Corte Costituzionale, ordinanza 26 giugno 2020 n. 132
Vanno rinviate all’udienza pubblica del 22 giugno 2021 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale, e dal Tribunale ordinario di Bari, sezione prima penale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
6.– La motivazione di entrambe le ordinanze è imperniata su ampi richiami alla giurisprudenza della Corte EDU in materia di libertà di espressione, tutelata dall’art. 10 CEDU e ritenuta di regola violata laddove vengano applicate pene detentive a giornalisti condannati per diffamazione.
6.1.– Tale giurisprudenza risale, in effetti, almeno alla sentenza della grande camera 17 dicembre 2004, C. e M. contro Romania, nella quale la Corte EDU ha esaminato il ricorso di due giornalisti, condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano un giudice di essere coinvolto in fatti di corruzione. La Corte EDU ha riconosciuto la legittimità dell’affermazione di responsabilità penale degli imputati, osservando che le gravi accuse rivolte alla vittima fornissero una visione distorta dei fatti e fossero prive di adeguati riscontri fattuali (paragrafo 103); ma ha al contempo ritenuto che l’imposizione nei loro confronti di una pena di sette mesi di reclusione non sospesa, ancorché in concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale, costituisse una interferenza sproporzionata – e pertanto «non necessaria in una società democratica» ai sensi dell’art. 10, paragrafo 2, CEDU – con il loro diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 del medesimo art. 10 CEDU.
Nella pronuncia indicata, la Corte EDU ha ricordato in proposito (paragrafo 93) il proprio insegnamento secondo cui la stampa svolge l’essenziale ruolo di «cane da guardia» della democrazia (sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito, paragrafo 39), rilevando che «se è vero che gli Stati parte hanno la facoltà, o addirittura il dovere, in forza dei loro obblighi positivi di tutela dell’art. 8 CEDU, di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione delle persone, non devono però farlo in una maniera che indebitamente dissuada i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri» (paragrafo 113).
Il timore di sanzioni detentive produce, secondo la Corte di Strasburgo, un evidente effetto dissuasivo («chilling effect») rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti – in particolare nello svolgimento della loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini – tale da riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni (paragrafo 114).
Pur sottolineando come la scelta delle sanzioni sia in principio riservata ai tribunali nazionali, la Corte EDU ha concluso che «l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza» (paragrafo 115): circostanze certamente non sussistenti nel caso allora esaminato.
6.2.– I principi espressi dalla sentenza C. sono stati poi costantemente ribaditi dalla Corte EDU nella propria successiva giurisprudenza (ex multis, sentenza 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia), anche in due sentenze pronunciate nei confronti dell’Italia, cui i giudici rimettenti fanno puntuale riferimento (sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia). In tali ultime pronunce – rispetto alle quali risultano ancora pendenti i rispettivi procedimenti di supervisione sull’esecuzione delle sentenze avanti al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – la Corte EDU da un lato ha ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei giudici italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista (ovvero del direttore responsabile); ma, dall’altro lato, ha ritenuto sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica.
6.3.– D’altra parte, numerosi documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa raccomandano agli Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini a essere informati.
In particolare, il Comitato dei ministri ha adottato, il 12 febbraio 2004, una Dichiarazione sulla libertà dei dibattiti politici nei media, nella quale ha tra l’altro affermato che risarcimenti e sanzioni pecuniarie per la diffamazione a mezzo stampa devono essere proporzionati alla violazione dei diritti e della reputazione delle persone offese e tenere in considerazione eventuali condotte riparatorie intervenute, e che la pena detentiva non dovrebbe essere applicata, salvo in casi di grave violazione di altri diritti fondamentali, che la rendano strettamente necessaria e proporzionata.
Con la risoluzione 4 ottobre 2007, n. 1577, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha riaffermato il ruolo centrale dell’informazione, pietra angolare di una democrazia, con particolare riferimento alla funzione propulsiva rispetto a dibattiti di interesse pubblico. Essa ha, in particolare, esortato gli Stati contraenti ad abolire la pena detentiva per la diffamazione e a garantire che non sia fatto un uso distorto dei procedimenti penali per diffamazione. Nel contempo, è stata raccomandata la criminalizzazione delle condotte di incitamento alla violenza, all’odio o alla discriminazione.
Nella risoluzione 24 gennaio 2013, n. 1920, sullo stato della libertà dei media in Europa, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha nuovamente stigmatizzato l’uso distorto dei procedimenti penali per fatti di diffamazione. Con specifico riferimento all’Italia, alla luce della condanna di un giornalista a una pena detentiva confermata dalla Corte di cassazione – condanna che ha poi dato origine alla sentenza della Corte EDU Sallusti contro Italia, poc’anzi menzionata – la medesima assemblea ha richiesto alla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia) di predisporre un parere sulla conformità della normativa italiana all’art. 10 CEDU. Il relativo parere della Commissione di Venezia (n. 715 del 6-7 dicembre 2013) ha concluso nel senso che la vigente legislazione italiana non sarebbe pienamente in linea con gli standard del Consiglio d’Europa in materia di libertà di espressione, individuando la problematica di maggior rilievo nella previsione della pena detentiva in relazione alla diffamazione a mezzo stampa.
