Massima
In un rapporto giuridico obbligatorio la figura del debitore, da identificarsi in colui che è chiamato a soddisfare – attraverso la prestazione e l’adempimento – l’interesse del creditore, può mutare su iniziativa del debitore originario (delegazione), del nuovo debitore (espromissione) ovvero sulla base di un accordo intercorso tra entrambi (accollo); in tutti e tre i casi gli effetti possono essere liberatori ovvero cumulativi, in questa seconda ipotesi (a differenza che nella prima) aggiungendosi al vecchio un nuovo debitore. Non sempre facile appare poi tracciare i confini con altre figure civilistiche limitrofe, tanto in materia di obbligazioni e contratti quanto in tema di garanzie personali, potendo peraltro talvolta le tre figure intrecciarsi tra loro, con innesto dell’una nell’altra, e con ulteriori complicazioni derivanti dalla natura pregressa o futura del debito “ambulatorio”, anche nella relativa, differente consistenza ab origine in termini di soggezione.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
La codificazione liberale Zanardelli non disciplina l’accollo (che viene comunque isolato dalla dottrina più illuminata), mentre in tema di delegazione ed espromissione resta nella sostanza fedele alla tradizione romanistica, disciplinando implicitamente le due figure in seno alla disciplina della novazione c.d. soggettiva. L’art.1267 del codice, dedicato alla novazione, distingue infatti la novazione oggettiva di cui al n.1 (quando il debitore contrae verso il suo creditore un nuovo debito, il quale viene sostituito all’antico che rimane estinto) dalle due tipologie di novazione soggettiva, rispettivamente, passiva (n.2: quando un nuovo debitore è sostituito all’antico, il quale viene liberato dal creditore) e attiva (n.3: quando in forza di una nuova obbligazione un nuovo creditore viene sostituito all’antico, verso cui il debitore rimane liberato). Mentre la novazione soggettiva passiva richiama le attuali figure della delegazione e dell’espromissione (oltre che dell’accollo), quella attiva richiama invece la cessione del credito. Per quanto concerne la novazione soggettiva passiva, vanno additati più in specie gli articoli 1270 – onde la novazione che si fa col sostituire un nuovo debitore può effettuarsi tra detto nuovo debitore ed il creditore senza il consenso del primo debitore: si tratta della espromissione – e 1271 alla cui stregua la “delegazione” (espressamente additata dunque come tale) attraverso la quale un debitore assegna al creditore un altro debitore, il quale si obbliga verso il creditore medesimo, non produce novazione se il creditore non ha dichiarato espressamente la propria volontà di liberare il debitore originario che ha fatto la delegazione (c.d. delegante).
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il successivo 21 aprile), che – come chiarisce la Relazione – scongiura ulteriori confusioni tra la novazione e le diverse figure della delegazione e dell’espromissione. La novazione nel nuovo codice è esclusivamente oggettiva ed è disciplinata dagli articoli 1230 e seguenti quale modo estintivo dell’obbligazione (non satisfattivo) diverso dall’adempimento, mentre all’art.1235 – norma di chiusura rubricata “novazione soggettiva” – si dispone che quando un nuovo debitore viene sostituito a quello originario che viene liberato, si osservano le norme contenute nel capo VI del medesimo titolo (articoli 1268 e seguenti), e dunque proprio le norme sulla delegazione, sull’espromissione e sull’accollo, ricevendo anche quest’ultimo una specifica disciplina. In sostanza, tutte le volte che si è in presenza di una delegazione, di una espromissione e di un accollo “liberatori” rispetto al debitore originario, lì si ha novazione soggettiva “passiva”, la cui disciplina transita dunque proprio nell’area di queste tre figure fondamentali in tema di ambulatorietà del lato passivo del debito. Interessante il n.589 della Relazione al codice, laddove si afferma in modo esplicito che l’accollo (esterno) costituisce una tipica applicazione del contratto a favore di terzo di cui all’art.1411 e seguenti c.c. Significativo, in ottica commerciale, anche quanto dispone l’art.2560, rubricato “debiti relativi all’azienda ceduta”, secondo il cui primo comma l’alienante di un’azienda non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta ed anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito: si tratta di una forma di accollo cumulativo ex lege dei debiti pregressi aziendali che, laddove il trasferimento abbia ad oggetto un’azienda commerciale (comma 2), concerne i soli debiti (pregressi) che risultano dai libri contabili obbligatori, e che vede in veste di accollante l’acquirente (o cessionario) di azienda, in veste di accollato l’alienante (o cedente) dell’azienda medesima ed in veste di creditori quei terzi che risultino tali in base a titoli anteriori alla cessione, e che possono sempre consentire alla liberazione dell’alienante/cedente, in questo caso conferendo all’accollo effetti liberatori.
1943
Il 5 maggio esce la sentenza della Cassazione n.1053 alla cui stregua l’accollo (esterno) configura un contratto a favore di terzi, onde esso si perfeziona sulla scorta del solo accordo tra nuovo debitore accollante e vecchio debitore accollato, mentre l’adesione del creditore a tale accordo ha una funzione che non attiene alla relativa perfezione (rendendo piuttosto irrevocabile la stipulazione a proprio favore).
1948
Viene varata la Costituzione repubblicana secondo la quale, ai sensi dell’art.41, l’iniziativa economica privata è libera, non potendosi tuttavia svolgere in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; viene demandato alla legge di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Si tratta di una norma che fonda l’autonomia negoziale dei privati – anche in termini di possibilità di forgiare contratti atipici ai sensi dell’art.1322 c.c. – e, ad un tempo, ne richiama i pertinenti limiti, orientati a tutelare interessi costituzionalmente rilevanti sia dal punto di vista individuale che collettivo.
1970
Il 21 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.122 che abbraccia – in tema fallimento e di delegazione – la c.d. teoria atomistica alla cui stregua la fattispecie delegatoria non configura un unico negozio trilaterale, quanto piuttosto tre negozi bilaterali distinti ma collegati tra loro; si tratta di una opzione ermeneutica che, per la Corte, sembra meglio aderente alla struttura (bilaterale appunto) del rapporto obbligatorio.
1973
Il 12 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.676 che si occupa della delegazione cumulativa astratta, nella quale cioè non vi è richiamo ai rapporti di provvista e di valuta: si assiste ad un collegamento tra incarico del delegante e promessa del delegato nei confronti del creditore delegatario il quale ultimo, laddove abbia accettato l’obbligazione del terzo delegato, non può rivolgersi al debitore originario delegante se prima non ha richiesto l’adempimento, per l’appunto, al nuovo debitore delegato, secondo la regola del c.d. beneficium ordinis.
1979
Il 23 febbraio esce la sentenza della Cassazione n.2663 che ribadisce come l’accollo esterno costituisca una tipica applicazione di contratto a favore di terzo di cui all’art.1411 e seguenti c.c.
Il 18 settembre esce l’importante sentenza della III sezione della Cassazione n.4799 alla cui stregua in caso di delegazione “pura” o astratta l’obbligazione del nuovo debitore delegato nei confronti del creditore delegatario prescinde totalmente dai vizi dei rapporti sottostanti: fa eccezione la fattispecie della nullità, non già solo del rapporto di valuta tra debitore originario delegante e creditore delegatario, esplicitamente richiamato dal codice all’art.1271 c.c. (laddove, al comma 2, parla di “nullità” di tale rapporto), ma anche – per “derivazione” – di quello di provvista tra debitore originario delegante e nuovo debitore delegato, tanto che la Corte parla di nullità della doppia causa (un rapporto di valuta nullo inficia la trilateralità dell’operazione “causalmente” additabile come delegazione). Diversa la fattispecie della delegazione c.d. titolata, in quanto le parti dell’operazione delegatoria fanno a quei rapporti espresso riferimento, onde il nesso con i ridetti rapporti di base è ben più stretto e consente al nuovo debitore delegato di opporre al creditore delegatario le eccezioni nascenti dal rapporto di valuta e dunque afferenti alla sussistenza dell’originario diritto di credito vantato dal delegatario nei confronti del delegante; secondo la Corte peraltro la “diversa pattuizione” cui accenna l’art.1271 c.c. consente alle parti di dare rilievo anche al rapporto di provvista, vincolando l’esazione del credito da parte del creditore delegatario alla validità di tale rapporto che – intercorrendo tra vecchio debitore delegante e nuovo debitore delegato – vedrebbe detto creditore originariamente estraneo.
1983
Il 21 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.6935 onde l’espromissione – tanto liberatoria quanto cumulativa – configura sempre un contratto a prestazioni corrispettive tra terzo nuovo debitore espromittente e creditore espromissario, laddove alla prestazione cui si obbliga il nuovo debitore espromittente si giustappone quella del creditore espromissario in termini di liberazione del vecchio debitore espromesso (fattispecie liberatoria) ovvero di degradazione a sussidiaria della relativa responsabilità (fattispecie cumulativa, laddove il creditore espromissario deve comunque prima chiedere al nuovo debitore espromittente e solo poi al vecchio debitore espromesso).
1985
Il 5 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che si pronuncia in tema di patti traslativi del debito di imposta, di natura tributaria, e violazione del principio di capacità contributiva, di cui all’art. 53 della Costituzione, con riferimento alla nullità per violazione di norme imperative (c.d. virtuale) prevista dall’art. 1418 c.c., I comma, nell’ambito dei contratti di mutuo. Nelle SS.UU. n. 5 del 1985, si è in particolare affermato che è nulla – sia ai sensi dell’art. 1418, 1 co., c.c. che per contrasto con l’art. 53 Cost. -, la clausola con la quale -sia pure con effetti limitati al rapporto fra le parti- venga convenuta l’imposizione a carico del mutuatario di quanto il mutuante è tenuto a versare all’erario (nel caso, per IRPEG ed ILOR ) in ragione dello stipulato contratto, stante l’immediato valore vincolante del principio del concorso di tutti alle spese pubbliche alla stregua della rispettiva capacità contributiva fissato dalla norma costituzionale, che si traduce nel divieto inderogabile per il debitore d’imposta -sia diretta che indiretta- di riversare il relativo onere su un altro soggetto, e quindi su patrimonio diverso da quello rispetto al quale è contemplato il prelievo fiscale (v. Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5 ). Nell’occasione le Sezioni Unite hanno argomentato dal rilievo che in base alla previsione di cui all’art. 53 Cost. tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della rispettiva capacità contributiva, e secondo il criterio della progressività dell’imposta. Il sacrificio economico derivante dal pagamento del tributo, e cioè la riduzione patrimoniale conseguente all’adempimento, deve -si è precisato- essere sopportato effettivamente e definitivamente dal soggetto alla cui capacità contributiva si riferisce l’obbligazione, e non già da altri, l’art. 53 Cost. esigendo che ad una determinata capacità contributiva faccia seguito l’adempimento del dovere di concorrere alla spesa pubblica, ed escludendo che tale obbligo possa sorgere in capo a soggetto privo di capacità contributiva; come pure che un soggetto possa accollarsi -anche di fatto- il carico contributivo altrui, essendo contrario all’interesse della collettività che il concorso alla spesa pubblica gravi -anche di fatto- su soggetto diverso da colui che vi è tenuto ex lege, in quanto ogni soggetto dotato di capacità contributiva deve in misura corrispondente contribuire personalmente al costo dei servizi e dei vantaggi sociali. Si è ulteriormente avvertito che nelle imposte dirette (in particolare, IRPEG e ILOR) la correlazione con la capacità contributiva è immediata, sicché più pressante è l’esigenza che il tributo incida effettivamente sul soggetto obbligato per legge, e non su soggetti diversi; segnalandosi essere la rivalsa obbligatoria lo strumento idoneo a far concorrere alla spesa pubblica il titolare della capacità contributiva ogniqualvolta altri adempia alla correlata obbligazione tributaria ( es., sostituto d’imposta). La nullità del patto volto a trasferire ( sia pure senza efficacia nei confronti dello Stato) su altri il peso del proprio dovere di solidarietà sociale di concorrere alla spesa pubblica si è ravvisato trovare ragione nella circostanza che, pur giovandosi dei vantaggi e dei benefici della vita associata, il soggetto obbligato ex lege in tal modo sottrae la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione. Nel considerare inammissibile il patto traslativo d’imposta, in quanto idoneo a consentire al soggetto tenutovi per legge di giovarsi «dei vantaggi e dei benefici della vita associata» sottraendo «la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione», con la sentenza n. 5 del 1985 le Sezioni Unite della Corte hanno dunque considerato in termini generali «vietato e nullo ( ai sensi dell’art. 1418, 1° comma, c.c. e per contrasto con l’art. 53 Cost.>> ) qualunque patto «con il quale un soggetto, ancorché senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soegetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d’imposta diretta che di imposta indiretta».
Il 18 dicembre (a quasi un anno dalle precedenti Sezioni Unite) esce altra sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, la n. 6445, la quale invero si muove in senso difforme dalla pronuncia precedente. Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite della Corte hanno diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito. Pertanto, posto che l’art. 53, I comma, della Costituzione, nel riferimento alle imposte dirette intende assicurare che la ricchezza venga colpita in capo al soggetto che presenta adeguata capacità contributiva, ma si disinteressa dei modi in cui il contribuente che ha pagato recupera ricchezza in misura corrispondente, il patto co cui il mutuatario si obbliga a rimborsare all’ente mutuante quanto da esso pagato a titolo di i.r.p.e.g. e di i.l.o.r.è valido quando la sua efficacia è limitata inter partes, atteso che in tal caso l’imposta afferente al reddito viene comunque corrisposta al fisco dal soggetto che ne è percettore.
1988
*Il 16 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2997 onde l’espromissione – tanto liberatoria quanto cumulativa – configura sempre un contratto a prestazioni corrispettive tra terzo nuovo debitore espromittente e creditore espromissario, laddove alla prestazione cui si obbliga il nuovo debitore espromittente si giustappone quella del creditore espromissario in termini di liberazione del vecchio debitore espromesso (fattispecie liberatoria) ovvero di degradazione a sussidiaria della relativa responsabilità (fattispecie cumulativa, laddove il creditore espromissario deve comunque prima chiedere al nuovo debitore espromittente e solo poi al vecchio debitore espromesso).
