Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 24 giugno 2020 n. 12476
PRINCIPI DI DIRITTO
– Oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sè, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene a esecuzione;
– il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, soltanto per il suo valore;
– ove l’azione costitutiva non sia stata dai creditori dell’alienante introdotta prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce oggetto, essa stante l’intangibilità dell’asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (cd. cristallizzazione) – non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, poichè giustappunto si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente;
– in questo caso i creditori dell’alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l’alienante sia fallito) restano tutelati nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, demandando al giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
. – La curatela ricorrente deduce: (i) col primo motivo, la violazione della L. Fall., artt. 52 e 66, nonchè degli artt. 2740 e 2901 c.c., stante, a suo dire, l’erroneità dell’interpretazione fornita dal tribunale in relazione al principio di cristallizzazione del passivo fallimentare, visto che il predetto principio soffre diverse deroghe – espressamente previste dalla L. Fall., artt. 70,56,74 e 80 – e visto che la dichiarazione di inefficacia, contenuta nella sentenza di accoglimento di una domanda revocatoria, si limita a confermare l’inefficacia originaria dell’atto dispositivo di cui si chiede la revoca; (ii) col secondo motivo, la violazione della L. Fall., artt. 52 e 66 e art. 2901 c.c., stante l’erroneità dell’ulteriore affermazione contenuta nel provvedimento impugnato secondo cui la natura costitutiva dell’azione revocatoria determinerebbe il sorgere di effetti positivi in favore della parte attrice solo al momento dell’accoglimento della domanda, e non già, invece, al momento del compimento dell’atto dispositivo del quale si chiede la revoca; (iii) col terzo motivo, infine, la violazione della L. Fall., artt. 66 e 216, alla luce della conseguente conservazione di effetti pregiudizievoli degli atti dispositivi e distrattivi se commessi da soggetto fallito, nonostante l’inevitabile configurabilità di conseguenze penali derivanti dalla loro commissione.
- – I sopra sintetizzati motivi di doglianza investono, tutti, in un modo o nell’altro la medesima questione giuridica, e cioè per l’appunto se sia ammissibile o meno l’azione revocatoria (nello specifico la revocatoria ordinaria) avanzata, dopo l’apertura del concorso, nei confronti di una curatela fallimentare. La peculiarità è rappresentata dal fatto che la domanda della curatela di (OMISSIS) s.r.l. risulta esser stata avanzata in sede di rivendica fallimentare, ai sensi della L. Fall., art. 103.
Come rappresentato dall’ordinanza interlocutoria, la questione giuridica sottostante alle censure è stata recentemente risolta dalle Sezioni unite con la richiamata sentenza n. 30416 del 2018, e peraltro sulla base di principi da considerare in continuità con l’orientamento tradizionale e prevalente della giurisprudenza della Corte.
La ricostruzione del suddetto orientamento è evincibile dalla motivazione della citata sentenza, alla quale in questa sede si può dunque rinviare. E’ sufficiente metterne in risalto l’approdo, che si risolve nell’affermazione di principio per cui è inammissibile l’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, esperita nei confronti di un fallimento, poichè si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente, e poichè nel sistema opera il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori.
L’ordinanza interlocutoria – riferendo di talune distinte posizioni emerse in dottrina in senso critico rispetto al citato orientamento – ipotizza invece (ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3) che la soluzione del problema interpretativo possa essere diversa in ragione dell’esigenza di assicurare tutela al ceto creditorio del soggetto disponente, dinanzi a un evento comunque verificatosi prima del fallimento del beneficiario dell’atto; evento che arricchirebbe i creditori di questo a danno, invece, di quelli del primo.
E a questo riguardo riporta dettagliatamente (addirittura in qualche caso testualmente) gli argomenti di derivazione dottrinale che consentirebbero di addivenire a un tal ripensamento.
Deve nondimeno osservarsi che nel sunteggiare le posizioni emerse in dottrina l’ordinanza interlocutoria opera per crasi, praticamente unendo gli assunti di chi ancora oggi invoca una sorta di rivoluzione dei principi giurisprudenziali in tema di revocatoria alle incompatibili tesi di chi, invece, quei principi più semplicemente sollecita che siano chiariti sui versante dei possibili rimedi, col fine di tutelare i creditori lesi dall’atto di frode.
In proposito il Collegio reputa doversi operare gli opportuni distinguo, perchè gli spunti relativi ai profili di fondo che governano la materia sono inidonei a un mutamento di giurisprudenza, mentre possiedono una certa puntualità quelli attinenti al risultato dell’interpretazione in rapporto al fattore cronologico.
