Corte Costituzionale, sentenza 16 aprile 2021 n. 68
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– I quesiti sottoposti a questa Corte evocano la tematica dei limiti alla cosiddetta retroattività delle sentenze di accoglimento di questioni di legittimità costituzionale. Nella loro analisi, è indispensabile muovere da una preliminare ricognizione del panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento.
2.1.– L’art. 30 della legge n. 87 del 1953 enuncia, come è noto, due regole in tema di effetti nel tempo delle pronunce di accoglimento. La prima, di ordine generale, è quella posta dal terzo comma, per cui, dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, «[l]e norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione».
Come questa Corte ha da tempo posto in luce, tale disposizione costituisce fedele traduzione del principio ricavabile dall’art. 136, primo comma, Cost., letto in combinazione con l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale): principio in base al quale le sentenze di accoglimento producono i loro effetti anche sui rapporti sorti precedentemente, purché, però, non definitivamente “chiusi” sul piano giuridico; dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti» (sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del 1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235 del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966).
Soluzione, questa, coerente con l’esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).
Il quarto comma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, oggi censurato, pone, tuttavia, una regola specifica e distinta con riguardo alla materia penale, stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».
Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari, si tratta di regola suggerita dalle peculiarità della materia considerata e dalla gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà personale o su altri interessi fondamentali dell’individuo. In omaggio al favor libertatis e al favor rei, il legislatore ha inteso conferire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice effetti analoghi a quelli derivanti dal fenomeno dell’abolitio criminis, di cui all’art. 2, secondo comma, del codice penale, ossia la retroattività favorevole illimitata, che implica il travolgimento del giudicato.
La disposizione ha trovato eco e ulteriore sviluppo, sul versante processuale, nell’art. 673 del codice di procedura penale del 1988, ove si prevede che, nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice – così come in quello della sua abrogazione –, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto della legge come reato, e adotta i provvedimenti conseguenti.
2.2.– Per effetto di una terna di pronunce delle sezioni unite penali della Corte di cassazione (sentenze 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821; 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858; 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107), è venuta, peraltro, a consolidarsi, nella giurisprudenza di legittimità, una interpretazione ampia (in precedenza controversa) dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, quanto al tipo di declaratoria di illegittimità costituzionale che infrange il giudicato.
Tale attitudine viene, cioè, riconosciuta non solo alla pronuncia che rimuova, in tutto o in parte, la norma incriminatrice, producendo un’abolitio criminis, ma anche a quella che si limiti ad incidere (in senso mitigativo) sul trattamento sanzionatorio (ad esempio, eliminando una circostanza aggravante o rimodulando la cornice edittale): ipotesi nella quale il condannato in via definitiva può ottenere la sostituzione della pena inflittagli con quella conforme a Costituzione tramite lo strumento dell’incidente di esecuzione, sempre che la pena stessa non sia già stata interamente eseguita.
Tale soluzione ermeneutica poggia sull’affermazione di principio per cui l’istanza di legalità della pena «è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice […] non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla […] Carta fondamentale».
Nel bilanciamento, tale esigenza prevale sul valore, pure di rilievo costituzionale, espresso dal giudicato a presidio di esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 18821 del 2014).
Nell’ipotesi considerata non può quindi invocarsi l’avvenuto esaurimento del rapporto: il limite di impermeabilità del giudicato alla sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata è qui costituito piuttosto dalla irreversibilità degli effetti del giudicato stesso, in quanto ormai “consumati”, come nel caso di condannato che abbia già scontato integralmente la pena.
Per contro, fin quando l’esecuzione della pena è in atto, «gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 42858 del 2014). Garante della legalità della pena in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se richiesto ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., di ricondurre la pena inflitta nei binari della legittimità costituzionale.
La base normativa di tale intervento è offerta appunto – secondo le sezioni unite – dall’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953: disposizione alla quale deve riconoscersi un perimetro operativo più esteso rispetto a quello dell’art. 673 cod. proc. pen. (che, nel prevedere la revoca della sentenza di condanna, evoca la sola declaratoria di illegittimità costituzionale che rimuova il reato).