1992
Il 27 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.861 alla cui stregua l’accollo costituisce un negozio giuridico avente una finalità autonoma ed una causa a sé stante (generica e tipica: l’estinzione del debito altrui) distinta rispetto a quella del rapporto fondamentale cui accede, onde se il terzo accollante ha assunto un debito altrui (originariamente in capo al debitore accollato) ed il creditore accollatario ha consentito alla liberazione del vecchio debitore (l’accollato appunto), è irrilevante per il creditore medesimo il titolo in forza del quale l’accollo è intervenuto tra accollante e accollato. Importante la presa di posizione onde, sulla scia di parte della dottrina, in ogni ipotesi di accollo cumulativo, e più in generale in ogni ipotesi di solidarietà tra obbligazioni nascenti da fonti diverse, si configura sempre una sussidiarietà nel rapporto tra gli obbligati in solido e dunque è sempre operativo il c.d. beneficium ordinis sulla cui scorta il creditore deve chiedere la prestazione sempre prima al nuovo debitore accollante e solo sussidiariamente al debitore originario: il corollario di questa impostazione ermeneutica è che non soltanto nell’accollo liberatorio (in cui il consenso del creditore appare in effetti imprescindibile), ma anche in quello cumulativo, generandosi comunque un pregiudizio al creditore (che si trova costretto a chiedere l’adempimento al terzo accollante prima di poter tornare a far valere le proprie ragioni contro il debitore originario), è da assumersi imprescindibile il consenso del creditore accollatario in termini di condizione di efficacia dell’accollo esterno nei relativi confronti, dovendo assumersi il ridetto consenso indispensabile affinché l’accollo spieghi l’effetto di attribuirgli una ragione di credito verso il terzo accollante.
1993
Il 01 settembre viene varato il decreto legislativo n.385, testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, il cui art.58 disciplina in modo peculiare la cessione dell’azienda bancaria onde, ai sensi dei comma 2 e 5, la banca cessionaria dà notizia dell’avvenuta cessione mediante relativa iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella G.U. della Repubblica italiana (potendo peraltro la Banca d’Italia stabilire forme integrative di pubblicità); a quel punto i creditori ceduti hanno facoltà, nei successivi 3 mesi, di esigere dal cedente o dal cessionario l’adempimento delle obbligazioni oggetto di cessione, mentre trascorso il ridetto termine trimestrale il cessionario risponde in via esclusiva. In sostanza, a differenza di quanto prescritto dall’art.2560 c.c., in caso di cessione di azienda bancaria l’accollo ex lege è cumulativo solo nei primi 3 mesi dall’iscrizione della cessione nel registro delle imprese, divenendo poi liberatorio per il debitore accollato cedente.
1994
Il 14 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5770 alla cui stregua nella delegazione “pura” (o astratta) l’obbligazione del nuovo debitore delegato nei confronti del creditore delegatario è sganciata dal rapporto sottostante di provvista tra il vecchio debitore delegante ed appunto il nuovo debitore delegato e da quello di valuta tra il vecchio debitore delegante ed il creditore delegatario, onde i vizi di tali rapporti ordinariamente non rilevano e non si verifica una obbligazione trilatera: il creditore delegatario non deve infatti aderire al rapporto di provvista tra delegante e delegato (al quale resta estraneo), e non può d’altronde rifiutare l’adempimento offertogli dal delegato (su incarico del delegante), in quanto il rapporto (di valuta) che egli ha con il delegante è autonomo rispetto al rapporto (di provvista) tra delegante e delegato e ciò implica, ad un tempo, che il nuovo debitore delegato non potrebbe opporgli le eccezioni che invece potrebbe opporgli il vecchio debitore delegante. Ciò tuttavia – precisa la Corte – fatta salva l’ipotesi della c.d. “nullità della doppia causa”, che fa venire meno la funzione della delegazione e appunto la relativa causa: si parla di “nullità della doppia causa” anche se il codice civile, all’art.1271, comma 2, fa riferimento alla sola nullità del rapporto di valuta (tra delegante e delegatario: in sostanza, alla nullità del titolo che fonda il debito originario) che – pur non rendendo nullo in senso relativo (ed automaticamente) il titolo che fonda rapporto di provvista – rende tuttavia nulla in senso assoluto la complessiva operazione delegatoria nella relativa struttura trilaterale.
2000
Il 27 luglio viene approvata la legge n. 212 (c.d. Statuto del contribuente) che, all’art. 8, comma 2, prevede “E’ ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario”.
2004
Il 2 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.4185 che si occupa del principio processuale del divieto di domande nuove in appello, additandolo quale canone di ordine pubblico che, come tale, non può essere sanato dall’accettazione del contraddittorio da parte dell’appellato, spiegando efficacia tale accettazione solo nell’ipotesi di novità di domande proposte in primo grado, laddove il pertinente divieto risponde alla diversa esigenza (derogabile) di tutela della regolarità del contraddittorio; ne consegue per la Corte che è improponibile in appello – giacché integrante domanda nuova – la deduzione di una diversa causa petendi che, per essere fondata sulla prospettazione di nuove circostanze di fatto, determini il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione. Interessante, dal punto di vista sostanziale, la fattispecie addotta innanzi alla Corte: i giudici di appello, nel condannare una società di calcio ed un calciatore al pagamento, in solido tra loro, del compenso per le prestazioni sanitarie effettuate dal medico attore in prime cure a favore del calciatore, hanno assunto l’autorizzazione data dalla società all’attore di effettuare le prestazioni nei confronti del calciatore configurare un’espromissione cumulativa con cui, ai sensi dell’art. 1272 c.c., la società stessa si è assunta nei confronti del medico creditore, in aggiunta, il debito altrui (del calciatore appunto); la Corte, nel formulare il principio processuale richiamato, cassa la decisione d’appello rilevando la novità della causa petendi dedotta in appello posto che in primo grado l’attore, a fondamento della domanda, aveva invece fatto perno sull’accollo cumulativo del debito – con adesione del medico creditore medesimo – intercorso fra il debitore (il calciatore) e la società (il terzo), laddove l’espromissione (figura diversa) postula piuttosto l’assunzione del debito altrui da parte del terzo nei confronti del creditore.
Il 24 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9982 alla cui stregua in presenza di un accollo cumulativo (ovvero di un accollo esterno non liberatorio per il debitore accollato originario, che si perfeziona comunque con il consenso del creditore), in analogia con quanto previsto per la delegazione dall’art.1268, comma 2 c.c., l’obbligazione del debitore originario accollato degrada ad obbligazione sussidiaria, di tal che il creditore accollatario ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante, pur non essendo tenuto ad escuterlo preventivamente, e solo dopo che tale richiesta sia risultata infruttuosa può rivolgersi all’accollato. Sul versante dei rapporti tra accollo interno ed accollo esterno, la Corte afferma come ogni accollo nasca in realtà “interno”, divenendo poi “esterno” se il creditore presta il proprio consenso, che dunque assume carattere costitutivo (e non si limita a rendere irrevocabile la stipulazione a proprio favore).
Il 28 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.19396 alla cui stregua l’accordo contrattuale con cui si fa luogo ad un’espromissione ex art. 1272 c.c. intercorre unicamente tra il creditore espromissario e il nuovo debitore espromittente (che è terzo rispetto all’originario rapporto di credito – debito) e non ha – di per sé stesso – una causa necessariamente gratuita o necessariamente onerosa. Più in particolare, l’esistenza in concreto di una causa onerosa può per la Corte derivare dalla individuazione di un corrispettivo stabilito a favore del terzo espromittente, ma a tal fine non possono essere considerati gli effetti – come il regresso nei confronti del debitore originario espromesso – che dall’esecuzione dell’accordo possano derivare, laddove essi non siano intrinseci alla causa stessa del contratto e non integrino la ragione giustificatrice delle reciproche prestazioni delle parti; l’esistenza in concreto di una causa onerosa può poi derivare – al pari di quanto accade nell’assunzione di garanzia per debito altrui, e pur in difetto di formale partecipazione anche del debitore originario espromesso all’accordo – da sottostanti rapporti tra debitore originario espromesso medesimo e terzo espromittente nei quali si possa radicare il corrispettivo per quest’ultimo, e che possono anche consistere in vincoli di controllo o collegamento societario; a tal fine tuttavia, in difetto di indicazioni in proposito contenute nell’accordo, spetta alla parte che sostenga l’onerosità del negozio dedurre e dimostrare l’esistenza di tali rapporti e l’esatta portata di tali vincoli, oltre al modo in cui essi si siano eventualmente riflessi sugli interessi dedotti nel negozio di espromissione.
2005
Il 7 settembre viene varato il decreto legislativo n.209, c.d. codice delle assicurazioni private, i cui articoli 122 e seguenti si occupano in particolare della assicurazione obbligatoria della responsabilità civile connessa alla circolazione di veicoli o di natanti: interessante ratione materiae la procedura di “risarcimento diretto” disciplinato dall’art.149, coinvolgente il caso dell’incidente tra due veicoli entrambi assicurati per la responsabilità civile (molto frequente), circostanza nella quale ciascuno dei danneggiati deve chiedere l’indennizzo direttamente alla propria assicurazione che ha assunto il rischio della responsabilità civile connesso al veicolo utilizzato e circolante: ciascuna “propria” assicurazione è ex lege obbligata alla liquidazione del danno al proprio assicurato per conto dell’impresa di assicurazione dell’altro veicolo responsabile, configurandosi dunque un accollo ex lege.
2006
Il 12 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8622 onde, laddove l’espromissione sia cumulativa (e dunque il vecchio debitore non ne risulti liberato), si è al cospetto non di un contratto a prestazioni corrispettive, quanto piuttosto, nella sostanza, di un atto unilaterale negoziale del nuovo debitore espromittente con il quale egli si assume il debito originariamente gravante in capo solo al debitore espromesso, dovendosi ritenere il consenso del creditore come meramente eventuale, stante la superfluità della relativa accettazione con riguardo ad effetti per lui solo favorevoli (lo schema richiama dunque quello dell’art.1333 c.c.); per la Corte nel contratto di espromissione l’impegno del nuovo debitore espromittente si perfeziona nei confronti del creditore espromissario al momento in cui lo stesso ne venga a conoscenza, senza che vi sia bisogno da parte sua di un atto di accettazione. Per la Corte – ammesso e non concesso che sia corretto configurare l’espromissione come contratto, mentre parrebbe più appropriato discorrere di negozio unilaterale, e premesso che la volontà dell’espromittente non deve rivestire forme sacramentali, potendo concretizzarsi financo in un comportamento concludente – si ritiene comunemente che il consenso del creditore espromissario si atteggi non già ad elemento necessario della fattispecie, quanto piuttosto ad elemento meramente eventuale; normalmente l’impegno del nuovo debitore espromittente si perfeziona infatti nei confronti del creditore nel momento in cui giunge a conoscenza di quest’ultimo, senza che occorra all’uopo un atto di accettazione.
Il 9 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.13459 alla cui stregua, in caso di simulazione relativa riguardante un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam, la prova dell’accordo simulatorio, traducendosi nella dimostrazione del negozio dissimulato, deve essere data, ai sensi dell’art. 2725 c.c., mediante atto scritto, cioè con un documento contenente la controdichiarazione sottoscritta dalle parti, e comunque dalla parte contro la quale esso sia fatto valere in giudizio, con salvezza della prova testimoniale nella sola ipotesi, prevista dall’art. 2724, n. 3, c.c., di perdita incolpevole del documento. In applicazione di tale principio, la Corte cassa la sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che un’operazione bancaria consistente nello sconto di cambiali emesse da un terzo e nell’accreditamento del relativo importo sul conto corrente del cliente dissimuli un’espromissione cumulativa (attraverso la quale il terzo espromittente ha assunto il debito del correntista nei confronti della banca), senza accertare se, trattandosi di simulazione relativa di un contratto bancario, l’accordo simulatorio sia stato provato mediante un atto scritto, richiesto a pena di nullità dall’art. 117 del d.lg. 1° settembre 1993 n. 385.
Il 23 ottobre esce la sentenza del Tribunale di Modena n.1677 onde l’offerta di risarcimento del danno rivolta dall’assicuratore (della responsabilità civile) al terzo danneggiato – implicita nell’invito a definire transattivamente l’entità del danno medesimo – concreta una proposta di espromissione e, ove sia accettata, dà vita al relativo contratto, il quale non è soggetto ad onere di forma e del quale va assunta possibile la volontaria conclusione tacita.
2007
Il 28 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4762 onde, in tema di contratti bancari, il bonifico (ossia l’incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista – creditore delegatario – la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna (verso il delegante) ad eseguire. Da tale accettazione non discende, dunque, un’autonoma obbligazione della banca verso il correntista (creditore) delegatario, trovando lo sviluppo ulteriore dell’operazione la propria causa nel contratto di conto corrente che implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista a eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente correntista medesimo, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato. Deriva da quanto precede per la Corte che, secondo il meccanismo proprio del conto corrente, la banca (delegata), facendo affluire nel conto passivo il pagamento ricevuto dall’ordinante (delegante), non esaurisce il proprio ruolo in quello di mero strumento di pagamento del terzo (delegante medesimo), ma diventa l’effettiva beneficiaria della rimessa, con l’effetto ad essa imputabile (se l’accredito intervenga nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, e ricorrendo il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare) di avere alterato la “par condicio creditorum“.
L’11 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.19090 onde, sulla scorta di consolidata giurisprudenza, la delegazione è da intendersi quale negozio a forma libera, l’assunzione dell’obbligazione da parte del delegato (nei confronti del delegatario) non richiedendo speciali requisiti di forma e potendo derivare anche da facta concludentia oppure da una formazione progressiva e non contestuale dell’accordo. Ne deriva che se il delegato ha direttamente indirizzato la propria dichiarazione di adesione al delegante, e non anche al delegatario, ciò non esclude di per sé il perfezionamento del negozio, una volta che quella dichiarazione sia pervenuta al delegatario e questi la abbia, a propria volta, accettata.
2008
*Il 01 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.17954 onde, in tema di contratti bancari, il bonifico (ossia l’incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista – creditore delegatario – la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna (verso il delegante) ad eseguire. Da tale accettazione non discende, dunque, un’autonoma obbligazione della banca verso il correntista (creditore) delegatario, trovando lo sviluppo ulteriore dell’operazione la propria causa nel contratto di conto corrente che implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista a eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente correntista medesimo, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato. Deriva da quanto precede per la Corte che, secondo il meccanismo proprio del conto corrente, la banca (delegata), facendo affluire nel conto passivo il pagamento ricevuto dall’ordinante (delegante), non esaurisce il proprio ruolo in quello di mero strumento di pagamento del terzo (delegante medesimo), ma diventa l’effettiva beneficiaria della rimessa, con l’effetto ad essa imputabile (se l’accredito intervenga nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, e ricorrendo il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare) di avere alterato la “par condicio creditorum“.
Il 10 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.26863 alla cui stregua, posto che l’espromissione non può avere ad oggetto un debito non ancora sorto, indeterminato nell’ “an” anche se determinabile nel “quantum“, in mancanza di un’obbligazione altrui precedente all’assunzione del debito, si configura non già un’espromissione quanto piuttosto un’obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, istituto in relazione al quale è ammessa la facoltà di recesso.