Codesto fattore, essendo identificabile nella prevenzione o meno dell’azione rispetto alla dichiarazione di fallimento del destinatario, postula, nella seconda alternativa, di rinvenire in ambito concorsuale il punto di equilibrio di una soluzione tecnicamente idonea a tutelare anche il ceto creditorio leso nella garanzia patrimoniale – quello dell’alienante -, in tal guisa epurando il richiamato approdo giurisprudenziale da altrimenti inevitabili aporie di sistema.
III. – L’ordinanza interlocutoria invita a revisionare l’orientamento espresso dalla sentenza n. 30416 del 2018.
La prima ragione di ripensamento andrebbe basata sulla novità del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (breviter C.c.i.i.).
L’art. 290 del C.c.i.i. contiene (al netto del refuso leggibile nella motivazione dell’ordinanza interlocutoria) la previsione per cui “il curatore della procedura di liquidazione giudiziaria aperta nei confronti di una società appartenente ad un gruppo può esercitare, nei confronti delle altre società del gruppo, l’azione revocatoria prevista dall’art. 166, degli atti compiuti dopo il deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o, nei casi di cui all’art. 166, comma 1, lett. a) e b), nei due anni anteriori al deposito della domanda o nell’anno anteriore, nei casi di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) e d)”.
Simile disciplina, parte integrante dell’ordinamento positivo nonostante la lunga vacatio legis prevista, viene dall’ordinanza interlocutoria richiamata a distinti fini interpretativi e ricostruttivi (fermo il fatto di non essere cioè la norma direttamente applicabile nel caso concreto ratione temporis), per l’idoneità che ne deriverebbe onde superare l’argomento letterale reso dalla sentenza n. 30416 del 2018 a proposito della natura speciale – e come tale non generalizzabile – dell’omologa norma di cui al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91, in ordine alla cd. revocatoria aggravata nelle (sole) procedure di amministrazione straordinaria.
- – Da codesto argomento occorre sgombrare immediatamente il campo, poichè esso, sebbene in parte anche suggestivo, non possiede un peso specifico tale da incidere nel caso di specie.
Il C.c.i.i. è testo in generale non applicabile – per scelta del legislatore – alle procedure (come quella in esame) aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, comma 1, C.c.i.i.), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare – nello specifico segmento – un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro.
Così non è per ciò che attiene alla questione che rileva.
Da un lato, l’art. 290 del citato C.c.i.i. si muove nel solco di una complessiva e più decisa opera di inquadramento normativo delle procedure di gruppo, non esistente nel testo (pur riformato) della legge fallimentare; dall’altro, e in ogni caso, il riferimento specifico dell’ordinanza interlocutoria e la linea di collegamento da essa istituita tra l’art. 290 del citato C.c.i.i. e il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91 (unica norma evocatile nell’attuale regime della concorsualità) non giovano più di tanto.
Ben vero in questa prospettiva deve essere meglio sorretta l’affermazione rinvenibile nella sentenza n. 30416 del 2018, visto che il richiamo alla previsione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91, era stato già fatto dall’ordinanza interlocutoria n. 1894-18, in allora posta al fondo della rimessione. La sentenza n. 30416 del 2018 ha ritenuto che il richiamo anzidetto non fosse in generale pertinente “poichè riguardante una procedura “speciale”, ancorata a presupposti specifici (con i connessi problemi di tutela dei gruppi di creditori”.
Tali creditori – ha osservato quella sentenza – “sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi”, donde la necessità di “una previsione regolatrice particolare” che non consentirebbe “di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della regola dalla stessa posta anche alla procedura fallimentare, oltre il caso dalla stessa disciplinato (che è quello del compimento di atti tra imprese facenti parte di uno stesso gruppo)”.
A tanto l’ordinanza interlocutoria n. 19881-19 ha opposto che l’introduzione dell’art. 290 del C.c.i.i. consentirebbe di superare proprio l’argomento letterale” incentrato sulla specialità della procedura; il quale argomento, “utilizzato (..) per marginalizzare il riferimento contenuto nell’art. 91 (..) della c.d. revocatoria aggravata alle sole procedure di amministrazione straordinaria”, andrebbe per l’appunto superato in considerazione della conforme e a questo punto generalizzata previsione del C.c.i.i., dettata a prescindere dalla natura dell’azione.
Può tuttavia osservarsi che, in chiave effettuale, tale ultimo rilievo non sposta i termini del problema.
E’ decisivo constatare che il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91, comunque non ottiene, in base al testo, di sostenere una linea di continuità con l’art. 290 del C.c.i.i. tale da sorreggere – nell’impianto della legge fallimentare – il risultato dell’ammissibilità della revocatoria aggravata nei riguardi di società appartenenti allo stesso gruppo già fallite.
