Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04 dicembre 2020 n. 24
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, del c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Ritiene l’Adunanza Plenaria che le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione vadano esaminate tenendo conto della evoluzione della normativa nazionale in tema di giudizio di ottemperanza e di prescrizione, nonché del principio di pari dignità della tutela dei diritti e degli interessi legittimi.
Non rilevano invece le sentenze delle Sezioni Unite sopra richiamate al § 3.2. (riguardanti specifiche questioni sulla decorrenza degli effetti di una notifica, nelle sfere del notificante e del notificatario, e sulla impugnabilità di un licenziamento).
- Il giudizio d’ottemperanza è stato per la prima volta disciplinato dall’art. 4, n. 4, della legge n. 5992 del 31 marzo1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.
Tale articolo – poi trasfuso nei testi unici sul Consiglio di Stato approvati con i regi decreti n. 6166 del 1889, n. 638 del 1907 e n. 1054 del 1924 – ha testualmente ammesso la proponibilità del rimedio solo per eseguire il ‘giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico’.
L’art. 90, secondo comma, del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (di approvazione del ‘regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato’), ha disposto che i ricorsi d’ottemperanza, di cui al testo unico n. 638 del 1907 e quindi quelli di cui all’art. 27, n. 4, del testo unico n. 1054 del 1924, ‘possono essere proposti finché duri l’azione di giudicato’.
L’art. 90 ha così richiamato le allora vigenti disposizioni del codice civile del Regno d’Italia del 1865, il quale:
– all’art. 2135, disponeva che, salvi i più brevi termini previsti dagli articoli 2137-2148, ‘tutte le azioni tanto reali quanto personali si prescrivono col decorso di trent’anni’, e dunque anche l’actio iudicati, in assenza di una specifica disciplina di tale azione;
– all’art. 2123, ammetteva che ‘la prescrizione può essere interrotta … civilmente’, cioè, tra gli altri atti, con una domanda giudiziale o un atto di costituzione in mora.
Il ricorso d’ottemperanza, che nell’originaria intenzione del legislatore riguardava l’esecuzione del giudicato civile a tutela dei diritti, poteva dunque essere proposto entro il termine di trent’anni, di per sé interrompibile.
5.1. Questo Consiglio ha poi ammesso il ricorso d’ottemperanza anche nel caso di mancata esecuzione di proprie decisioni, dapprima nel caso di lesione di un diritto soggettivo di un dipendente, nel sistema della giurisdizione esclusiva prevista dalla legge n. 2840 del 1923 (Sez. IV, 2 marzo 1928, n. 181), e poi nel caso di mancata emanazione di un atto ulteriore dopo l’annullamento di un diniego (Sez. V, 12 maggio 1937, n. 616) o di esecuzione della sentenza d’annullamento di un titolo abilitativo rilasciato ad un terzo (Ad. Plen., 3 luglio 1952, n. 13, sulla mancata chiusura di una farmacia, dopo l’annullamento del suo atto istitutivo).
5.2. Con l’entrata in vigore del codice civile del 1942, vi è stata una profonda modifica della disciplina della prescrizione.
Oltre alla disciplina sul termine ordinario in dieci anni (art. 2946) e sui termini più brevi, anche presuntivi (artt. 2948-2952; 2954-2957), il codice del 1942:
– all’art. 2953, ha specificamente disciplinato l’actio iudicati, disponendo che ‘i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni’.
– all’art. 2943, quarto comma, ha previsto che la prescrizione è interrotta ‘da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore’.
Sotto il profilo lessicale, va rimarcato che – mentre l’art. 90 del regio decreto n. 642 del 1907 e l’art. 2135 del codice civile del 1865 si sono riferiti all’‘azione’ e alle ‘azioni’ e dunque a nozioni ‘processuali’ – l’art. 2953 del codice civile del 1942 si è invece riferito ai ‘diritti’ e dunque ad una nozione ‘sostanziale’, facendo sorgere la perdurante discussione se l’istituto della prescrizione riguardi il diritto o l’azione.
5.3. Al di là degli aspetti lessicali delle sopra richiamate disposizioni, è invece indubbio che – con l’entrata in vigore del codice civile del 1942 – il richiamo all’actio iudicati, contenuto nell’art. 90 del regio decreto n. 642 del 1907, abbia comportato l’applicazione del termine di dieci anni, per la proposizione del ricorso d’ottemperanza per l’esecuzione di un giudicato civile (su specifiche questioni riguardanti tale esecuzione, vanno richiamate le sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 1973 e n. 4 del 1998).
5.4. Nella giurisprudenza di questo Consiglio – prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo – non si è mai dubitato della applicabilità degli articoli 2953 e 2943, quarto comma, per la proponibilità di ricorsi d’ottemperanza nel caso di mancata esecuzione dei giudicati civili o di mancata esecuzione dei giudicati amministrativi riguardanti posizioni di diritti.