2010
Il 24 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4482 onde, nell’accollo cumulativo esterno non liberatorio per il debitore originario – che si perfeziona con il consenso del creditore, il quale può aderire alla convenzione di accollo anche successivamente, in tal modo acquisendo il diritto ad ottenere l’adempimento nei confronti del terzo – l’obbligazione dell’accollato, in analogia alla disciplina dettata per la delegazione dall’art. 1268, comma 2, c.c., degrada ad obbligazione sussidiaria, con la conseguenza che il creditore ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo preventivamente, e soltanto dopo che la richiesta sia risultata infruttuosa può rivolgersi all’accollato. Il consenso del creditore si configura come elemento perfezionativo del contratto di accollo esterno, da assumersi sempre trilaterale, secondo la c.d. “teoria dell’offerta” alla cui stregua l’accollo richiede sempre l’accettazione del creditore (tesi affiorata in Italia sulla scorta della dottrina tedesca), discorrendosi in proposito di “negozio aperto all’adesione del creditore” piuttosto che di “negozio a favore del terzo creditore”; si tratta di tesi che la Corte abbraccia come conseguenza della presa di posizione del 2004 in tema di (sfavorevole al creditore) necessaria degradazione a sussidiaria dell’obbligazione del debitore originario accollato, valorizzandosi il disposto dell’art. 1273, ultimo comma, onde “in ogni caso il terzo è obbligato verso il creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui ha assunto il debito”.
2011
Il 15 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.15691, alla cui stregua, attesa la struttura unitaria della delegazione – compendiantesi in un rapporto unico con tre soggetti e due rapporti sottostanti – debbono sussistere per gli effetti delegatori due condizioni, vale a dire che il delegante sia creditore del delegato e debitore del delegatario e che il delegato abbia assunto l’obbligo di pagare a quest’ultimo il debito del delegante, mentre la formazione del negozio giuridico di delegazione può essere anche progressiva e non contestuale, senza che faccia venir meno la ridetta unicità del pertinente rapporto, così come è irrilevante, nella fattispecie di cui agli art. 1268 e 1269 c.c., la consapevolezza dell’esistenza e della natura della provvista, non essendo richiesta dalla norma.
Il 28 ottobre esce la sentenza della X sezione del Tribunale civile di Milano n. 13502 alla cui stregua nel giudizio che il soggetto danneggiato in occasione di un sinistro stradale – quando risulti applicabile la procedura di risarcimento diretto – abbia promosso nei confronti dell’assicuratore del responsabile, è ammissibile, e ha natura litisconsortile, l’intervento volontario dell’assicuratore del danneggiato attore medesimo che con tale atto manifesta, in forza della convenzione sottoscritta dalle imprese assicuratrici ai fini della regolazione dei rapporti relativi alla gestione del risarcimento diretto – dove si prevede la delegazione di debiti futuri – la volontà di obbligarsi verso il danneggiato medesimo, assumendo le obbligazioni risarcitorie asseritamente sorte in capo all’altro assicuratore (quello del danneggiante).
Il 2 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 25862, onde, configurando l’accollo esterno un contratto a favore di terzo, il consenso del creditore accollatario non è mai indispensabile per fargli acquistare il credito verso il terzo nuovo debitore accollante, nemmeno come condicio juris di efficacia della stipulazione a proprio favore, spiegando la sola funzione di rendere irrevocabile tale stipulazione secondo la disciplina, per l’appunto, del contratto a favore di terzi, ma non occorrendogli per acquistare il diritto verso il terzo accollante, trattandosi di effetto che si produce automaticamente.
2012
L’8 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1758 che ribadisce in primis come – configurando l’accollo esterno un contratto a favore di terzo – il consenso del creditore accollatario non è mai indispensabile per fargli acquistare il credito verso il terzo nuovo debitore accollante, nemmeno come condicio juris di efficacia della stipulazione a proprio favore, spiegando la sola funzione di rendere irrevocabile tale stipulazione secondo la disciplina, per l’appunto, del contratto a favore di terzi, ma non occorrendogli per acquistare il diritto verso il terzo accollante, trattandosi di effetto che si produce automaticamente. Per la Corte l’adesione del creditore, in analogia con quanto previsto in materia di delegazione all’art. 1268, 2° comma, fa degradare a sussidiaria l’obbligazione del debitore originario accollato, e tuttavia, anche in difetto dell’adesione, l’accollo è comunque perfezionato e idoneo ad attribuire al creditore il diritto verso l’accollante, senza però che in tal caso si configuri alcun onere di preventiva richiesta a quest’ultimo.
Il 7 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.22166 alla cui stregua l’espromissione è un contratto fra creditore espromissario e terzo espromittente, il quale ultimo assume spontaneamente il debito altrui, non venendo in considerazione i rapporti interni fra debitore originario espromesso e terzo espromittente, né palesandosi giuridicamente rilevanti i motivi che hanno indotto l’intervento del terzo espromittente; la causa di tale contratto è costituita dall’assunzione del debito altrui tramite un’attività del tutto svincolata dai rapporti eventualmente esistenti fra terzo espromittente e debitore originario espromesso, non richiedendosi tuttavia l’assoluta estraneità dell’obbligato espromesso rispetto al terzo espromittente ed essendo piuttosto necessario che il terzo, presentandosi al creditore espromissario, non giustifichi il proprio intervento con un preesistente accordo con l’obbligato.
2013
Il 6 giugno esce la sentenza della V sezione del Tribunale di Napoli onde – rispetto all’intervento spontaneo per il pagamento del debito altrui, in cui si sostanzia l’istituto dell’espromissione – la presenza o l’assenza di causa non può valutarsi con riguardo al rapporto di provvista (tra terzo espromittente ed originario debitore espromesso), ma solo ed esclusivamente con riferimento a quello di valuta, nel senso che in ogni caso non è possibile obbligarsi indipendentemente dall’altrui obbligazione da assumere (e dunque dall’obbligazione originaria gravante sul debitore espromesso nei confronti del creditore); altrimenti – pure in presenza del patto di cui all’art. 1272, comma 2, c.c. (possibilità per il nuovo debitore espromittente di opporre al creditore le eccezioni afferenti ai propri rapporti con il debitore originario espromesso), che è modalità accidentale e non causa – non si potrebbe parlare di espromissione ma di un contratto in cui una parte si obbliga verso un’altra senza alcuna giustificazione razionale, ossia senza causa, la quale ultima si configura per il semplice fatto di assumere un debito altrui, sempre che tale debito vi sia.
2014
Il 24 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 4383 che si occupa di una fattispecie già affrontata dalla precedente sentenza 25863 del 2011 in materia di accollo interno e di relativa natura giuridica, con possibilità di estensione al negozio di accollo (intercorrente tra vecchio debitore accollato e nuovo debitore accollante) degli eventuali vizi che affettano il rapporto di valuta tra debitore originario accollato e creditore accollatario (nel caso di specie, interessi anatocistici non dovuti). Nel caso di specie, una impresa appaltatrice viene resa destinataria di un decreto ingiuntivo da parte dell’Istituto Autonomo Case Popolari committente per il pagamento di alcune somme di denaro: in base ad accordi intercorsi, l’IACP si è impegnato ad anticipare le somme dovute all’impresa quale corrispettivo degli eseguiti lavori in ragione dei pertinenti stati d’avanzamento (ancora prima di ricevere i relativi finanziamenti all’uopo disposti dalla Regione) facendosi finanziare da una banca con un’apertura di credito in conto corrente; l’accollo diviene rilevante dal momento che l’impresa si è a propria volta impegnata ad accollarsi appunto (accollo interno) il debito degli interessi passivi dovuti dall’IACP alla banca finanziatrice. L’impresa rifiuta nondimeno di pagare gli interessi passivi, adducendo da un lato una negligenza dell’IACP nell’attivarsi per ottenere i finanziamenti regionali e dall’altro, massime, l’illegittimità degli interessi dovuti dall’Istituto alla banca, da assumersi anatocistici e frutto di capitalizzazione trimestrale in frizione con il disposto dell’art. 1283 c.c.. La Corte, confermando i giudizi di merito, ravvisa nella fattispecie un accollo “interno” (o semplice) del debito da interessi dovuti dall’Istituto alla banca, quale accordo ad effetti obbligatori che opera nei soli rapporti interni tra accollante (nel caso di specie, l’impresa) e accollato (nel caso di specie, l’IACP) – a differenza di quanto accade nell’accollo c.d. “esterno” di cui all’art. 1273 c.c. – dacché debitore della banca resta sempre e soltanto l’IACP quale debitore originario accollato, mentre l’impresa (accollante) si obbliga sic et simpliciter ad assumersi il peso economico del pertinente debito nei confronti dell’IACP senza rendersi – ad un tempo ed a propria volta – debitrice della banca finanziatrice. Tale accollo interno, come la dottrina ha fatto notare, è fonte dell’obbligo alternativo, in capo all’accollante, di rimborsare il debitore accollato allorché questi abbia pagato il creditore; ovvero di fornirgli in anticipo la somma con cui procedere al ridetto pagamento; ovvero di adempiere direttamente nelle mani del creditore come terzo ex art. 1180 c.c.; ovvero ancora di stipulare con il creditore un’espromissione con cui il terzo accollante interno (ed espromittente) si assume il debito dell’accollato (ed espromesso). Quello che è certo per la Corte è che, nell’accollo interno, l’accollante non diventa mai a propria volta (direttamente) debitore del creditore accollatario, nemmeno laddove questi aderisca al contratto di accollo (dovendosi assumere per la Corte superata la tesi onde ogni accollo nasce come accollo interno, divenendo poi esterno se il creditore presta il proprio consenso): l’accollo che nasce come interno è un patto che riguarda i soli contraenti da esso coinvolti, onde l’accollante si obbliga a tenere indenne l’accollato del peso economico di una obbligazione da questi contratta, e ciò, di volta in volta, a titolo di corrispettivo di un’operazione contrattuale, ovvero per spirito di liberalità (e ricorre allora una donazione obbligatoria), ovvero ancora per estinguere una precedente obbligazione tra le parti (c.d. accollo interno solvendi causa laddove, piuttosto che adempiere direttamente, il terzo accollante si impegna appunto a tenere indenne il proprio creditore accollato da un debito di lui verso il creditore accollatario, con possibilità di configurare una datio in solutum o una novazione a seconda del momento estintivo della precedente obbligazione tra accollato creditore e accollante debitore). L’accollo attribuisce invece al creditore accollatario una autonoma ragione di credito verso il terzo nuovo debitore accollante solo se la volontà delle parti si esprime chiaramente in tal senso, configurandosi allora un contratto a favore di terzo, aperto alla adesione del terzo creditore accollatario che, laddove intervenga, rende irrevocabile la stipulazione a proprio favore, ai sensi dell’art. 1273, comma 1, c.c. L’accollo interno non incide dunque, per la Corte, sull’obbligazione originaria tra debitore accollato e creditore accollatario, non essendo idonea a realizzare né una successione nel debito né tampoco una novazione soggettiva, l’obbligazione “accollata” fungendo solo da parametro per determinare, per relationem, l’oggetto dell’obbligazione che l’accollante si va ad assumere verso l’accollato in virtù del contratto tra gli stessi precipuamente intercorso, tale oggetto della prestazione dovuta dall’accollante all’accollato palesandosi per l’appunto determinabile con riferimento alla prestazione dovuta dall’accollato debitore originario al creditore accollatario (nel caso di specie, l’obbligo per l’IACP di corrispondere gli interessi alla banca), senza che si verifichi alcun subentro nell’obbligazione originaria, che continua a gravare sul (del pari) originario debitore (e dunque sull’IACP). Per la Corte, sulla scorta di queste premesse, l’eventuale illegittimità degli interessi corrisposti dall’IACP all’istituto di credito va fatta valere esclusivamente dallo stesso IACP nei confronti della banca creditrice, essendo l’Istituto l’unico titolare passivo del rapporto obbligatorio, mentre la prestazione dovuta dall’impresa accollante non si compendia in quella di corrispondere i ridetti interessi, palesandosi solo parametrata su quest’ultima, pur dovendosi in qualche modo tutelare l’accollante interno per il caso di eventuale inerzia dell’accollato (nel caso di specie, dell’IACP) laddove questi negligentemente non faccia valere le proprie ragioni verso la banca in tal modo aggravando la posizione contrattuale di chi si è accollato il peso economico del debito, con un rimedio che tuttavia, per la Corte, può al più atteggiarsi a risolutorio e risarcitorio per violazione del dovere di buona fede sulla scorta della c.d. exceptio doli generalis, senza tuttavia che l’accollante possa invocare la nullità del contratto (dal quale nasce l’obbligazione “accollata”) per violazione dell’articolo 1283 c.c. (divieto di anatocismo). Nella pronuncia non manca peraltro, seppure in obiter dictum, un riferimento anche al c.d. accollo esterno, che la Corte inquadra quale contratto a favore di terzo onde il creditore acquista il credito nei confronti del nuovo debitore accollante indipendentemente da un proprio espresso consenso, che nella eventualità svolge la sola funzione di rendere irrevocabile la stipulazione a proprio favore alla stregua dall’art. 1273, 1° comma, c.c. (con palese richiamo alla disciplina dell’art. 1411 proprio in materia di contratto a favore di terzo). Più nel dettaglio, sul crinale dell’accollo c.d. esterno, la Corte supera – seppure sempre in obiter – l’orientamento inaugurato nel 1992 e ribadito dalla propria sentenza 9982.04 laddove, sulla scia di parte della dottrina, in ogni ipotesi di accollo cumulativo, e più in generale in ogni ipotesi di solidarietà tra obbligazioni nascenti da fonti diverse, vi sarebbe sempre una sussidiarietà nel rapporto tra gli obbligati in solido e dunque sarebbe sempre operativo il c.d. beneficium ordinis sulla cui scorta il creditore dovrebbe chiedere la prestazione sempre prima (nel caso di specie) all’accollante e solo sussidiariamente al debitore originario accollato: il corollario di questa impostazione ermeneutica è che non soltanto nell’accollo liberatorio (in cui il consenso del creditore appare imprescindibile), ma anche in quello cumulativo, affiorando comunque un pregiudizio al creditore (che si trova costretto a chiedere l’adempimento al terzo accollante prima di poter tornare a far valere le proprie ragioni contro il debitore originario), è da assumersi imprescindibile il consenso del creditore accollatario in termini di condizione di efficacia dell’accollo esterno nei relativi confronti, dovendo assumersi il ridetto consenso indispensabile affinché l’accollo spieghi l’effetto di attribuirgli una ragione di credito verso il terzo accollante; secondo una opzione ancora più rigorosa, il consenso del creditore si configura come elemento perfezionativo del contratto di accollo esterno, da assumersi sempre trilaterale conformemente alla c.d. “teoria dell’offerta” (formulata dalla dottrina tedesca ed abbracciata da parte della dottrina italiana) alla cui stregua l’accollo richiederebbe sempre l’accettazione del creditore, discorrendosi di negozio aperto all’adesione del creditore piuttosto che di negozio a favore del terzo creditore; in giurisprudenza, questa tesi è riemersa proprio dopo la presa di posizione della Cassazione del 2004 sulla necessaria degradazione a sussidiaria dell’obbligazione del vecchio debitore accollato, massime in Cass., 24 febbraio 2010, n. 4482, tendendosi all’uopo a valorizzare il disposto dell’art. 1273, ultimo comma, onde “in ogni caso il terzo è obbligato verso il creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui ha assunto il debito”. Con questa pronuncia la Corte sembra invece inserirsi nella propria scia pretoria intesa a rivedere il precedente orientamento (testé richiamato) onde, configurando l’accollo esterno piuttosto un vero e proprio contratto a favore di terzo, il consenso del creditore accollatario non è mai indispensabile per fargli acquistare il (nuovo) credito verso il terzo accollante, nemmeno come condicio juris di efficacia della stipulazione a proprio favore, spiegando la sola funzione di rendere irrevocabile tale stipulazione a proprio favore secondo la disciplina, per l’appunto, del contratto a favore di terzi, ma non occorrendogli per acquistare il diritto verso il terzo accollante, effetto quest’ultimo che si produce automaticamente nella propria sfera giuridica, l’adesione del creditore – in analogia con quanto previsto in materia di delegazione all’art. 1268, 2° comma – occorrendo semmai a far degradare a sussidiaria l’obbligazione del debitore originario, dovendosi nondimeno, anche in difetto dell’adesione creditoria, assumere l’accollo comunque perfezionato e idoneo ad attribuire (automaticamente) al creditore il diritto verso l’accollante, senza in tal caso alcun onere di preventiva richiesta a quest’ultimo. Per la Corte, l’accollo esterno ha dunque natura di contratto a favore di terzo, con acquisto del credito in capo al creditore accollatario nei confronti del nuovo creditore accollante che consegue direttamente dal perfezionamento del negozio di accollo tra l’accollante e il debitore accollato; solo l’accollo liberatorio (laddove si prevede già con apposita clausola del pertinente contratto la liberazione del debitore originario accollato) va per la Corte assunto come negozio trilaterale che richiede come tale il necessario consenso dell’accollatario, mentre nell’accollo cumulativo il diritto del creditore accollatario si acquista in capo a lui per effetto della semplice stipulazione tra originario debitore accollante e nuovo debitore accollato, il consenso del creditore occorrendo solo a rendere irrevocabile la stipulazione a proprio favore e a far degradare a sussidiaria l’obbligazione del debitore originario accollato il quale ultimo, senza il ridetto consenso del creditore, non potrebbe fruire di alcun beneficium ordinis nei confronti del nuovo debitore accollante, analogamente a quanto previsto – in tema di delegatio promittendi – dall’art. 1268, 2° comma, c.c., con sussidiarietà solo laddove il creditore accetti la delegazione medesima.
