<p style="text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2020 n. 150</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.– I rimettenti muovono dalla corretta premessa che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza con la sentenza n. 194 del 2018, possa essere riproposta in un diverso giudizio, senza essere preclusa dalla pronuncia in rito di questa Corte.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Con riguardo alla necessità di applicare la previsione citata, i giudici a quibus svolgono un’argomentazione puntuale, che consente di ricostruire la fattispecie concreta e di cogliere la rilevanza del dubbio di costituzionalità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.1.– Il Tribunale di Bari, dopo aver escluso la sussistenza di vizi sostanziali del licenziamento, ha ravvisato vizi di natura esclusivamente formale e procedurale, consistenti nell’omessa contestazione di un addebito e nell’omessa comunicazione al lavoratore del termine entro il quale, per tutti gli addebiti, avrebbe potuto presentare le proprie difese.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il rimettente ha accertato i vizi in esame con una sentenza non definitiva e ha disposto la prosecuzione del giudizio per la determinazione dell’indennità. In tale contesto, il giudice a quo ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, non senza illustrare le ragioni che – nell’ipotesi di accoglimento delle censure – condurrebbero a riconoscere una indennità più cospicua rispetto a quella parametrata alla sola anzianità di servizio (pari, nella specie, a un anno).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.– Il Tribunale di Roma, all’esito di una delibazione sommaria, che riconosce di poter mutare re melius perpensa, disattende l’eccezione pregiudiziale di decadenza dall’impugnazione del licenziamento e reputa infondate le doglianze sui vizi sostanziali dedotti dal lavoratore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il licenziamento, pur sorretto da giusta causa, risulterebbe viziato sotto il profilo formale, in quanto il datore di lavoro non avrebbe tenuto in alcun conto le difese del lavoratore, sull’erroneo presupposto che fossero tardive. Il giudice a quo ritiene, pertanto, allo stato degli atti, di dovere applicare la disciplina sui vizi formali del licenziamento e di non poter definire la controversia indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La motivazione in punto di rilevanza non appare implausibile e supera, pertanto, il vaglio di ammissibilità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.3.– Entrambi i rimettenti riferiscono di avere esplorato la possibilità di una interpretazione adeguatrice e di averla ritenuta impraticabile, alla luce dell’univoco dato testuale della disposizione censurata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Anche da questo punto di vista, la questione non presenta profili di inammissibilità, poiché è stata consapevolmente esclusa – da entrambi i rimettenti – la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.– Al fine di delimitare il tema del decidere devoluto all’esame di questa Corte, occorre rilevare che, nella memoria illustrativa depositata in vista dell’udienza, la parte costituita nel giudizio di cui al reg. ord. n. 214 del 2019 ha chiesto di dichiarare l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui fissa l’indennità nell’ammontare massimo di dodici mensilità. Anche per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali, si dovrebbe incrementare la soglia massima fino alle trentasei mensilità che oggi stabilisce, per il licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo, l’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, così come modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Prospettata nei termini di una declaratoria di illegittimità costituzionale in via consequenziale, la richiesta della parte, ribadita anche nel corso dell’udienza di discussione pubblica da remoto, adombra, in realtà, una diversa questione di legittimità costituzionale, che verte sul trattamento difforme, quanto alle soglie, tra vizi formali e vizi sostanziali. Né si può ritenere identica la questione sulla scorta del dato – posto in risalto nel corso dell’udienza – che non mutano la disposizione censurata e i parametri evocati e che viene pur sempre in rilievo il tema della adeguatezza della tutela.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se il Tribunale di Bari non contesta il trattamento differenziato che il legislatore ha scelto di riservare ai vizi formali e procedurali del licenziamento rispetto a quelli sostanziali e – su questo presupposto – propone incidente di costituzionalità, la parte privata dubita della conformità a Costituzione di tale disparità di trattamento e chiede a questa Corte di assimilare, quanto alla tutela indennitaria, la disciplina dei vizi formali e quella dei vizi sostanziali.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La diversa prospettiva in cui si collocano i dubbi di costituzionalità avanzati dal rimettente e dalla parte privata avvalora la novità delle censure che quest’ultima ha formulato nella memoria illustrativa. Tali censure travalicano e tendono ad ampliare irritualmente il tema del decidere, così come tracciato dall’ordinanza di rimessione, e, pertanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte, sentenza n. 26 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto), non devono essere prese in considerazione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Lo scrutinio di questa Corte è dunque circoscritto ai profili di illegittimità costituzionale denunciati dai rimettenti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.– Le questioni sollevate da entrambi i rimettenti sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.