Corte Costituzionale, sentenza 09 marzo 2021 n. 32
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Tribunale ordinario di Padova.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– In linea preliminare, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa statale.
2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le questioni sollevate dal Tribunale di Padova siano prive di rilevanza. Nella specie, non sarebbe fatto valere nel giudizio principale il diritto delle minori a essere riconosciute quali figlie di entrambe le madri, ma la pretesa della ricorrente di essere riconosciuta genitore legale. Ciò sarebbe dimostrato dalla circostanza che la convenuta, madre biologica delle minori, non sarebbe stata citata in giudizio come esercente la responsabilità genitoriale sulle minori e il Tribunale non ha ritenuto di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle stesse. Non sarebbe, quindi, chiara la fattispecie sottoposta all’esame del Tribunale, tanto da non consentire di comprendere l’individuazione delle norme censurate, quali norme applicabili nel giudizio principale.
2.1.1.– L’eccezione è priva di fondamento.
Nell’ordinanza di rimessione emerge chiaramente che le domande, proposte nel giudizio principale dalla ricorrente sulla base degli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, oltre che, in subordine, dell’art. 250 cod. civ., mirano alla tutela delle minori, proprio perché volte a consentire l’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti delle stesse anche da parte della madre intenzionale, in virtù del riconoscimento formale dello status di figlie dalla stessa auspicato.
Il rimettente chiarisce che si tratta di una richiesta orientata a garantire stabilità nel rapporto genitoriale, impostato in modo continuativo fin dalla nascita delle bambine e tale da non arrecare pregiudizio alle stesse. Si fa riferimento all’intervento, pur infruttuoso, del Tribunale per i minorenni, a seguito della brusca interruzione di contatti regolari, causata dalla madre biologica, con l’insorgere di una situazione conflittuale all’interno della coppia, di ogni rapporto tra le medesime minori e la madre intenzionale, nonostante il consolidato legame affettivo fra le stesse.
Il riconoscimento dello status di figlio, oggetto delle norme censurate, corrisponde, secondo l’art. 30 Cost., al dovere di cura del genitore che è, al contempo, garanzia del diritto del minore di essere curato. Tanto basta per ritenere che gli argomenti del rimettente non siano implausibili nell’individuare come oggetto del giudizio che lo occupa il diritto delle minori a essere riconosciute figlie di entrambe le madri, in linea con l’indirizzo costante di questa Corte, che, nel delibare l’ammissibilità della questione, «effettua in ordine alla rilevanza solo un controllo “esterno”, applicando un parametro di non implausibilità della relativa motivazione» (sentenza n. 267 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 224 e n. 32 del 2020).
2.2.– La difesa statale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità delle questioni per aberratio ictus.
L’ostacolo giuridico all’accoglimento della domanda della ricorrente nel giudizio principale, volta al riconoscimento dello status di figlie nei confronti delle bambine nate a seguito di PMA eterologa praticata da una coppia di donne, risiederebbe non già nelle disposizioni censurate, ma nelle norme della medesima legge n. 40 del 2004 che fissano i limiti all’accesso alla PMA eterologa, contenute negli artt. 4 e 5 della legge n. 40 del 2004, non oggetto di censure.
2.2.1.– Anche questa eccezione è priva di fondamento.
Il rimettente premette che la domanda proposta, in prima istanza, dalla ricorrente è proprio quella di riconoscere lo status di figlie delle minori, applicando estensivamente gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, muovendo dal loro tenore letterale. L’art. 8, infatti, si limita a stabilire che i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6», il che vuol dire prestando il consenso informato. L’art. 9, inoltre, sanciva il divieto del disconoscimento della paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità nel caso di fecondazione eterologa, anche quando quest’ultima non era ancora consentita (prima dell’intervento di questa Corte con la sentenza n. 162 del 2014).
Il Tribunale di Padova, tuttavia, afferma di non poter accogliere l’istanza della ricorrente, ritenendo che l’ambito di applicazione delle citate disposizioni, sulla base dell’interpretazione sistematica e logica delle stesse e a seguito della sentenza n. 237 del 2019 di questa Corte, sia implicitamente limitato ai nati da PMA eterologa praticata da coppie di sesso diverso, in base a quanto previsto dall’art. 5 della medesima legge n. 40 del 2004.
