<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 11 gennaio 2021 n. 1</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, </em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.− Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato, per carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata considerazione della ratio e dell’ambito applicativo della norma censurata, come sarebbe stato invece necessario per valutare la ragionevolezza della scelta ivi introdotta rispetto alla regola del limite reddituale posta dal comma 1, e per la richiesta di un «sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori costituzionalmente tutelati in mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.1.− Quanto al primo profilo, non sussiste alcun difetto di motivazione, posto che il giudice a quo argomenta adeguatamente le proprie censure, senza, peraltro, incorrere – come sembra invece adombrare l’Avvocatura generale – nel mancato esperimento del tentativo di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, il rimettente ricostruisce adeguatamente la lettura che ne offre la Corte di cassazione e ricorda che, per consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, invocare l’intervento del giudice delle leggi è possibile anche allorquando il giudice a quo abbia unicamente l’alternativa «di adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Effettivamente, questa Corte ha chiarito che, anche in «<strong>difetto di un vero e proprio diritto vivente</strong>, si deve tenere conto della circostanza che un’eventuale pronuncia di dissenso» da parte del rimettente <strong>lo espone ad una assai probabile riforma della propria decisione</strong> da parte del giudice di ultimo grado: «[i]n tale ipotesi, quindi, la via della proposizione della questione di legittimità costituzionale costituisce l’unica idonea ad impedire che continui a trovare applicazione una disposizione ritenuta costituzionalmente illegittima» in quanto, «se il giudice non si determinasse a sollevare la questione di legittimità costituzionale, l’alternativa sarebbe dunque solo adeguarsi ad una interpretazione che non si condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Queste considerazioni inducono a escludere anche un’ipotesi di inammissibilità della questione per la richiesta a questa Corte di un avallo interpretativo. In sostanza, riprendendo le argomentazioni della già citata sentenza n. 240 del 2016, la soluzione prescelta dal rimettente – cioè di ritenere l’interpretazione data dalla Corte di cassazione “non altrimenti superabile” (tanto più, allo stato, in assenza di pronunce contrarie) – non pare implausibile e non lascia spazio in concreto alla sperimentazione di altre opzioni, dato che in ogni caso tutte verrebbero a confliggere con quella fatta propria dal giudice di ultimo grado.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.2.− Quanto al secondo profilo di inammissibilità, esso sembra investire la presunta insindacabilità delle scelte discrezionali affidate al legislatore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tale profilo, però, tocca il merito della questione, alla cui trattazione si rimanda.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.− La questione non è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.− Come da ultimo ribadito da questa Corte, «”la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019)”» (sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47 del 2020 e l’ordinanza n. 3 del 2020).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.− La scelta effettuata con la disposizione in esame – che va, appunto, ricondotta nell’alveo della disciplina processuale – rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tesi a garantire <strong>una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale</strong>, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori. Di qui la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ed infatti, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama «la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati». Non diverse sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge n. 119 del 2013.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>È evidente, dunque, che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile <strong>in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale</strong> che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.− A queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va aggiunta la considerazione che nel nostro ordinamento sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Questa Corte ha affermato in proposito che «tale scelta [di porre a carico dell’erario l’onorario e le spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato] rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine» (ordinanza n. 439 del 2004).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Valutazioni di analogo tenore possono, dunque, svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma 4-ter.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.− Quanto, specificamente, al profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese dello Stato quale presunzione assoluta, il giudice a quo segnala che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia «solida rispondenza all’id quod plerumque accidit» (così tra le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020); e che «“le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982). In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.» (sentenza n. 253 del 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>E però, il rimettente non coglie nel segno richiamando questa giurisprudenza, posto che, per quanto sin qui esposto, il beneficio non è legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La verifica della regola dell’id quod plerumque accidit dovrebbe, piuttosto, concernere la vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter, in ordine alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>8.− Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, terzo comma, Cost., ci si limita a evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.</em></p>