– Occorre, in primo luogo, raffigurare nella sua evoluzione più recente il quadro normativo in cui si colloca la disciplina censurata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.1.– La legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), ha riservato un’autonoma disciplina alle conseguenze sanzionatorie dei vizi formali e ha modulato le tutele, in ragione della diversa gravità di tali vizi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nell’intervenire sull’art. 18, primo e secondo comma, della legge n. 300 del 1970, la legge citata ha conferito autonomo rilievo al licenziamento intimato in forma orale, disponendo, a prescindere dal numero di lavoratori occupati, la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del danno, pari a «un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative» e comunque non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 2, commi 1, ultimo periodo, e 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel confermare tale linea di tendenza, puntualizza che, per il licenziamento intimato in forma orale, l’indennità è commisurata non più all’ultima retribuzione globale di fatto, ma all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Regole diverse vigono per gli altri vizi formali e, in particolare, per l’ipotesi di «licenziamento dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni», prevista nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La legge n. 92 del 2012 (art. 1, comma 42, lettera b), nel modificare l’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, ha previsto una tutela prettamente indennitaria, che ha carattere residuale, in quanto si applica soltanto quando il giudice non accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il giudice, in tale fattispecie, dichiara risolto il rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore «un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La tutela indennitaria definita dallo statuto dei lavoratori è applicabile, dal punto di vista soggettivo, «al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti» (art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del 1970).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nell’assetto della legge n. 92 del 2012, il datore di lavoro che non raggiunga le dimensioni di cui all’art. 18, ottavo comma, dello statuto dei lavoratori, e sia assoggettato, pertanto, al regime della tutela obbligatoria, dovrà corrispondere, nell’ipotesi di vizi formali diversi dall’inosservanza della forma scritta del licenziamento, una indennità determinata secondo le regole dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, in un «importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti», accresciuto in rapporto all’anzianità di servizio (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 settembre 2016, n. 17589).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.2.– L’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli operai, agli impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, riproduce in gran parte le disposizioni dell’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, così come novellato dalla legge n. 92 del 2012.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La tutela, anche nel nuovo regime, ha carattere residuale e non si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La previsione regola la sola ipotesi del licenziamento «intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ove riscontri i vizi indicati, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna «il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone che l’importo della indennità sia dimezzato, nel caso di «piccole imprese», che non raggiungano i requisiti dimensionali dell’art. 18, ottavo e nono comma, dello statuto dei lavoratori.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.– Le prescrizioni formali, la cui violazione la disposizione censurata ha inteso sanzionare con la tutela indennitaria, rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica. Nell’àmbito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei princìpi costituzionali.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’obbligo di motivazione, inizialmente subordinato a una specifica richiesta del lavoratore, ha assunto caratteri più stringenti, in séguito alle novità introdotte dall’art. 1, comma 37, della legge n. 92 del 2012. Il datore di lavoro è, infatti, obbligato a dar conto in maniera sollecita e circostanziata delle giustificazioni per l’applicazione della sanzione più grave, secondo il principio di buona fede che permea ogni rapporto obbligatorio e vincola le parti a comportamenti univoci e trasparenti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’obbligo di motivazione, che ha il suo corollario nella immutabilità delle ragioni del licenziamento, è tratto qualificante di una disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro, al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le previsioni dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, richiamate dalla disposizione oggi censurata, assegnano un ruolo centrale al principio del contraddittorio, più che mai cruciale nell’esercizio di un potere privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto). La conoscibilità delle norme disciplinari, la preventiva contestazione dell’addebito, il diritto del lavoratore di essere sentito, non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignità del lavoratore, come traspare anche dalla collocazione sistematica della norma nel Titolo I dello statuto dei lavoratori, denominato «Della libertà e dignità del lavoratore». Dopo questo intervento del legislatore, il potere disciplinare, nient’affatto dimidiato né tanto meno sospeso, assume le cadenze di un procedimento: esso si estrinseca nel rispetto di precise regole e si snoda attraverso fasi successive (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le garanzie sancite dall’art. 2 