Il rimettente, però, rileva che, sebbene la fecondazione eterologa fra coppie dello stesso sesso non sia consentita in Italia per una scelta del legislatore non costituzionalmente censurabile (sentenza n. 221 del 2019), essa è comunque praticata e praticabile in altri Paesi. I nati a seguito del ricorso a queste tecniche sono, dunque, titolari di diritti, indipendentemente dalle modalità del loro concepimento.
Il rimettente non contesta la legittimità costituzionale dei limiti posti alle coppie omosessuali nell’accesso alla PMA. Denuncia, piuttosto, l’illegittimità costituzionale della compressione dei diritti dei nati, su cui si farebbe ricadere la responsabilità inerente all’illiceità delle tecniche adottate nella procreazione.
Poiché «ricorre l’inammissibilità delle questioni per aberratio ictus solo ove sia erroneamente individuata la norma in riferimento alla quale sono formulate le censure di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 224 del 2020), si deve ritenere che questo non accada nel caso qui esaminato.
Il Collegio rimettente correttamente censura gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, poiché da essi si desume l’impossibilità di riconoscere lo status di figli ai nati da PMA eterologa, praticata da una coppia di donne, e da essi si fa discendere il vuoto di tutela, quando si manifesta il dissenso della madre biologica all’accesso della madre intenzionale all’adozione in casi particolari, con conseguente pretesa lesione degli indicati parametri costituzionali.
2.3.– Gli argomenti appena richiamati inducono a escludere un ulteriore profilo – pur non eccepito – di inammissibilità, inerente alla mancata sperimentazione dell’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, auspicata dalla ricorrente nel giudizio principale.
2.3.1.– Come già sottolineato, il Collegio rimettente muove dalla verifica della possibilità di un’interpretazione dei citati artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, che consenta di assicurare la tutela dei nati a seguito del ricorso a tecniche di PMA eterologa da parte di due donne, effettuato all’estero, riconoscendo loro lo status di figli di entrambe. La ritiene, tuttavia, impraticabile muovendo da un’interpretazione sistematica e logica, poiché «allo stato della legislazione, il requisito soggettivo della diversità di sesso per accedere alla procreazione medicalmente assistita», prescritto dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004, ma anche «letto […] in relazione alle norme del codice civile sulla filiazione, esclude l’opzione ermeneutica proposta dalla ricorrente».
L’interpretazione accolta dal Collegio rimettente, peraltro, è stata successivamente confermata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 aprile 2020, n. 8029, e sentenza 3 aprile 2020, n. 7668). Alcune pronunce di merito l’hanno, invece, disattesa, proprio in considerazione della preminente esigenza, costituzionalmente garantita, «di tutelare la condizione giuridica del nato, conferendogli, da principio, certezza e stabilità», tenendo distinta la questione relativa allo stato del figlio da quella inerente alla liceità della tecnica prescelta per farlo nascere (fra gli altri, Tribunale di Brescia, decreto 11 novembre 2020, Tribunale di Cagliari, sentenza n. 1146 del 28 aprile 2020. In termini analoghi, Corte d’appello di Roma, decreto 27 aprile 2020).
In ogni caso, l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa denunciata è stata esplorata e consapevolmente scartata dal Collegio rimettente, «il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione (sentenza n. 189 del 2019)» (sentenza n. 32 del 2020).
2.4.– La difesa statale eccepisce, infine, che le questioni sollevate dal Tribunale di Padova siano inammissibili, poiché le integrazioni alla disciplina vigente, richieste dal giudice a quo, sarebbero protese a colmare un vuoto di tutela in una materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore.
2.4.1.– L’eccezione è fondata nei termini di seguito precisati.
2.4.1.1.– In epoca antecedente all’adozione della legge n. 40 del 2004, in relazione a una questione inerente alla tutela dello status filiationis del concepito tramite fecondazione eterologa, ancora non disciplinata, questa Corte ha evidenziato «una situazione di carenza dell’attuale ordinamento, con implicazioni costituzionali» (sentenza n. 347 del 1998). Senza addentrarsi nel valutare la legittimità di quella tecnica, è stata in quell’occasione espressa l’urgenza di individuare idonei strumenti di tutela del nato a seguito di fecondazione assistita, «non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare» (sentenza n. 347 del 1998).
Gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 del 2004 stanno a dimostrare che, nell’ascoltare quel monito, il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da PMA anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162 del 2014). Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti maggiorenni che, all’interno di coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, avessero consensualmente fatto ricorso a PMA (art. 5 della legge n. 40 del 2004), divenivano, per ciò stesso, responsabili nei confronti dei nati, destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico.
L’evoluzione dell’ordinamento, del resto, muovendo dalla nozione tradizionale di famiglia, ha progressivamente riconosciuto – e questa Corte lo ha evidenziato – rilievo giuridico alla genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica (sentenza n. 272 del 2017), tenuto conto che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa» (sentenza n. 162 del 2014).
L’art. 9 della legge n. 40 del 2004, nel valorizzare, rispetto al favor veritatis, il consenso alla genitorialità e l’assunzione della conseguente responsabilità nell’ambito di una formazione sociale idonea ad accogliere il minore – come questa Corte ha rimarcato – «dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio», garantendo «il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione» (sentenza n. 127 del 2020).
A questo intervento del legislatore hanno fatto seguito, in progressione armonica, le modifiche successivamente apportate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) in tema di filiazione. Al centro si pongono i diritti del minore: «crescere in famiglia e […] mantenere rapporti significativi con i parenti» (art. 315-bis cod. civ.); «mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, […] ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi» (art. 337-ter cod. civ.).
Parallelamente, al posto dell’originario istituto della potestà genitoriale si introduce la responsabilità genitoriale (art. 316 cod. civ.), che recepisce l’indicazione dell’art. 30 Cost., nella formula sintetica, già da tempo espressamente individuata da questa Corte, volta a “tradurre” «gli obblighi di mantenimento ed educazione della prole, derivanti dalla qualità di genitore» (sentenza n. 308 del 2008; nello stesso senso sentenza n. 394 del 2005). L’evoluzione dell’ordinamento segna dunque un’ancor più accentuata consonanza con i diritti sanciti nella Costituzione.
Inoltre, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 24, comma 2, si afferma che è “preminente” la considerazione dell’interesse del minore in tutti gli atti che lo riguardano. In questa direzione, proprio con riferimento a tale disposizione, si è orientata anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha affermato il diritto dei figli di mantenere relazioni regolari e contatti diretti con entrambi i genitori, se questo corrisponde al loro interesse (sentenza 5 ottobre 2010, in causa C-400/10 PPU, J. McB.).
2.4.1.2.– Come questa Corte ha già ricordato (sentenza n. 102 del 2020), il principio posto a tutela del miglior interesse del minore si afferma nell’ambito degli strumenti internazionali dei diritti umani, in specie nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1959 (principio 2), in cui si prevede che, nell’approvazione di leggi e nell’adozione di tutti i provvedimenti che incidano sulla condizione del minore, ai best interests of the child deve attribuirsi rilievo determinante (“paramount consideration”).
Successivamente esso è ribadito nella Convenzione sui diritti del fanciullo, in cui, all’art. 3, paragrafo 1, si fa menzione del rilievo preminente (“primary consideration”) da riservare agli interessi del minore.
Pur in assenza di una espressa base testuale riferita al minore, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricondotto all’art. 8, spesso in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, l’affermazione che i diritti alla vita privata e familiare del fanciullo devono costituire un elemento determinante di valutazione («the child’s rights must be the paramount consideration»: Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 novembre 2002, Yousef contro Paesi Bassi; sezione prima, sentenza 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, paragrafo 133: «Bearing in mind that the best interests of the child are paramount in such a case»; grande camera, sentenza del 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 95: «the best interests of the child must be of primary consideration»).
Questa è la prospettiva prescelta dalla Corte EDU per riconoscere la permanenza e la stabilità dei legami che si instaurano tra il bambino e la sua famiglia e per salvaguardare il suo diritto a beneficiare di relazioni e contatto continuativo con entrambi i genitori (Corte EDU, grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 202).
A meno che un distacco si renda necessario nel suo superiore interesse, di volta in volta rimesso alla valutazione del giudice, il minore non deve essere separato dai genitori contro la sua volontà (Corte EDU, grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 207). Incombe, infatti, sugli Stati aderenti alla Convenzione di New York (art. 9, paragrafo 1) l’obbligo di rendere effettivi tali diritti e di garantire (art. 9, paragrafo 3) la stabilità dei legami e delle relazioni del minore in riferimento a tutte le persone con cui quest’ultimo abbia instaurato un rapporto personale stretto, pur in assenza di un legame biologico («persons with whom the child has had strong personal relationships»: così il paragrafo 64 del General Comment No. 14 (2013) on the right of the child to have his or her best interests taken as a primary consideration (art. 3, para. 1), adottato dal Comitato sui diritti del fanciullo il 29 maggio 2013, CRC/C/GC/14; una simile affermazione anche nel paragrafo 60 dello stesso documento) a meno che ciò non sia contrario ai suoi superiori interessi.