7.– Alla luce di quanto precede, appare necessaria e urgente una complessiva rimeditazione del bilanciamento, attualmente cristallizzato nella normativa oggetto delle odierne censure, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all’attività giornalistica.
7.1.– La libertà di manifestazione del pensiero costituisce – prima ancora che un diritto proclamato dalla CEDU – un diritto fondamentale riconosciuto come «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione» (sentenza n. 11 del 1968), «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del 1969), «cardine di democrazia nell’ordinamento generale» (sentenza n. 126 del 1985 e, di recente, sentenza n. 206 del 2019). Né è senza significato che, nella prima sentenza della sua storia, la Corte costituzionale – in risposta a ben trenta ordinanze sollevate da giudici comuni – abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione di legge proprio in ragione del suo contrasto con l’art. 21 Cost. (sentenza n. 1 del 1956).
Nell’ambito di questo diritto, la libertà di stampa assume un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico (sentenza n. 1 del 1981), nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini: un diritto quest’ultimo «qualificato in riferimento ai princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale», e «caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti (sentenza n. 112 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 155 del 2002)» (sentenza n. 206 del 2019).
Non v’è dubbio pertanto che l’attività giornalistica meriti di essere «salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta» (sentenza n. 172 del 1972) che possa indebolire la sua vitale funzione nel sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la critica aspra e polemica delle condotte di chi detenga posizioni di potere.
7.2.– Per altro verso, il legittimo esercizio, da parte della stampa e degli altri media, della libertà di informare e di contribuire alla formazione della pubblica opinione richiede di essere bilanciato con altri interessi e diritti, parimenti di rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti, tanto nell’ottica costituzionale quanto in quella convenzionale.
Fra tali limiti si colloca, in posizione eminente, la reputazione della persona, che costituisce al tempo stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenze n. 37 del 2019, n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973) e una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU (ex multis, Corte EDU, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna), che lo Stato ha il preciso obbligo di tutelare anche nei rapporti interprivati (in questo senso la menzionata sentenza Cumpănă della Corte EDU, paragrafo 91), oltre che un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Un diritto, altresì, connesso a doppio filo con la stessa dignità della persona (sentenza n. 265 del 2014 e, nella giurisprudenza di legittimità, ex plurimis Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 ottobre 2010, n. 4938), e suscettibile di essere leso dalla diffusione di addebiti non veritieri o di rilievo esclusivamente privato.
7.3.– Il punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può però essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni.
Il bilanciamento sotteso alle norme del codice penale e in quelle della vigente legge sulla stampa – e in particolare negli artt. 595 cod. pen. e 13 della legge n. 47 del 1948, in questa sede censurati – si impernia sulla previsione, in via rispettivamente alternativa e cumulativa, di pene detentive e pecuniarie laddove il giornalista offenda la reputazione altrui, travalicando i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica di cui all’art. 21 Cost.; limiti a loro volta ricostruiti dalla giurisprudenza civile (a partire dalla fondamentale Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259) e penale (ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 12 settembre 2007, n. 34432) sulla base dei criteri tradizionali dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, della verità di essa (ovvero, nel caso di erroneo convincimento del giornalista relativa alla verità della notizia, nell’assenza di colpa nel controllo delle fonti) e della cosiddetta continenza formale.
Un simile bilanciamento è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU poc’anzi rammentata, che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui. E ciò in funzione dell’esigenza di non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri.
Ciò esige una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, nel senso ora precisato, con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica – e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato.
8.– Un simile, delicato bilanciamento spetta in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività. Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico.
In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio.
Il «compito naturale» di questa Corte è quello di verificare ex post, su sollecitazione dei giudici comuni, la compatibilità delle scelte compiute dal legislatore con la Costituzione (ordinanza n. 207 del 2018) e, mediatamente, con gli strumenti internazionali al cui rispetto l’ordinamento si è vincolato, sulla base dei principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte. Un compito al quale anche in questa occasione questa Corte non può e non intende sottrarsi, ma che – rispetto alle possibilità di intervento di cui dispone il legislatore – sconta necessariamente la limitatezza degli orizzonti del devolutum e dei rimedi a sua disposizione, che segnano il confine dei suoi poteri decisori; con il connesso rischio che, per effetto della stessa pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i controinteressi in gioco, seppur essi stessi di centrale rilievo nell’ottica costituzionale (per analoghe preoccupazioni, si veda ancora l’ordinanza n. 207 del 2018).
Considerato allora che vari progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere, questa Corte ritiene opportuno, in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, rinviare la decisione delle questioni ora sottopostele a una successiva udienza, in modo da consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali sopra illustrati.
Rimarranno nel frattempo sospesi anche i giudizi a quibus. Negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutare se eventuali questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni in esame analoghe a quelle in questa sede prospettate debbano parimenti essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate alla luce dei principi sopra enunciati, così da evitare, nelle more del giudizio di costituzionalità, l’applicazione delle disposizioni censurate (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018).