L’art. 91 prevede che “fermo quanto stabilito dall’art. 49, comma 1, il commissario straordinario ed il curatore dell’impresa dichiarata insolvente possono proporre l’azione revocatoria prevista dalla L. Fall., art. 67, nei confronti delle imprese del gruppo relativamente agli atti indicati nn. 1), 2) e 3) dello stesso articolo compiuti nei cinque anni anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza, e relativamente agli atti indicati nel numero 4) e nel comma 2 dello stesso articolo compiuti nei tre anni anteriori”; e aggiunge che “al fine dell’esperimento dell’azione il commissario straordinario ed il curatore possono chiedere le informazioni previste dall’art. 83”.
Anche a sorvolare sulla circostanza che nella fattispecie qui in esame si discute della revocatoria ordinaria, è da notare che la norma concretizza un aggravamento di regime della revocatoria fallimentare correlato al periodo sospetto altrimenti stabilito nella L. Fall., art. 67 – periodo ampliato secondo i termini appena citati. Essa tuttavia non puntella minimamente l’eventuale esperibilità di un’azione revocatoria contro una società del gruppo già separatamente assoggettata a procedura.
A sua volta una linea di continuità con la norma è possibile evincere solo nell’art. 290, comma 3, del C.c.i.i., che pure contiene, in casi in qualche modo complementari, un ampliamento del periodo sospetto rideterminato quanto ai termini.
Però neppure l’art. 290, comma 3, racchiude una traccia dell’esperibilità dell’azione contro una società già sottoposta a procedura di liquidazione giudiziale (secondo il novellato lessico del legislatore di questa riforma).
Solo l’art. 290, comma 1, nel C.c.i.i. potrebbe dirsi in qualche modo evocabile per una distinta tesi (“Nei confronti delle imprese appartenenti al medesimo gruppo possono essere promosse dal curatore, sia nel caso di apertura di una procedura unitaria, sia nel caso di apertura di una pluralità di procedure, azioni dirette a conseguire la dichiarazione di inefficacia di atti e contratti posti in essere nei cinque anni antecedenti il deposito dell’istanza di liquidazione giudiziale, che abbiano avuto l’effetto di spostare risorse a favore di un’altra impresa del gruppo con pregiudizio dei creditori, fatto salvo il disposto dell’art. 2497 c.c., comma 1”).
Ma è un fatto che codesta previsione – in disparte la specificità della flessione grammaticale, almeno formalmente attestata su profili riferibili alle azioni dichiarative (“azioni dirette a conseguire la dichiarazione di inefficacia di atti e contratti”) non trova alcun riscontro nella normativa ratione temporis qui rilevante.
Può in vero affermarsi che essa sia frutto della scelta legislativa – completamente nuova e distinta – di disciplinare in modo specifico l’insolvenza del gruppo societario in sè considerato; scelta nuova e distinta che corrisponde a un inedito dettame della legge delega, e quindi non tale da poter essere utilmente richiamata col fine di incidere sull’esegesi di inesistenti norme anteriori.
- – La serie di ulteriori argomenti spesi dall’ordinanza interlocutoria attiene invece alla natura e alla funzione dell’azione revocatoria, che specificamente andrebbe rimodulata comeazione di tipo dichiarativo.
La prima sezione riprende in questa prospettiva molte considerazioni di matrice dottrinale, e innanzi tutto quella per cui la giurisprudenza richiamata e condivisa dalla sentenza n. 30416 del 2018 avrebbe un ambito limitato dall’oggetto, normalmente costituito dalle revocatorie (fallimentari) di pagamenti. Ciò avverrebbe in un quadro distinguibile in senso diverso da quello in cui il fallimento riguarda (non il debitore ma) il terzo acquirente di beni – e in cui la fattispecie legale della revoca andrebbe ritenuta come consistente nella originaria qualificazione di inefficacia dell’atto.
Viene rimarcato che la tesi fin qui avallata dalla giurisprudenza – per cui il fallimento dell’acquirente impedisce la possibilità di agire in revocatoria contro la procedura – avrebbe il significato della creazione di una fattispecie “di irrevocabilità sopravvenuta dell’acquisto”, così che il fallimento finirebbe col “ripulire” l’acquisto medesimo sanandolo per una vicenda propria del terzo avente causa.
Tanto – si dice – potrebbe rappresentare un incentivo alla frode, nei casi in cui, per esempio, la vicenda fosse in tutto provocata dal debitore-controllante, il quale ben potrebbe trasferire il cespite e poi determinare i fallimento del soggetto controllato.