Il riferimento generico alla «norma dichiarata incostituzionale», contenuto nella disposizione del 1953, si presterebbe, infatti, a richiamare qualsiasi tipologia di norma penale, comprese, quindi, quelle che incidono sull’entità del trattamento sanzionatorio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze n. 37107 del 2015, n. 42858 del 2014 e n. 18821 del 2014).
Si tratta di interpretazione che questa Corte ha avuto modo di qualificare, in più occasioni, come «non implausibile» (sentenze n. 43 del 2017, n. 57 del 2016 e n. 210 del 2013) e che appare, in ogni caso, senz’altro configurabile, allo stato attuale, in termini di diritto vivente.
2.3.– Viene però oggi in rilievo un ulteriore e distinto problema: l’estensione, cioè, del campo applicativo della norma censurata – in nome dello stesso principio – con riguardo al tipo di sanzione attinta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale (non solo la sanzione penale, ma anche la sanzione amministrativa qualificabile come penale ai sensi della CEDU).
Sul presupposto che tale ulteriore risultato non fosse viceversa conseguibile in via di interpretazione, questa Corte è già stata chiamata in precedenza a verificare se la connessa limitazione della sfera di operatività dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 rechi un vulnus agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU).
Ciò, a seguito di un incidente di costituzionalità sollevato nell’ambito di un giudizio di opposizione all’esecuzione di cartelle esattoriali per il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, applicata con sentenza irrevocabile sulla base di una norma dichiarata poi costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (con conseguente reviviscenza delle più miti sanzioni amministrative previste dalla normativa anteriore).
Con la sentenza n. 43 del 2017 le questioni sono state dichiarate, peraltro, non fondate. Questa Corte ha osservato che l’attrazione di una sanzione amministrativa nella materia penale in virtù dei “criteri Engel” trascina con sé tutte e soltanto le garanzie previste dalla CEDU, come elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: giurisprudenza nella quale non si rinviene l’affermazione di un principio analogo a quello affermato dalla norma censurata (che impedisca, cioè, l’esecuzione di una sanzione sostanzialmente penale inflitta con sentenza irrevocabile sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale).
Il legislatore nazionale, dal canto suo, può bene apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle previste dalla Convenzione, riservandole alle sole sanzioni qualificate come penali dall’ordinamento interno. È vero – si osserva nella citata sentenza – che questa Corte ha «occasionalmente» riferito l’art. 25, secondo comma, Cost. anche a misure diverse dalle pene in senso stretto: ma lo ha fatto limitatamente al «contenuto essenziale» del precetto costituzionale (il principio di irretroattività della norma sfavorevole) e «in riferimento a misure amministrative incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino».
Si è rilevato, infine, che per le sanzioni penali è prevista una fase esecutiva, che – nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimità – vede attribuito al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della pena: il che non accadeva, invece, per le sanzioni amministrative di cui allora si discuteva, la cui esecuzione obbediva a principi affatto differenti, essendo il relativo giudice investito della sola cognizione del titolo esecutivo.
2.4.– Il problema della sorte delle sanzioni amministrative applicate con sentenza irrevocabile sulla base di disposizioni dichiarate successivamente incostituzionali è stato riportato, tuttavia, all’attenzione degli interpreti dalla vicenda che è alla radice dell’odierno incidente di legittimità costituzionale: vale a dire dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale del meccanismo di applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, nei casi di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime, previsto dall’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dall’art. 1, comma 6, lettera b), numero 1), della legge 23 marzo 2016, n. 41 (Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274).
Con la sentenza n. 88 del 2019, questa Corte ha ritenuto che tale automatismo sanzionatorio – esteso in modo indiscriminato a tutte le fattispecie di omicidio e lesioni personali stradali (gravi o gravissime), ricorressero o meno le circostanze aggravanti previste dagli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., che qualificano negativamente i fatti sul piano della colpevolezza e in rapporto alle quali sono previste pene distinte e graduate – vulnerasse i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
L’automatica applicazione della revoca della patente poteva giustificarsi, in effetti, solo per le ipotesi più gravi e più severamente punite di cui al secondo e al terzo comma, sia dell’art. 589-bis, sia dell’art. 590-bis cod. pen. (essersi posti alla guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di stupefacenti): sotto tale livello, doveva essere lasciata invece al giudice la possibilità di effettuare una «valutazione individualizzante», sulla base delle circostanze del caso concreto; in particolare, nel senso di consentirgli, «secondo la gravità della condotta del condannato», sia di disporre la sanzione amministrativa della revoca, sia di applicare quella, «meno afflittiva», della sospensione della patente per la durata massima prevista dal secondo e dal terzo periodo del medesimo comma 2 dell’art. 222 cod. strada.