La Corte EDU ha ripetutamente ricondotto all’art. 8 CEDU la garanzia di legami affettivi stabili con chi, indipendentemente dal vincolo biologico, abbia in concreto svolto una funzione genitoriale, prendendosi cura del minore per un lasso di tempo sufficientemente ampio (Corte EDU, sezione prima, sentenza del 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, paragrafo 66). Ha inoltre assimilato al rapporto di filiazione il legame esistente tra la madre d’intenzione e la figlia nata per procreazione assistita, cui si era sottoposta l’allora partner (legame che «tient donc, de facto, du lien parent-enfant»), coerentemente con la nozione di “vita familiare” di cui al medesimo art. 8 CEDU (Corte EDU, sezione quinta, sentenza 12 novembre 2020, Honner contro Francia, paragrafo 51).
La considerazione che la tutela del preminente interesse del minore comprende la garanzia del suo diritto all’identità affettiva, relazionale, sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e sul loro riconoscimento giuridico è, inoltre, al centro delle stesse pronunce “gemelle” (Corte EDU, sezione quinta, sentenze 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia), richiamate dall’odierno rimettente.
In esse la Corte EDU ha ravvisato la violazione del diritto alla vita privata del minore nel mancato riconoscimento del legame di filiazione tra lo stesso, concepito all’estero ricorrendo alla specifica tecnica della surrogazione di maternità, e i genitori intenzionali, proprio in considerazione dell’incidenza del rapporto di filiazione sulla costruzione dell’identità personale (Corte EDU, sezione quinta, sentenze 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia, paragrafo 96, e Labassee contro Francia, paragrafo 75).
Tale indirizzo – confermato da successive pronunce (fra le altre, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia) che hanno richiamato il parere consultivo reso, ai sensi del Protocollo n. 16, dalla Corte EDU, grande camera, il 10 aprile 2019, relativo al riconoscimento nel diritto interno di un rapporto di filiazione tra un minore nato da una gestazione per altri effettuata all’estero e la madre intenzionale, richiesto dalla Corte di cassazione francese – fonda proprio nell’art. 8 CEDU l’obbligo degli Stati di prevedere il riconoscimento legale del legame di filiazione tra il minore e i genitori intenzionali.
Pur lasciando agli stessi un margine di discrezionalità circa i mezzi da adottare – fra cui anche l’adozione – per pervenire a tale riconoscimento, li vincola alla condizione che essi siano idonei a garantire la tutela dei diritti dei minori in maniera piena. Se il rapporto di filiazione è già diventato una «realtà pratica», la procedura prevista per il riconoscimento deve essere «attuata in modo tempestivo ed efficace».
L’identità del minore è dunque incisa quale componente della sua vita pivata, identità che il legame di filiazione rafforza in modo significativo.
Tutte queste precisazioni aggiungono chiarezza al riscontro che la Corte EDU opera di ogni elemento volto a rafforzare la tutela dei minori dentro un perimetro di diritti concretamente azionabili, che si traducono in altrettanti obblighi degli Stati a intervenire se la tutela non è effettiva.
2.4.1.3.– Le norme oggetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova riguardano, come si è detto, la condizione di nati a seguito di PMA eterologa praticata in un altro paese, in conformità alla legge dello stesso, da una donna, che aveva intenzionalmente condiviso il progetto genitoriale con un’altra donna e, per un lasso di tempo sufficientemente ampio, esercitato le funzioni genitoriali congiuntamente, dando vita con le figlie minori a una comunità di affetti e di cure.
La circostanza che ha indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni conflittuali all’interno della coppia, ha reso affatto evidente un vuoto di tutela. Pur in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi nella pratica della vita quotidiana con la medesima madre intenzionale, nessuno strumento può essere utilmente adoprato per far valere i diritti delle minori: il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise.
L’elusione del limite stabilito dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004, come già detto, non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare, in linea con la giurisprudenza di legittimità in materia di accesso alla PMA, che, da un lato, non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina; dall’altro, «non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore» (sentenza n. 221 del 2019).
