<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 31 luglio 2020 n. 186</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132; vata dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018; va invece dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>1.1.– Le quattro ordinanze di rimessione solo formalmente censurano disposizioni diverse (art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015 e art. 13, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018). Pertanto, in ragione della identità del petitum, si rende opportuna la loro trattazione congiunta (ex plurimis, sentenze n. 99 e n. 79 del 2020). I relativi giudizi vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>1.2.– In via ulteriormente preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa delle associazioni ASGI-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e Avvocati per Niente Onlus, costituite nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 145 del 2019, dirette ad estendere il thema decidendum – come fissato nella ordinanza di rimessione – alla violazione dell’art. 8 CEDU e degli artt. 1, 7, 18, 20, 29 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione «ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 56 del 2009, n. 86 del 2008)» (sentenza n. 203 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 165, n. 150 e n. 85 del 2020).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– Prima di esaminare le censure prospettate, si impone una ricostruzione del quadro normativo, anche al fine di chiarire il significato della disposizione censurata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.1.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 ha apportato una serie di modifiche agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e ha disposto l’abrogazione del successivo art. 5-bis. In particolare, l’art. 13 si compone di un solo comma, articolato, al suo interno, in tre lettere (a, b e c).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La lettera a) modifica l’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2): con la prima al comma 1 del citato art. 4 è aggiunto il seguente periodo (non censurato dagli odierni rimettenti): «Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445»; con la seconda è inserito, dopo il comma 1 del citato art. 4, il comma 1-bis (censurato da tutti i rimettenti) del seguente tenore: «1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La lettera b) modifica l’art. 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2), entrambe non censurate dagli odierni rimettenti: con la prima è così sostituito il comma 3 del citato art. 5: «3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2»; con la seconda è così modificato il comma 4 del citato art. 5: «le parole “un luogo di residenza” sono sostituite dalle seguenti: “un luogo di domicilio”».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infine, la lettera c) (anch’essa non censurata) dispone l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplinava le modalità di iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.2.– La disposizione censurata, in base alla quale «[i]l permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica […]», è stata oggetto di due opposte interpretazioni.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.2.1.– A fronte dell’interpretazione fatta propria dagli odierni rimettenti che sostengono – almeno in via principale (così il Tribunale di Milano) – l’effetto preclusivo dell’iscrizione anagrafica e, su questo assunto, argomentano sull’illegittimità costituzionale della disposizione de qua, si registra una diversa opzione interpretativa (sostenuta, tra i primi, da: Tribunale di Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 18 marzo 2019; Tribunale di Bologna, protezione internazionale civile, ordinanza 2 maggio 2019; Tribunale di Genova, sezione undicesima civile, ordinanza 20 maggio 2019; Tribunale di Firenze, sezione specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera circolazione dei cittadini UE, ordinanza 27 maggio 2019; Tribunale di Lecce, sezione prima civile, ordinanza 4 luglio 2019; Tribunale di Parma, sezione prima civile, ordinanza 2 agosto 2019; Tribunale di Bologna, sezione specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera circolazione dei cittadini UE, ordinanza 23 settembre 2019; Tribunale di Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 22 novembre 2019; Tribunale di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione civile, ordinanza 25 novembre 2019), che, facendo leva sull’asserita ambiguità del dato letterale (e in particolare sulla formula «non costituisce titolo»), esclude che l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 impedisca l’iscrizione anagrafica, dovendosi piuttosto ritenere che esso si limiti a precisare che il possesso del solo permesso di soggiorno per richiesta di asilo non è sufficiente per ottenere l’iscrizione all’anagrafe.