Il citato art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada è stato dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna o patteggiamento della pena per i reati dianzi indicati, «il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’art. 222 cod. strada allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.».
2.5.– Di seguito a ciò, numerose persone, la cui patente di guida era stata revocata con sentenza passata in giudicato sulla base della norma dichiarata incostituzionale – e, tra esse, anche il ricorrente nel giudizio a quo – si sono rivolte al giudice dell’esecuzione, chiedendogli di “rimodulare” tale sanzione alla luce della pronuncia di questa Corte: ossia, in pratica, di sostituire la revoca della patente con la semplice sospensione.
Ad avviso dell’odierno rimettente, ove si facesse applicazione della sentenza n. 88 del 2019, il ricorrente sarebbe effettivamente meritevole della sostituzione, essendo stato giudicato per un fatto di omicidio stradale semplice, con addebiti di colpa di lieve entità. Tuttavia, l’istanza non potrebbe essere accolta, stante la riferibilità dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 alle sole sanzioni penali, in ragione del suo tenore letterale.
Il giudice a quo torna, di conseguenza, ad interrogare questa Corte sulla legittimità costituzionale, in parte qua, di tale disposizione con riguardo ad una più ampia platea di parametri, invitandola a rivedere le conclusioni cui era pervenuta nella sentenza n. 43 del 2017, alla luce, sia della particolare natura della sanzione di cui si discute nella specie, sia dei mutamenti della giurisprudenza costituzionale intervenuti dopo la precedente pronuncia.
3.– Ciò posto, e salvo quanto si osserverà più avanti in ordine alla esatta delimitazione del thema decidendum, le questioni sollevate appaiono in grado di superare il vaglio preliminare di ammissibilità.
3.1.– Risultano superabili, in particolare, i dubbi legati ad un eventuale difetto di competenza del giudice a quo a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, anche sulla richiesta di sostituzione della sanzione amministrativa accessoria. Per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – costituisce causa di inammissibilità della questione solo se manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenza n. 136 del 2008; ordinanze n. 144 del 2011 e n. 134 del 2000).
Nella specie, il rimettente motiva in ordine alla propria competenza, rilevando che, se pure la revoca della patente disposta dal giudice penale necessita, per la sua esecuzione, di un provvedimento del prefetto (art. 224, comma 2, cod. strada), tale provvedimento rappresenta – come rilevato anche da questa Corte nella sentenza n. 88 del 2019 – mero recepimento della statuizione giudiziale. Di conseguenza, il compito di vigilare sulla perdurante rispondenza della sanzione amministrativa al principio di legalità, per tutto il corso della sua esecuzione, non potrebbe spettare se non allo stesso giudice penale: lo stretto nesso di dipendenza del provvedimento amministrativo dal giudicato penale non consentirebbe la revoca del primo senza la parziale caducazione del secondo.
Si tratta di tesi che, di là dai possibili margini di valutazione degli argomenti che la sostengono, appare, comunque sia, non manifestamente implausibile. Essa risulta, peraltro, implicitamente avvalorata dalle sentenze, di cui presto si darà conto, con le quali la Corte di cassazione – pronunciando su ricorsi proposti avverso provvedimenti di giudici dell’esecuzione – ha escluso la possibilità di modificare il giudicato in applicazione della sentenza n. 88 del 2019, ma solo in ragione della ritenuta estraneità della sanzione della revoca della patente al cono applicativo dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, senza porre affatto in discussione la competenza del giudice dell’esecuzione a pronunciare sulla relativa istanza.
3.2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto un distinto profilo, connesso al fatto che la sanzione, su cui si controverte nella specie, non potrebbe essere ritenuta – contrariamente a quanto assume il rimettente – ancora in corso di esecuzione: condizione, questa, indispensabile – come si è visto – affinché l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 possa trovare applicazione, nella lettura più lata patrocinata dalla giurisprudenza di legittimità.