2016
Il 21 aprile esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.8090 che rimette alle SSUU la questione se, e a quali condizioni, la cessione o il conferimento dell’azienda accolli al cessionario o conferitario il debito restitutorio (futuro) nascente dalla sopravvenuta revocatoria fallimentare del pagamento di crediti aziendali: in sostanza, revocato il pagamento di un credito a suo tempo operato a favore dell’azienda, il problema è quello di capire se chi si è reso cessionario o conferitario dell’azienda medesima si ritrovi, in quanto tale, accollante del pertinente debito restitutorio – futuro rispetto alla cessione o al conferimento – dell’azienda medesima (con cedente o conferente in veste di accollato). Limitandosi, per semplificare, alla fattispecie della cessione di azienda, viene chiesto alle SSUU se detta cessione dell’azienda comporti comunque, per il cessionario, l’accollo dei debiti anche futuri di cui risultino già i presupposti (ad esempio, è stato stipulato il contratto dal quale il debito sorge) al momento della cessione e, in particolare, dei debiti che affioreranno dalla sopravvenuta dichiarazione di inefficacia di pagamenti di crediti aziendali risultanti dalla documentazione contabile al momento della cessione dell’azienda medesima, e dalla stessa in un primo momento incassati. Fa rilevare la Sezione rimettente che, stando alla giurisprudenza prevalente, l’art. 58 del d.lgs. 10 settembre 1993, n. 385 – nel prevedere il trasferimento delle passività al cessionario in forza della sola cessione e del decorso del termine di 3 mesi dalla pubblicità notizia di essa (secondo quanto previsto dal comma 2 dello stesso art. 58), e non la mera aggiunta della responsabilità di quest’ultimo a quella del cedente, deroga all’art. 2560 c.c. (accollo liberatorio e non cumulativo), su cui prevale in virtù del principio di specialità (si richiama Cass., sez. III, 26 agosto 2014, n. 18258) comportando perciò il trasferimento anche dei debiti per sanzioni irrogate dopo la cessione, quand’anche in relazione a fatti commessi in precedenza (Cass., sez. I, 29 ottobre 2010, n. 22199, m. 614833). Se per la Corte rimettente è indiscutibile che l’art. 58 legge bancaria prevede la liberazione del cedente alla scadenza del ridetto termine di 3 mesi (Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10653), questa deroga non esclude affatto che – negli altri casi – quello previsto dall’art. 2560 c.c. sia un accollo cumulativo, con trasferimento dei debiti (anche) al cessionario; senonché, se nel caso della cessione di azienda bancaria è la legge a prevedere che ne consegua il trasferimento di tutte le situazioni soggettive attive e passive – comprese quelle maturate medio tempore e successivamente alla intervenuta cessione – non si vede perché un analogo effetto traslativo “onnicomprensivo” non debba aversi anche per le cessioni delle altre aziende commerciali, almeno quando sia l’atto di cessione a includere espressamente (come nel caso scandagliato) tutte le situazioni attive e passive quali risultanti dalle scritture contabili regolarmente tenute, compreso dunque l’eventuale pagamento ricevuto dal cedente, presente nelle ridette scritture contabili e dipoi revocato a seguito di fallimento del solvens.
2017
Il 28 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 5054 che si pronuncia sulla trasferibilità al soggetto cessionario d’azienda dei debiti (restitutori) futuri, sorti in capo al soggetto cedente in epoca successiva alla cessione ed in virtù dell’accoglimento della domanda revocatoria di pagamenti ricevuti dal cedente medesimo in epoca antecedente alla cessione dell’azienda de qua, assumendo di non poter condividere la ricostruzione estensiva operata nel caso di specie dalla Corte territoriale (I sezione) in quanto contrastante con il dato testuale ricavabile dall’art. 2560 c.c., il cui tenore letterario, valorizzato dal Collegio, costituisce parametro ermeneutico prioritario e poziore ai sensi dell’art. 12 delle c.d. preleggi. Proprio il dato testuale non consente per la Corte di includere nel trasferimento d’azienda posizioni giuridiche soggettive non qualificabili tecnicamente come “debitorie”, ma correlate piuttosto all’esercizio, da parte di un terzo soggetto, di un diritto potestativo, come nel caso appunto della posizione di soggezione rispetto ad una successiva (eventuale) azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento del solvens che pagò, a suo tempo, al cedente d’azienda. Per le SSUU l’obbligazione pecuniaria di restituzione sorta a carico dell’accipiens (il cedente dell’azienda) a seguito dell’accoglimento dell’azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento del solvens si configura, rispetto al trasferimento d’azienda, quale sopravvenienza passiva caratterizzata dall’avere, come “fatto genetico mediato”, il rapporto contrattuale – preesistente rispetto al perfezionamento della vicenda traslativa – in esecuzione del quale è stato effettuato dal solvens in bonis il pagamento successivamente dichiarato inefficace a favore del cedente dell’azienda; tale sopravvenienza passiva rinviene invece il proprio “fatto genetico immediato” nell’accoglimento dell’azione revocatoria, e ciò in quanto il debito di restituzione sorge con la sentenza – alla quale è pacificamente riconosciuta natura costitutiva (come si ricava, ex multis, da Cass. civ., sez. I, 14 gennaio 2016, n. 509) – che, pronunciando appunto la revoca del pagamento allora effettuato, attualizza il diritto potestativo esercitato dalla massa con l’azione del curatore (Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2015, n. 13767); onde è la sentenza emessa a definizione dell’azione revocatoria a produrre, per la Corte, l’effetto caducatorio dell’atto giuridico impugnato (il pagamento) ed il contestuale sorgere del conseguente credito del fallimento alla restituzione di quanto pagato dal fallito (Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2012, n. 13560). L’ulteriore precipitato è che, fino alla sentenza (costitutiva appunto) di revoca del pagamento effettuato dal solvens, è da escludere l’esistenza di un credito restitutorio a favore del solvens medesimo e di una corrispondente obbligazione restitutoria a contenuto pecuniario a carico dell’accipiens, dacché solo una volta perfezionatosi l’accertamento giudiziale e prodottosi il relativo effetto costitutivo, sorge per le SSUU la conseguente obbligazione restitutoria (Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2012, n. 13560). L’inefficacia dell’atto solutorio posto in essere a suo tempo dal solvens in bonis (nelle mani dell’accipiens, e dunque del cedente d’azienda) sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della domanda, che ha natura costitutiva (Cass. civ., sez. I, 10 giugno 2011, n. 12736), e che ha ad oggetto l’esercizio di un diritto potestativo e non di un diritto di credito (Cass. civ., sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27084). Atteso allora, prosegue la Corte, che – stando al valorizzato dato letterale – nell’ambito di applicazione del comma 2 dell’art. 2560 c.c. rientrano testualmente i debiti già maturati ed annotati nei libri contabili, l’obbligazione restitutoria a contenuto pecuniario sorta in capo all’accipiens soccombente in virtù della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda revocatoria spiegata dal curatore del solvens medio tempore fallito, costituendo una sopravvenienza passiva, non può ritenersi estensivamente ricompresa nel compendio aziendale ceduto, né può essere assunta quale accessorio che segue l’azienda nella relativa vicenda circolatoria; ciò in quanto, a diversamente opinare, si finirebbe con l’attribuire rilevanza ad un documentato fatto genetico mediato (il contratto dal quale è nata l’obbligazione pecuniaria adempiuta dal solvens in bonis), ovvero ad un mero rischio di sopravvenienza passiva, con la conseguente, inaccettabile produzione di un vulnus al legittimo affidamento del cessionario, la cui tutela è invece per la Corte essenziale ai fini del corretto svolgimento della circolazione di beni (massime se di particolare rilievo commerciale), e per garantire la quale – attesa la palese ratio protettiva sottesa all’art. 2560 c.c., quale norma intesa precipuamente a presidiare il cessionario onde consentirgli di acquisire adeguata e specifica cognizione dei debiti assunti (Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 2012, n. 23828) – la responsabilità del cessionario deve essere necessariamente ricondotta nell’alveo dell’evidenza diretta, risultante dai libri contabili obbligatori dell’impresa. Le SSUU risolvono allora la questione loro sottoposta statuendo il principio di diritto onde la chiara dizione della rubrica (debiti relativi all’azienda ceduta) e del testo dell’art. 2560 cod. civile non consente di ritenere estensivamente inclusa nel trasferimento dell’azienda commerciale anche una situazione non già di debito, bensì di soggezione ad una successiva (futura ed eventuale) azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento del solvens, un possibile ampliamento della portata applicativa dell’art. 2560 cod. civ. palesandosi predicabile nelle sole, circoscritte ipotesi in cui sia ravvisabile una perdurante identità soggettiva sostanziale tra cedente e cessionario come, esemplificativamente, nell’ipotesi di conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale, laddove tale identità soggettiva sostanziale appare significativa di una conoscenza diretta dei rapporti giuridici in fieri, estranea alla ratio protettiva del successore a titolo particolare nell’azienda, sottesa all’art. 2560 cod. civile. Va aggiunta poi, secondo parte della dottrina, l’ulteriore considerazione onde ammettere l’accollo da parte del cessionario di azienda di “debiti” che in realtà sono ab origine mere soggezioni, quand’anche con possibilità di tradursi – in futuro – in veri e propri “debiti” (restitutori) finisce con il cozzare anche con la necessaria determinatezza (o comunque determinabilità) dell’oggetto dell’accollo ex lege, siccome mutuabile dall’art.1346 c.c. laddove disciplina l’oggetto dell’accollo convenzionale, a tutela del terzo creditore accollatario (nella specie, per l’appunto il cessionario di azienda).
Il 14 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione penale n.34534, che rammenta come la giurisprudenza di legittimità abbia da tempo e senza oscillazioni chiarito il negozio giuridico di delegazione avere una struttura unitaria, essendo composto di un rapporto unico con tre soggetti e due rapporti sottostanti; per conseguenza debbono sussistere, per l’integrazione degli effetti delegatori, due condizioni, e cioè che il delegante sia creditore del delegato e debitore del delegatario, e che il delegato abbia assunto l’obbligo di pagare a quest’ultimo il debito del delegante. Per la Corte è pacifico che la delegazione passiva possa avere ad oggetto tanto una promessa di futuro pagamento (delegatio promittendi, con funzione creditoria), quanto un pagamento immediato (delegatio solvendi o dandi, con funzione solutoria); e che essa possa assolvere quindi sia alla finalità di predisporre un futuro adempimento e di rafforzare il rapporto obbligatorio, aggiungendovi un nuovo debitore (delegato) con posizione di obbligato principale accanto al debitore originario (delegante), la cui obbligazione diventa, peraltro, sussidiaria (delegazione cosiddetta cumulativa), sia alla finalità di rendere possibile l’adempimento, in atto, di un’obbligazione già scaduta, ad opera di un terzo (delegato) anziché ad opera del debitore (delegante), con funzione immediatamente solutoria (viene rammentata in proposito la sentenza della I sezione della Cassazione civile n. 676 del 12/03/1973). E’ vero, prosegue la Corte, che la formazione del negozio giuridico di delegazione può essere anche progressiva e non contestuale, senza che ciò possa far venire meno la unicità del rapporto; tuttavia gli elementi costitutivi della fattispecie delegatoria, allorché siano tali da escludere il fine di evasione delle imposte, vanno rigorosamente provati (e non già solo assertivamente allegati) da colui che ne invoca la sussistenza; ciò atteso come – in tema di delitto di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti (fatture emesse dal creditore nei confronti di un debitore che non è quello che adempie) – quando risulti provata dall’accusa la fittizietà della intestazione delle fatture in relazione ai soggetti tra i quali il rapporto contrattuale e’ intercorso, spetta all’emittente della fattura fittizia provare la corrispondenza tra il dato fattuale, inerente ai rapporti giuridici che si ipotizzano effettivamente intercorsi, e quello documentale, attraverso il quale detti rapporti siano stati attestati (nella fattura).