A fronte di questo, la sentenza d’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria non andrebbe considerata tale da limitare la sua retroattività alla data della domanda, essendo invece la revoca correlabile (quoad effectum) all’atto alla data del suo compimento. Codesta conclusione si assume rinvenibile nella prescrizione dell’art. 2652 c.c., n. 5, che sottrae all’effetto revocatorio l’acquisto dei subacquirenti di buona fede e che avrebbe il senso dell’eccezione alla regola per cui il successivo acquirente dall’avente causa acquista cum onere. Se ne dovrebbe dedurre che l’accoglimento della revocatoria retroagisce all’acquisto del dante causa.
Nella medesima prospettiva l’ordinanza rammenta come la dottrina classica abbia sempre mostrato una decisa riluttanza alla classificazione della revocatoria codicistica quale azione costitutiva, preferendo parlare di azione e sentenza di accertamento. E aggiunge che, in ogni caso, anche secondo la giurisprudenza l’esercizio vittorioso dell’azione revocatoria postula la validità dell’atto revocando, che viene a mancare ab imo di efficacia nei confronti del fallimento che abbia esperito l’azione medesima.
Cosicchè l’azione non sarebbe poi destinata a incidere sul cd. principio di cristallizzazione della massa passiva, non essendo riconducibile al divieto “di inizio” e “di proseguimento” delle azioni esecutive e cautelari disposto dalla L. Fall., art. 51.
- – Infine un’ultima considerazione è sviluppata dall’ordinanza interlocutoria.
Nel solco di altra dottrina – ben vero attestata sulla visione della natura costitutiva dell’azione, e dunque su principi del tutto diversi da quelli fin qui dall’ordinanza richiamati – essa (ordinanza) tende a evidenziare che tutti gli atti dispositivi, a prescindere dal loro oggetto, sono astrattamente revocabili ai sensi dell’art. 2901 c.c., L. Fall., artt. 66 e 67, a fronte invece del limitato operare del regime della trascrizione delle domande; per cui in ordine ai beni per i quali non è prevista la trascrizione della domanda giudiziale in pubblici registri (com’è il caso della cessione di beni aziendali di cui alla controversia) mancherebbe sempre la possibilità di rendere opponibile al fallimento dell’acquirente una domanda revocatoria.
Al netto di ventilate ipotesi di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., tale constatazione postulerebbe di individuare una soluzione secondo regole (testualmente) di “raccordo processuale” (tra tutela costitutiva e accertamento del passivo concorsuale). E ciò sarebbe possibile valorizzando le conseguenze della tutela revocatoria in rapporto all’interesse del creditore a coltivarla; interesse che in generale è ritenuto sussistente anche quando il bene oggetto dell’atto di cui si chiede la revoca non sia più nella disponibilità dell’acquirente, per essere stato da questo alienato a terzi con atto trascritto anteriormente alla trascrizione dell’atto di citazione in revocatoria.
VII. – Come all’inizio si è anticipato, le considerazioni dell’ordinanza interlocutoria non incrinano la solidità dell’orientamento giurisprudenziale vigente quanto alla natura e alla modalità di produzione degli effetti dell’azione revocatoria, nè incrinano – salve talune doverose puntualizzazioni – i profili innervati dal principio di cristallizzazione.
Per questa parte la soluzione resa dalla sentenza n. 30416 del 2018 – che, è bene sottolineare, atteneva (e attiene) all’azione costitutiva, in quella fattispecie soggetta a scrutinio va ribadita con i rilievi che seguono.
VIII. – La natura costitutiva della sentenza che accoglie l’azione revocatoria costituisce espressione di un insegnamento sedimentato, logico e assolutamente coerente, basato sulla considerazione che la sentenza “modifica ex post una situazione giuridica preesistente”.
Ciò avviene “sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto”.
Ne segue che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima e indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, “ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria”, al punto che rispetto a esso non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943 c.c., u.c.).
Tale insegnamento, consolidato nell’anno 1996, risulta oggi validato da tre sentenze delle Sezioni unite (Cass. Sez. U. n. 5443 del 1996, da cui i virgolettati, nonchè Cass. Sez. U. n. 437 dei 2000 e infine Cass. Sez. U. n. 30416 del 2018) ed è qui ulteriormente da confermare per le conseguenze che ne derivano.
E’ frutto di una lettura parziale dire che esso sia stato integrato da fattispecie aventi a oggetto semplici pagamenti del fallito onde risolvere meri problemi collaterali (la decorrenza della prescrizione o la natura del credito restitutorio, se di valore o di valuta).
La verità è che la soluzione dei mentovati problemi è la derivazione specifica dell’affermazione generale e di contesto, senza la quale essa (soluzione) non potrebbe mantenersi.