Secondo la difesa dell’interveniente, l’esecuzione della sanzione della revoca della patente si risolverebbe e si esaurirebbe nel provvedimento prefettizio di rimozione del titolo abilitativo alla guida: provvedimento che, nella specie, è già stato adottato. Sarebbe, dunque, impensabile che il giudice dell’esecuzione possa sostituire la revoca della patente con la misura della sospensione – la quale presuppone che l’interessato sia munito di valido titolo di abilitazione alla guida – facendo “rivivere” un titolo che è già stato ormai definitivamente rimosso.
L’eccezione non è fondata. Come correttamente osserva il giudice a quo, al provvedimento di revoca della patente, adottato a seguito della condanna penale, si accompagna un ulteriore effetto: quello, cioè, di precludere il conseguimento di una nuova patente di guida prima del decorso di un determinato periodo di tempo, pari, nei casi ordinari, a cinque anni dalla revoca (art. 222, comma 3-ter, primo periodo, cod. strada); termine che, nella specie, non è ancora spirato.
Sul punto, non coglie nel segno l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale le disposizioni, contenute nei commi 3-bis e 3-ter del citato art. 222 cod. strada, che stabiliscono i termini per il conseguimento di una nuova patente dopo la revoca, riguardano la disciplina amministrativa di settore e restano estranee alla sfera della giurisdizione penale. La revoca della patente è, infatti, nella sostanza, una sanzione interdittiva della circolazione alla guida dei veicoli a motore. Essa è la risultante di due componenti: la perdita del titolo abilitativo già posseduto (con conseguente necessità di ripetere l’esame di abilitazione alla guida, diversamente che nel caso della sospensione) e l’inibizione al conseguimento di un nuovo titolo prima di un certo tempo.
Tanto è vero che l’art. 222, comma 2, ultimo periodo, cod. strada stabilisce espressamente che – di seguito alla comunicazione della sentenza di condanna o di patteggiamento – il prefetto deve emettere, nei confronti dell’interessato, «provvedimento [non soltanto] di revoca della patente [ma anche] di inibizione alla guida sul territorio nazionale, per un periodo corrispondente a quello per il quale si applica la revoca della patente».
Questa componente inibitoria fa pienamente parte del contenuto della sanzione, rappresentandone un aspetto qualificante. Avrebbe poco senso, infatti, revocare la patente al condannato, se questi potesse conseguirne una nuova subito dopo: col risultato che la revoca diverrebbe, di fatto, una sanzione più lieve della sospensione (la quale inibisce la guida per tutta la sua durata, pur lasciando il condannato nella titolarità della patente). Al contrario, la sospensione è la sanzione più mite, anche (e soprattutto) perché la sua durata è inferiore a quella dell’inibizione al conseguimento di una nuova patente dopo la revoca.
L’art. 222, comma 2, secondo e terzo periodo, cod. strada prevede, infatti, solo limiti temporali massimi (quattro anni nel caso di omicidio stradale, due anni nel caso di lesioni personali stradali gravi o gravissime), sotto i quali il giudice può discrezionalmente sospendere la patente anche per periodi di tempo nettamente più contenuti.
È giocoforza, di conseguenza, concludere che, fin quando è pendente il termine per il conseguimento di un nuovo titolo abilitativo, l’esecuzione della sanzione perdura.
4.– Occorre, però, a questo punto, portare l’attenzione sulle premesse ermeneutiche che fondano i quesiti.
4.1.– Come già accennato, il rimettente esclude in modo motivato che la norma censurata si presti a una interpretazione adeguatrice, la quale attragga nel suo ambito applicativo sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”, quale, in assunto, la revoca della patente. Il tenore letterale della norma, nella parte in cui fa riferimento alla «sentenza irrevocabile di condanna» e ai suoi «effetti penali», lascerebbe, infatti, intendere come essa attenga alle sole «sanzioni formalmente penali e alle statuizioni tipicamente penali».