della legge n. 604 del 1966 e dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori, consistono nell’imporre alle parti di esternare le contrapposte ragioni, al fine di chiarire i punti controversi e favorire, ove possibile, composizioni stragiudiziali. Tali garanzie preludono a un esercizio più efficace del diritto di difesa nel corso della fase giudiziale che il lavoratore può scegliere di instaurare successivamente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La violazione delle prescrizioni formali e procedurali, all’origine di un possibile e più ampio contenzioso riferito al recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli elementi di prova che si possono acquisire nell’immediatezza dei fatti e attraverso un sollecito contraddittorio e incide, pertanto, sull’effettività del diritto di difesa del lavoratore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>8.– L’obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» il recesso del datore di lavoro (sentenza n. 45 del 1965, punto 4. del Considerato in diritto), come questa Corte ha ribadito da ultimo nella sentenza n. 194 del 2018 (punto 9.1. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Anche i vincoli di forma e di procedura rientrano nell’àmbito delle garanzie prescritte dalle norme ora richiamate, lette congiuntamente, proprio perché volte ad ampliare il perimetro delle tutele che circonda la persona del lavoratore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Questa Corte ha affermato, sin da epoca risalente, che l’inosservanza del principio del contraddittorio e delle scansioni procedurali imposte dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori «può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare. Tanto più grave è il pregiudizio che si verifica se il licenziato non sia posto in grado di difendersi e fare accertare l’insussistenza dei motivi “disciplinari”, peraltro unilateralmente mossi e addebitati dal datore di lavoro» (sentenza n. 427 del 1989).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il contraddittorio «esprime un valore essenziale per la persona del lavoratore» (sentenza n. 364 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto) e anche l’obbligo di motivazione risponde ad analoghe esigenze di tutela. La violazione di tale obbligo, difatti, non solo preclude in radice il dispiegarsi del contraddittorio, ma reca offesa alla dignità del lavoratore, esposto all’irrogazione della sanzione espulsiva senza avere adeguata cognizione delle ragioni che la giustificano.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>9.– La disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura, proprio per gli interessi di rilievo costituzionale che sono stati richiamati, deve essere incardinata nel rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza, così da garantire una tutela adeguata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La prudente discrezionalità del legislatore, pur potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria, attraverso la predeterminazione dell’importo spettante al lavoratore, non può trascurare la valutazione della specificità del caso concreto. Si tratta di una valutazione tutt’altro che marginale, se solo si considera la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Nel rispetto del dettato costituzionale, la predeterminazione dell’indennità deve tendere, con ragionevole approssimazione, a rispecchiare tale specificità e non può discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si adotta un meccanismo rigido e uniforme.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>10.– La disciplina censurata non attua un equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>11.– Entrambi i rimettenti prendono le mosse dalla sentenza n. 194 del 2018, con cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determinava l’indennità per il licenziamento intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le censure ricalcano in gran parte le argomentazioni svolte nella citata sentenza di questa Corte circa il carattere rigido dell’indennità, lesivo dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), tutelato dalla Costituzione in tutte le sue forme e applicazioni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>11.1.– Le ragioni su cui questa Corte ha fondato la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 devono essere ripercorse lungo una linea di continuità, al fine di esaminare la disciplina dell’indennità dovuta per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>11.2.– Anche la fattispecie oggi scrutinata si caratterizza per un criterio di determinazione dell’indennità commisurato alla sola anzianità di servizio e oscillante tra un limite minimo di due mensilità e un insuperabile limite massimo di dodici mensilità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>11.3.– Al dato significativo dell’identità del criterio congegnato dal legislatore, si affianca la considerazione della ratio decidendi della pronuncia di questa Corte, che serve a orientare la soluzione dell’odierno dubbio di costituzionalità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel giudizio deciso con la sentenza n. 194 del 2018, le censure non riguardavano le soglie fissate dal legislatore, ma il «meccanismo di determinazione» dell’indennità, in quanto «rigido e automatico» (punto 3. del Considerato in diritto). Partendo da tali premesse, questa Corte ha ritenuto ininfluenti le innovazioni introdotte dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito, giacché esse si limitavano ad apportare correttivi alle soglie stabilite dal legislatore (innalzate da quattro a sei mensilità nel minimo e da ventiquattro a trentasei mensilità nel massimo), senza incidere sul meccanismo denunciato dal rimettente e senza mutare, pertanto, i termini essenziali delle questioni proposte.