L’affermazione generale è attestata sulla convincente premessa che l’inefficacia degli atti solutori sorge solo dalla sentenza che ne accerti i presupposti (sia ai sensi della L. Fall., artt. 2901 e 66, sia ai sensi dell’art. 67); cosa riscontrabile “nella storia dell’istituto e in una tradizione interpretativa che si ricollega a schemi ermeneutici e al patrimonio dogmatico del legislatore del 1942” (così ancora Cass. Sez. U. n. 5443-96). Mentre l’opposta prospettazione, ancora ipotizzata dall’ordinanza interlocutoria, nell’affermare la retrodatazione dell’inefficacia direttamente all’atto impugnato, non riesce a reperire nel sistema quale sia il precetto di non alienare beni o di non effettuare o ricevere il pagamento di crediti, la cui violazione sarebbe giustappunto tale da determinare la paventata illiceità originaria dell’atto o del pagamento (v. Cass. Sez. U. n. 437-00).
Proprio e solo la possibilità o meno di qualificare l’atto soggetto a revocatoria come illecito civile originario, e proprio e solo la conseguente configurabilità dell’azione revocatoria come dichiarativa o costitutiva dell’obbligazione restitutoria, rappresenta la premessa logico-giuridica da cui dipende l’inquadramento di quella obbligazione nella categoria dei debiti (di valore o di valuta). Cosicchè la questione fin qui delineata dalla giurisprudenza della Corte, da un lato, non è relegabile entro i marginali confini delle specifiche tematiche di volta in volta sottoposte a scrutinio (la natura dei detti crediti o la prescrizione), dall’altro non è superabile come condivisibilmente affermato da Cass. Sez. U. n. 30416-18 – mediante il semplice richiamo di regole coniate per istituti diversi (come l’art. 1458 c.c.).
L’azione revocatoria ordinaria – nella specie rilevante – non costituisce presidio di tutela del contratto, nè rientra (come invece la risoluzione) nel novero delle fattispecie di scioglimento dal vincolo negoziale. L’azione revocatoria ha la funzione di ricostruire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, che si prospetti compromessa dall’atto di disposizione da questi posto in essere; sicchè, in caso di esito vittorioso, essa non travolge l’atto impugnato, con conseguente effetto restitutorio o recuperatorio del bene al patrimonio dei debitore, ma comporta di determinare l’inefficacia dell’atto medesimo nei confronti del solo creditore vittorioso, al fine di consentirgli di aggredire il bene con l’azione esecutiva qualora il proprio credito rimanga insoddisfatto (Cass. n. 13972-07, Cass. 3676-11, Cass. 1149114 e molte altre).
- – Rispetto alla sottolineatura ventilata dalla prima sezione occorre inoltre precisare che niente cambia, in siffatta angolatura, a seconda di quale sia l’oggetto dell’azione, se cioè un atto dispositivo di beni determinati o un pagamento. Dalla più volte evocata sentenza n. 5443 del 1996 si ricava esplicitamente che il fondamento della considerazione previa, come anche il suo risultato, attiene a entrambe le eventualità, senza alcuna differenziazione (“analoghe considerazioni, con identico risultato, possono svolgersi per le situazioni revocabili diverse dal pagamento”).
Per cui, conclusivamente su questi punti: (a) l’inefficacia dell’atto o del pagamento – appunto perchè non esiste al momento del suo compimento alcuna condizione viziante – non è mai originaria, ma può solo (ricorrendone le condizioni) sopravvenire; (b) la sopravvenienza è riconducibile alla sentenza di accoglimento della revocatoria, che immuta ex post la situazione preesistente; (c) la diversa tesi di stampo dottrinale, a cui l’ordinanza interlocutoria ha alluso, non è fondata, in quanto richiederebbe di spiegare l’azione revocatoria ordinaria sul piano delle limitazioni del potere del debitore di disporre dei propri beni; con il che nuovamente sconterebbe un insuperabile rilievo di artificiosità, visto che non esiste nel sistema alcuna fonte normativa in grado di sancire l’esistenza, quale conseguenza dei debito, di un corrispondente obbligo di astensione dal compimento di atti dispositivi.
- – Resiste alle obiezioni dell’ordinanza interlocutoria anche il profilo segnato dal principio di cristallizzazione, seppure nei sensi di seguito esposti.
L’ordinanza ha sottolineato che l’azione revocatoria non è in sè riconducibile al divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari di cui alla L. Fall., art. 51. Si dice: “non si tratta di un’azione esecutiva, ma di una declaratoria d’inopponibilità al creditore dell’atto dispositivo del debitore”.
Questa considerazione, per quanto esatta sul versante formale, non è totalmente proficua, perchè l’azione revocatoria è certamente comunque funzionale all’esercizio dell’azione esecutiva.