Infatti, la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria ha costantemente rilevato che la tutela dei diritti soggettivi deve essere effettiva e che essa – quando sia proposta una azione di cognizione, cautelare o d’esecuzione in una materia devoluta in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva – non possa essere inferiore a quella prospettabile innanzi al giudice civile (cfr. Ad. Plen., 18 dicembre 1940, n. 1; Ad. Plen., 26 ottobre 1979, n. 25; Ad. Plen., 30 marzo 2000, ord. n. 1; cfr. anche Corte Cost., 28 giugno 1985, n. 190).
5.5. Invece, quanto ai giudicati amministrativi di annullamento di atti lesivi di interessi legittimi (per i casi di mancata emanazione di atti ulteriori, dopo l’annullamento di un diniego o di un atto favorevole ad un terzo), nella giurisprudenza di questo Consiglio si è posta effettivamente la questione se l’actio iudicati fosse proponibile improrogabilmente entro il termine di dieci anni (decorrente dalla formazione del giudicato d’annullamento) o anche dopo la scadenza di tale termine, qualora vi fossero state iniziative ‘stragiudiziali’ degli interessati volte ad ottenere l’esecuzione del giudicato.
Poiché gli interessi legittimi (come i poteri autoritativi) per definizione non sono soggetti a ‘prescrizione’, era sostenibile la tesi secondo cui in ogni tempo il vincitore della lite avrebbe potuto agire col giudizio d’ottemperanza, per far emanare le misure volte alla esecuzione del giudicato.
Tuttavia, in considerazione dell’esigenza per la quale i rapporti di diritto pubblico non possono restare a lungo in una situazione di incertezza, anche dopo la legge n. 1034 del 1971 (che per la prima volta ha ammesso espressamente il giudizio d’ottemperanza delle sentenze del giudice amministrativo) la giurisprudenza ha prevalentemente seguito la tesi per la quale il termine richiamato l’art. 90 del regio decreto del 1907 – divenuto di dieci anni dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 – si dovesse intendere ‘non interrompibile’ quando si agiva in ottemperanza per la tutela di un interesse legittimo, con il corollario della necessaria proposizione del ricorso entro il termine decennale, pena la conseguente prescrizione.
A tale principio, si è implicitamente richiamata la sentenza dell’Adunanza Plenaria 26 agosto 1991, n. 5 (resa su una vicenda di cui più volte l’Adunanza si è occupata con le sentenze n. 3 del 1976, n. 16 del 1979, n. 5 del 1991 e n. 7 del 1992), la quale ha ritenuto però interrompibile il termine nel caso di adizione di un giudice incompetente, in implicita adesione al principio previsto per tale adizione dall’art. 2125, primo comma, del codice civile del 1865.
- Inquesto quadro normativo e giurisprudenziale, nelcodice del processo amministrativo è stato inserito l’art. 114, comma 1, che in tema di giudizio d’ottemperanza dispone che ‘l’azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza’.
6.1. Sotto il profilo lessicale, e completando quanto è stato già rilevato sopra al § 5.2., va sottolineato come l’art. 114, comma 1, abbia sancito la ‘regola della prescrizione decennale’ riferendosi – come l’art. 90 del regio decreto n. 642 del 1907, ma in un ben diverso contesto normativo – alla proponibilità della ‘azione’ di esecuzione del giudicato e non al rilievo del decorso del tempo sulle posizioni giuridiche oggetto del giudicato, a differenza di quanto ha previsto l’art. 2953 del codice civile.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, il legislatore si è consapevolmente riferito alla prescrizione della ‘azione’, senza fare riferimento alle posizioni giuridiche oggetto del giudicato.
6.2. Per quanto riguarda l’actio iudicati riguardante il giudicato (del giudice civile o del giudice amministrativo) avente per oggetto diritti, non vi era alcuna lacuna da colmare, proprio perché già gli articoli 2953 e 2943, quarto comma, del codice civile del 1942 hanno sancito le regole della prescrizione decennale e della sua interrompibilità.
6.3. Per quanto riguarda l’actio iudicati riguardante il giudicato avente per oggetto interessi legittimi, invece, il legislatore – nel tenere conto del precedente dibattito – ha ritenuto di non trasporre in legge il principio che la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 1991 e la giurisprudenza sopra richiamata al § 3.2. avevano enunciato, come si è visto, in assenza di una specifica disposizione di legge.
Infatti, l’art. 114, comma 1, ha introdotto la diversa regola per la quale in ogni caso è ‘interrompibile’ il termine di prescrizione decennale, quando si agisce con l’actio iudicati: non rileva sotto tale profilo la posizione soggettiva di cui si chieda tutela al giudice dell’ottemperanza.
Da tale comma, si desume chiaramente la determinazione del legislatore di qualificare come termine di prescrizione e non di decadenza quello entro il quale è proponibile il ricorso d’ottemperanza: non si può ritenere che il legislatore abbia utilizzato termini aventi un significato diverso da quello attribuibile in base alle nozioni generali.
