<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, ordinanza 23 giugno 2020 n. 121</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Napoli</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="3"> <li style="font-weight: 400;"><em> La questione non è fondata.</em></li> </ol> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1. Nella sentenza n. 34 del 2019, richiamata dalla rimettente, questa Corte – premesso che «per la giurisprudenza europea il rimedio interno deve garantire la durata ragionevole del giudizio o l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale ed il rimedio preventivo è tale se efficacemente sollecitatorio» ‒</em><em> è pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale del citato comma 2 dell’art. 54 del d.l. n. 112 del</em><em> 2008, come convertito, per avere considerato che l’istanza di prelievo – quale da detta norma disciplinata, «prima della rimodulazione come rimedio preventivo operatane dalla legge n. 208 del 2015 [sub comma 3 del medesimo art. 1-ter, qui in esame]» – costituiva non un adempimento necessario, ma «una mera facoltà del ricorrente […] con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Dal che il ravvisato vulnus all’art. 117, primo comma, Cost., e agli interposti parametri convenzionali, ritenuto assorbente di ogni altra censura.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.2. Sulla base di analoghe argomentazioni, la successiva sentenza n. 169 del 2019 ha dichiarato costituzionalmente illegittima la parallela disposizione di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della “legge Pinto” (poi implicitamente abrogata dall’art. 1, comma 777, lettera c, della legge n. 208 del 2015) – la quale, nel periodo di sua vigenza, stabiliva che «[n]on è riconosciuto alcuno indennizzo […] quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini [di sua ragionevole durata]».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Anche quella istanza di accelerazione (a sua volta come disciplinata prima della riformulazione operatane dal comma 2 del succitato art. 1-ter) è stata ritenuta priva, infatti, di concreta efficacia acceleratoria del processo, «[a]tteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.3. Diversa dalle previgenti normative (facenti riferimento alle menzionate istanze di prelievo e di accelerazione) ‒</em><em> che hanno formato oggetto delle citate sentenze n. 34 e n. 169 del 2019 ‒</em><em> è, però, la normativa ora in e</em><em>same. La quale subordina l’ammissibilità della domanda di equo indennizzo per durata non ragionevole del processo, non già alla proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” ‒</em><em> che si riduce ad un adempimento puramente formale ‒</em><em> bensì alla proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato</em><em>.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.4. Infatti, il rimedio preventivo prefigurato nel caso di specie, di cui la parte richiedente l’indennizzo non si è avvalsa, è costituito dalla proposizione di un’istanza di adesione al tipo decisionale della trattazione orale, come regolato dall’art. 281-sexies cod. proc. civ., il quale prevede che il giudice possa fissare, all’esito della precisazione delle conclusioni, la discussione orale – nella stessa udienza di precisazione delle conclusioni o, su istanza di parte, in un’udienza successiva – e possa, all’esito, decidere la causa al termine della discussione, mediante lettura a verbale che riporti la sintetica motivazione delle ragioni della decisione. La richiesta di adozione di un tale modello è, evidentemente, ben più di un atto formale, essendo piuttosto volta ad attivare un rimedio in forma specifica. E ciò perché, diversamente dalle istanze di prelievo nel processo amministrativo e di accelerazione nel processo penale, in questo caso non si tratta, appunto, di un mero invito al giudice volto ad accelerare lo svolgimento del processo, bensì del concreto suggerimento di modelli sub-procedimentali (rientranti nel quadro dei procedimenti decisori previsti dal regime processuale), teleologicamente funzionali al raggiungimento di tale scopo, con effettiva valenza sollecitatoria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.5. Segnatamente, l’art. 1-ter, comma 1, della legge n. 89 del 2001 individua, tra i rimedi preventivi esperibili, uno strumento attinente alla trattazione del processo, ove sia proposta l’istanza di mutamento del rito da ordinario di cognizione in sommario di cognizione ai sensi dell’art. 183-bis cod. proc. civ. (norma non applicabile al caso di specie), ovvero uno strumento riguardante le forme di svolgimento della decisione, ove (almeno 6 mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata del giudizio) sia avanzata richiesta di definizione del contenzioso secondo lo schema più duttile e concentrato della pronuncia della sentenza semplificata immediatamente a seguito di discussione orale. L’adesione a siffatto modello decisionale consente di decidere la causa all’esito della discussione orale, con lettura a verbale della pronuncia, evitando così la concessione dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, rispettivamente nei termini di giorni 60 e 20 decorrenti dalla precisazione delle conclusioni, con deposito della sentenza nei 30 giorni successivi: sentenza che, anche in questo caso, deve comunque recare una motivazione che «consenta […] di ricostruire, sia pur sinteticamente, i fatti di causa, e offra alla fattispecie concretamente esaminata una soluzione corretta sul piano logico-giuridico» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 12 giugno 2015, n. 12203).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.6. L’effettività del mutamento dello schema decisorio non dipende direttamente, peraltro, dalla richiesta della parte, ma dalla valutazione della opportunità o meno di aderirvi, nel caso concreto, che «[r]ientra nell’ambito della discrezionalità del giudice del merito» (Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 4 settembre 2019, n. 22094).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò che la normativa censurata richiede alla parte del processo in corso è solo, dunque, un comportamento collaborativo con il giudicante, al quale manifestare la propria disponibilità al passaggio al rito semplificato o al modello decisorio concentrato, in tempo potenzialmente utile ad evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo stesso: restando, per l’effetto, ammissibile il successivo esperimento dell’azione indennitaria per l’eccessiva durata del processo, che, nonostante la richiesta di attivazione del rimedio acceleratorio, si fosse poi comunque verificata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’eventuale limitato margine di compressione della tutela giurisdizionale, peraltro con riguardo alle sole modalità del suo esercizio e non alla qualità del relativo approfondimento, che possa derivare alla parte dal passaggio al rito semplificato, riflette una legittima opzione del legislatore nel quadro di un bilanciamento di valori di pari rilievo costituzionale: quali, da un lato, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e, dall’altro, il valore del giusto processo (art. 111 Cost.), per il profilo della ragionevole durata delle liti, che trova ostacolo nella già abnorme mole del contenzioso (sentenza n. 157 del 2014), innegabilmente aggravata dal flusso indiscriminato dei procedimenti per equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001 (sentenza n. 135 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Diversamente da quanto sostenuto dalla Corte rimettente, non è pertanto, in questo caso, irragionevole o non proporzionata la sanzione di inammissibilità sub comma 1 dell’art. 2 della “legge Pinto”, che vale a richiamare la parte del processo all’osservanza dell’onere di diligenza presupposto dal comma 1 del precedente art. 1-ter.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.7. Conclusivamente, i rimedi introdotti, con riguardo al processo civile, dal combinato disposto delle disposizioni censurate, per l’effetto acceleratorio della decisione che può conseguirne, sono linearmente riconducibili alla categoria dei «rimedi preventivi volti ad evitare che la durata del processo diventi eccessivamente lunga». Rimedi, questi, che la giurisprudenza europea ritiene non solo ammissibili, ma «addirittura preferibili […] eventualmente in combinazione con quelli indennitari» (Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). Secondo, infatti, la Corte di Strasburgo, quando un sistema giudiziario si rivela lacunoso rispetto all’esigenza derivante dall’art. 6 della CEDU, per quanto riguarda il termine ragionevole del processo, un rimedio che permetta di accelerarlo, allo scopo di impedirne una durata eccessiva, costituisce la soluzione più efficace. Tale rimedio presenta infatti un vantaggio innegabile rispetto ad un rimedio unicamente risarcitorio, in quanto permette di accelerare la decisione del giudice interessato, evita altresì di dover accertare l’avvicendarsi di violazioni dello stesso procedimento e non si limita ad agire a posteriori come nel caso del rimedio risarcitorio (Corte EDU, sentenza 25 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.8. Da ciò, dunque, l’insussistenza del prospettato contrasto delle disposizioni denunciate con i parametri evocati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p>