La revocatoria, quale strumento di conservazione della garanzia generica del creditore, per lui rappresentata dal patrimonio del debitore (art. 2740 c.c.), si muove nell’ottica del corrispondente dovere del debitore di adempiere le obbligazioni. Realizza lo scopo non di reintegrare il patrimonio di tale debitore, sebbene di recuperare al suo patrimonio (solo) ciò che occorre alle ragioni dei creditori pregiudicati dall’atto in frode (cd. inefficacia relativa dell’atto).
Per tale motivo l’azione giova al creditore che l’abbia esercitata (e ove esercitata dal Fallimento giova all’intera massa) senza vulnerare l’esistenza e l’intrinseca validità dell’atto, che resta fermo (art. 2902 c.c.). Donde l’atto dispositivo non è inefficace anche per il debitore, nè per il terzo che ne sia stato controparte.
L’effetto è che il terzo acquirente del bene oggetto dell’atto impugnato con l’azione revocatoria, pur continuando a mantenere inalterato il diritto di proprietà, resta esposto (per l’appunto) – dopo la sentenza – alle ragioni esecutive del creditore. Egli viene a trovarsi, cioè, in una posizione non dissimile a quella del terzo acquirente del bene ipotecato o dato in pegno (art. 2910 c.c. e art. 602 c.p.c.). Cosa che proprio la tradizionale e più accreditata dottrina ha da tempo espresso con la significativa formula della cd. responsabilità senza debito.
Ora a fronte di atti dispositivi di beni posti in essere prima del fallimento dell’acquirente è un fatto che solo la sentenza di revoca è idonea allo scopo di determinare l’inefficacia relativa.
Da questo punto di vista la sopravvenienza del fallimento dell’acquirente non tanto rileva (in sè e propriamente) per cristallizzare il passivo, sintesi metaforica funzionale a descrivere il fenomeno di irrilevanza, dopo la dichiarazione di fallimento, di modificazioni attinenti alle pretese creditorie o ai rapporti obbligatori, col fine di garantire l’unitarietà della procedura attraverso l’individuazione di tutte le pretese ivi incidenti. Rileva però, e sicuramente, per la necessità di cristallizzare l’asse fallimentare (il patrimonio, e dunque l’attivo) alla data del fallimento (L. Fall., artt. 42,44 e 52).
Nel sistema della L. Fall., la vocazione collettiva sintetizzata dall’espressione “il fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito” (art. 52) deve esser letta col sottinteso riferibile al titolo giustificativo anteriore alla sentenza dichiarativa (in pratica come se dicesse che il fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito “per titolo anteriore alla sentenza”); e questo perchè niente che sia insorto dopo può determinare un’ingerenza sull’asse patrimoniale assoggettato al concorso.
Per contro il positivo esercizio dell’azione revocatoria finirebbe col sottrarre il bene che ne costituisce oggetto alla garanzia dei creditori del fallimento dell’acquirente sulla base di un atto (la sentenza) successivo a tale fallimento; atto-sentenza che, in nome del principio per cui la durata del processo non può pregiudicare chi ha ragione, retroagisce, quoad effectum, alla data della domanda, essa pure successiva al fallimento.
Ecco perchè non interessa più di tanto, in questi casi, discorrere di domande trascrivibili o meno, nè di effetti prenotativi della trascrizione. Effetti di tal genere sono postulabili – nei casi previsti dalla legge – solo dinanzi a domande trascritte prima della sentenza dichiarativa (L. Fall., art. 45).
Quando invece la domanda è successiva al fallimento dell’acquirente, quel che unicamente rileva è questo: che l’azione revocatoria, ove accolta, finirebbe per recuperare il bene che ne costituisce oggetto alla garanzia patrimoniale del solo creditore dell’alienante (ovvero, secondo il caso, del di lui ceto creditorio) e quindi, specularmente, finirebbe per determinare la sottrazione del bene medesimo alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente – sulla base di un titolo giudiziale formato dopo la sentenza dichiarativa del fallimento di costui, e con efficacia postuma rispetto a essa.
Questo certamente contrasta col complesso di regole desumibili dalla L. Fall., artt. 42,44,45,51 e 52 e spiega perchè è inammissibile ipotizzare l’azione costitutiva in casi simili.
- – Ciò fermo stante, è però anche un fatto che l’impossibilità di proporre l’azione costitutiva dipende da un evento (la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del terzo: l’acquirente) del tutto occasionale ed estrinseco rispetto ai creditori dell’alienante.
E qui l’ordinanza interlocutoria coglie un elemento di possibile criticità del sistema, poichè se ci si fermasse alla constatazione previa uno dei versanti degli interessi in gioco sarebbe compromesso nelle concrete possibilità di tutela.