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La carenza di giustificazione del licenziamento sul piano sostanziale rende più stridenti i profili di contrasto con i parametri costituzionali evocati e fa emergere, con ancor maggiore evidenza, l’irragionevolezza intrinseca del criterio adottato dal legislatore, per la rigidità che lo caratterizza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>11.4.– Non può condurre a diverse conclusioni la differenza che intercorre tra i vizi meramente formali o procedurali e i vizi sostanziali del licenziamento. Essa, difatti, si riverbera sulla diversa modulazione dell’indennità sancita dalla legge, ma non vale a rendere ragionevole e adeguato un criterio che si presta a censure di irragionevolezza intrinseca. Un sistema che, solo per i vizi formali, lasci inalterato un criterio di determinazione dell’indennità imperniato sulla sola anzianità di servizio non potrebbe che accentuare le sperequazioni e la frammentarietà di una disciplina dei licenziamenti, già attraversata da molteplici distinzioni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>12.– L’anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La disciplina censurata prescinde da altri fattori non meno significativi, già presi in considerazione dal legislatore, come la diversa gravità delle violazioni ascrivibili al datore di lavoro, valorizzata dalla legislazione del 2012 nell’area della tutela reale (art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012), o i più flessibili criteri del numero degli occupati, delle dimensioni dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti (art. 8 della legge n. 604 del 1966), applicabili nell’àmbito della tutela obbligatoria, così come definito dalla stessa legge n. 92 del 2012.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nell’appiattire la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio, la disposizione in esame determina un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse e così entra in conflitto con il principio di eguaglianza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>13.– L’art. 3 Cost. è violato anche sotto il profilo della ragionevolezza, che questa Corte, nell’àmbito della disciplina dei licenziamenti, ha declinato come necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro (sentenza n. 194 del 2018, punti 12.1. e 12.2. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il legislatore, pur potendo adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi, è chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’adeguatezza deve essere valutata alla luce della molteplicità di funzioni che contraddistinguono l’indennità disciplinata dalla legge. Alla funzione di ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo si affianca, infatti, anche quella sanzionatoria e dissuasiva (sentenza n. 194 del 2018, punto 12.3. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In un prudente bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente rilevanti, l’esigenza di uniformità di trattamento e di prevedibilità dei costi di un atto, che l’ordinamento qualifica pur sempre come illecito, non può sacrificare in maniera sproporzionata l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto, peraltro accompagnato da vincoli e garanzie dirette ad assicurarne la trasparenza e il fondamento razionale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>13.1.– La disposizione censurata entra in collisione con tali princìpi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sul versante dei licenziamenti viziati dal punto di vista formale, all’arretrare della tutela riferita alla reintegrazione del lavoratore licenziato corrisponde un progressivo affievolirsi della tutela indennitaria, che non basta ad attuare un equilibrato contemperamento degli interessi in conflitto. Nel disegno complessivo prospettato dal legislatore un criterio ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’incongruenza di una misura uniforme e immutabile si coglie in maniera ancor più evidente nei casi di un’anzianità modesta, come quelli esaminati nei giudizi principali. In queste ipotesi, si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della tutela indennitaria. Né all’inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge può porre sempre rimedio la misura minima dell’indennità, fissata in due mensilità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Un meccanismo di tal fatta, pertanto, non compensa il pregiudizio arrecato dall’inosservanza di garanzie fondamentali e neppure rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore di lavoro dal violare le garanzie prescritte dalla legge. Proprio perché strutturalmente inadeguato, il congegno delineato dal legislatore lede il canone di ragionevolezza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>14.– I rimedi previsti dalla disposizione censurata, in ragione dell’inadeguatezza che li contraddistingue, si rivelano lesivi anche della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost.). Tali principi costituzionali, già richiamati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018 (punto 13. del Considerato in diritto), devono essere ribaditi anche per la giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>15.– Si deve, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Restano assorbite le censure di violazione dell’art. 24 Cost., formulate dal solo Tribunale di Bari.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>16.– Nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell’indennità, terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ben potranno venire in rilievo, a tale riguardo, la gravità delle violazioni, enucleata dall’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, previsione applicabile ai vizi formali nell’àmbito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>17.– Spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p>