Corte Costituzionale, ordinanza 11 febbraio 2020 n. 18
Vanno sollevata, disponendone la trattazione innanzi a sé, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848;
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Considerato che il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile che, nel dettare la disciplina del cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, prevede che «Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre»; la disposizione è censurata nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno;
che questa preclusione si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della tutela dell’identità personale; sarebbe, inoltre, violato l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, come già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 286 del 2016; è denunciata, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007;
che, in via preliminare, non è fondata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa dello Stato per il carattere manipolativo dell’intervento richiesto a questa Corte;
che, infatti, il petitum del rimettente è circoscritto al riconoscimento della possibilità, attualmente preclusa dall’art. 262, primo comma, cod. civ., di trasmettere al figlio, di comune accordo, alla nascita, il solo cognome materno; con ciò, dunque, il giudice a quo chiede l’addizione di una specifica ipotesi derogatoria, ritenuta costituzionalmente imposta, volta a riconoscere il paritario rilievo dei genitori nella trasmissione del cognome al figlio;
che le questioni sollevate dal giudice a quo, relative alla preclusione della facoltà di scelta del solo cognome materno, sono strettamente connesse alla più ampia questione che ha ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno;
che la secolare prevalenza del cognome paterno trova il suo riconoscimento normativo – oltre che nella disposizione censurata – negli artt. 237 e 299 cod. civ.; nell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); negli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127);
che questa Corte è già stata chiamata, in più occasioni, a valutare la legittimità costituzionale di questa disciplina, in riferimento sia al principio di parità dei genitori, sia al diritto all’identità personale dei figli, sia alla salvaguardia dell’unità familiare;
che, sin da epoca risalente, è stata evidenziata la possibilità di introdurre sistemi diversi di determinazione del nome, egualmente idonei a salvaguardare l’unità della famiglia, senza comprimere l’eguaglianza e l’autonomia dei genitori (ordinanze n. 586 e n. 176 del 1988);
che, in tempi più recenti, è stato espressamente riconosciuto che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» (ordinanza n. 61 del 2006);
che, da ultimo, ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, Cost., questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ.; 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939; e 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno; la dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata estesa, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 262, primo comma, cod. civ., e all’art. 299, terzo comma, cod. civ. (sentenza n. 286 del 2016);
che in tale decisione – pur essendo stata riaffermata la necessità di ristabilire il principio della parità dei genitori – si è preso atto che, in via temporanea, «in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità», “sopravvive” la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, destinata a operare in mancanza di accordo espresso dei genitori;
che, tuttavia, anche dopo questa pronuncia, gli inviti ad una sollecita rimodulazione della disciplina – in grado di coniugare il trattamento paritario delle posizioni soggettive dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio – sinora non hanno avuto séguito;
che, pertanto, la prevalenza del cognome paterno costituisce tuttora il presupposto delle disposizioni, sopra richiamate, che declinano la regola del patronimico nelle sue diverse esplicazioni, tra le quali rientra certamente la disposizione censurata dell’art. 262, primo comma, cod. civ.;
che, di conseguenza, anche laddove fosse riconosciuta la facoltà dei genitori di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno dovrebbe essere ribadita in tutte le fattispecie in cui tale accordo manchi o, comunque, non sia stato legittimamente espresso; in questi casi, verosimilmente più frequenti, dovrebbe dunque essere riconfermata la prevalenza del cognome paterno, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 286 del 2016 e n. 61 del 2006);
che, in questo quadro, neppure il consenso, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla generale disciplina del patronimico, potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità tra le parti, posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome;
che, pertanto, nella perdurante vigenza del sistema che fa prevalere il cognome paterno, lo stesso meccanismo consensuale – che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del solo cognome materno – non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori;
che «il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite» (ordinanza n. 183 del 1996; nello stesso senso, sentenza n. 179 del 1976 e ordinanze n. 230 del 1975 e n. 100 del 1970);
che, alla luce del rapporto di presupposizione e di continenza tra la questione specifica dedotta dal giudice a quo e quella nascente dai dubbi di legittimità costituzionale ora indicati, la risoluzione della questione avente ad oggetto l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui impone l’acquisizione del solo cognome paterno, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo (ex multis, sentenze n. 255 del 2014, n. 179 del 1976, n. 195 del 1972; nonché ordinanze n. 114 e n. 96 del 2014, n. 42 del 2001; n. 197 e n. 183 del 1996; n. 297 e n. 225 del 1995; n. 294 del 1993; n. 378 del 1992, n. 230 del 1975 e n. 100 del 1970);
che d’altra parte, ancorché siano legittimamente prospettabili soluzioni normative differenziate, l’esame di queste specifiche istanze di tutela costituzionale, attinenti a diritti fondamentali, non può essere pretermesso, poiché «l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia» (sentenza n. 242 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 96 del 2015, n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011);
che la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale è rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia;
che tutto ciò porta a dubitare della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica acquisizione del solo patronimico, che trova espressione nell’art. 262, primo comma, cod. civ.;
che è stato osservato sin da epoca risalente che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970); nel caso in esame, ancora una volta, «[l]a perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi […] contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi» (sentenza n. 286 del 2016);
che «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno» (ancora sentenza n. 286 del 2016);
che, infine, il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, cod. civ., attiene anche alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto di discriminazione) CEDU;
che, a questo riguardo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, ha ritenuto che la rigidità del sistema italiano – che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo ad una diversa volontà concordemente espressa dai genitori – costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando altresì una discriminazione ingiustificata tra i genitori, in contrasto con gli art. 8 e 14 CEDU;
che, pertanto, questa Corte non può esimersi, ai fini della definizione del presente giudizio, dal risolvere pregiudizialmente le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’automatica acquisizione del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.