Benchè a fronte di una lesione della garanzia patrimoniale già verificatasi, tutto verrebbe a dipendere, infine, dalla circostanza che il terzo acquirente sia fallito o meno prima che i creditori dell’alienante (o il curatore, se – come nella specie – già a sua volta fallito) abbiano potuto esercitare l’azione a presidio di quella garanzia.
L’esigenza di tutela è immanente e non può rimanere inevasa. Essa implica una risposta coerente e funzionale, poichè il sistema non può tollerare, se non col dissolvimento del fondamento etico-sociale che sottende i rapporti obbligatori, che i creditori dell’alienante siano lesi irreparabilmente.
Vale qui rammentare che il rimedio revocatorio rappresenta la sintesi di varie normative, finanche di contenuto generalissimo, come per esempio sono quelle dettate dagli artt. 1175, 1176 e 1218 c.c.. Di tali normative l’art. 2740 c.c., rappresenta il punto culminante. Il principio per cui il debitore risponde dell’adempimento con tutti i suoi beni, presenti e futuri, mentre le limitazioni di responsabilità non sono ammesse che nei casi previsti dalla legge, se visto dalla parte del creditore non può prescindere dalla necessità di assicurare una salvaguardia del corrispondente diritto.
Essendo la posizione del creditore considerata solo mediante il riferimento al contegno del debitore, al dianzi sintetizzato quadro di principi è complementare sia il diritto del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale, sia il diritto – non sopprimibile – di opporsi alla dispersione di una tale garanzia.
Se questo diritto fosse inciso in modo irreparabile da un fattore esterno (come il sopravvenuto fallimento dell’acquirente di un bene da considerare, così, definitivamente sottratto alla garanzia patrimoniale) l’insegnamento doveristico al fondo delle citate norme risulterebbe disgregato.
XII. – Simile constatazione sottintende doversi rinvenire nel sistema – come detto – una risposta coerente e funzionale, ma non giustifica il tentativo di rivoluzionare le basi dell’orientamento giurisprudenziale fin qui esaminato.
Tanto sarebbe eccessivo rispetto alle esigenze di tutela dei creditori dell’alienante, e sarebbe egualmente dissolvente se si intendesse legittimare un’illimitata ingerenza nella gestione dei patrimonio del terzo fallito, attesa la concorrenza degli altrettanto rilevanti principi cui è asservito il fallimento.
Si tratta di selezionare il corretto punto di equilibrio, identificando i criteri modali per la ricostruzione della giusta posizione dei creditori comunque pregiudicati dall’atto dispositivo. E quindi in ultima analisi di verificare in qual senso la sequela di principi ai quali l’azione revocatoria risponde ottenga, nella mediazione processuale, di salvaguardare l’esigenza di tutela di quei creditori.
Ciò è possibile fare tenendo conto degli orientamenti formatisi con riguardo ai casi, in qualche misura simili, di impossibile realizzazione funzionale dell’azione revocatoria.
Se, come oramai può dirsi pacifico, oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sè, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene a esecuzione, ne deriva che il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse di quei creditori, soltanto per il suo valore.
Tale prospettiva è stata da questa Corte già considerata con la precisazione che, quando l’assoggettabilità del bene all’esecuzione diviene impossibile perchè il bene è stato alienato a terzi con atto opponibile ai creditori, il naturale sostitutivo è dato dalla reintegrazione dei creditori medesimi per equivalente pecuniario (v. Cass. n. 18369-10).
Ciò è tanto vero che l’interesse del creditore ad agire in revocatoria non recede (e resta intatto) anche quando il bene oggetto dell’atto di cui si chiede la revoca non sia più nella disponibilità dell’acquirente, per essere stato da questi alienato a terzi con atto trascritto anteriormente alla trascrizione dell’atto di citazione in revocatoria.
Ancora dal medesimo principio è stata tratta la conclusione che, nel caso in cui il curatore del fallimento abbia esercitato la revocatoria di un atto di compravendita, non costituisce domanda nuova quella dal medesimo formulata in sede di precisazione delle conclusioni, consistente nella condanna al pagamento dell’equivalente monetario, ove il convenuto abbia già alienato il bene medesimo con atto opponibile alla massa (v. Cass. n. 14098-09 e prima ancora Cass. n. 7790-99).
La stessa prospettiva ha indotto questa Corte a ulteriormente precisare che non è di ostacolo alla pronuncia neppure il fatto che tra il fallimento e i subacquirenti sia intervenuta una transazione risolutivamente condizionata, in tutto o in parte, al rigetto della domanda nei confronti del primo acquirente. E questo ancora una volta perchè “il petitum della revocatoria” (in quel caso fallimentare) è rappresentato “dal recupero alla garanzia patrimoniale dei creditori del valore dei bene che è uscito dal patrimonio del fallito“; donde neppure la transazione impedisce di conseguire il risultato dell’azione, poichè lascia immutati gli elementi strutturali della domanda (Cass. n. 26041-13).