Il giudice a quo ricorda pure come l’estensibilità della norma censurata alle sanzioni amministrative aventi natura penale agli effetti della CEDU fosse stata affermata incidentalmente dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione nell’ordinanza 10 novembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1782, senza, tuttavia, che tale soluzione venisse recepita da questa Corte nella sentenza n. 43 del 2017.
Ciò è avvenuto, peraltro, in un panorama nel quale la citata pronuncia del giudice di legittimità appariva isolata e in contrasto con una – sia pur remota e altrettanto isolata – decisione della Corte di cassazione civile (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 20 gennaio 1994, n. 458).
4.2.– La situazione appare però ora mutata, per effetto della giurisprudenza formatasi proprio sullo specifico problema oggetto del giudizio a quo: quello, cioè, della legittimazione del giudice dell’esecuzione a modificare la statuizione della sentenza irrevocabile di condanna relativa alla revoca della patente, per adeguarla alla sentenza n. 88 del 2019.
La Corte di cassazione si è, infatti, già ripetutamente espressa al riguardo, rilevando come il problema si risolva nello stabilire se la revoca della patente – di là dalla qualificazione nominalistica di «sanzione amministrativa accessoria» – possa essere fatta rientrare, o no, nel novero degli «effetti penali» della condanna, di cui la norma censurata impone la cessazione. A tal fine, la Corte di cassazione ha ritenuto «utilizzabili i noti parametri Engel, tratti dalla sedimentata giurisprudenza di Strasburgo, per cui la sanzione può essere definita penale – al di là del nomen attribuito dal legislatore interno – in rapporto all’analisi concreta delle finalità perseguite e del grado di afflittività, nel senso che lì dove risulti prevalente la finalità punitiva (rispetto a quella preventiva) o lì dove risulti particolarmente elevato il grado di afflittività, la misura in questione va attratta nel cono delle garanzie penalistiche».
Tale affermazione, contenuta in una pronuncia di poco anteriore all’ordinanza di rimessione (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 novembre 2019-17 gennaio 2020, n. 1804), e ripresa, testualmente o nella sostanza, in plurime decisioni successive (Corte di cassazione, sezione feriale penale, sentenza 20-24 agosto 2020, n. 24023; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-10 giugno 2020, n. 17834; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-9 giugno 2020, n. 17508; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-9 giugno 2020, n. 17506; sezione prima penale, 26 febbraio-30 aprile 2020, n. 13451), equivale al riconoscimento che la norma censurata – già interpretata in modo estensivo dalla giurisprudenza di legittimità, sulla base della ratio legis, quanto al tipo di declaratoria di incostituzionalità che incide sul giudicato – si presta a una lettura di analoga fatta anche quanto al novero delle sanzioni attinte dalla declaratoria di incostituzionalità, tale da ricomprendere, in particolare, le sanzioni amministrative con caratteristiche punitive al metro dei “criteri europei”.
Senonché, con specifico riguardo alla revoca della patente, la Corte di cassazione ha poi risposto in senso negativo alla domanda che essa stessa si era posta: ha negato, cioè, che – contrariamente a quanto sostiene l’odierno rimettente – la revoca della patente possa ritenersi sanzione di natura sostanzialmente penale sulla base di quei criteri, traendo da ciò la conseguenza che il giudice dell’esecuzione non sarebbe abilitato a sostituirla con la sospensione a modifica del giudicato.
La revoca della patente avrebbe, infatti, una finalità preventiva, e non già repressiva: costituirebbe una misura a tutela della sicurezza della circolazione stradale, inibendo la guida di veicoli a motore a soggetti che, con la loro condotta, si sono dimostrati pericolosi, «con estraneità funzionale agli aspetti meramente afflittivi della pena» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 1804 del 2020, sulla cui scia tutte le altre sentenze dianzi citate).
L’inibizione è, d’altra parte, circoscritta ad un ambito temporale limitato, decorso il quale è possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo alla guida: onde neppure il «grado di afflittività» della sanzione sarebbe tale da giustificare il superamento del dato nominalistico (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 1804 del 2020; in senso analogo, sezione prima penale, sentenza 25 settembre-22 dicembre 2020, n. 37034; sezione feriale penale, n. 24023 del 2020; sezione prima penale, sentenza n. 13451 del 2020).