Il 27 luglio esce la sentenza delle SSUU n. 18725 in tema di bancogiro nullo in difetto di atto pubblico, configurando il medesimo una donazione diretta e non già indiretta: per la Corte infatti in tema di proprietà di beni mobili e di donazione, l’atto recante il trasferimento, a mezzo banca, di strumenti finanziari, dal conto deposito-titoli a quello del beneficiario, si qualifica quale donazione diretta, e ciò anche se trans-mortem, l’ordine di bonifico richiedendo dunque la forma scritta pubblica tra beneficiante e beneficiario. Nel contesto motivazionale della pronuncia, la Corte precisa peraltro che una liberalità non donativa può essere realizzata anche con un contratto a favore di terzo, ossia in virtù di un accordo tra disponente/stipulante e promittente con il quale al terzo beneficiario è attribuito un diritto, senza che quest’ultimo paghi alcun corrispettivo e senza prospettiva di vantaggio economico per lo stipulante. Il contratto a favore di terzo, per la Corte, può bensì importare una liberalità a favore del medesimo, ma costituendo detta liberalità solo la conseguenza non diretta né principale del negozio giuridico avente una causa diversa, si tratta di una donazione indiretta, la quale, se pure è sottoposta alle norme di carattere sostanziale che regolano le donazioni, non sottostà invece alle norme riguardanti la forma di queste ( viene richiamata Cass., Sez. I, 29 luglio 1968, n. 2727). Seguendo quest’ordine di idee, precisa il Collegio, si è ricondotta alla donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario (vengono richiamate Cass., Sez. II, 10 aprile 1999, n. 3499; Cass., Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552; Cass., Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983); per la Corte anche la cointestazione di buoni postali fruttiferi, ad esempio operata da un genitore per ripartire fra i figli anticipatamente le proprie sostanze, può configurare, ove sia accertata l’esistenza dell’animus donandi, una donazione indiretta, in quanto, attraverso il negozio direttamente concluso con il terzo depositario, la parte che deposita il proprio denaro consegue l’effetto ulteriore di attuare un’attribuzione patrimoniale in favore di colui che ne diventa beneficiario per la corrispondente quota, essendo questi, quale contitolare del titolo nominativo a firma disgiunta, legittimato a fare valere i relativi diritti (viene richiamata Cass., Sez. II, 9 maggio 2013, n. 10991). La Corte precisa poi, con riguardo al c.d. bancogiro, che il passaggio di valori patrimoniali a titolo di liberalità dal beneficiante al beneficiario eseguito a mezzo banca non ricade nell’ambito del contratto a favore di terzo, schema attraverso il quale lo stipulante può realizzare un’attribuzione patrimoniale indiretta a favore del terzo avente i connotati della spontaneità e del disinteresse, e ciò in quanto nel contratto a favore di terzo il patrimonio del promittente è direttamente coinvolto nel processo attributivo e non si configura – come è stato affermato – come mera “zona di transito” tra lo stipulante e il terzo: l’oggetto dell’attribuzione donandi causa in favore del terzo si identifica con la prestazione del promittente e non con quanto prestato dallo stipulante al promittente medesimo, come invece accade appunto nel bancogiro. A ciò deve aggiungersi per la Corte che, mentre nel contratto a favore di terzo nasce immediatamente un diritto azionabile del terzo verso il promittente, il terzo beneficiario che sia destinatario di un ordine di giro non acquista alcun diritto nei confronti della banca proveniente dal contratto che intercorre tra la banca medesima e l’ordinante, e ciò in quanto secondo la giurisprudenza della Corte (vengono richiamate Cass., Sez. III, 1° dicembre 2004, n. 22596; Cass., Sez. I, 19 settembre 2008, n. 23864; Cass., Sez. I, 3 gennaio 2017, n. 25, cit.), l’ordine di bonifico ha natura di negozio giuridico unilaterale, la cui efficacia vincolante scaturisce da una precedente dichiarazione di volontà con la quale la banca si è obbligata ad eseguire i futuri incarichi ad essa conferiti dal cliente, ed il cui perfezionamento è circoscritto alla banca e all’ordinante, con conseguente estraneità del beneficiario, nei cui confronti, pertanto, l’incarico del correntista di effettuare il pagamento assume natura di delegazione di pagamento. Anche il delegato al pagamento può essere obbligato, ma solo se il medesimo si obbliga personalmente verso il creditore delegatario e questi accetti l’obbligazione del delegato, ai sensi dell’art. 1269, comma 1, cod. civ..
Il 28 ottobre esce la sentenza del Tribunale di merito di Ferrara n. 19083, la quale si pronuncia sulla cessione di attività e di passività da parte di banche in dissesto agli enti – ponte. La sentenza statuisce che ove parte attrice agisca contro l’ente-ponte non per ottenere il rimborso delle azioni ma per chiedere il risarcimento del danno derivato da un inadempimento della banca ad obblighi informativi, va respinta l’eccezione di carenza di legittimazione passiva dell’ente-ponte. L’art.47, comma 7, del D.Lgs. 180/2015 preclude l’azione verso l’ente ponte a coloro che sono titolari di posizioni non cedute alla nuova banca, ovvero gli obbligazionisti secondari. La norma non pone dunque nessuna preclusione per coloro che facciano valere diritti relativi all’adempimento a contratti stipulati dalla vecchia banca, a prescindere dal fatto che essi siano o meno esauriti.
Il giorno 8 novembre esce la sentenza del Tribunale di Milano, sez. impresa, n. 11173, che statuisce, nello stesso senso della sentenza da ultimo citata, che la cessione all’ente-ponte di tutti i diritti, attività e passività della azienda della banca posta in risoluzione determina la successione dell’ente-ponte nei contratti in corso, con la conseguenza che l’ente-ponte è tenuto a rispondere dei danni derivanti dall’inadempimento degli obblighi informativi posti essere dalla banca in dissesto in epoca anteriore alla cessione d’azienda.
2018
Il 26 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 90, che sancisce il principio di diritto secondo cui è conforme alla Costituzione la previsione normativa della responsabilità solidale illimitata delle società beneficiarie, in caso di fattispecie societaria di scissione parziale, per il pagamento dei debiti e delle sanzioni anteriori alla medesima scissione. Infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 173, comma 13, TUIR, nella parte in cui prevede, in caso di scissione parziale di una società, la responsabilità solidale e illimitata della società beneficiaria per i debiti tributari riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto, e dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 472/1997, nella parte in cui prevede, in caso di scissione parziale, che ciascuna società beneficiaria è obbligata in solido al pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione per le violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto.
Il 3 luglio esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. III, n. 29870, che pronunciandosi in tema di reato di indebita compensazione di cui all’art. 10 quater di cui al D.Lgs n. 29870 del 2018, afferma il principio di diritto per cui in caso di accollo fiscale è indebita ed illecita la compensazione dei crediti tributari, imputabili al contribuente accollante. Secondo la Corte, integra il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10 quater, D.Lgs. n. 74 del 2000 il pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta inesistenti, a seguito del c.d. accollo fiscale, commesso attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, inquanto l’art. 17, D.Lgs. n.241del1997 non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti. Il richiamo è alla norma dell’art. 17, d. Igs. n. 241 del 1997, che così recita: “1. I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Tale compensazione deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva. La compensazione del credito annuale o relativo a periodi inferiori all’anno dell’imposta sul valore aggiunto, per importi superiori a 5.000 euro annui, può essere effettuata a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge“. La norma in questione fa necessariamente riferimento al concetto di contribuente, poiché muove dal presupposto che colui che ricopre una posizione passiva verso il Fisco (appunto, il contribuente), può scegliere di compensare crediti anziché versare le imposte: il contribuente è, cioè, nella normalità il debitore, che, se assomma su di sé anche la posizione di creditore verso il Fisco, può compensare le due poste; l’art. 10 quater, riferendosi a chi “non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione” crediti inesistenti si riferisce ai soggetti legittimati, ex artt. 17 ss. d. Igs. n. 241 del 1997, ad effettuare pagamenti di imposta utilizzando in compensazione crediti verso l’Erario, ed in tale categoria devono farsi necessariamente rientrare anche coloro che, in virtù del contratto di accollo, agiscono come debitori proprio in virtù del fatto che, con l’accollo, si sono volontariamente fatti carico di debiti altrui. Trattasi, peraltro, di operazione fiscalmente illecita e penalmente rilevante. In sostanza, detta operazione prevede che il debito del contribuente (accollato) venga pagato da una terza società (accollante), che lo onora non pagandolo direttamente bensì mediante compensazione con un proprio credito, credito che a sua volta l’accollante ha acquistato da soggetti che, per varie ragioni, non potevano. Si è infatti affermato che, in materia tributaria, la compensazione è ammessa, in deroga alle comuni disposizioni civilistiche, soltanto nei casi espressamente previsti, non potendo derogarsi al principio secondo cui ogni operazione di versamento, riscossione e rimborso ed ogni deduzione sono regolate da specifiche e inderogabili norme di legge. Tale principio non può considerarsi superato per effetto dell’art. 8, comma primo, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. statuto dei diritti del contribuente), il quale, nel prevedere in via generale l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato ferme, in via transitoria, le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato.
Il 28 settembre esce la sentenza della Cassazione –Sez. Lavoro, n. 23612, che si pronuncia in tema di debiti contratti dai gruppi parlamentari. La Corte conferma la legittimità della decisione di merito, che aveva respinto di gravame proposto da una ricorrente nei confronti di una sentenza resa a favore di un gruppo parlamentare, chiarendo che a norma dei regolamenti parlamentari, il gruppo parlamentare è costituito all’inizio di ogni legislatura e non può, quindi, ritenersi continuazione o prosecuzione di un gruppo della precedente legislatura, con la cui fine si verifica la sua estinzione, sicché va escluso ogni fenomeno di successione nel debito in capo al diverso soggetto venuto ad esistenza successivamente. Conclusivamente, la sentenza di appello ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, in quanto è pacifico che il Gruppo Parlamentare nei cui confronti è rivolta l’impugnazione non è stato mai datore di lavoro della odierna ricorrente, non potendosi estendere la responsabilità del gruppo parlamentare da ultimo costituito ad obbligazioni sorte in capo a soggetti distinti ed autonomi e, specularmente, non sussistendo alcuna obbligazione dell’associazione relativamente a periodi diversi (ovvero a periodi in cui la stessa non esisteva).
Il 12 ottobre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.25366 che assume errata l’affermazione secondo cui – in tema di assicurazione e di procedura di risarcimento diretto – il soggetto danneggiato (e, per esso, la ricorrente del caso di specie, in veste di cessionaria dei crediti risarcitori spettanti al primo), il quale si avvalga appunto della procedura di risarcimento diretto, non può beneficiare dell’applicazione dell’art. 1901, comma 2, cod. civ. allorché il sinistro si verifichi dopo la scadenza della polizza stipulata con il proprio assicuratore ma comunque – come nella specie – entro i 15 giorni successivi a tale evento. Per la Corte, non può negarsi che un veicolo circolante con polizza assicurativa scaduta da meno di 15 giorni sia comunque un veicolo “assicurato“, posto che la durata della copertura in tema di r.c.a. è sempre prorogata per tale arco temporale, sia nel caso di scadenza della rata di premio, ai sensi dell’art. 1901, cod. civ., sia nel caso di scadenza della polizza, ai sensi dell’art. 170-bis cod. assicurazioni. Il presupposto, dunque, per potersi avvalere della procedura di risarcimento diretto ex art. 149 cod. assicurazioni, ovvero l’esistenza di un valido contratto assicurativo, deve ritenersi, nel caso in esame, per la Corte comunque integrato. Né – chiosa ancora la Corte – a diversa conclusione potrebbe pervenirsi sulla base dell’art. 127 del medesimo cod. assicurazioni, e ciò sull’assunto che esso farebbe salva l’applicazione dell’art. 1901, comma 2, cod. civ. soltanto nei confronti dei “terzi danneggiati“, e non dello stesso assicurato, che sia, però, tale (e dunque “terzo danneggiato”). In senso contrario, infatti, deve osservarsi che – come già chiarito dalla Corte – l’azione che l’art. 149 cod. assicurazioni accorda al danneggiato, nei confronti del proprio assicuratore, non è altro che la medesima azione prevista dall’art. 144 cod. ass. per le ipotesi ordinarie (e della quale, pertanto, mutua l’intera disciplina), con l’unica particolarità che destinatario ne è l’assicuratore della vittima anziché quello del responsabile, in una sorta di accollo liberatorio “ex lege” del debito di quest’ultimo (non a caso l’art. 149, comma 4, cit. attribuisce al pagamento compiuto dall’assicuratore del danneggiato effetti liberatori anche nei confronti del responsabile del sinistro e del suo assicuratore (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 9 ottobre 2015, n. 20374). Se, dunque, l’azione che il danneggiato può esperire verso il proprio assicuratore “è la stessa” che potrebbe far valere nei confronti dell’assicuratore del responsabile del sinistro, mutuandone “l’intera disciplina“, non vi è ragione di distinguere la posizione del danneggiato – ai fini dell’operatività dell’art. 1901, comma 1, cod. civ. – a seconda che egli sia “terzo” (convenendo, pertanto, in giudizio l’altrui assicuratore) o “assicurato” (agendo, invece, verso il proprio), bastando, in ambo i casi, che l’iniziativa si indirizzi in presenza di un valido contratto di assicurazione, ancorché “prorogato” ai sensi della norma “de qua“, specie considerando che tale circostanza – l’esistenza di un valido contratto assicurativo – è solo il presupposto di un obbligazione dell’assicuratore che nasce, in entrambe le ipotesi, dalla legge e non dal contratto. In conclusione, la Corte formula il principio di diritto onde, anche in caso di applicazione della procedura di risarcimento diretto ex art. 149 cod. assicurazioni opera il disposto dell’art. 1901, comma 2, cod. civ., sicché ove il sinistro si sia verificato posteriormente alla scadenza del termine per il pagamento di premi successivo al primo, l’assicurazione resta sospesa solo dalle ore 24 dal 15°giorno dopo quello della scadenza.