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, i passaggi fondamentali di questo percorso interpretativo sono i seguenti: la norma non contiene un divieto esplicito di iscrizione anagrafica; nell’ordinamento non si rinvengono documenti che «costituiscono titolo» per l’iscrizione anagrafica; tale iscrizione è, piuttosto, l’esito di un procedimento amministrativo diretto ad accertare una situazione di fatto; esiste un diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica (fra le tante, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 26 maggio 1997, n. 4674, e 19 giugno 2000, n. 449), disciplinato dall’art. 1 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente); il diritto all’iscrizione anagrafica è esercitato attraverso una dichiarazione dell’interessato all’ufficiale di stato civile, con cui si dà atto della propria permanenza in un certo luogo e dell’intenzione di abitarvi stabilmente; nel quadro normativo delineato (e così interpretato) si inserisce, coerentemente, l’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo cui: «Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione […]»; il permesso di soggiorno per richiesta di asilo – ma la stessa cosa può dirsi per gli altri permessi di soggiorno – non è mai stato «titolo» per l’iscrizione anagrafica; l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015 ha come effetto solo quello di eliminare la modalità di iscrizione “semplificata” ivi prevista e di far riespandere le modalità ordinarie di iscrizione anagrafica (previste dal d.P.R. n. 223 del 1989); infine, la previsione secondo cui «[l]’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio […]» non può supplire alla limitazione dei diritti individuali connessi alla residenza anagrafica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.2.2.– La descritta interpretazione non appare praticabile per le ragioni di seguito indicate, dovendosi invece ritenere, come sostenuto dai giudici rimettenti, che la disposizione censurata precluda l’iscrizione anagrafica degli stranieri richiedenti asilo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Innanzitutto, depone in tale senso quanto riportato nella relazione illustrativa del decreto-legge e, negli stessi termini, in quella illustrativa del disegno di legge di sua conversione. In questi documenti si legge, tra l’altro, che il «permesso di soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione anagrafica dei residenti» e che «[l]’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente». In questo modo, del resto, la disposizione è stata letta anche dai vari soggetti auditi nel corso del procedimento di conversione in legge del decreto, come risulta dalle loro relazioni. In particolare, va segnalato quanto affermato dal direttore dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), secondo cui «[i]l cambiamento normativo comporterà comunque un’interruzione nella serie storica della popolazione residente, portando in alcuni casi, specie a livello locale, variazioni non trascurabili del totale della popolazione residente», e dal Ministro dell’interno, che, a fronte della «difficoltà per le amministrazioni comunali di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo residenti sui loro territori», ha individuato nella «precarietà della loro permanenza sul territorio» la ragione dell’esclusione dell’iscrizione anagrafica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Coerenti con queste premesse appaiono alcune circolari diramate dal Ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, tra le quali quella del 18 ottobre 2018, recante «D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (G.U. n. 231 del 4/10/2018). Art. 13 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica)», in cui si legge: «[p]ertanto, dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale di cui all’art. 4, comma 1, del citato d.lgs. n. 142/2015, non potrà consentire l’iscrizione anagrafica», e quella del 18 dicembre 2018 (Decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132), nella quale si legge: «[d]i conseguenza, ai richiedenti asilo – che, peraltro, non saranno più iscritti all’anagrafe dei residenti (articolo 13) – vengono dedicate le strutture di prima accoglienza (CARA e CAS), all’interno delle quali permangono, come nel passato, fino alla definizione del loro status».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È inoltre significativo il dato letterale delle disposizioni introdotte con l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, che puntano a sostituire il riferimento al luogo di residenza con quello al luogo di domicilio e di conseguenza abrogano non solo la disposizione che regola la speciale modalità di iscrizione anagrafica, ma la stessa previsione dell’iscrizione anagrafica (art. 5-bis, comma 1, del d.lgs. n. 142 del 2015); modifica, quest’ultima in particolare, che sarebbe priva di senso se la disposizione censurata intendesse solo abrogare la modalità semplificata di iscrizione anagrafica, facendo “riespandere” la modalità ordinaria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Anche la lettura sistematica della disposizione censurata conferma questa interpretazione. In particolare, il riferimento, in essa contenuto, all’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 (che, come detto, prevede l’iscrizione anagrafica dello straniero regolarmente soggiornante «alle medesime condizioni dei cittadini italiani») deve ritenersi operato al fine di dare atto della deroga così introdotta alla previsione della disposizione richiamata. Inoltre, avere previsto che «[i]l permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento […]» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1) si spiega solo considerando che i richiedenti asilo non possono ottenere la carta d’identità che presuppone la residenza anagrafica. Analogamente, le disposizioni di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numeri 