che impinge sulla convenienza dell’affare che si va a concludere (e, dunque, sul “<em>merito</em>” dell’affare medesimo);</li> <li>la violazione degli obblighi di informazione precontrattuale può recare seco una tutela demolitoria in forma specifica, giusta annullamento dello stipulato contratto in caso di induzione in errore (dolo contrattuale), in aggiunta o in alternativa ad una tutela per equivalente; con riguardo a quest’ultima: e.1) di risarcimento del danno parla l’art.1338 c.c. in tema di conoscenza o conoscibilità delle cause di invalidità di un contratto; e.2) di “<em>solo</em>” risarcimento del danno parla l’art.1440 c.c. in tema di dolo incidente, laddove i raggiri perpetrati da una parte a danno dell’altra non siano stati tali da determinare il consenso, onde il contratto è valido benché senza i ridetti raggiri esso sarebbe stato concluso a condizioni diverse, e tuttavia il contraente “<em>in mala fede</em>” (quello che ha per l’appunto perpetrato i raggiri, sub specie di violazione reticente di doverosi obblighi di informazione) risponde dei danni;</li> <li>anche se la fase pre-contrattuale è quella dove gli obblighi di informazione corretta e leale campeggiano con maggiore rilevanza, tali obblighi sono presenti anche nella successiva sequenza post-contrattuale e, dunque, nella fase di esecuzione di un contratto già concluso; sovente infatti la corretta attuazione del programma contrattuale siccome divisato dalle parti richiede informazioni specifiche che, ove non rese, possono tradursi in inadempimento di non scarsa importanza, con precipitati risolutivi sul contratto e con corredo di risarcimento del danno.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Recentemente con riguardo a quali temi la giurisprudenza ha lambito la tematica della c.d. buona fede in senso oggettivo?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il pagamento dell’assegno con clausola “<em>non trasferibile</em>” a soggetto non legittimato a riscuoterlo, con riguardo alla responsabilità ascrivibile alla banca negoziatrice;</li> <li>il pagamento con assegno circolare piuttosto che con <em>pecunia</em>, con riguardo alla possibilità di estinguere obbligazioni pecuniarie ed all’eventuale rifiuto del creditore;</li> <li>gli obblighi di informazione, con particolare riguardo alla pertinente violazione: c.1) in ambito di assicurazione professionale (c.d. clausola di regolamento del premio): in questi contratti l’assicurato è obbligato a pagare all’assicuratore un premio minimo fisso in via anticipata e provvisoria, nonché un maggior premio alla scadenza di ciascun periodo assicurativo, calibrato sul pertinente mutamento del rischio trasferito all’assicuratore; tale maggiorazione di premio si determina sulla scorta di elementi che possono variare in ciascun periodo assicurativo, e che l’assicurato (nel cui patrimonio conoscitivo entrano) si impegna a trasmettere periodicamente all’assicuratore proprio al fine del calcolo della maggiorazione di premio e del relativo “<em>regolamento</em>” definitivo (compendiantesi nella somma tra premio “<em>fisso</em>” e premio “<em>variabile</em>”); laddove tale comunicazione in buona fede di informazioni supplementari all’assicuratore non intervenga (per scorrettezza dell’assicurato), si pone il problema se la copertura assicurativa finisca con l’essere automaticamente sospesa ai sensi dell’art.1901 c.c., soluzione esclusa dalle SSUU nel 2007; c.2) in ambito di mediazione immobiliare: l’art.1759 c.c. prevede l’obbligo per il mediatore di comunicare ai protagonisti del potenziale affare ogni circostanza a lui nota che possa influire sulla conclusione dell’affare ridetto; quando poi il mediatore operi in ambito immobiliare, ai sensi della legge 39.89 egli - al fine di essere iscritto nel pertinente albo e poter conseguentemente vantare il diritto alla provvigione per l’affare concluso - deve possedere una serie di requisiti “<em>professionalizzanti</em>” (e deve ad un tempo essere scevro da altri, onde non rivelarsi all’uopo incompatibile); proprio perché si tratta, nella sostanza, di un professionista, i relativi obblighi di fornire una “<em>corretta informazione</em>” sostanziano – laddove inadempiuti (ed anche alla luce della teoria del c.d. contatto sociale) - una responsabilità del mediatore alla luce del canone della correttezza e buona fede; ciò sia nel caso in cui fornisca alle parti informazioni non veritiere o comunque non controllate, sia nel caso in cui ometta di fornire informazioni da lui conosciute o conoscibili con la normale diligenza professionale (e che non afferiscano ad indagini tecnico giuridiche peculiari); sul versante dei protagonisti del potenziale affare, per giurisprudenza e dottrina maggioritaria la ridetta responsabilità mediatoria immobiliare si configura tanto se essi hanno alfine concluso un affare, quanto se essi (sempre ovviamente quale precipitato della condotta scorretta del mediatore) tale affare non abbiano alfine concluso; c.3) in ambito di responsabilità notarile per omessa informazione alle parti in ordine a circostanze rilevanti con riguardo al contratto che si va a stipulare (e, prima ancora, per omesse visure ed accertamenti dovuti): qui, alla giurisprudenza che fa prevalente riferimento al canone della diligenza professionale ex art.1176, comma 2, c.c., si giustappone la dottrina orientata a valorizzare, piuttosto, il canone della correttezza e buona fede ex art.1175 e 1375 c.c., assumendo quello della diligenza professionale quale parametro alla stregua del quale valutare se l’inadempimento sia colposo o meno, mentre l’accertamento – più a monte dell’inadempimento stesso del notaio non può non rimontare al ridetto principio della correttezza e buona fede.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il principio di buona fede in senso oggettivo è peculiare dell’ordinamento italiano?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>no; esso è presente anche in altri ordinamenti giuridici che, in qualche caso, hanno fatto da apripista in ottica di maggior valorizzazione del pertinente canone nell’ordinamento italiano;</li> <li>in ambito anglosassone (<em>common law</em>), tipicamente pretorio, sono le decisioni delle singole Corti ad essere sovente ispirate in modo evidente al canone della buona fede oggettiva (“<em>good faith</em>”), massime in ambito di controllo giurisdizionale, in prospettiva <em>ex ante</em>, sulla progressiva formazione del consenso tra le parti (c.d. “<em>negotiation</em>”); ad un risultato analogo si perviene anche, guardando <em>ex post</em> (e, dunque, a contratto concluso), giusta un compendio di precetti ricondotti all’equità e che richiamano, nella loro sintesi complessiva, la clausola generale di buona fede di tipo continentale.</li> <li>nell’ordinamento tedesco, sulla scorta del paragrafo 242 del BGB, si parla di c.d. “<em>Treu un Glaube</em>”, ovvero della regola di comportamento secondo buona fede, che può implicare anche una modificazione <em>ope iudicis</em> del singolo rapporto obbligatorio (fondata sulla ridetta clausola generale) al fine di adeguarlo a circostanze sopravvenute.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>