In sostanza, dunque, la giurisprudenza di legittimità – rovesciando entrambe le premesse interpretative da cui muove il giudice a quo – da un lato riconosce, ormai con plurime pronunce, che la norma censurata si presta ad essere applicata anche alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali”; ma dall’altro nega, in modo altrettanto costante, che la revoca della patente abbia una simile natura, e conseguentemente esclude che il giudice dell’esecuzione sia abilitato ad effettuare l’operazione cui il rimettente intenderebbe procedere nel caso di specie.
5.– In questo quadro, i quesiti di costituzionalità vengono a concentrarsi sul trattamento riservato alla specifica sanzione amministrativa accessoria che viene in rilievo nel giudizio a quo: sanzione alla quale – di là dal riferimento del dispositivo dell’ordinanza di rimessione all’indistinta platea delle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali” – appaiono, in effetti, nella sostanza riferite le censure del rimettente.
Nella motivazione dell’ordinanza, egli afferma, infatti, in modo assai più puntuale, di dubitare della legittimità costituzionale della norma denunciata «nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rideterminare una sanzione amministrativa accessoria – la cui applicazione è demandata al giudice penale, unitamente alle sanzioni penali – oggetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale che ne abbia mutato di fatto la disciplina».
Locuzione, questa, che richiama dappresso la sanzione prevista dall’art. 222 cod. strada. Alcune delle censure, d’altra parte, appaiono calibrate avendo specificamente di mira la revoca della patente. Ciò è palese con riguardo alla denunciata violazione degli artt. 35 e 41 Cost., posto che la compressione del diritto al lavoro e della libertà di iniziativa economica non rappresenta certamente un connotato generale delle sanzioni amministrative.
Ma altrettanto può dirsi per i riferimenti – operati nel formulare le censure di violazione degli artt. 3 e 136 Cost. – all’attitudine della sanzione amministrativa a colpire diritti fondamentali della persona di rango più elevato rispetto ai beni incisi da talune sanzioni penali (quale il patrimonio).
È significativo, infine, il fatto che tra gli elementi di novità che dovrebbero indurre questa Corte a rivedere la soluzione adottata con la sentenza n. 43 del 2017 il rimettente indichi, anzitutto, la particolare natura della sanzione di cui si discute nel caso di specie.
6.– Così delimitato il thema decidendum, questa Corte è dell’avviso che non sia, in realtà, possibile negare che la revoca della patente, disposta dal giudice penale con la sentenza di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., abbia connotazioni sostanzialmente punitive (sia pur non disgiunte da finalità di tutela degli interessi coinvolti dalla circolazione dei veicoli a motore, secondo uno schema tipico delle misure sanzionatorie consistenti nell’interdizione di una determinata attività).
Viene in particolare rilievo, al riguardo, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa allo specifico tema. La Corte EDU ha preso più volte posizione, infatti, sulla natura penale, agli effetti della Convenzione, di misure quali il ritiro e la sospensione della patente, o il divieto di condurre veicoli a motore, disposte a seguito dell’accertamento di infrazioni connesse alla circolazione stradale. Da tali pronunce emerge un orientamento sostanzialmente univoco, alla luce del quale – ancorché le misure in discorso siano configurate nel diritto interno come misure amministrative finalizzate a preservare la sicurezza stradale – esse si connotano come di natura convenzionalmente penale quando l’inibizione alla guida si protragga per un lasso di tempo significativo, tanto più, poi, ove la loro applicazione consegua a una condanna penale (Corte EDU, sentenza 4 gennaio 2017, Rivard contro Svizzera; sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia; decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): venendo, in tal caso, le misure stesse ad assumere, per il loro grado di severità, un carattere punitivo e dissuasivo (Corte EDU, sentenza 21 settembre 2006, Maszni contro Romania).
In quest’ottica, si è ritenuto rientrare nella «materia penale» il ritiro della patente per la durata di diciotto mesi (Corte EDU, decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): lasso di tempo ben più breve dei cinque anni per i quali si protrae – nella più favorevole delle ipotesi – la revoca della patente disposta ai sensi dell’art. 222 cod. strada.