1) e 2), del d.l. n. 113 del 2018, sostituendo il «luogo di residenza» con quello di domicilio come luogo di erogazione dei servizi, confermano l’intento del legislatore di escludere i richiedenti asilo dal riconoscimento giuridico della dimora abituale operato per il tramite dell’iscrizione anagrafica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In definitiva, l’opzione interpretativa seguita dai Tribunali rimettenti appare confermata dalle considerazioni appena esposte. Si può quindi procedere all’esame delle singole censure prospettate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Per ragioni di ordine logico, va considerata per prima la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile, con riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto attiene ai presupposti del corretto esercizio della funzione legislativa (sentenze n. 288 e n. 247 del 2019, n. 189 del 2018 e n. 169 del 2017).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel proprio atto di intervento, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione, «in quanto già decisa dalla Corte nel senso dell’infondatezza» con la sentenza n. 194 del 2019.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tale eccezione non è fondata, per due ragioni: in primo luogo, la sentenza n. 194 del 2019 ha, sì, deciso varie questioni proposte in via principale contro il d.l. n. 113 del 2018, ma non è entrata nel merito, dichiarando l’inammissibilità di tutte le questioni; in secondo luogo, è pacifico che una precedente dichiarazione di infondatezza non è causa di inammissibilità della questione riproposta ma può, eventualmente, condurre a una dichiarazione di manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 44 del 2020 e n. 99 del 2017).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1.– Nel merito, la questione non è fondata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Secondo questa Corte, «il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione» (sentenza n. 97 del 2019; in senso simile, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019 e n. 137, n. 99 e n. 5 del 2018): ciò al fine di evitare la sovrapposizione tra la valutazione politica del Governo e delle Camere (in sede di conversione) e il controllo di legittimità costituzionale della Corte.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, nei casi in cui questa Corte è stata chiamata a valutare la conformità di una delle norme del decreto-legge (come nel caso di specie) all’art. 77, secondo comma, Cost., essa ha svolto il proprio giudizio in base a diversi criteri, quali: a) coerenza della norma rispetto al titolo del decreto e al suo preambolo (ad esempio, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019, n. 137 del 2018); b) omogeneità contenutistica o funzionale della norma rispetto al resto del decreto-legge (ex plurimis, sentenze n. 149 del 2020, n. 97 del 2019 e n. 137 del 2018); c) utilizzo dei lavori preparatori (ad esempio, sentenze n. 288 del 2019, n. 99 e n. 5 del 2018); d) carattere ordinamentale o di riforma della norma (ad esempio, sentenze n. 33 del 2019, n. 99 del 2018 e n. 220 del 2013).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il d.l. n. 113 del 2018, intitolato «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», si articola in quattro titoli: il primo (nel quale è inserito l’art. 13) contiene «Disposizioni in materia di rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione» ed è articolato a sua volta in quattro Capi, il secondo dei quali comprende le «Disposizioni in materia di protezione internazionale», fra le quali l’art. 13. Tale Capo, fra l’altro, modifica la disciplina relativa al diniego, alla revoca e alla cessazione della protezione internazionale, regola i casi di reiterazione della domanda di protezione internazionale, novella le disposizioni relative all’accoglienza dei richiedenti asilo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La relazione illustrativa del disegno di legge di conversione (A.S. n. 840, comunicato alla Presidenza del Senato il 4 ottobre 2018) fa riferimento all’urgenza di intervenire «nell’ambito di una complessa azione riorganizzativa, concernente il sistema di riconoscimento della protezione internazionale e le forme di tutela complementare, finalizzata in ultima istanza a una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio nonché ad introdurre misure di contrasto al possibile ricorso strumentale alla domanda di protezione internazionale». Con specifico riferimento all’art. 13, nella stessa relazione si legge che «[l]’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Rinviando al punto successivo ogni valutazione sul contenuto della norma censurata, si deve ritenere che con riferimento ad essa non sia riscontrabile un’evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza. L’art. 13 si inserisce in modo omogeneo nel capo contenente le norme in materia di protezione internazionale, riguardando un aspetto dello status dei richiedenti asilo: questa Corte, nella sentenza n. 194 del 2019, ha già ricondotto la norma sul divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo alle materie del «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea», oltre che delle «anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettere a e i, Cost.). Non a caso, nel suo parere del 14 novembre 2018 il Comitato per la legislazione, pur esprimendo dubbi sull’omogeneità di alcune delle norme inserite nel d.l. n. 113 del 2018, non formulava rilievi sull’art. 13.