Il 29 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. II civile, n. 30938, che si pronuncia in tema di efficacia dell’accollo interno, tra debitore e terzo pagatore, nei confronti del creditore “accollato”, che vi abbia successivamente aderito. Nel caso di specie, i ricorrenti impugnavano la sentenza di merito di secondo grado, sostenendo che questa avesse errato nel ritenere valido l’accollo di debito anche verso la banca accollataria, che via aveva solo successivamente aderito. La ricostruzione teorica dell’istituto, secondo la difesa dei ricorrenti, consisteva nell’individuazione di un patto d’accollo, avente natura e struttura meramente interna, al quale non possa applicarsi per volontà delle parti la disciplina ex art 1273 c.c., in specie la facoltà per il creditore, pur non partecipe dell’accordo di profittarvi in momento successivo, stante la natura dell’accollo quale contratto a favore di terzi. Dunque la critica svolta dagli impugnanti si risolveva nella diversa valutazione data dai ricorrenti al patto d’accollo. Invero, secondo gli Ermellini, “la volontà di pagare il prezzo pattuito mediante l’accollo del debito residuo della banca in quanto garantito dall’ipoteca sull’immobile oggetto di vendita non lumeggia affatto la volontà dell’acquirente di escludere il venir in essere di un rapporto con la banca terza, stante che comunque il godimento del bene dipenderà dalla soddisfazione del credito della banca. Inoltre non va omesso di rilevare come il patto d’accollo risulta collegato ai contratti di compera vendita immobiliare rogati da notaio e destinati ad esser ostesi ai terzi mediante la trascrizione, sicché l’accordo tra i contraenti non appare esser stato teso ad un accordo meramente interno – patto atipico – ma con rilevanza esterna e quindi con l’applicabilità della disciplina codicistica. In definitiva, non avendo le parti impugnanti provato la confezione di un patto atipico correttamente i Giudici del merito hanno ritenuto il patto d’accollo stipulato soggetto alla disciplina prevista dal codice e quindi l’applicabilità anche della norma in art 1273 cod. civ.”.
2019
L’8 marzo esce la sentenza n. 6882 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che affronta il tema della liceità delle clausole negoziali, afferenti i contratti di locazione ad uso commerciale, con cui le parti pattuiscono la traslazione dei debiti di imposta, gravanti sull’immobile locato, in capo al conduttore (“spostandolo” quindi dalla persona del locatore – proprietario, che ha la qualità di contribuente fiscale, in quanto tale). La sezione rimettente ha rimesso alle SS.UU. la risoluzione della questione di diritto relativa alla natura ed effetti del patto traslativo di oneri fiscali in caso di locazione ad uso commerciale rilevando che pur dovendo la norma di cui all’articolo 53 qualificarsi come «imperativa», rivolta cioè «anche ai comportamenti dei privati», resta comunque «dubbia l’applicabilità dell’articolo 1418, primo comma, c.c. ai patti di traslazione dell’imposta per impossibilità di desumere dall’impianto costituzionale un divieto generalizzato al trasferimento dell’onere del tributo a terzi». Le Sezioni Unite ricordano che la soluzione della specifica questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite prospetta invero la più ampia problematica «se l’obbligo costituzionalmente rilevante di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva abbia un significato esclusivamente oggettivo -nel senso di obbligo di adempiere a quanto è giustificato dalla capacità contributiva- oppure anche soggettivo -nel senso che l’adempimento debba essere compiuto non solo oggettivamente in modo completo, ma altresì dal soggetto che per legge ne ha l’obbligo-, escludendosi quindi il trasferimento dell’obbligo ad un soggetto diverso>. Al riguardo, si pone in particolare l’esigenza di chiarire, «tenendo ben in conto l’articolo 53 Cost. -la cui natura è stata da tempo riconosciuta come imperativa, e quindi come direttamente precettíva-», se, «a parte le ipotesi in cui vi siano espressi divieti di traslazione da parte di specifiche norme tributarie», sulla «individuazione del soggetto passivo dell’imposta possa incidere l’autonomia negoziale privata, neutralizzando così gli effetti della capacità contributiva». Osserva la Corte che diversamente da quanto ha costituito oggetto dei casi esaminati dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle evocate sentenze n. 5 del 1985 e n. 6445 del 1985, oggetto della clausola in argomento sono non già le imposte dirette gravanti sulla locatrice bensì meramente quelle gravanti sull’immobile e inerenti allo stipulato contratto. Nelle SS.UU. n. 5 del 1985, si è in particolare affermato che è nulla – sia ai sensi dell’art. 1418, 10co., c.c. che per contrasto con l’art. 53 Cost. -, la clausola con la quale -sia pure con effetti limitati al rapporto fra le parti- venga convenuta l’imposizione a carico del mutuatario di quanto il mutuante è tenuto a versare all’erario ( nel caso, per IRPEG ed ILOR ) in ragione dello stipulato contratto, stante l’immediato valore vincolante del principio del concorso di tutti alle spese pubbliche alla stregua della rispettiva capacità contributiva fissato dalla norma costituzionale, che si traduce nel divieto inderogabile per il debitore d’imposta -sia diretta che indiretta- di riversare il relativo onere su un altro soggetto, e quindi su patrimonio diverso da quello rispetto al quale è contemplato il prelievo fiscale ( v. Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5 ). Nell’occasione le Sezioni Unite hanno argomentato dal rilievo che in base alla previsione di cui all’art. 53 Cost. tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della rispettiva capacità contributiva, e secondo il criterio della progressività dell’imposta. Il sacrificio economico derivante dal pagamento del tributo, e cioè la riduzione patrimoniale conseguente all’adempimento, deve -si è precisato- essere sopportato effettivamente e definitivamente dal soggetto alla cui capacità contributiva si riferisce l’obbligazione, e non già da altri, l’art. 53 Cost. esigendo che ad una determinata capacità contributiva faccia seguito l’adempimento del dovere di concorrere alla spesa pubblica, ed escludendo che tale obbligo possa sorgere in capo a soggetto privo di capacità contributiva; come pure che un soggetto possa accollarsi -anche di fatto- il carico contributivo altrui, essendo contrario all’interesse della collettività che il concorso alla spesa pubblica gravi -anche di fatto- su soggetto diverso da colui che vi è tenuto ex lege, in quanto ogni soggetto dotato di capacità contributiva deve in misura corrispondente contribuire personalmente al costo dei servizi e dei vantaggi sociali. Si è ulteriormente avvertito che nelle imposte dirette (in particolare, IRPEG e ILOR) la correlazione con la capacità contributiva è immediata, sicché più pressante è l’esigenza che il tributo incida effettivamente sul soggetto obbligato per legge, e non su soggetti diversi; segnalandosi essere la rivalsa obbligatoria lo strumento idoneo a far concorrere alla spesa pubblica il titolare della capacità contributiva ogniqualvolta altri adempia alla correlata obbligazione tributaria (es., sostituto d’imposta). La nullità del patto volto a trasferire (sia pure senza efficacia nei confronti dello Stato) su altri il peso del proprio dovere di solidarietà sociale di concorrere alla spesa pubblica si è ravvisato trovare ragione nella circostanza che, pur giovandosi dei vantaggi e dei benefici della vita associata, il soggetto obbligato ex lege in tal modo sottrae la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione. Nel considerare inammissibile il patto traslativo d’imposta, in quanto idoneo a consentire al soggetto tenutovi per legge di giovarsi «dei vantaggi e dei benefici della vita associata» sottraendo «la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione», con la sentenza n. 5 del 1985 le Sezioni Unite di questa Corte hanno dunque considerato in termini generali «vietato e nullo ( ai sensi dell’art. 1418, 1° comma, c.c. e per contrasto con l’art. 53 Cost.>> ) qualunque patto «con il quale un soggetto, ancorché senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d’imposta diretta che di imposta indiretta». Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite della Corte hanno diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito. Ipotesi che si verifica «nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, né recuperato dal sostituto medesimo, sicché effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente». Non anche, nell’ipotesi in cui «l’imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l’obbligazione di cui si stipula l’accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, né mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente», ma «riguarda … una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il “prezzo” della prestazione negoziale». Pur pervenendo a soluzione opposta a quella raggiunta nella sentenza n. 5 del 1985, in quest’ultima pronunzia le Sezioni Unite hanno posto invero a relativo fondamento gli stessi presupposti argomentativi della precedente, ribadendone la validità. In particolare, hanno confermato «il carattere di centralità che il dovere tributario è venuto assumendo nella Costituzione repubblicana», il cui art. 53 «si pone come fonte immediata ed imperativa la cui violazione può comportare la sanzione della nullità delle manifestazioni di autonomia negoziale con esso confliggenti>>. Orbene, tanto premesso, le SS.UU. ritengono che le doglianze mosse dall’odierna ricorrente avverso l’impugnata sentenza non siano idonee a revocare la correttezza della soluzione raggiunta nel 1985, e non inducano a dover rimeditare un orientamento interpretativo che al contrario merita di essere ulteriormente confermato, ritenendo legittima l’operazione negoziale posta in essere dalle parti: poiché è ben vero che le relative imposte sono pur sempre sostenute dal proprietario dell’immobile e l’ente impositore ( Stato, Comune o altro ) individua in esso il soggetto che è tenuto a farvi fronte, ma questo si disinteressa se poi, per accordo privato, i contraenti scelgano di operare un rimborso» ( sottolineando che in tal senso deve interpretarsi l’uso della parola “manlevare” ) o «una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore».
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Il 21 ottobre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 26759 che affronta il seguente problema: se dalle retribuzioni spettanti al lavoratore dal datore di lavoro, che abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo e che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, sia detraibile quanto il lavoratore medesimo nello stesso periodo abbia percepito, pure a titolo di retribuzione, per l’attività prestata alle dipendenze dell’imprenditore già cessionario, ma non più tale, una volta dichiarata giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto. Infatti, una volta escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum dal risarcimento.
Secondo la Corte, la soluzione del suesposto quesito richiede un’attenta disamina degli effetti realizzati dalla suddetta qualificazione di retribuzione di quanto spettante al lavoratore dal proprio originario datore di lavoro sul corrispettivo ricevuto per l’attività prestata dal soggetto alle dipendenze del quale, pure avendo offerto la propria prestazione al primo, abbia tuttavia continuato a lavorare. E ciò anche per dare conto di un’istintiva perplessità, in realtà frutto di un’equivoca suggestione, in ordine ad una presunta duplicazione indebita di retribuzione a fronte di un’unica attività prestata dal lavoratore, che così conseguirebbe una locupletazione non dovuta.
Giova allora chiarire subito come soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Ed è evidente che l’unicità del rapporto venga meno qualora il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare.
D’altro canto, è insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’unicità del rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c. Sicché, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale). In sintesi, il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente.
Si potrebbe però obiettare come, a fronte di una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), questa resti (apparentemente) unica.
In proposito occorre invece osservare come, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto.
Ed infatti, al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti. Una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Non si dubita, ad esempio, che in base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la “sospensione unilaterale” del rapporto da parte del datore di lavoro sia giustificata ed esoneri il medesimo datore dall’obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a fatto dello stesso.
A tale proposito vale la pena rammentare pure il tradizionale orientamento (formatosi antecedentemente alla modifica dell’art. 18 I. 300/1970 con la I. 108/1990) secondo il quale la pronuncia che dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro faceva insorgere l’obbligo del datore, che non ottemperasse a tale ordine, di corrispondere la retribuzione dovuta, in ragione della riaffermata vigenza della lex contractus e della ininterrotta continuità del rapporto di lavoro, con la correlativa equiparazione, alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla disponibilità del lavoratore a riprendere servizio (Cass. S.U. 13 aprile 1988, n. 2925).
La conseguenza che si è tratta è pure coerente con il diritto generale delle obbligazioni, che, non a caso, ha collocato, nel capo (II del Titolo I del libro IV) “Dell’adempimento delle obbligazioni”, la disciplina della mora del creditore (sezione III). Per comprensibili ragioni di diversa coercibilità, essa differenzia le obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni fungibili da quelle relative a prestazioni infungibili (cui evidentemente appartengono quelle inerenti la prestazione di lavoro).
Sicché, per le prime la costituzione in mora credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711). Per le seconde, dovendo l’adempimento della prestazione di fare essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore, basta invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.: integrando insindacabile valutazione di merito l’accertamento della necessità della collaborazione del creditore, affinché il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare (Cass. 12 luglio 1968, n. 2474).
Dai principi di diritto suenunciati discende allora, siccome coerente precipitato logico-giuridico, che, mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari.
Sicché da quel momento l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.
Né tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (Cass. 8 aprile 2019, n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi.
Acclarato che dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione.
Parimenti non sono applicabili le disposizioni contenute nel d. Igs. n. 276 del 2003 laddove all’art. 27, secondo comma (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.
Il meccanismo che consente l’incidenza liberatoria degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o dall’appaltatore è stato richiamato dalla sentenza n. 2990 del 2018 delle Sezioni unite limitatamente ai “pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione” (Cass. 31 ottobre 2018, n. 27976). Il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell’appalto, non ne consente l’applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d’azienda.
Il dato testuale che connette l’effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “ha effettivamente utilizzato la prestazione” esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l’applicazione al caso della cessione di ramo d’azienda, ove l’impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto. E’ che i fenomeni interpositori rappresentati dalla somministrazione irregolare o dall’appalto illecito risultano strutturalmente incomparabili con le cessioni di ramo d’azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto. Nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell’unico rapporto, mentre nel secondo caso l’impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d’impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio.
Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “In caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c. c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa“.
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Il 22 ottobre esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 secondo cui la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento.
In particolare, il Collegio, dopo aver affermato, da un lato, che anche prima che venisse introdotto l’istituto della bonifica, con l’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il danno all’ambiente costituiva un illecito civile, previsto dall’art. 2043 cod. civ. e, dall’altro, che l’autore dell’inquinamento, potendovi provvedere, rimane per tutto questo tempo soggetto agli obblighi conseguenti alla propria condotta illecita, secondo la successione di norme di legge nel frattempo intervenuta, affronta la seguente questione: se gli obblighi connessi all’istituto della bonifica possano essere posti a carico di un soggetto non qualificabile come responsabile dell’inquinamento, per non essere mai stato proprietario, né tanto meno avere mai gestito l’impianto industriale da cui è scaturito l’inquinamento (nel caso oggetto di giudizio fatto addirittura oggetto di trasferimento a terzi mediante cessione di ramo d’azienda prima della fusione per incorporazione) e che pertanto mai abbia potuto provvedere a rimuovere gli effetti di condotte illecite altrui sull’ambiente circostante.
Secondo il Consiglio di Stato, allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo di ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto che, pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno subentrato a quest’ultimo.
Ciò che occorre chiarire e se gli obblighi in questione siano trasmissibili in virtù di fusione per incorporazione dalla società responsabile del danno incorporata alla società incorporante.
A tale quesito l’Adunanza Plenaria dà risposta positiva sulla base del tenore letterale dell’art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione «gli obblighi delle società estinte», ovvero di quelle incorporate (analoga formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società estinte si fa riferimento alle «società partecipanti alla fusione» e al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante).
Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11 novembre 2015, n. 22998, in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.). Sul piano dogmatico la conclusione è avvalorata dal fatto che “responsabilità civile” è espressione che designa l’insieme delle conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’«obblig(o) (…) a risarcire il danno» o nell’alternativa della «reintegrazione in forma specifica», anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il fatto illecito tra le fonti di obbligazione.