La Corte di Strasburgo ha ripetutamente qualificato come di natura penale, agli effetti della Convenzione, persino la misura della decurtazione dei punti della patente, in quanto idonea a determinare, alla fine, la perdita del titolo abilitativo alla guida. Al riguardo, i giudici europei hanno posto in evidenza come sia «incontestabile che il diritto di condurre un veicolo a motore si rivela di grande utilità per la vita corrente e l’esercizio di una attività professionale»: di modo che, «anche se la misura è considerata dal diritto interno comune come una misura amministrativa preventiva non appartenente alla materia penale, è giocoforza constatare il suo carattere punitivo e dissuasivo» (Corte EDU, sentenza 5 ottobre 2017, Varadinov contro Bulgaria; sentenza 23 settembre 1998, Malige contro Francia; analogamente, sentenza 6 ottobre 2011, Wagner contro Lussemburgo).
Anche guardando il fenomeno in una prospettiva meramente “interna”, non può, peraltro, disconoscersi che ci si trovi al cospetto di una sanzione dalla carica afflittiva particolarmente elevata e dalla spiccata capacità dissuasiva.
Non poter condurre veicoli a motore per cinque anni può rappresentare – specie per un soggetto che, come il ricorrente nel giudizio a quo, esercita l’attività di autotrasportatore – una sanzione, in concreto, più temibile della stessa pena principale di un anno e sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, che gli è stata inflitta per il reato commesso.
È significativo, d’altronde, che – avendo riguardo alla misura di identico contenuto prevista dal precedente codice della strada (art. 91, settimo comma, del d.P.R. 15 giugno 1959, n. 393, recante «Testo unico delle norme sulla circolazione stradale»), il quale, però, si asteneva dal qualificarla come «amministrativa» – le sezioni unite della Corte di cassazione non avessero esitato a configurare la revoca (come pure la sospensione) della patente disposta dal giudice penale quale «pena accessoria», analoga all’interdizione o sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte (tipiche pene accessorie disciplinate dagli artt. 30, 31 e 35 cod. pen.), rilevando come essa, «comprimendo con inevitabile danno economico la libertà di circolazione – tanto sentita da questa società – e reprimendo nella maniera più acconcia lo scorretto esercizio di essa», costituisse «mezzo di prevenzione speciale idoneo ed efficace, più della stessa pena principale, cui aggiunge forza intimidatrice» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 dicembre 1990-12 febbraio 1991, n. 2246).
7.– In quest’ottica, si deve ritenere che l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 – in quanto interpretato, come vuole la consolidata giurisprudenza di legittimità, nel senso di escluderne l’applicabilità in relazione alla sanzione amministrativa considerata – venga a porsi in contrasto con l’art. 3 Cost.
Come già ricordato, nella sentenza n. 43 del 2017 questa Corte ha ritenuto che l’inapplicabilità della norma censurata alle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali” non violasse nemmeno tale parametro, stante la facoltà del legislatore nazionale di apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle prefigurate dalla CEDU, riservandole alle sole sanzioni “formalmente penali” per l’ordinamento interno.
E sebbene – si era rilevato – la giurisprudenza costituzionale avesse «occasionalmente» esteso alle sanzioni amministrative l’art. 25, secondo comma, Cost., il fenomeno era rimasto però circoscritto al nucleo essenziale del precetto costituzionale (il divieto di retroattività in malam partem) e a misure incidenti su libertà fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino.
Per le sanzioni amministrative – diversamente che per quelle penali – non è, d’altra parte, prevista una fase esecutiva che attribuisca al giudice dell’esecuzione il ruolo di garante della legalità della misura.
Successivamente alla sentenza n. 43 del 2017, il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative “punitive” alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha però conosciuto nuovi e rilevanti sviluppi, tali da rendere non più attuali le affermazioni contenute in tale pronuncia.
Superando precedenti decisioni di segno contrario, questa Corte ha ormai esteso alle sanzioni amministrative a carattere punitivo – in quanto tali (indipendentemente, cioè, dalla caratura dei beni incisi) – larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali: sia quello basato sull’art. 25 Cost. – irretroattività della norma sfavorevole (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017; nonché, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019), determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018) – sia quello basato su altri parametri, e in particolare sull’art. 3 Cost. – retroattività della lex mitior (sentenza n. 63 del 2019), proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (sentenza n. 112 del 2019) −.