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Né si può affermare che il Governo abbia deciso di modificare con decreto-legge il sistema di riconoscimento della protezione internazionale, al fine di una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio, nonostante un’evidente assenza di necessità e urgenza: di fronte al massiccio afflusso dei richiedenti asilo e ai complessi problemi inerenti alla sua gestione, non si può considerare manifestamente arbitraria la valutazione del Governo sull’esistenza dei presupposti del decreto-legge. Se è vero che l’art. 13 e le norme collegate non affrontano una nuova emergenza, è anche vero che la persistenza di un problema può concretare le ragioni di urgenza e che, «ricorrendone i presupposti, il programma di Governo ben può essere attuato anche mediante la decretazione d’urgenza» (sentenza n. 288 del 2019).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per il tipo di sindacato che questa Corte svolge sul rispetto dell’art. 77, secondo comma, Cost., la norma censurata supera dunque indenne il vaglio di costituzionalità, sotto questo profilo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– Passando agli altri parametri costituzionali asseritamente violati, i giudici a quibus ritengono innanzitutto che la norma censurata si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili, sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza», alla disciplina più volte richiamata dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le questioni di legittimità costituzionale sollevate da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 3 Cost. sono fondate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.1.– Sono innanzitutto meritevoli di accoglimento le censure prospettate per l’irrazionalità intrinseca della disposizione censurata, in ragione della sua incoerenza rispetto alle finalità perseguite dal d.l. n. 113 del 2018.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come si è visto dalla ricostruzione della ratio della norma in esame, il legislatore avrebbe inteso liberare le amministrazioni comunali, sul cui territorio sono situati i centri di accoglienza degli stranieri richiedenti asilo, dall’onere di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione anagrafica degli stessi. Da questo punto di vista, la precarietà della loro permanenza sul territorio è stata ritenuta argomento idoneo a giustificare l’esclusione dell’iscrizione anagrafica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Così provvedendo, tuttavia, il legislatore contraddice la ratio complessiva del decreto-legge al cui interno si colloca la disposizione denunciata. Infatti, a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in esame, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano. E ciò senza che questa esclusione possa ragionevolmente giustificarsi alla luce degli obblighi di registrazione della popolazione residente.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Pur non potendosi negare che sui comuni interessati gravi un onere ulteriore (rispetto a quello gravante sugli altri comuni) connesso al disbrigo delle pratiche relative alla registrazione anagrafica dei richiedenti asilo, questa considerazione non può giustificare la “sottrazione” di una categoria di soggetti alla “presa d’atto” formale della presenza (qualificata in termini di dimora abituale) di una persona; “presa d’atto” nella quale si sostanzia l’iscrizione anagrafica. In tal senso, non si può sottacere che i moderni sistemi di anagrafe trovano fondamento proprio in un’esigenza di registrazione amministrativa della popolazione residente. Tale registrazione della situazione effettiva dei residenti nel territorio comunale costituisce il presupposto necessario per l’adeguato esercizio di tutte le funzioni affidate alla pubblica amministrazione, da quelle di sicurezza e ordine pubblico, appunto, a quelle sanitarie, da quelle di regolazione e controllo degli insediamenti abitativi all’erogazione di servizi pubblici, e via dicendo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Escludendo dalla registrazione anagrafica persone che invece risiedono sul territorio comunale, la norma censurata accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo, in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo, finendo per questo verso col rendere problematica, anziché semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i fini, compresi quelli che attengono alle vicende connesse alla procedura di asilo. Si deve considerare inoltre che il diniego di iscrizione anagrafica sottrae i richiedenti asilo alla diretta conoscibilità da parte dei comuni – con conseguenze tanto più gravi a seguito dell’informatizzazione di dati e procedure – della loro permanenza sul territorio, stante l’obbligo di comunicare il proprio domicilio solo alla questura competente (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 142 del 2015).