La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale. Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata attraverso la società incorporata.
Nel sancire la natura evolutivo-modificativo della fusione la riforma del diritto societario ha pertanto inteso superare quella artificiosa concezione antropomorfista accolta nel codice civile e radicatasi presso la giurisprudenza civile dell’epoca antecedente alla riforma del diritto societario, tendente a dare rilievo preminente al dato formale della personalità giuridica riconosciuta alle società di capitali, che secondo la migliore dottrina commercialistica ha invece carattere strumentale rispetto al regime giuridico di separazione dei patrimoni e delle responsabilità della società rispetto ai soci.
Nella critica alla concezione tradizionale si era in particolare evidenziato che pur in presenza di una vicenda intrinsecamente contraddistinta da una prospettiva di continuità dell’impresa si faceva nondimeno ricorso all’istituto delle successioni mortis causa per trarre le regole giuridiche applicabili al caso di specie, tra cui in particolare: sul piano sostanziale, il principio per cui ogni atto deve essere indirizzato al nuovo ente, unico centro di imputazione giuridica per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione (cfr. ex multis: Cass. civ., I, 22 settembre 1997, n. 9349, 11 giugno 2003, n. 9355); sul piano processuale, le norme relative all’interruzione e alla successione nel processo, ex artt. 110 e 299 e ss. cod. proc. civ. per il caso di fusione avvenuta in corso di causa. La volontà innovatrice della riforma del diritto societario rispetto al descritto assetto si coglie appunto nel riferimento testuale del nuovo art. 2504-bis cod. civ. al fatto che oltre ad “assumere” i diritti e gli obblighi delle incorporate la società incorporante prosegue «in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione».
Lo stesso fondamento logico ricavabile dal principio cuius commoda eius et incommoda è poi alla base:
– dell’analoga disciplina prevista nella fattispecie della cessione di azienda;
– dell’opposta regola, per cui non vi è successione nel debito, in caso di estinzione della società, conseguente alla relativa cancellazione dal registro delle imprese, con efficacia costitutiva ai sensi dell’art. 2495, comma 2, cod. civ., laddove sulla base dell’art. 2456 cod. civ., nella versione antecedente alla riforma del diritto societario, la giurisprudenza di legittimità era invece orientata per la sopravvivenza della società in caso di rapporti non esauriti: Cass. civ., II, 4 ottobre 1999, n. 11201;
– del pari, anche in caso di fallimento, il quale non dà luogo ad alcuna successione della procedura concorsuale rispetto alla società in bonis e che ha invece la funzione di gestione e liquidazione della massa attiva aziendale al fine del soddisfacimento concorsuale dei creditori.
Ritornando al caso della fusione per incorporazione, deve precisarsi che l’effetto suo tipico della successione negli obblighi della società incorporata, già sancito nella previgente formulazione dell’art. 2504-bis cod. civ., non è impedito dal fatto che l’accertamento dell’illecito ambientale possa eventualmente essere successivo all’operazione straordinaria di fusione. Infatti, anche quando funge da presupposto di un provvedimento amministrativo come quello che ordina la bonifica oggetto del presente giudizio, e che dunque modificando la realtà giuridica costituisce obblighi a carico del destinatario del provvedimento, l’accertamento del danno all’ambiente risale per sua natura all’epoca della sua commissione.
La cessione d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo stesso contratti, tra cui quelli da fatto illecito civile. Rispetto a quanto finora considerato può aggiungersi che la successione sul piano civilistico negli obblighi inerenti a fenomeni di contaminazione di siti e di inquinamento ambientale in caso di operazioni societarie contraddistinte dalla continuità dell’impresa pur a fronte del mutamento formale del centro di imputazione giuridica consente di assicurare una miglior tutela dell’ambiente. Attraverso l’istituto elaborato dalla prassi commerciale della due diligence è possibile per il soggetto interessato all’acquisto di un complesso aziendale venire a conoscenza del fenomeno da parte del cedente, autore dei fatti e di concordare sul piano negoziale strumenti in grado di riversare su quest’ultimo le relative conseguenze sul piano economico (ad esempio: attraverso garanzie per sopravvenienze passive), o altrimenti avvalersi dei rimedi civilistici per la responsabilità del medesimo cedente per omessa informazione.
Viene infine osservato che la tesi contraria alla successione consentirebbe una facile elusione degli obblighi maturati nel corso della gestione di una società. Anche per questo ordine di rilievi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha infatti stabilito in materia il principio per cui la fusione mediante incorporazione comporta la trasmissione alla società incorporante dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa.
Questioni intriganti
Cosa si intende per modificazioni soggettive dal lato passivo dell’obbligazione?
- coinvolgono chi è tenuto alla prestazione nell’interesse del creditore, e dunque il debitore;
- si sostanziano in 3 figure: b.1) la delegazione; b.2) l’espromissione; b.3) l’accollo;
- un elemento importante è la fiducia del creditore, il quale perde il “vecchio” debitore per acquisirne eventualmente uno “nuovo”, sulla cui capacità di adempiere in modo effettivo deve poter fare affidamento;
- per questo motivo, solo se vi è il consenso (o l’assenso) del creditore si verifica una autentica successione dal lato passivo nel debito (effetto c.d. “liberatorio”), mentre in difetto di tale manifestazione di volontà del creditore il nuovo debitore si aggiunge semplicemente al vecchio, che non può intendersi liberato dall’obbligo che su di esso grava (effetto c.d. “cumulativo”);
- in caso di effetto liberatorio, esso è tale in senso relativo giacché: e.1) le garanzie del credito si estinguono, ma chi le ha prestate può consentire a mantenerle (art.1275c.); e.2) in caso di obbligazione con “nuovo” debitore nulla o annullata, l’obbligazione nei confronti del “vecchio” debitore rivive (art.1276 c.c.).
In cosa si compendia la delegazione e cosa occorre ricordare a proposito di essa?
- si tratta di una operazione che coinvolge 3 soggetti, e che è prevista dall’1268 c.c.;
- essa fa convergere obbligazioni che, isolatamente considerate, sono distinte tra loro: una nasce dal rapporto di valuta tra il creditore originario delegatario e il debitore originario delegante; l’altra nasce dal rapporto di provvista tra il debitore originario delegante (in veste di creditore) ed il terzo debitore delegato (in veste di debitore); una terza (eventuale) avvince il terzo (nuovo) debitore delegato ed il creditore originario delegatario, sulla scorta del rapporto c.d. finale; in sostanza, il debitore originario delegante può fare in modo che il proprio debitore terzo delegato paghi direttamente al creditore originario delegatario, con adempimento unico ed effetto solutorio complessivo di tutti i rapporti obbligatori coinvolti nell’operazione;
- l’iniziativa viene presa dal debitore di un rapporto obbligatorio preesistente (di valuta), detto delegante, che è a propria volta creditore di un terzo detto delegato sulla base di un diverso rapporto (di provvista); nonostante il terzo debitore delegato sia (a propria volta) debitore del debitore originario delegante giusta rapporto di provvista, egli non è obbligato (ex art.1269 c.c.) ad accettare l’incarico conferitogli dal debitore originario delegante di pagare direttamente ovvero di obbligarsi nei confronti del creditore originario delegatario; sul versante del rapporto di valuta, quando il debitore originario delegante assegna al creditore originario delegatario un debitore terzo delegato, secondo la tesi più accreditata egli fa luogo ad un atto autorizzativo, autorizzando appunto il creditore originario delegatario a riscuotere il credito che egli vanta nei confronti del delegato; non mancano casi in cui il delegante non è in realtà debitore del delegatario, come quando la causa dell’incarico al terzo delegato sia lo spirito di liberalità e dunque l’intenzione di arricchire il terzo delegatario (originariamente non creditore del delegante); né mancano casi in cui il delegato non è debitore del delegante (che invece è debitore del creditore delegatario), fattispecie in cui la delegazione si definisce “allo scoperto” ed il delegato accetta l’incarico di obbligarsi o di pagare al delegatario (in luogo del debitore delegante) sulla base di un rapporto di tipo diverso (ad esempio, nel meccanismo del bonifico bancario il rapporto di conto corrente che lo avvince, come banca, al correntista creditore delegatario);
- il delegante, in veste di creditore del delegato, ordina al delegato medesimo: c.1) di assumere il proprio debito nei confronti del creditore, detto delegatario (c.d. delegatio promittendi), ai sensi dell’1268 c.c.; in questa ipotesi il rapporto obbligatorio originario risulta rafforzato in quanto al debitore originario (delegante) si affianca a beneficio del creditore (delegatario) un altro debitore (delegato) che assume la veste di debitore principale; la regola è infatti che il debitore originario (delegante) non è liberato, declinandosi allora la delegazione come “cumulativa”, con obbligazione del delegato che si aggiunge a quella del delegante; c.1.1.) la delegazione cumulativa può essere “titolata”, con richiamo ai rapporti rispettivamente di provvista (delegante-delegato) e di valuta (delegante-delegatario), ed allora l’obbligazione originaria del delegante e quella nuova del delegato sono solidali, onde nel caso di adempimento dell’una, si estingue anche l’altra; la delegazione cumulativa può invece essere “astratta”, ed allora il debito originario del delegante e quello nuovo del delegato non sono solidali, in quanto il delegante non può opporre al delegatario le eccezioni che potrebbe opporgli il delegato, né quest’ultimo quelle che potrebbe opporgli il delegante, onde si assiste ad una connessione unilaterale tra i due obblighi alla cui stregua il delegante incarica il delegato di obbligarsi nei confronti del creditore delegatario con facendo sì che l’adempimento da parte del delegato (che soddisfa l’interesse del delegatario) venga imputato al delegante e ne estingua l’obbligazione, dovendo peraltro il creditore delegatario che abbia accettato l’obbligazione del terzo delegato – in forza del c.d. beneficium ordinis – rivolgersi prima a quest’ultimo e solo dopo che tale richiesta sia rimasta infruttuosa, al delegante; c.1.2.) se la regola è quella della delegazione cumulativa (titolata e solidale, ovvero astratta e non solidale) una espressa dichiarazione del creditore delegatario può liberare il delegante facendo dunque luogo alla delegazione c.d. “liberatoria”; in questo caso l’obbligazione del nuovo debitore delegato non si aggiunge a quella del debitore originario delegante, ma si sostituisce ad essa estinguendola, e questo è il motivo per il quale il creditore delegatario deve espressamente consentire a tale liberazione, essendo chiamato a sopportare il rischio dell’insolvenza del nuovo debitore delegato, stante come laddove tale insolvenza si produca, egli (ex art.1274 c.c.) non può comunque più rivolgersi al debitore originario delegante, a meno che non ne abbia fatto espressa riserva; anche in difetto di espressa riserva peraltro, il creditore delegatario può rivolgersi ancora al debitore originario delegante (pur espressamente liberato) laddove il nuovo debitore delegato sia già insolvente nel momento in cui assume il debito nei confronti del creditore delegatario medesimo: in disparte la buona fede delle parti dell’operazione, l’efficacia della liberazione espressa del debitore originario delegante è subordinata dunque alla solvenza del delegato al momento della ridetta liberazione, mentre laddove il delegato sia solvibile al momento della liberazione del delegante e divenga insolvibile successivamente, il rischio ricade sul creditore delegatario che ha proceduto a liberare il debitore originario delegante; laddove vi sia stata da parte del creditore delegatario espressa riserva, la liberazione del debitore originario delegante ha effetti immediati, ma se quando scade l’obbligazione (in questo caso non, dunque, quando nasce) il nuovo debitore delegato è insolvente, gli effetti della liberazione dell’originario debitore delegante vengono meno (condizione sospensiva di solvibilità del delegato ovvero risolutiva di insolvibilità del delegato medesimo); la delegazione liberatoria produce altri effetti legati da un lato alle garanzie prestate con riguardo al debito originario del delegante (che si estinguono, salvo che chi le ha prestate consenta espressamente a mantenerle: art.1275 c.c.) e dall’altro alla sorte dell’obbligazione originaria del delegante in caso di nullità, annullamento (art.1276 c.c.) nonché – secondo la tesi più accreditata – anche rescissione, risoluzione e revocazione della nuova obbligazione del delegato, tutte fattispecie in cui la obbligazione originaria del delegante rivive; c.2) di pagare senz’altro il proprio debito nei confronti del creditore delegatario (c.d. delegatio solvendi), ai sensi dell’art.1269 c.c., fattispecie nella quale dunque il delegato non si obbliga verso il creditore delegatario e – nel momento in cui adempie – estingue il debito del delegante (che gli impartisce l’ordine) verso il delegatario; nell’ipotesi (non necessaria) in cui il delegato si trovi in rapporto (di provvista) con il delegante, l’adempimento nei confronti del creditore delegatario estingue anche tale debito, con doppio effetto solutorio complessivo; occorre qui distinguere l’ipotesi pura e semplice del pagamento del delegato al creditore delegatario, laddove quest’ultimo non deve aderire prestando il proprio consenso, né può rifiutare il pagamento del terzo delegato, onde la struttura dell’operazione non è trilaterale, dalla delegazione di pagamento “titolata”, caratterizzata dal pagamento da parte del delegato con richiamo ad uno dei due rapporti fondanti ed in particolare al rapporto di provvista (delegante-delegato), laddove invece il creditore delegatario deve aderire e può non farlo laddove voglia scongiurare che il delegato gli opponga le eccezioni che potrebbe opporre al delegante sulla scorta proprio del rapporto di provvista; importante poi distinguere la delegazione di pagamento dall’adempimento del terzo ex art.1180 c.c., quest’ultimo caratterizzandosi come spontaneo (il terzo non è sostituto, né ausiliario, né rappresentante o legittimato legale del debitore) laddove nella delegazione di pagamento il terzo (delegato) paga al creditore delegatario in esecuzione di un incarico ricevuto dal debitore delegante;
- dal punto di vista della struttura e della causa, si contendono il campo 2 diverse teorie: d.1) si tratta di un unico negozio trilaterale che persegue un’unica funzione e che dunque ha un’unica causa “complessiva” astratta, tipica e costante, quella di sostituire al vecchio debitore uno nuovo; causa astratta e tipica alla quale si affianca la causa concreta di volta in volta perseguita dalle parti; più in specie, mentre la delegazione pura ha solo causa astratta e dunque è un negozio astratto, quella “titolata” che fa riferimento esplicito ai rapporti tra le parti che ne sono protagoniste (rapporto di provvista tra delegante e delegato; rapporto di valuta tra delegante e delegatario), proprio perché tale, affianca appunto alla causa tipica e astratta una causa concreta specifica ed estemporanea, onde il delegato si obbliga nei confronti del delegatario per spirito di liberalità nei confronti del delegante, ovvero a titolo di controprestazione nell’economia di un rapporto che ha con il delegante (tesi meno accreditata); d.2) si tratta di una pluralità di negozi recettizi tra loro collegati: quello con il quale il delegante ordina (incarica) il delegato di indebitarsi nei confronti del delegatario, che non richiede il consenso di quest’ultimo; l’autorizzazione che il delegante rilascia al proprio creditore originario delegatario a riscuotere il credito che egli vanta a propria volta nei confronti del delegato, che dunque è “nuovo” debitore del delegatario, senza (anche qui) che per tale negozio occorra il consenso del debitore delegato; quando si tratta di delegatio promittendi, l’assunzione da parte del debitore delegato del debito (originariamente del delegante) nei confronti del (per lui) nuovo creditore delegatario, quale atto unilaterale fondato sulla esclusiva volontà di tale debitore delegato (oltre che ovviamente sull’ordine impartitogli dal proprio creditore, originario debitore delegante); abbracciando questa opzione ermeneutica, la fattispecie delegatoria palesa una doppia causa, quella avvinta al rapporto tra delegante e delegato (c.d. rapporto di provvista) e quella connessa al rapporto tra delegante e creditore delegatario (c.d. rapporto di valuta), mentre del tutto svincolato da tali rapporti di base è il rapporto tra delegato e delegatario, che proprio perché tale resta indifferente alla eventuale invalidità di uno di tali rapporti di base; da questo punto di vista, si assiste a più negozi che sono tutti funzionali alla soddisfazione di un interesse unitario, quello alla concentrazione delle prestazioni, onde tali negozi restano distinti ma collegati tra loro proprio grazie ad una causa complessivamente unitaria (tesi più accreditata);
- importante il regime delle eccezioni, scolpito all’1271 c.c. ed imperniato sulla normale “astrattezza” della delegazione (rispetto ai rapporti base che la fondano), alla cui stregua: f.1) per quanto concerne il “rapporto finale”, il delegato può opporre al creditore delegatario tutte le eccezioni afferenti ai rapporti tra loro, potendo dunque non pagare nella delegatio promittendi, ovvero potendo ripetere la prestazione effettuata nella delegatio solvendi; f.2) per quanto invece concerne il rapporto di provvista, il nuovo debitore delegato non può opporre al creditore delegatario le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’originario debitore delegante (che in genere ne è creditore), esclusa una diversa pattuizione delle parti (che lo abilita appunto a tale eccezione); f.3) per quanto poi riguarda il rapporto di valuta, il nuovo debitore delegato può opporre al creditore delegatario la nullità di tale rapporto di valuta (fattispecie nella quale già il debitore originario delegante nulla avrebbe dovuto prestare nei confronti del creditore delegatario), e può sollevare eccezioni diverse solo laddove la delegazione sia titolata ed il rapporto di valuta sia stato espressamente richiamato, entrando nella “causa” della delegazione; va rammentato in proposito come, in tema di nullità, mentre il codice civile (art.1271, comma 2, c.c.) fa riferimento alla delegazione “titolata” con riguardo al solo rapporto di valuta – e dunque al rapporto che fonda il debito originario – la giurisprudenza tende invece a guardare anche al rapporto di provvista (quello tra vecchio debitore delegante e nuovo debitore delegato) con la teoria c.d. della “nullità della doppia causa”, sul presupposto onde la nullità (o l’inesistenza) del rapporto di valuta (l’unico in relazione al quale il codice civile parla di nullità) pregiudica in realtà l’intera “causa” della delegazione nella pertinente struttura trilaterale (si può delegare qualcosa di valido, e non già anche qualcosa di inesistente o invalido), con il precipitato della configurabilità di una deroga alla “ordinaria” astrattezza della delegazione, in termini di pertinenti eccezioni sollevabili dal nuovo debitore delegato.