Con riferimento ai diritti, tale determinazione risultava del resto costituzionalmente obbligata, poiché – per il principio di uguaglianza e per i principi fondanti la giustizia amministrativa (artt. 3, 103 e 113 Cost.) – di certo non si sarebbe potuto introdurre per essi un termine decennale di ‘decadenza’, tale da rendere del tutto incoerente la disciplina processuale sull’actio iudicati con quella sostanziale prevista dall’art. 2953 del codice civile (che consente di interrompere la prescrizione anche quando si tratti di un diritto che abbia dato luogo ad un giudicato favorevole).
Una specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, ha allora riguardato proprio l’actio iudicati riguardanti i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo, nel senso che il legislatore ha espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza.
6.4. La scelta del legislatore è stata dunque quella di disporre regole unitarie per l’actio iudicati, quanto al tempo della proposizione del ricorso d’ottemperanza, con riferimento sia ai diritti che agli interessi: ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus.
Ad avviso della Adunanza Plenaria, tale scelta risulta pienamente coerente con il principio di effettività della tutela e con la giurisprudenza costituzionale, poiché:
- a) l’art. 1 del codice del processo amministrativo dispone che ‘la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo’, senza distinguere i diritti dagli interessi, aventi pari dignità ai sensi degli articoli 24 e 103 della Costituzione, sicché ben si regge su tale principio la regola per la quale in ogni caso chi abbia ottenuto un giudicato favorevole possa sollecitare l’Amministrazione soccombente anche in sede stragiudiziale, affinché ci sia l’esecuzione, con la conseguente interruzione del termine di proposizione dell’actio iudicati;
- b) più volte la Corte Costituzionale, anche con le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, ha evidenziato lo ‘stretto intreccio’ che talvolta vi è tra gli interessi e i diritti devoluti dalla legge alla giurisdizione amministrativa esclusiva, sicché si giustifica un regime giuridico unitario (e dunque semplificato) dell’actio iudicati, che ai fini della proponibilità del rimedio – in presenza di atti stragiudiziali volti all’esecuzione del giudicato – renda irrilevante l’esame della natura della posizione fatta valere nel giudizio di cognizione.
La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto con gli articoli 97 e 111 della Costituzione, diversamente da quanto è stato paventato dall’ordinanza di rimessione.
Si deve infatti considerare che l’Amministrazione risultata soccombente nel giudizio di cognizione ha il dovere di dare esecuzione d’ufficio al giudicato: la mancata esecuzione del giudicato si pone in sé in contrasto con il principio del buon andamento dell’azione amministrativa.
Il rimedio del ricorso d’ottemperanza va visto come extrema ratio per ottenere in sede di giurisdizione di merito l’esecuzione del giudicato, qualora in sede amministrativa non vi sia stata una definizione della questione conforme al giudicato stesso, a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti.
Tali contatti vanno considerati di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990, il quale va interpretato nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva, volto a definire una volta per tutte la controversia (Sez. IV, 11 agosto 2020, n. 4990).
E’ pertanto del tutto fisiologico che nel corso del tempo il vincitore del giudizio di cognizione solleciti l’Amministrazione ad eseguire il giudicato, prospettando se del caso soluzioni che possano essere concordate, prima di proporre il giudizio d’ottemperanza (anche in un’ottica deflattiva del contenzioso).
In questo contesto, gli atti di impulso univocamente rivolti ad ottenere l’esecuzione del giudicato sono stati evidentemente ritenuti idonei dal legislatore ad interrompere il termine di prescrizione dell’actio iudicati, non potendo essere ‘premiata’ l’Amministrazione – con una regola della non interrompibilità della prescrizione – quando, malgrado tali atti, non vi sia stata né la ‘unilaterale’ esecuzione del giudicato, né una soluzione consensuale.
La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto col principio della ragionevole durata del processo.
Tale principio riguarda di per sé il periodo di tempo entro il quale deve esservi da parte del giudice la risposta di giustizia e non può essere inteso nel senso che vi siano preclusioni per il legislatore nel fissare una regola generale, per la quale – una volta ottenuto un giudicato favorevole – chi ha titolo ad ottenere l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto preferisca anche periodicamente sollecitare l’Amministrazione soccombente a dare esecuzione al giudicato, senza ricorrere al giudice dell’ottemperanza e confidando che l’Amministrazione stessa, nel rispetto dei propri doveri istituzionali, dia finalmente esecuzione del giudicato.
- Sulla base di tale quadro normativo desumibile dall’art. 114, comma 1, del c.p.a., ed in risposta ai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione, ritiene dunque l’Adunanza Plenaria di enunciare il seguente principio di diritto:
‘Il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, del c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato’.
- Ai sensi dell’art. 99 del c.p.a., la causa va rimessa al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana, la quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva, anche in ordine alle spese di giudizio.