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Né può essere fatto valere in senso contrario – come fa l’Avvocatura dello Stato e, ancora prima, il Governo in occasione della conversione in legge del decreto – l’argomento della precarietà della permanenza legale sul territorio dei richiedenti asilo, in particolare ove si riferisca tale condizione alla durata della residenza protratta, ossia all’unico aspetto per cui essa rileva a fini della registrazione anagrafica. All’argomento è agevole replicare, infatti, che il permesso di soggiorno di cui si discute ha durata di sei mesi ed è rinnovabile «fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui il suo destinatario è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale» (art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015), e che, nella stragrande maggioranza dei casi, il periodo complessivo di permanenza dei richiedenti asilo nel nostro Paese risulta essere di almeno un anno e mezzo (come messo in evidenza da tutti i soggetti intervenuti o costituiti nel presente giudizio), soprattutto a causa dei tempi di decisione sulle domande.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La descritta durata, legale e fattuale, del soggiorno dello straniero richiedente asilo rappresenta, già da sola, un dato espressivo di una permanenza protratta per un arco temporale rilevante e appare inoltre particolarmente significativa alla luce di quanto previsto dall’art. 9 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), che fissa in tre mesi il limite di permanenza del cittadino europeo nello Stato membro diverso da quello di appartenenza, limite oltre il quale sorge l’obbligo dell’iscrizione anagrafica. La citata disposizione stabilisce in particolare che «[a]l cittadino dell’Unione che intende soggiornare in Italia, ai sensi dell’articolo 7 per un periodo superiore a tre mesi, si applica la legge 24 dicembre 1954, n. 1228, ed il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223» (comma 1), e che, «[f]ermo quanto previsto dal comma 1, l’iscrizione è comunque richiesta trascorsi tre mesi dall’ingresso ed è rilasciata immediatamente una attestazione contenente l’indicazione del nome e della dimora del richiedente, nonché la data della richiesta» (comma 2).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Del resto, è lo stesso art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, che costituisce la previsione generale in materia, a individuare nella permanenza protratta per tre mesi presso un centro di accoglienza il periodo di tempo necessario per considerare abituale la dimora dello straniero, presupposto, questo, per ottenere il riconoscimento giuridico della residenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da ultimo, non è inutile osservare che la necessità di un controllo e di un monitoraggio della residenza sul territorio degli stranieri richiedenti asilo rileva, e presenta anzi particolare importanza, anche a fini sanitari, poiché è sulla base dell’anagrafe dei residenti che il comune può avere contezza delle effettive presenze sul suo territorio ed essere in condizione di esercitare in maniera adeguata le funzioni attribuite al sindaco dall’art. 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), soprattutto in caso di emergenze sanitarie circoscritte al territorio comunale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da tutti i punti di vista considerati, dunque, la norma censurata contraddice le finalità del d.l. n. 113 del 2018, e in particolare incide negativamente sulla funzionalità delle pubbliche amministrazioni cui è affidata la cura degli interessi oggetto dell’intervento normativo, perché impedisce di basare la loro azione su una rappresentazione veritiera nei registri anagrafici della situazione effettiva della popolazione residente nel loro territorio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.2.– Ugualmente meritevoli di accoglimento sono le censure prospettate per l’irragionevole disparità di trattamento che la norma censurata determina tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini italiani.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte ha, già da tempo, superato l’apparente ostacolo frapposto dal dato letterale dell’art. 3 Cost. (che fa riferimento ai «cittadini»), sottolineando che, «se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare [i] diritti fondamentali» (sentenza n. 120 del 1967), e ha chiarito inoltre che al legislatore non è consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati se non «in presenza di una “causa” normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nelle singole situazioni concrete, la posizione dello straniero può certo risultare diversa rispetto a quella del cittadino (sempre sentenza n. 120 del 1967) e quindi non si può per ciò solo escludere la ragionevolezza della disposizione che ne prevede un trattamento diversificato. Infatti, «la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento» (sentenza n. 104 del 1969, richiamata dalle pronunce successive, sentenze n. 144 del 1970, n. 177 e n. 244 del 1974, n. 62 del 1994, n. 245 del 2011, e ordinanze n. 503 del 1987, n. 490 del 1988).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sulla base di questi argomenti si può così affermare che la particolarità delle «situazioni concrete» può giustificare un diverso trattamento tra differenti categorie di stranieri legalmente soggiornanti, in ragione del motivo e della durata del loro soggiorno, come è, per esempio, nel caso della normativa che limita ai cosiddetti soggiornanti di lungo periodo il riconoscimento di determinati diritti, e come, in principio, potrebbe essere per i richiedenti asilo, in ragione del fatto che la loro permanenza – pur, come visto, di durata non breve e non di rado anche alquanto lunga – è comunque destinata a mutare di titolo nel caso di concessione della protezione internazionale o, diversamente, a cessare.