Di rilievo, agli odierni fini, appare soprattutto la sentenza n. 63 del 2019, con cui questa Corte ha esteso alle sanzioni amministrative “punitive” il principio di retroattività della lex mitior, ritenendo tale operazione «conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali», la quale «“[…] impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394 del 2006)”».
Laddove, infatti, «la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicar[la] […], qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento.
E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale» (sentenza n. 63 del 2019).
Ma, se così è, a maggior ragione va escluso – come per le sanzioni penali – che taluno debba continuare a scontare una sanzione amministrativa “punitiva” inflittagli in base a una norma dichiarata costituzionalmente illegittima: dunque, non già oggetto di semplice “ripensamento” da parte del legislatore, ma affetta addirittura da un vizio genetico, il cui accertamento impone, senza possibili eccezioni, di lasciare immune da sanzione, o di sanzionare in modo più lieve, chiunque dopo di esso commetta il medesimo fatto.
Al riguardo, non coglie nel segno l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la sentenza n. 63 del 2019 non sarebbe, in realtà, pertinente, non essendosi in alcun modo occupata del tema del giudicato.
Il principio di legalità costituzionale della pena, cui si riconnette la norma oggi censurata, è “più forte” di quello di retroattività in mitius, il quale, nel caso di successione di leggi modificative, incontra, di regola, in base alla normativa codicistica, il limite della definitività della pronuncia di condanna (art. 2, quarto comma, cod. pen.).
Alla luce del diritto vivente formatosi in sede di interpretazione dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 – come si è visto (supra, punto 2.2. del Considerato in diritto) – tale limite non opera invece nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale che rimoduli il trattamento sanzionatorio della fattispecie: l’esigenza che la pena risulti conforme a Costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio è posto l’istituto del giudicato.
L’esito del bilanciamento tra i contrapposti valori non può, peraltro, ribaltarsi per le sanzioni amministrative a connotazione punitiva, particolarmente quando si tratti di sanzione quale la revoca della patente di guida. A questo proposito, viene in risalto la più recente giurisprudenza di questa Corte sulla cosiddetta “successione impropria” tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative punitive conseguente agli interventi di depenalizzazione.
Essa ha posto adeguatamente in evidenza, ai fini dell’operatività del divieto di retroattività sfavorevole, come un apparato sanzionatorio di natura formalmente amministrativa possa risultare, in concreto, più afflittivo rispetto all’apparato sanzionatorio previsto per i reati (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017).
Se è vero, infatti, che la sanzione penale «si caratterizza sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa»; e se è vero, altresì, «che la pena possiede un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa», nondimeno, «l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona non può essere sottovalutato: ed è, anzi, andato crescendo nella legislazione più recente».
A rendere maggiormente severo il regime sanzionatorio amministrativo può contribuire, d’altro canto, anche il fatto che la sanzione amministrativa, diversamente dalla pena, resta sottratta a istituti che ne evitano la concreta esecuzione, quale, in specie, la sospensione condizionale (sentenza n. 223 del 2018).
Con riguardo all’ipotesi che qui interessa, non appare, in effetti, costituzionalmente tollerabile che taluno debba rimanere soggetto per cinque anni, anziché per un periodo di tempo nettamente minore, ad una sanzione inibitoria della guida di veicoli a motore – con tutte le limitazioni che ciò comporta nella vita contemporanea, compresa, nel caso di specie, l’impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa – inflittagli sulla base di una norma che, all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è stata riconosciuta contrastante con la Costituzione.
Ciò, quando invece il condannato a una, anche modesta, pena pecuniaria potrebbe giovarsi, finché non è eseguita, della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale che ne mitighi l’importo.
Quanto, infine, all’argomento addotto dalla sentenza n. 43 del 2017, afferente all’assenza, per le sanzioni amministrative, di una fase esecutiva che veda il relativo giudice garante della legalità della pena, tale argomento non vale, comunque sia, nella fattispecie oggi in esame, una volta che si accrediti la competenza del giudice a quo.
8.– L’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada.
Le censure formulate in rapporto agli altri parametri costituzionali restano assorbite.