In cosa si compendia l’espromissione e cosa occorre ricordare a proposito di essa?
- la fattispecie è prevista all’1272 c.c.;
- l’iniziativa – vista dal creditore – viene assunta spontaneamente da un soggetto terzo rispetto al rapporto obbligatorio originario;
- tale terzo, detto espromittente, quale nuovo debitore assume il debito del vecchio debitore, detto espromesso, senza che figuri che quest’ultimo lo abbia delegato e gli abbia dunque conferito un pertinente incarico;
- l’effetto ordinario è che entrambi i debitori, il vecchio (espromesso) e il nuovo (espromittente) sono obbligati in solido nei confronti del creditore, detto espromissario, configurandosi l’espromissione d. cumulativa;
- il creditore espromissario può tuttavia dichiarare espressamente di liberare il vecchio debitore espromesso, con conseguente configurabilità di una espromissione liberatoria;
- il nuovo debitore espromittente appare al creditore come interventore autonomo e spontaneo; manca all’apparenza una delega del vecchio debitore espromesso, ma questo non toglie che un incarico sottostante possa esserci, non venendo tuttavia tale eventuale incarico palesato al creditore espromissario, onde per quest’ultimo l’adempimento del nuovo obbligo (che si affianca al vecchio) non è imputabile al vecchio debitore espromesso ma al nuovo debitore espromittente, che peraltro non paga immediatamente, ma piuttosto si assume appunto l’obbligo del debitore originario espromesso;
- ciò a differenza della delegazione, laddove l’incarico viene dal nuovo debitore delegato palesato al creditore delegatario (quand’anche non venga richiamato il rapporto di provvista che tale incarico fonda), onde nella delegazione l’adempimento è in realtà imputato al vecchio debitore delegante, quand’anche eseguito dal nuovo debitore delegato;
- l’espromissione – a differenza della delegazione – non si configura in modo sdoppiato, nella duplice forma “solvendi” e “promittendi” – ma con la sola foggia “promittendi” in quanto il terzo nuovo debitore espromittente “si obbliga” nei confronti del creditore espromissario, e non adempie direttamente soddisfacendone illico et immediate l’interesse; ciò distingue l’espromissione – sempre obbligatoria – dall’adempimento del terzo ex art.1180c., sempre solutorio;
- in tema di natura giuridica, si contendono il campo 2 tesi: i.1) si tratta sempre di un contratto a prestazioni corrispettive tra terzo nuovo debitore espromittente e creditore espromissario, laddove alla prestazione cui si obbliga il nuovo debitore espromittente si giustappone quella del creditore espromissario in termini di liberazione del vecchio debitore espromesso (fattispecie liberatoria) ovvero di degradazione a sussidiaria della relativa responsabilità (fattispecie cumulativa, laddove il creditore espromissario deve comunque prima chiedere al nuovo debitore espromittente e solo poi al vecchio debitore espromesso); i.2) laddove l’espromissione sia cumulativa (e dunque il vecchio debitore non ne risulti liberato), si è al cospetto di un atto unilaterale negoziale del nuovo debitore espromittente con il quale egli si assume il debito originariamente gravante in capo solo al debitore espromesso, dovendosi ritenere il consenso del creditore come meramente eventuale, stante la superfluità della relativa accettazione con riguardo ad effetti per lui solo favorevoli (lo schema richiama dunque quello dell’art.1333c.);
- dal punto di vista delle eccezioni – premesso che laddove il nuovo debitore espromittente non opponga al creditore espromissario quelle proponibili, ne risulta sterilizzata l’azione di regresso nei confronti del vecchio debitore espromesso – occorre distinguere: j.1) rapporto di provvista: il nuovo debitore espromittente non può opporre al creditore espromissario le eccezioni relative ai propri rapporti con il vecchio debitore espromesso, ma a questa regola generale è ammessa una espressa eccezione, onde il creditore può consentire espressamente alla sollevabilità di tali eccezioni; j.2) rapporto di valuta: il nuovo debitore espromittente può opporre al creditore espromissario le eccezioni (anteriori all’espromissione) che avrebbe potuto opporgli il vecchio debitore espromesso, ad eccezione di quelle personali e di quelle successive all’espromissione, come nel caso in cui l’obbligazione originaria nella quale l’espromittente subentra sia inesistente ovvero sia già stata estinta; le eccezioni sollevabili dall’espromesso prima dell’espromissione sono dunque sollevabili dal nuovo debitore espromittente, ad eccezione dell’eccezione di compensazione (che potrebbe dunque sollevare il solo vecchio debitore espromesso); j.3) rapporto “finale” o negozio di espromissione tra nuovo debitore espromittente e creditore espromissario: sono opponibili dal primo al secondo tutte le eccezioni relative alla esistenza ed alla validità del negozio di espromissione, e ciò sulla scorta della circostanza onde la causa dell’espromissione è l’assunzione (spontanea) di un debito altrui, onde se il credito dell’espromissario è in realtà inesistente, ovvero è prescritto, tale assunzione resta “sine causa”.
In cosa si compendia l’accollo e cosa occorre ricordare a proposito di esso?
- la fattispecie è prevista all’1273 c.c.;
- si tratta di un negozio tra vecchio debitore accollato e terzo nuovo debitore accollante, che convengono tra loro che il secondo si assuma il debito del primo verso il creditore accollatario;
- differisce dall’espromissione perché l’accordo non interviene tra terzo e creditore, ma tra terzo e vecchio debitore;
- differisce dalla delegazione perché non vi è un incarico del vecchio debitore di pagare senz’altro, ovvero di promettere di pagare, al creditore, ma vi è un accordo attraverso il quale il nuovo debitore (accollante) si assume il debito del vecchio (accollato) nei confronti del creditore;
- si configurano 2 modelli di accollo: e.1) l’accollo interno, onde l’accordo – contratto bilaterale – resta tra accollante e accollato e spiega effetti solo tra loro, rimanendovi esterno il creditore; se il terzo nuovo debitore accollante è inadempiente, egli risponde solo nei confronti del vecchio debitore accollato, quale debitore originario; e.2) l’accollo esterno, fattispecie (secondo la tesi più accreditata) di contratto a favore di terzo nella quale il creditore sa dell’accordo tra vecchio e nuovo debitore e può aderirvi, in tal modo rendendo irrevocabile la stipulazione a proprio favore; il consenso del creditore non occorre per il perfezionamento dell’accordo, acquisendo egli direttamente il diritto alla prestazione nei confronti del terzo accollante secondo appunto lo schema del contratto a favore di terzo: detto consenso espresso del creditore accollatario ha allora la sola funzione di rendere irrevocabile la stipulazione a proprio favore (secondo la tesi meno accreditata, il consenso del creditore accollatario è invece da intendersi imprescindibile e costitutivo, configurando l’accollo esterno un contratto necessariamente trilaterale); qui il creditore acquisisce, in ogni caso, un credito verso il nuovo debitore accollante che: e.2.1) in caso di accollo esterno cumulativo, si aggiunge a quella dell’originario debitore accollato, quantunque l’obbligazione di quest’ultimo divenga sussidiaria dal momento che il creditore ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento al nuovo debitore accollante (pur senza doverlo del pari preventivamente escutere), e potendo rivolgersi al vecchio debitore accollato solo laddove la prima richiesta sia rimasta infruttuosa; e.2.2.) in caso di accollo esterno liberatorio – allorché il creditore dichiari espressamente di liberare il vecchio debitore accollato – la ridetta acquisizione del credito verso l’accollante estingue l’originaria obbligazione dell’accollato medesimo; una variante, del pari liberatoria, è quella in cui l’adesione del creditore costituisca condizione espressa della stipulazione tra accollante e accollato, con la conseguenza appunto che detta adesione creditoria concreta l’evento dedotto in condizione e libera l’originario debitore accollato;
- dal punto di vista funzionale, l’accollo presenta una propria causa di tipo generico e di natura tipica e costante che si compendia nella assunzione del debito altrui; a tale causa generica ed astratta se ne aggiunge una concreta e tipica, specifica del negozio all’interno del quale l’accollo si inserisce (onde ad esempio l’accollante potrebbe ricevere in cambio dall’accollato la cessione in proprietà di un bene, ovvero il diritto ad una controprestazione);
- per quanto concerne le eccezioni, se nell’accollo interno il creditore resta estraneo e non vanta alcuna azione nei confronti del terzo nuovo debitore accollante, onde un problema di eccezioni neppure si pone, laddove l’accollo sia esterno – con adesione del creditore alla stipulazione – la responsabilità del terzo nuovo debitore accollante è limitata alla parte di debito che egli si è accollato, mentre per l’eventuale residuo continua a rispondere il solo debitore originario accollato, potendo tale circostanza tradursi in una eccezione laddove il creditore chieda all’accollante l’intero; in sostanza, il terzo nuovo debitore accollante può opporre al creditore accollatario le eccezioni che si fondano sul contratto (di accollo appunto) in base al quale, d’accordo con il vecchio debitore accollato, egli ne ha assunto il debito, concretamente inteso; si tratta di una applicazione all’accollo di quanto già previsto dall’art.1413c. in tema di contratto a favore di terzo e di eccezioni opponibili dal promittente (qui, l’accollante) al terzo (qui, il creditore accollatario), onde sarà opponibile al creditore accollatario la nullità, l’annullabilità, la risoluzione o la rescissione del contratto di accollo; poiché poi l’accollo fa luogo ad una successione nel debito, il terzo nuovo debitore accollante si assume poter opporre al creditore accollatario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre il vecchio debitore accollato, escluse le eccezioni a lui personali e quelle afferenti a fatti successivi alla convenzione di accollo; si ritiene tuttavia che il nuovo debitore accollante non possa opporre in compensazione al creditore accollatario neppure i crediti del debitore originario accollato anteriori all’accollo (analogamente a quanto accade in tema di espromissione);
- una figura particolare è quella dell’accollo di debiti futuri, che è in qualche modo accostabile – in termini di regime e di problematiche ad esso afferenti – alla fideiussione per debiti futuri, laddove ad essere coinvolto è l’oggetto del contratto, ed in particolare la relativa determinabilità ex 1346 c.c.: è evidente infatti che i debiti futuri che il nuovo debitore accollante si assume possono non essere a priori determinati, né determinabili; come accade ogni qual volta un accordo coinvolga beni futuri, la relativa efficacia è poi condizionata alla venuta ad esistenza di detti beni e dunque, nel caso di specie, del rapporto di debito/credito in relazione al quale l’accollato subentra; l’accollo di debiti futuri riguarda appunto, eventualmente, tanto situazioni ab origine di “possibile debito” tuttavia ancora non attuale, quanto situazioni che in origine sono di mera soggezione e che possono, nel futuro appunto, tradursi in debiti di tipo restitutorio, con problemi tuttavia di determinatezza e/o determinabilità dell’oggetto dell’accollo medesimo (come nell’ipotesi dell’accollo ex lege a valle di una cessione di azienda e della possibilità per il cessionario di vedersi chiedere in restituzione somme a suo tempo versate al cedente con pagamento poi fatto oggetto di revoca in sede ordinaria o fallimentare).