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Negando l’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora abituale nel territorio italiano, tuttavia, la norma censurata riserva un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come già ricordato, la regola generale in tema di iscrizioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante è contenuta nell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 («Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione»), al quale la norma censurata deroga senza alcun ragionevole motivo. Questa Corte ha già chiarito che qualsiasi scelta legislativa che si discosti dalle norme generali del d.lgs. n. 286 del 1998 «dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga» (sentenza n. 432 del 2005): il che non si può dire della norma censurata. Infatti, la temporaneità del soggiorno dei richiedenti asilo non può giustificare il diniego di iscrizione anagrafica, sia per le ragioni esposte nel punto precedente, sia perché, se la stessa temporaneità fosse incompatibile con l’iscrizione anagrafica, allora bisognerebbe escludere dalla registrazione molti altri stranieri regolari, titolari di permessi di durata limitata, che potrebbero non essere rinnovati (quali, ad esempio, quelli previsti all’art. 5, comma 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Considerazioni analoghe possono essere svolte anche con riferimento alla deroga irragionevolmente operata dalla norma censurata rispetto a quanto previsto in via generale dall’art. 2, comma 2, dello stesso decreto legislativo, in base al quale «[lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano […]». Essa priva, infatti, i richiedenti asilo del diritto a iscriversi all’anagrafe dei residenti, senza una causa giustificatrice idonea.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per la portata e per le conseguenze anche in termini di stigma sociale dell’esclusione operata con la norma oggetto del presente giudizio, di cui è non solo simbolica espressione l’impossibilità di ottenere la carta d’identità, la prospettata lesione dell’art. 3, primo comma, Cost. assume in questo contesto – al di là della stessa violazione del principio di eguaglianza – la specifica valenza di lesione della connessa «pari dignità sociale».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Pur potendo il legislatore valorizzare le esistenti differenze di fatto tra cittadini e stranieri (sentenza n. 104 del 1969), esso non può porre gli stranieri (o, come nel caso di specie, una certa categoria di stranieri) in una condizione di “minorazione” sociale senza idonea giustificazione, e ciò per la decisiva ragione che lo status di straniero non può essere di per sé considerato «come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (in questi termini sentenza n. 249 del 2010; analogamente, tra le tante, sentenze n. 166 del 2018, n. 230, n. 119 e n. 22 del 2015, n. 309, n. 202, n. 172, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 172 del 2012, n. 245 e n. 61 del 2011, n. 187 del 2010, n. 306 e n. 148 del 2008, n. 324 del 2006, n. 432 del 2005, n. 252 e n. 105 del 2001, n. 203 del 1997, n. 62 del 1994, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n. 104 del 1969, n. 120 del 1967).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La norma censurata, privando i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti, incide quindi irragionevolmente sulla «pari dignità sociale», riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da questo punto di vista, in concreto, il diniego di iscrizione anagrafica presenta effetti pregiudizievoli per i richiedenti asilo quanto all’accesso ai servizi anche ad essi garantiti. Senza entrare nel merito della dibattuta questione relativa alla possibilità o meno di ottenere, per ciascun servizio, l’erogazione da parte delle amministrazioni competenti in assenza della residenza anagrafica – questione che non viene in rilievo in questa sede – non si può negare che la previsione della fornitura dei servizi nel luogo di domicilio, anziché in quello di residenza (art. 13, comma 1, lettera b, numero 1, del d.l. n. 113 del 2018), rende, quantomeno, ingiustificatamente più difficile l’accesso ai servizi stessi, non fosse altro che per gli ostacoli di ordine pratico e burocratico connessi alle modalità di richiesta dell’erogazione – che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua certificazione a mezzo dell’anagrafe – e per la stessa difficoltà di individuare il luogo di domicilio, a fronte della certezza offerta invece dal dato formale della residenza anagrafica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Si deve pertanto concludere che, anche sotto questo profilo, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.– Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, deriva l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 13 citato. Come messo in evidenza nel punto 2.2.2, il complesso delle disposizioni contenute nello stesso art. 13 costituisce infatti un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro nel divieto di iscrizione anagrafica.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va perciò dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.– Sono assorbite le ulteriori questioni di legittimità costituzionale prospettate dai Tribunali rimettenti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p>