XIII. – La stabilità di codesto assetto di principi ha un indubbio peso.
Essa dà forza a quanto alla fine, sulla scorta di attendibile dottrina, è stato ipotizzato dall’ordinanza interlocutoria. Consente cioè di affermare che il fallimento del terzo acquirente, dichiarato dopo l’atto di alienazione, vale a dire dopo l’atto di frode determinativo della lesione della garanzia patrimoniale ma prima che l’azione revocatoria sia esercitata, impedisce solo l’esercizio dell’azione costitutiva, non anche invece l’esercizio di quell’azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale.
Il fallimento del terzo acquirente, prevenuto all’azione costitutiva, rende l’azione suddetta inammissibile perchè non è consentito incidere sul patrimonio del menzionato fallimento recuperando il bene alla sola garanzia patrimoniale del creditore dell’alienante: e quindi perchè non è dato di sottrarre quel bene all’asse fallimentare cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento. Ma, così come accade ove prevenuta sia la rivendita con atto già trascritto, il fallimento dell’acquirente impedisce di recuperare il bene onde esercitare su questo l’azione esecutiva, non di insinuarsi al passivo di quel fallimento per il corrispondente controvalore.
Nè in questo senso assume rilevanza impeditiva il principio di cristallizzazione del passivo. E’ essenziale notare che in tal caso viene in esame direttamente l’atto col quale la garanzia patrimoniale si dice esser stata lesa, e l’atto è anteriore al fallimento del terzo acquirente. Cosicchè ai creditori dell’alienante non può esser precluso, nelle forme e con gli effetti che il sopravvenuto fallimento consente, l’esercizio della pretesa volta a ottenere la reintegrazione per equivalente.
Tali forme sono quelle indotte dalle regole della concorsualità, giacchè il fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito nello specifico e qui rilevante senso che chiunque si affermi creditore e intenda concorrere sul ricavato della liquidazione di beni compresi nell’asse fallimentare resta soggetto alle regole che il legislatore ha prescritto per l’accertamento del passivo. E ciò vale quale che sia il fatto generatore della pretesa, alla sola condizione che esso (fatto) nella specie identificabile nell’atto lesivo della garanzia patrimoniale – sia anteriore alla sentenza di fallimento.
L’esigenza che anche in questi casi la pretesa creditoria sia soggetta a una verifica endoconcorsuale – con possibilità di contraddittorio con gli altri creditori controinteressati – è d’altronde connaturata al carattere dell’esecuzione fallimentare, e l’afferente accertamento esaurisce la propria rilevanza nell’ambito della procedura fallimentare medesima (L. Fall., art. 96).
XIV. – Conclusivamente devono essere affermati i seguenti principi di diritto:
– oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sè, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene a esecuzione;
– il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, soltanto per il suo valore;
– ove l’azione costitutiva non sia stata dai creditori dell’alienante introdotta prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce oggetto, essa stante l’intangibilità dell’asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (cd. cristallizzazione) – non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, poichè giustappunto si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente;
– in questo caso i creditori dell’alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l’alienante sia fallito) restano tutelati nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, demandando al giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva.
- – Il ricorso della curatela di (OMISSIS) s.r.l. va rigettato, dovendosi correggere la motivazione del giudice a qua.
Dal ricorso risulta che la domanda era stata proposta nelle forme della rivendica (L. Fall., art. 103), in relazione al bene oggetto dell’atto revocabile in sè e per sè considerato.
Per quanto la domanda di rivendicazione supponga le forme previste per l’insinuazione al passivo, oggetto di tale domanda è il bene in sè, sul presupposto della proprietà da ravvisare come mantenuta in capo al disponente.
In ipotesi di vendita con atto revocabile ciò non è sostenibile, poichè pure in caso di esito vittorioso la revocatoria non travolge mai l’atto impugnato, e non determina come conseguenza che il bene possa esser rivendicato come se ancora fosse parte del patrimonio del debitore.
La condizione di revocabilità dell’acquisto non incide cioè sul terzo acquirente del bene che ne costituisce oggetto, il quale terzo (nella specie la società (OMISSIS) s.r.l.) continua a mantenere inalterato il diritto di proprietà.
Consegue che la domanda proposta secondo lo schema della rivendicazione avrebbe dovuto essere in ogni caso rigettata.
Il ricorso incidentale condizionato resta assorbito. Le spese seguono la soccombenza.