Al contrario, la concomitanza degli eventi prima descritti, svela una preoccupante lacuna dell’ordinamento nel garantire tutela ai minori e ai loro migliori interessi, a fronte di quanto in forte sintonia affermato dalla giurisprudenza delle due corti europee, oltre che dalla giurisprudenza costituzionale, come necessaria permanenza dei legami affettivi e familiari, anche se non biologici, e riconoscimento giuridico degli stessi, al fine di conferire certezza nella costruzione dell’identità personale.
Nell’escludere l’esistenza di un diritto alla genitorialità delle coppie dello stesso sesso, questa Corte (sentenza n. 230 del 2020) ha lasciato emergere un profilo speculare, direttamente inerente alla tutela del miglior interesse del minore, nato a seguito di PMA praticata da due donne. Pur richiamando gli approdi della giurisprudenza di legittimità, che, al fine di evitare un vulnus, ha ritenuto applicabile l’adozione cosiddetta non legittimante in base a un’interpretazione estensiva dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, questa Corte ha preannunciato l’urgenza di una «diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale», invocando l’intervento del legislatore.
Le questioni sollevate dal Tribunale di Padova confermano, in modo ancor più incisivo, l’impellenza di tale intervento. Esse rivelano in maniera tangibile l’insufficienza del ricorso all’adozione in casi particolari, per come attualmente regolato, tant’è che nello specifico caso è resa impraticabile proprio nelle situazioni più delicate per il benessere del minore, quali sono, indubitabilmente, la crisi della coppia e la negazione dell’assenso da parte del genitore biologico/legale, reso necessario dall’art. 46 della medesima legge n. 184 del 1983.
La previsione di tale necessario assenso, d’altro canto, si lega alle caratteristiche peculiari dell’adozione in casi particolari, che opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati, visto che non conferisce al minore lo status di figlio legittimo dell’adottante, non assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante (considerata l’incerta incidenza della modifica dell’art. 74 cod. civ. operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali») e non interrompe i rapporti con la famiglia d’origine.
Da quanto detto risulta evidente che i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi.
La loro condizione rivela caratteri solo in parte assimilabili a un’altra categoria di nati cui, per molti anni, è stato precluso il riconoscimento dello status di figli (i cosiddetti figli incestuosi), destinatari di limitate forme di tutela, a causa della condotta dei genitori. Ciò ha indotto questa Corte a ravvisare una «capitis deminutio perpetua e irrimediabile», lesiva del diritto al riconoscimento formale di un proprio status filiationis, che è «elemento costitutivo dell’identità personale, protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della citata Convenzione sui diritti del fanciullo, dall’art. 2 della Costituzione», e in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza (sentenza n. 494 del 2002).
2.4.1.4.– Al riscontrato vuoto di tutela dell’interesse del minore, che ha pieno riscontro nei richiamati principi costituzionali, questa Corte ritiene di non poter ora porre rimedio. Serve, ancora una volta, attirare su questa materia eticamente sensibile l’attenzione del legislatore, al fine di individuare, come già auspicato in passato, un «ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana» (sentenza n. 347 del 1998). Un intervento puntuale di questa Corte rischierebbe di generare disarmonie nel sistema complessivamente considerato.
Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale.
In via esemplificativa, può trattarsi di una riscrittura delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione. Solo un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso, consentirebbe di ovviare alla frammentarietà e alla scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il “miglior interesse del minore”.
Esso, inoltre, eviterebbe le “disarmonie” che potrebbero prodursi per effetto di un intervento mirato solo a risolvere il problema specificamente sottoposto all’attenzione di questa Corte. Come nel caso in cui si preveda, per il nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, il riconoscimento dello status di figlio, in caso di crisi della coppia e rifiuto dell’assenso all’adozione in casi particolari, laddove, invece, lo status – meno pieno e garantito – di figlio adottivo, ai sensi dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983, verrebbe a essere riconosciuto nel caso di accordo e quindi di assenso della madre biologica alla adozione. Il terreno aperto all’intervento del legislatore è dunque assai vasto e le misure necessarie a colmare il vuoto di tutela dei minori sono differenziate e fra sé sinergiche.
Nel dichiarare l’inammissibilità della questione ora esaminata, per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario, questa Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia.