Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 17 marzo 2021, n. 10381
PRINCIPIO DI DIRITTO
L’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: “se l’ipotesi di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., sia applicabile al convivente more uxorio”.
- La Sezione rimettente ha correttamente rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’ambito applicativo dell’art. 384, primo comma, cod. pen., con riferimento alla possibilità di farvi rientrare anche i casi di convivenze di fatto.
2.1. L’orientamento, allo stato prevalente, che esclude l’applicabilità dei casi di non punibilità previsti dalla norma in questione alle situazioni di convivenza more uxorio, giustifica tale soluzione in base ad almeno tre ordini di ragione. Innanzitutto, si ritiene determinante l’espresso riferimento contenuto nell’art. 384 cod. pen. ai “prossimi congiunti”, la cui definizione è offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., disposizione generale all’interno del codice penale, che identifica la categoria dei prossimi congiunti esclusivamente nel coniuge, oltre che negli ascendenti, discendenti, fratelli, affini nello stesso grado, zii e nipoti, senza ricomprendervi il convivente. In questo modo la nozione di prossimi congiunti viene ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio, negando ogni possibile parificazione della convivenza more uxorio (in questo senso, Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, Turatello, Rv. 154880; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/1988, Melilli, Rv. 178467; Sez. 1, n. 9475 del 05/05/1989, Creglia, Rv. 181759; Sez. 6, n. 132 del 18/01/1991, Izzo, Rv. 187017; Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, Agate, Rv. 244725, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903). In secondo luogo, le decisioni che formano oggetto di questo indirizzo interpretativo escludono l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale e, richiamando la giurisprudenza costituzionale che in più occasioni ha ritenuto infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sottolineano la diversità tra il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, e la convivenza di fatto, fondata, invece, su una affectio che può essere revocata in ogni momento, evidenziando, inoltre, la differente tutela riservata alle due situazioni dalla stessa Costituzione, che solo nell’art. 29 riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, mentre la famiglia di fatto viene presa in considerazione sulla base dell’art. 2 Cost. (cfr., Corte cost. n. 8 del 1996 e n. 121 del 2004).
Proprio sulla base di questi argomenti la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., tenendo conto della diversa copertura costituzionale del rapporto di convivenza e di quello coniugale, rilevando come la piena assimilazione di tali situazioni rientri nelle scelte discrezionali del legislatore (Sez. 6, n. 35967 del 28/09/2006, Cantale, Rv. 234862).
L’esclusione dell’equiparazione sul piano interpretativo del convivente al coniuge, in vista dell’applicabilità della causa di non punibilità ai sensi dell’art.384 cod. pen., viene motivata evidenziando anche le conseguenze in malam partem di una tale operazione, conseguenze rinvenibili in tutti quei casi in cui il vincolo familiare rileva per la configurabilità di taluni reati, come ad esempio quelli previsti dagli artt. 570, 577, secondo comma, n. 1, 605, primo comma , n. 1, cod. pen. Infine, l’esclusione della estensibilità fa leva sulla qualificazione della norma come causa di non punibilità che, in quanto norma eccezionale, non può essere applicata analogicamente (in questo senso si esprime anche l’ordinanza di rimessione).
Si sostiene che spetterebbe sempre al legislatore prevedere l’estensione della non punibilità attraverso un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse, sicché andrebbe operato un confronto tra «l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro», rilevando come non possa dirsi «che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità».
Per queste ragioni si assume che debbano ritenersi legittime soluzioni legislative differenziate con riferimento alla causa di non punibilità di cui all’art. 384 cit. (così, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Rv. 248903, nonché Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, cit.; in termini analoghi, Sez. 1, n. 9475, del 05/05/1989, cit.; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/ 1988, cit. e Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, cit.), non essendo consentito al giudice ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833).
Da ultimo, si è sottolineato il rilievo che deve essere attribuito al recente intervento legislativo con cui, a seguito della riforma che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e regolamentato le convivenze (legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. legge Cirinnà), è stata espressamente ampliata la cerchia dei “prossimi congiunti” di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen., ricomprendendovi i soggetti uniti civilmente, ma non anche i conviventi di fatto (d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6): secondo l’ordinanza di rimessione, si sarebbe trattato di una scelta ben precisa del legislatore, non di una semplice “svista”, dal momento che la legge delega non lasciava alcun margine per includere anche i conviventi di fatto nell’art. 307 cit.
2.2. L’orientamento favorevole all’estensione della causa di non punibilità anche al convivente more uxorio si è sviluppato più di recente ed annovera un minor numero di decisioni. La prima in ordine temporale è Sez. 6, n. 22398 del 22/01/2004, Esposito, Rv. 229676, che però afferma il principio della applicabilità dell’art. 384 cod. pen. al convivente senza un particolare approfondimento, prospettando una possibile applicazione analogica della causa di non punibilità.
Più articolato è il ragionamento condotto da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264630: in questo caso la Corte di cassazione, disattendendo la soluzione offerta dalla precedente sentenza Esposito, riconosce che l’art. 384 cod. pen., in quanto causa speciale di non punibilità, ha natura di norma eccezionale che, quindi, non può ricevere un’applicazione analogica, e si basa, invece, su una lettura aperta delle nozioni di famiglia e di coniugio, sottolineando come oggi termini come “matrimonio” e “famiglia” hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello risalente all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale, evidenziando, inoltre, come «la stabilità del rapporto, con il venire meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più una caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio».
La sentenza registra una vistosa contraddizione nella stessa giurisprudenza di legittimità, che, da un lato, nega l’equiparazione tra famiglia di fatto e famiglia legittima, dall’altro, invece, attribuisce rilievo alla convivenza: questa giurisprudenza ondivaga, anche quando è produttiva di effetti in malam partem, come è avvenuto ritenendo configurabile il reato di maltrattamenti anche nel caso in cui la condotta delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente (prima dell’ultima modifica dell’art. 572 cod. pen.), ha fornito comunque una nozione “moderna” di famiglia, intesa come un consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (tra le tante, Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, Rv. 239726); lo stesso è accaduto in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in cui la Corte di cassazione ha preso in considerazione tra i redditi dei familiari anche quello del convivente more uxorio (cfr., nell’ambito di un orientamento consolidato, Sez. 4, n. 109 del 26/10/2005, Curatolo, Rv. 232787).
Analoga tendenza a favore di una assimilazione tra le due tipologie di “famiglia” si è verificata, secondo la sentenza Agostino, nelle interpretazioni che hanno portato ad effetti in bonam partem, ad esempio in materia di riconoscimento dell’attenuante della provocazione e dell’estensione della causa di non punibilità dell’art. 649 cod. pen. al convivente: anche in questi casi la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato l’esistenza di un rapporto affettivo che può dar luogo ad una convivenza more uxorio.
Nei due esempi sopra indicati, l’attenuante della provocazione e la causa di non punibilità ex art. 649 cod. pen. hanno trovato applicazione con riguardo a soggetti legati da un vincolo non matrimoniale, ma comunque caratterizzato da una convivenza duratura, fondata sulla reciproca assistenza e su comuni ideali e stili di vita (cfr., Sez. 6, n. 12477 dl 18/10/1985, Cito, Rv. 171450 e Sez. 4, n. 32190 del 21/05/2009, Trasatti, Rv. 244692).
A sostegno di questa interpretazione estensiva la sentenza Agostino ha invocato anche la nozione di famiglia accolta dall’art. 8 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che vi fa rientrare anche i legami di fatto particolarmente stretti, fondati su una stabile convivenza (Corte EDU, 13/06/1979, Marchx c. Belgio; Corte EDU, 13/12/2007, Emonet c. Svizzera). In conclusione, la sentenza in esame, in presenza della «mutevole rilevanza penale della famiglia di fatto emergente dalle applicazioni giurisprudenziali» conclude ritenendo che solo accogliendo una nozione di famiglia e di coniugio in linea con i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi anni è possibile «ricondurre il sistema a coerenza, evitando soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune».
Alle medesime conclusioni è pervenuta, più recentemente, Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, Rv. 275206, che per la prima volta ha esaminato la questione relativa alla estensibilità della causa di non punibilità alla luce della nuova normativa introdotta dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, che, come è noto, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso e ha, inoltre, offerto una regolamentazione anche per le convivenze di fatto.
La sentenza, preso atto che a seguito della legge n. 76 del 2016 il coordinamento circa le ricadute sul piano penale della nuova disciplina ha riguardato solo le unioni civili, prevedendo, in particolare, l’inclusione, ad opera del d.lgs. n. 6 del 2017, di tale nuova formazione sociale nella nozione di “prossimi congiunti” attraverso la modifica dell’art. 307, quarto comma, cod. pen., nonché l’introduzione, per mezzo dello stesso d.lgs. cit., di una disposizione generale come il nuovo art. 574-ter cod. pen. – che riferisce, agli effetti penali, il termine matrimonio anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso -, senza operare alcun coordinamento dei profili penali con lo statuto delle convivenze more uxorio, ha comunque escluso che i “silenzi” sulle convivenze di fatto attribuibili alla legge n. 76 del 2016 e ai provvedimenti successivi possano «costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia». In sostanza, il riferimento è soprattutto al quadro e ai principi cui è pervenuta quella giurisprudenza di legittimità che, seppure in limitati settori, ha riconosciuto la parificazione giuridica delle convivenze di fatto al coniugio. Secondo la sentenza in esame «una diversa impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma, tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento (…) porta con sé il rischio di implicare – quanto meno con riguardo agli effetti in “bonam partem” – profili di incerta compatibilità costituzionale in punto di diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto». In altri termini, si assume come la ricerca di una effettiva coerenza all’interno del sistema non può che condurre ad una parità di trattamento, anche sul terreno penale, della famiglia legittima e di quella more uxorio ed è la stessa sentenza a sostenere che, attraverso quella che definisce “interpretazione valoriale”, può essere superato il contrasto con la Costituzione e riconoscere applicabile l’istituto dell’art. 384, primo comma, cod. peri. ai rapporti di convivenza, anche dopo la legge n. 76 del 2016.
Segue l’impostazione della sentenza Cavassa anche Sez. 1, n. 40122 del 16/05/2019, Balice (non mass.), che ai fini della verifica della sussistenza di un effettivo rapporto di convivenza richiama l’art. 1, comma 37, legge n. 76 del 2016, secondo cui per l’accertamento della stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b), del d.P.R. 23 maggio 1989, n. 223. Possono essere ricomprese in questo secondo orientamento anche Sez. 4, n. 23118 del 21/03/2017, De Paola (non mass.) e Sez. 3, n. 6218 del 12/01/2018, Giacono (non mass.) che si limitano a ribadire, senza ulteriori argomentazioni, le conclusioni della sentenza Agostino.
2.3. Nell’ordinanza di rimessione questo orientamento viene criticato, riportando le perplessità della dottrina secondo cui il tentativo di operare il superamento della giurisprudenza consolidata rischia di porsi in «tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare (…) un necessario interpello del Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore».
- Prima di procedere all’esame della questione rimessa, appare necessario verificare se la fattispecie concreta possa essere comunque risolta attraverso l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 cod. pen., così come ipotizzato dalla difesa nella memoria da ultimo depositata. Tale norma, che prevede una speciale causa di non punibilità in favore, tra l’altro, di soggetti che per legge avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere informazioni al pubblico ministero o dichiarazioni nel corso delle indagini difensive ovvero testimonianza al giudice, richiamando i corrispondenti reati di cui agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen. (oltre all’art. 373 cod. pen., che riguarda la falsa perizia), è stata, come noto, dichiarata costituzionalmente illegittima, perché contraria al canone di razionalità delle scelte legislative (art. 3 Cost.), nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni fornite alla polizia giudiziaria da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. (Corte cost. n. 416 del 1996).
Con l’aggiunta di questo nuovo caso di non punibilità, per effetto della sentenza costituzionale citata, sono oggi ricomprese nell’art. 384, secondo comma, cod. pen. anche le condotte di favoreggiamento poste in essere attraverso false informazioni rese alla polizia giudiziaria da parte dei soggetti indicati nell’art. 199 cod. proc. pen., tra cui è menzionato espressamente anche il convivente. E’ evidente che, se si dovesse ritenere applicabile il secondo comma del citato art. 384, sarebbe superata la questione oggetto della rimessione. Invero, un tale esito non può trovare spazio nella fattispecie concreta, in quanto deve escludersi che l’imputata dovesse essere avvertita della facoltà di astenersi. Infatti, nel corso delle indagini preliminari l’avvertimento della facoltà di astenersi di cui all’art. 199 cod. proc. pen., che si riferisce alle c.d. dichiarazioni endo-processuali, non è dovuto ai prossimi congiunti – e ai conviventi – del soggetto che non abbia ancora assunto la qualità di indagato (cfr., Sez. 1, n. 41142 del 17/07/2017, Z., Rv. 273971; Sez. 1, n. 16215 del 30/01/2008, Taddeo, Rv. 239497).
Nella specie, Fialova ha reso informazioni alla polizia giudiziaria nell’immediatezza dell’incidente stradale, in una fase di primissimo accertamento, in cui non vi era alcun elemento indiziario o di mero sospetto che potesse far ritenere sussistente un reato, tanto è vero che le sue dichiarazioni non risultano formalmente verbalizzate dalla polizia giudiziaria, bensì raccolte come “osservazioni delle parti interessate”, cioè come dichiarazioni rese ai fini della responsabilità civile da incidente stradale. Peraltro, in quella fase non era emerso alcun elemento da cui la polizia giudiziaria avrebbe potuto desumere l’esistenza di un rapporto di convivenza tra Fialova e Tatti, tale da giustificare l’avvertimento di cui all’art. 199 cod. proc. per).
- L‘esame della questione posta dall’ordinanza di rimessione, che ha il suo fulcro nell’ampiezza applicativa dell’art. 384 cod. pen., si intreccia, necessariamente, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima. li La famiglia di fatto condivide con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli. La differenza attiene alla formalizzazione del rapporto, un elemento che non assume una veste solo convenzionale, ma rappresenta l’esteriorizzazione del diverso atteggiamento che caratterizza le due convivenze, la prima, quella matrimoniale, basata su una dichiarata volontà di assumere reciproci obblighi di “fedeltà, di assistenza morale e materiale e di collaborazione”, la seconda connotata dalla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti.
E’ questa distinzione che impedisce, nelle decisioni della giurisprudenza costituzionale a cui si è già fatto cenno (Corte cost. n. 45 del 1980; n. 237 del 1986; n. 423 e n. 404 del 1988; n. 140 del 2009; n. 138 del 2010), che le due situazioni possano trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost., con la conseguenza che, pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del ‘consolidato rapporto’ di convivenza”, occorre tenerlo distinto dal rapporto coniugale, riconducendo il primo nell’ambito della protezione, offerta dall’art.2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo nello schema del citato art. 29. Le due situazioni non differiscono soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, poiché, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria.
4.1. L’indirizzo che porta a negare l’estensione della causa di non punibilità alle semplici convivenze di fatto, indirizzo a cui sembra ispirata anche l’ordinanza che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, trova forza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha sempre escluso la irragionevolezza della mancata inclusione nell’art. 384, primo comma, cod. pen. dei conviventi more uxorio, sostenendo, reiteratamente, che una tale questione fuoriuscisse dai limiti delle sue attribuzioni, spettando al legislatore la scelta di operare una simile modifica rientrante nella materia penale (Corte cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009). In sostanza, la giustificazione circa la diversa regolamentazione viene rintracciata nella maggiore “stabilità” della famiglia legittima – anche dopo che è venuta meno l’indissolubilità del vincolo coniugale -, considerando che il differente regime della famiglia more uxorio si fonda sulla volontà delle parti, che liberamente decidono di non contrarre matrimonio, optando per una tipologia di unione con minori vincoli giuridici, ma in una comunione materiale e spirituale di vita che può coincidere in ciò che caratterizza il matrimonio stesso.
Si è precisato che «quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307, quarto comma, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha ritenuto operare scelte selettive e mirate a casi determinati» (così, Corte cost. n. 140 del 2009). Peraltro, sempre secondo la Corte costituzionale «un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità», in quanto l’estensione al convivente del complesso delle norme penali che si riferiscono al rapporto di coniugio avrebbe forti ricadute sull’intero sistema – anche relativamente a disposizioni extrapenali – compresi possibili effetti in malam partem, con conseguenze che solo il legislatore potrebbe regolare attraverso una riforma organica (Corte cost., n. 352 del 2000).
4.2. Le decisioni della Corte di cassazione favorevoli ad un allargamento della portata applicativa dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto richiamano spesso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che invece dalle sentenze ascrivibili nell’orientamento contrario, tra cui la stessa ordinanza di rimessione, viene svalutata o, meglio, ritenuta scarsamente significativa. Invero, anche la Corte EDU, così come la Corte costituzionale, riconosce la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco. La Corte EDU, infatti, da un lato riconduce nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare”, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto; dall’altro lato, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale, riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 03/04/ 2012, Van der Heijdel c. Netherlands).
Risulta interessante rilevare come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU (cfr., Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, Jaremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; da ultimo, Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia). L’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza europea, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Una nozione, dunque, dalla portata applicativa assai ampia, senza dubbio più estesa rispetto a quella cui fa riferimento la diversa disposizione normativa dell’art. 12 CEDU (riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio), che permette alla Corte europea di ricomprendervi sia quest’ultima, sia quella basata sulla relazione di fatto tra conviventi (Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Ireland; Corte EDU, 18/12/1986, Johnston c. Irlanda, § 55; Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; v., inoltre, Corte EDU, 13/12/2007, Emonet ed altri c. Svizzera).
Tuttavia, la prospettiva seguita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – con le su citate disposizioni di cui agli artt. 8 e 12, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo – non presenta, in relazione alla materia qui esaminata, sostanziali punti di divergenza rispetto alle linee direttrici del modello normativo disegnato nella Costituzione italiana (ex artt. 2 e 29 Cost.), poiché sia nel sistema convenzionale che in quello interno sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all’interno di un nucleo familiare, fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari, alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di tutela di interessi generali (ad es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona (Corte EDU, 07/07/ 1989, Soering c. Regno Unito).
Non è riconoscibile, allora, alcun contrasto nel panorama delle ragioni argomentative che sorreggono i moduli interpretativi utilizzati dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU, poiché sia nel sistema interno che in quello convenzionale le diverse tipologie di unioni familiari rappresentano fenomeni distinti l’uno dall’altro, il cui pacifico riconoscimento, fondato sulla non esclusività della specifica tutela garantita alla famiglia fondata sul matrimonio e, al contempo, sulla consapevolezza della pari dignità delle scelte legate all’avvio di una convivenza senza matrimonio, non determina l’effetto di una generale equiparazione fra modelli che restano comunque diversi e, come tali, non possono essere appiattiti l’uno sull’altro, né fra loro integralmente assimilati.
- Invece, un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare si registra nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
La su citata disposizione normativa – peraltro rafforzata dall’ulteriore previsione di garanzia dettata nell’art. 33, par. 1, della Carta (secondo cui “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”) – pur ispirandosi al contenuto di altre norme internazionali (ad es., l’art. 12 CEDU, l’art. 23, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, ratificato con I. n. 881/1977, nonchè l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), che regolano la materia enunciando in forma unitaria il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, presenta una formulazione letterale più ampia, poiché, nel rinviare alle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano l’esercizio, riconosce e garantisce separatamente i due diritti, isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e in tal modo creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare.
Il “diritto di sposarsi”, infatti, viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia”, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari. Al tradizionale favor per il matrimonio, come si è osservato in dottrina, si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
- Si è visto come sia nell’ordinanza di rimessione, sia nella memoria dell’Avvocato generale, una delle critiche più “forti” alla possibile estensione dell’art. 384 cit. alle coppie di fatto riguardi la circostanza che il legislatore, con la legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), ha introdotto una disciplina per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, dettando anche una minima regolamentazione relativa alle convivenze di fatto, senza tuttavia inserire nessuna disposizione riguardante una piena equiparazione tra le due diverse situazioni, riscrivendo l’art. 307 cod. pen. con l’inserimento tra i “prossimi congiunti” anche della «parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma omettendo ogni riferimento alle coppie di fatto e senza “toccare” l’art. 384 cod. pen. In questo modo, si assume, il legislatore avrebbe manifestato la sua volontà di non operare alcuna equiparazione delle convivenze di fatto, escludendo definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di “coniuge” che ricomprenda anche il “convivente”.
Come dire che non si è in presenza di una “lacuna” dell’ordinamento, dal momento che il legislatore non vuole alcuna equiparazione, tanto meno ai fini dell’applicazione della scusante ex art. 384 cod. pen. (N, 16 Invero, deve ritenersi che con la legge c.d. Cirinnà il legislatore ha inteso offrire una tutela legale a situazioni affettive mai regolamentate prima, offrendo una disciplina, di fatto, analoga a quella prevista per le famiglie legittime, prevedendo anche le necessarie ricadute penalistiche, con il successivo d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.
Si è trattato, quindi, di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto diverse dalle convivenze di fatto, che, come si è visto, basano la loro unione sulla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti; la disciplina delle “unioni civili” si è basata, invece, proprio sulla richiesta di stabilità del rapporto, sul modello della famiglia legittima. Il fatto che con la legge del 2016 il legislatore nulla abbia previsto per le convivenze, ad eccezione di un tentativo di definizione e della equiparazione alle coppie coniugate per una serie di profili analiticamente elencati, tra cui l’unico riguardante la materia penale è quello sulla parificazione dei diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 1, comma 38, legge n. 76 del 2016), non può certo significare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio, né tanto meno alla estensibilità della scusante di cui all’art. 384 cod. pen. al convivente. Il legislatore, semplicemente, si è occupato di disciplinare le situazioni riguardanti le unioni tra persone dello stesso sesso, avendo ben presente il percorso legislativo e giurisprudenziale che ha condotto verso una tendenziale equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio, ferme restando le differenze di base delle due situazioni.
- L‘assenza di una legge che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio non significa che tale modello di relazione ed i suoi effetti giuridici siano sforniti di tutela nel diritto positivo. I numerosi interventi normativi e la stessa evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali hanno consentito, sia pure frammentariamente, di riconoscere ai componenti la famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a quelle proprie dei membri della famiglia legittima.
7.1. Si pensi, sul piano normativo, al tema della filiazione. In questo delicatissimo settore si è stabilito nell’ordinamento una completa identità tra la famiglia matrimoniale e quella non matrimoniale con riguardo al rapporto genitori-figli, che oggi risulta unitariamente disciplinato dagli artt. 315-bis ss. cod. civ., uniche essendo le regola in materia di diritti e doveri del figlio e di responsabilità genitoriale.
Fra le disposizioni normative espressamente riferite ai conviventi devono poi menzionarsi, per la loro oggettiva rilevanza, quelle che consentono: a) di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il partner (art. 417 cod. civ.); b) di ammettere la coppia non coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (art. 5 della I. 15 febbraio 2004, n. 40); c) di astenersi dal rendere dichiarazioni nel processo penale (art. 199, comma 3, cod. proc. pen., per il convivente dell’imputato); d) di presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica in favore del condannato (art. 681 cod. proc. pen.).
Nella medesima linea vanno altresì richiamate, a mero titolo esemplificativo, le disposizioni normative che riguardano la possibilità di adottare ordini di protezione contro gli abusi familiari, pur se commessi da conviventi o in danno di conviventi (legge 4 aprile 2001, n. 154); quella che prevede la rilevanza del periodo di mera convivenza ai fini della verificazione della stabilità della coppia in vista dell’adozione (art. 6, legge n. 149/2001); quelle, infine, dettate dal legislatore in tema di disciplina dei congedi parentali (legge n. 53/2000; d.lgs. n. 151/2001) e di assicurazione sulla responsabilità civile (ex art. 129, comma 2, lett. b), della legge n. 209/2005).
7.2. E’ soprattutto nella giurisprudenza, sia civile che penale, che si assiste ad una progressiva e continua tendenza a garantire analoghi diritti alle convivenze di fatto. A titolo esemplificativo, si pensi che la giurisprudenza civile riconosce al convivente separato l’assegnazione della casa familiare, analogamente a quanto si prevede per il coniuge separato o divorziato, in presenza di prole (Sez. civ. 1, n. 10102 del 26/05/2004, Rv. 573134). L’assegnazione della casa familiare in favore del convivente separato è stata poi normativamente regolata ex art. 337-sexies cod. civ.
Va evidenziato anche l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Sez. civ. 3, n. 12278 del 07/06/2011, Rv. 618134); Sez. civ. 3, n. 23725 del 16/09/2008, Rv. 604690; v., inoltre, Sez. civ. 3, n. 7128 del 21/03/2013, Rv. 625496).
Nella giurisprudenza penale, che più interessa in questa sede, si afferma un’esplicita equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio a proposito della valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio per i non abbienti. (tra le tante, Sez. 4, n. 15715 del 20/03/2015, Rv. 263153; v., inoltre, Sez. 4, n. 44121 del 20/09/2012, Rv. 253643). Analoga estensione, ancora, è avvenuta in tema di costituzione di parte civile, ove si è precisato che la lesione di qualsiasi forma di convivenza, purché dotata di un minimo di stabilità tale da fondare una ragionevole aspettativa di un futuro apporto economico, rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione (Sez. 4, n. 33305 del 08/07/2002, dep. 04/10/2002, Rv. 222366; Sez. 4, n. 19487 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 262350).
Ulteriori ampliamenti della tutela penale riconosciuta alla convivenza di fatto sono riscontrabili con riferimento al diritto all’inviolabilità del domicilio, con il riconoscimento anche al convivente dell’esercizio del diritto di esclusione (Sez. 5, n. 6419 del 05/04/1974, Rv. 128059). Particolarmente rilevante deve poi ritenersi l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità formatasi in merito ai presupposti di configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., che nel perseguire la condotta di colui che “maltratta una persona della famiglia” considera famiglia — sulla base di una pacifica linea interpretativa – non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile, fondato su legami di reciproca assistenza e protezione. Si è così affermato che sono da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune e di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 21239 del 24/01/2007, Gatto Rv. 236757; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv 239726; Sez. 5, n. <24688 del 17/03/2010, B., Rv. 248312; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472;).
Si tratta di una giurisprudenza risalente già agli anni settanta, che questa volta, nell’equiparare la convivenza al rapporto coniugale vero e proprio, di fatto ha operato una estensione in malam partem, seppur finalizzata alla tutela della vittima del reato, fino a quando il legislatore con la novella del 1 ottobre 2012, n. 172, ha parzialmente riformato la previsione della norma incriminatrice in esame, cambiando la rubrica da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, così precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia”, ma “una persona della famiglia o comunque convivente”.
- Il legislatore del 2016, con la legge c.d. Cirinnà è, quindi, intervenuto in presenza di un quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, in cui risulta evidente l’interesse di salvaguardare la famiglia, sia legittima che di fatto, come pure, sotto altro e più specifico versante, tutelare l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento dei rapporti che lo legano, affettivamente, ma non solo, con altra persona con la quale ha istaurato uno stabile rapporto di convivenza e dalla quale può e deve pretendere assoluto rispetto verso condotte che risultino abitualmente lesive della propria integrità fisica o morale.
Un quadro complesso, sicuramente disorganico, che non poteva essere ignorato, sicché il relativo “silenzio” sulle coppie di fatto acquista un significato neutro, spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili e con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo, agli interventi della giurisprudenza.
L’ordinamento, dunque, sia pure all’infuori di una visione organica del fenomeno, e procedendo sempre attraverso interventi eterogenei e settoriali posti in essere nelle più varie direzioni, avverte il rilievo delle implicazioni legate alla esigenza di preservare la sostanza delle strutture fondamentali della società, non mancando di valorizzare, entro tale prospettiva, anche le numerose potenzialità applicative sottese alla progressiva introduzione di specifiche forme di garanzia della tendenziale continuità dei rapporti a vario titolo riconducibili al diverso modello della relazione familiare de facto.Le forme di tutela sinora illustrate, assai spesso ricorrenti nella prassi, confermano la rilevanza assunta dal riconoscimento del carattere “familiare” delle relazioni che si sviluppano all’interno della convivenza di fatto e delle connesse esigenze di protezione che, in quanto “relazioni di famiglia”, ad essa competono.
Tuttavia, l’assenza di una disciplina organica della materia lascia trasparire evidenti incoerenze del sistema, se non veri e propri “effetti paradossali”, alcuni dei quali, nei limiti dell’attività interpretativa, possono essere quantomeno ridotti.
- Escluso che la disciplina introdotta dalla legge c.d. Cirinnà sulle unioni civili, con le successive, conseguenti integrazioni inserite nel codice penale, possano avere l’effetto di “impedire” un’interpretazione estensiva dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto e ricostruito il quadro normativo complessivo, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e anche da quella europea, nonché dalla giurisprudenza di legittimità, questo Collegio rileva come entrambi gli orientamenti contrapposti, cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti, sebbene con approcci diversi, diano per scontato il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 384, primo comma, cod. pen.
Così, la stessa ordinanza che ha rimesso la questione, coerentemente, indica come uno dei principali ostacoli all’estensione applicativa del primo comma dell’art. 384 la natura eccezionale della disposizione, che ne preclude l’applicazione analogica in favore delle coppie di fatto, rifacendosi peraltro alla stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore» (Corte cost., n. 140 del 2009).
Peraltro, anche le sentenze che propongono di estendere l’ambito applicativo dell’art. 384 facendo leva sull’evoluzione normativa, attraverso una lettura aperta dell’istituto della “famiglia” nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, finiscono per riconoscere il carattere eccezionale della norma in questione (così, Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, cit.). Ebbene, se si dovesse convenire che siamo in presenza di una disposizione avente natura di norma eccezionale occorrerebbe riconoscere l’estrema difficoltà di operare un’estensione dell’«esimente» al di là del suo tenore letterale, perché si violerebbe il disposto dell’art. 14 delle preleggi. La questione, invece, deve essere affrontata verificando la natura dell’art. 384, primo comma, cod. pen., attraverso una lettura costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza e, soprattutto, inserita nell’ambito delle disposizioni penali che regolamentano istituti analoghi.
- Sembra definitivamente superato l’orientamento secondo cui l’art. 384, primo comma, cod. pen. contiene una causa di non punibilità in senso stretto, in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni di opportunità politica, che sono del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente”, come pure l’altro, meno recente, che qualifica la disposizione come una causa di giustificazione, in cui vengono bilanciati contrapposti interessi, istituto somigliante allo stato di necessità, in cui pure viene esclusa la responsabilità di colui che pone in essere una condotta costretto dalla necessità di evitare un grave nocumento. Vanno, invece, condivise le riflessioni della dottrina più avvertita che ravvisa nella previsione in esame una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva, che investe la colpevolezza.
Come è noto, vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo. Con riferimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., i legami di natura affettiva che legano l’agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o il fratelli o il coniuge o lo zio o il nipote…) fanno sì che l’ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto.
A queste conclusioni è pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità più recente, che in alcune decisioni ha stabilito che l’art. 384, primo comma, cod. pen., esclude la colpevolezza, non l’antigiuridicità della condotta, trattandosi di una esimente «connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dal comma 1 dello stesso art. 384» (Sez. 5, n. 18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv.273181, in un caso in cui si è negato che l’esimente in questione potesse essere applicata anche al concorrente nel reato commesso dal soggetto non punibile; nello stesso senso, Sez. 6, n. 34543 del 23/05/2019, Germino, non mass.; Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062; Sez. 6, n. 34777 del 23/09/2020, Nitti, Rv. 280148 che, proprio in tema di favoreggiamento personale, ha precisato che l’art. 384 cod. pen., quale causa di esclusione della colpevolezza e non di esclusione della antigiuridicità della condotta, opera solo nel caso in cui, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, valutate secondo il parametro della massima diligenza esigibile, si presenti all’agente come l’unica in grado di evitare un grave pregiudizio per la libertà o per l’onore proprio o altrui; inoltre, v., Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, cit., in motivazione).
Si tratta di sentenze che, seppure con motivazioni non sempre dedicate specificamente alla questione, prendono una posizione decisa sulla natura dell’esimente, dando luogo ad un vero indirizzo giurisprudenziale. Peraltro, analogo orientamento lo si rintraccia anche in decisioni meno recenti che, nel considerare l’art. 384, primo comma, oltre a negarne la natura di causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità, lo qualificano come un’esimente «basata sul principio dell’inesigibilità di un comportamento diverso, come tale da escludere la colpevolezza» (così, Sez. 1, n. 11855 del 03/07/1980, Mastini, Rv. 146627; nonché Sez. 6, 25/10/1989, Milioto; Sez. 6, 10/02/1997, Puzone).
Infine, su questa stessa linea interpretativa si sono poste le Sezioni Unite (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, Genovese, non massimata sul punto), le quali hanno asserito che «coglie certamente nel segno» quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ad es., Sez. 6, n. 44761 del 04/10/2001, Mariotti, Rv. 220326) che afferma, concordemente con la dottrina, che l’art. 384 cod. pen. trova la sua giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà “familiare” in senso lato, essendo l’intenzione del legislatore quella di riconoscere prevalenti e quindi tutelare i motivi di ordine affettivo.
In questa decisione, le Sezioni Unite hanno affermato che «deve darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 c.p. e la prescrizione processuale contenuta nell’art.199 c.p.p.», dal momento che a fondamento di tali disposizioni vi è la medesima giustificazione e perché la ratio dell’astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell’imputato, riconosciuta dalla citata norma del codice di rito, va «unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto».
Il riconoscimento alla disposizione di cui al primo comma dell’art. 384 della valenza di causa di esclusione della colpevolezza, comporta che la ragione della non punibilità va ricercata nella «particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto», tale da rendere “inesigibile” l’osservanza del comando penale. A differenza delle cause di giustificazione, in cui la rinuncia alla pena avviene perché, in presenza di quelle situazioni considerate dal legislatore, l’ordinamento non riconosce più l’antigiuridicità della condotta, invece nelle cause di esclusione della colpevolezza (c.d. scusanti soggettive) il disvalore oggettivo della condotta non viene meno, ma l’ordinamento prende in considerazione «i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere» ed è proprio in considerazione di questa particolare situazione che, come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, «l’ordinamento penale non se la sente di incrudelire con la sua sanzione».
L’art. 384 cod. pen. non si basa su considerazioni di mera opportunità che giustificano la non punibilità, né appare fondato su un bilanciamento di interessi contrapposti, che lo farebbero qualificare come una causa di giustificazione, ma tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato”, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico: infatti, l’esimente prevede che il soggetto deve aver commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento grave che attenti alla libertà o all’onore, presupposti e condizioni che danno rilievo a situazioni che, come già si è detto, determinano una alterazione della “motivabilità” della condotta realizzata dall’agente. Alla condotta dell’agente, che risulti “motivata” secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità.
- Il superamento di quelle posizioni che attribuiscono alla disposizione in questione natura di causa di non punibilità in senso stretto e il riconoscimento all’esimente in parola della natura di scusante a struttura soggettiva, quindi che investe direttamente la colpevolezza, ha delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati Il tema è quello della possibilità di applicazione analogica in bonam partem dell’art. 384, primo comma, cod. pen., una volta che sia stata esclusa la sua natura di causa di non punibilità in senso stretto.
A seguito di un lungo dibattito oggi può dirsi superata l’opinione che attribuisce al divieto di analogia un carattere assoluto, nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di “favore”, funzionale ad assicurare la certezza del comando penale; infatti, il divieto di analogia è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l’esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente – in senso sfavorevole – norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore. Il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all’art. 25 Cost., del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce all’intera materia penale, ma si rivolge alle sole disposizioni punitive: in sostanza, si esclude che vi siano impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendo l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem. In sostanza, l’art. 25, comma 2, Cost. proibisce solo l’analogia in malam partem.Si tratta di posizioni condivise dalla giurisprudenza di legittimità che considera l’interpretazione analogica in bonam partem pacificamente ammessa nel campo penale (tra le tante, Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina, Rv. 146121).
11.1. Riconosciuto il carattere “relativo” del divieto di analogia, riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, occorre verificare i limiti di un’interpretazione analogica in bonam partem, in presenza di una disposizione generale, come l’art. 14 preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica delle leggi eccezionali. In altri termini, si tratta di vedere se anche l’interpretazione analogica in bonam partem sia ostacolata in presenza di leggi eccezionali. Si è visto che proprio il riconoscimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., della natura di norma di carattere eccezionale ha costituito una delle ragioni prevalenti per far negare alla Corte costituzionale (sent. n. 140 del 2009) la possibilità di applicazione dell’esimente alle coppie di fatto, impostazione seguita, in parte, dalla giurisprudenza di legittimità e ripresa in questo processo anche nell’ordinanza di rimessione nonché nella memoria dell’Avvocato generale.
Tradizionalmente sono ritenute eccezionali quelle norme che introducono discipline derogatorie rispetto alla portata di leggi generali, sebbene in questo caso il rapporto che viene a stabilirsi è tra legge speciale e legge generale; più corretta appare l’impostazione, suggerita da un’attenta e autorevole dottrina, che individua la disposizione eccezionale là dove deroga ad un principio generale dell’ordinamento. Dall’eccezionalità della norma deriva l’impossibilità di attivare il procedimento di interpretazione analogica. Le cause di non punibilità in senso stretto, in quanto norme eccezionali, sono considerate escluse dall’applicazione analogica. In questo caso, l’esclusione del ricorso all’analogia è affermato in quanto esse derivano il carattere eccezionale dal fatto che sono «riconducibili a valutazioni di opportunità estrinseche rispetto al fatto di reato».
Al contrario, si ritiene che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza, per le quali può riconoscersi uno spazio per l’applicazione analogica.In particolare, per le scusanti si ritiene che possa negarsi la natura di norme eccezionali ogni qualvolta siano espressione di un principio generale dell’ordinamento, sebbene non manchino opinioni contrarie, secondo cui le «eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore e non dal giudice in via analogica», opinioni che, d’altra parte, non sono condivise da chi sottolinea come la stessa “inesigibilità” sia una causa generale di esclusione della colpevolezza.
Si è visto che la disposizione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., non può essere considerata come una causa di non punibilità in senso stretto, ma piuttosto una scusante soggettiva, che investe la colpevolezza, impedendo la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile. Queste caratteristiche portano ad escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall’art. 14 preleggi — che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost., sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.
L’esimente in questione costituisce manifestazione di un principio immanente al sistema penale, quello cioè della “inesigibilità” di una condotta conforme a diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente, condizionando la sua libertà di autodeterminazione. Nel nostro ordinamento è ben presente il principio generale volto ad escludere che possa esservi una condotta colpevole in presenza di un precetto penale che non risulti esigibile. La causa di esclusione della colpevolezza di cui al citato art. 384 è espressione del principio generale contenuto nell’art. 27 Cost. (Corte cost. n. 364 del 1988), tale da giustificare un’applicazione analogica nei “casi simili”.
- Una volta riconosciuta all’art. 384, primo comma, cod. pen. la natura di scusante soggettiva ed esclusa di conseguenza ogni valenza eccezionale della disposizione stessa, la sua applicazione anche alle coppie di fatto trova piena giustificazione.Una giustificazione la cui legittimazione trova forza non solo nel complessivo quadro normativo e giurisprudenziale cui si è fatto riferimento – univocamente diretto a offrire una piena tutela alle situazioni di convivenza di fatto -, quanto piuttosto nella stessa struttura, funzione e natura della disposizione in esame.
Va riconosciuto che nella specie l’applicazione della scusante al “convivente” si pone in linea proprio con la ratio della causa di esclusione della colpevolezza. Insomma, si tratta di operare una interpretazione di una norma di favore concernente la colpevolezza in piena conformità alla ratio della scusante stessa, che determina una lettura “analogica” della norma che le consente di esplicare tutta la sua portata con coerenza e razionalità. Infatti, in presenza di una scusante basata su una situazione soggettiva della persona chiamata a rendere una dichiarazione all’autorità giudiziaria ovvero a fornire indicazioni alla polizia giudiziaria contro un proprio parente, che si trovi dinanzi alla alternativa – che può risultare drammatica – tra l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente e la protezione dei propri affetti, risulta del tutto “incoerente” negare che non ricorra la medesima condizione soggettiva, sia che si tratti di persone coniugate, sia che si tratti di persone conviventi. In entrambi i casi il conflitto interiore è identico.
In entrambi i casi l’art. 384 cit. considera inesigibile la condotta oggetto della norma penale violata, per mancanza della “colpevolezza” dell’agente. D’altra parte, l’art. 384, primo comma, cod. pen. più che funzionale alla tutela dell’«unità familiare», appare volto a garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto. In questo senso, si è evidenziato come la disposizione sia posta a «tutela del singolo familiare sull’interesse della collettività e dello Stato alla punizione». La ratio corrisponde perfettamente a quella dell’art. 199 cod. proc. pen., come hanno evidenziato le Sezioni Unite (sent. n. 7208 del 29/08/2007, Genovese, cit.), riconoscendo che l’art. 384 cod. pen. si ricollega al principio generale dell’ordinamento nemo tenetur se detegere, allo scopo di salvaguardare i vincoli di solidarietà “familiare”, scopo che ha di mira anche l’art. 199 cit., relativo alla facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato dal rendere testimonianza.
Anche nella disposizione processuale l’oggetto della tutela è il “sentimento affettivo”, la motivabilità dell’agente, in presenza di un conflitto interiore tra rendere una dichiarazione pregiudizievole per il “parente” e non danneggiarlo. Una simile lettura del rapporto tra le due norme citate e dell’inserimento di esse nella tematica della “famiglia”, trova conferma anche nella sentenza n. 352 del 2000 della Corte costituzionale, secondo cui «la disposizione del codice di rito sancisce la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia, chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (…) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto».
Può dirsi che l’art. 199 cod. proc. pen. acquista una funzione di indirizzo interpretativo in ordine alla estensione della scusante prevista dall’art. 384 alle coppie di fatto, considerato che la facoltà di astensione è riferita anche a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con lui. Il mancato riconoscimento dell’estensione della scusante di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., anche al convivente determinerebbe un problematico rapporto con il secondo comma dello stesso articolo, dal momento che il convivente more uxorio, sebbene gli sia riconosciuto, come per il coniuge, il diritto all’avvertimento in funzione dell’astensione di cui all’art. 199 cod. proc. pen., con conseguente non punibilità in caso di omissione, non sarebbe invece tutelato nell’ipotesi prevista dal primo comma in cui abbia posto in essere un comportamento che sia ritenuto inesigibile. Insomma, l’art. 384, primo comma, così come l’art. 199 cod. proc. pen., è volto a tutelare la libertà del singolo componente della “famiglia”.
Ciò avviene valorizzando il coinvolgimento psicologico dell’agente, dando rilievo alla situazione di conflitto che altera “il procedimento di motivabilità”, che coinvolge la sfera della “colpevolezza”. La struttura, la funzione e la natura della scusante dell’art. 384, primo comma, così come ricostruita, consente di concludere riconoscendo una assoluta parità delle situazioni in cui possono venirsi a trovare il coniuge e il convivente, nel senso che l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi, non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale.
- Affermata la possibilità di applicare “analogicamente” la causa di esclusione della colpevolezza anche nei confronti di chi abbia commesso uno dei reati indicati nell’art. 384, primo comma, cod. pen. per “salvare” il convivente di fatto, ne deriva la necessità che la situazione di “convivenza” risulti in base ad elementi di prova rigorosi.
La dimostrazione della ricorrenza della situazione della convivenza potrà essere dimostrata anche dall’imputato, attraverso allegazioni da cui risultino elementi specifici che pongano il giudice in condizione di accertarne l’esistenza. Riguardo ai caratteri della “convivenza”, la legge n. 76 del 2016 definisce conviventi due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, di fatto utilizzando i risultati di una consolidata giurisprudenza civile e anche penale, che richiede la sussistenza di un grado di stabilità e di continuatività del legame affettivo, in qualche modo assimilabile al rapporto coniugale.
A seguito della citata legge del 2016 la stabilità della convivenza può oggi essere accertata anche attraverso la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, dichiarazione che, secondo alcuni, avrebbe istituito il nuovo genere di coppie di fatto “registrate”, sebbene sia discussa la valenza costitutiva di tale dichiarazione, tuttavia ai fini penali potrà costituire un forte elemento di prova, ferma restando che la convivenza potrà comunque essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova.
- Può, quindi, formularsi il seguente principio di diritto: “l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.
- Passando all’esame del ricorso, preliminarmente deve escludersi che il reato, commesso il 31 luglio 2012, sia estinto per prescrizione: infatti, al termine massimo di sette anni e sei mesi previsto per la prescrizione del reato di favoreggiamento personale, vanno aggiunti i periodi di sospensione verificatisi nel corso del primo grado di giudizio, come già indicati dalla Corte di appello (per complessivi 343 giorni), nonché le sospensioni di ufficio dal 9 marzo all’il maggio 2020 (pari a 64 giorni), per effetto dei “rinvii di ufficio” disposti con i decreti legge n. 11 dell’8 marzo 2020, n. 18 del 17 marzo 2020 e n. 23 dell’8 aprile 2020, e quella dal 12 maggio al 30 giugno (pari a 50 giorni), in base alla previsione contenuta nell’art. 83, comma 9, del decreto legge n. 18 cit., in considerazione del rinvio dell’udienza al 26 giugno 2020 (v., Sez. U, n. 5292, del 27/11/2020, Sanna); infine, va calcolata la sospensione dal 24 settembre 2020 al 26 novembre 2020 (pari a 62 giorni) per il rinvio di cortesia dell’udienza richiesto dalla difesa.
15.1. Ciò premesso, il ricorso è fondato. La Corte di appello di Cagliari ha ritenuto inapplicabile l’estensione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., al convivente more uxorio, assumendo trattarsi di una norma eccezionale, che prevede la non punibilità in casi ben individuati e caratterizzati da presupposti formali indiscutibili, riferendosi, a titolo esemplificativo, al matrimonio, all’unione civile, al rapporto di filiazione, sottolineando, al contrario, la «fluidità e fragilità del rapporto di mera convivenza». Ha, inoltre, rilevato che all’imputata incombeva l’onere di dare una dimostrazione dell’esistenza della convivenza, dimostrazione che non vi è stata, non avendo chiesto neppure la rinnovazione dell’istruttoria in appello. Infine, ha ritenuto non decisivo il fatto che Fialova avesse la residenza anagrafica presso Tatti.
L’interpretazione che la Corte di appello ha dato dell’art. 384 cit. si rivela erronea alla luce del principio di diritto che si è affermato. Inoltre, va evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, la difesa della ricorrente nell’atto di appello, dopo aver sostenuto che la esistenza della convivenza more uxorio tra Tatti e Fialova avrebbe potuto essere desunta dal certificato anagrafico e dalla carta di identità di quest’ultima, depositati in atti, ha espressamente richiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire la testimonianza di Luigi Tatti, padre di Nicola Tatti, sul rapporto di convivenza tra i due. Ne deriva che l’erronea applicazione dell’art. 384, primo comma, cit., unitamente all’omessa considerazione del motivo di appello sulla rinnovazione, oggetto di una specifica deduzione con il ricorso per cassazione, determina l’annullamento della sentenza impugnata, con il rinvio degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Cagliari che, nel caso in cui risulterà accertata la convivenza della ricorrente con Nicola Tatti, al momento della dichiarazione resa alla polizia giudiziaria, applicherà il principio di diritto affermato con la presente sentenza.