Corte Costituzionale, sentenza 31 marzo 2021 n. 57
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29 (Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo terroristico o mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa o con finalità di terrorismo, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati) e dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), terzo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 30, 31, secondo comma, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria.
2.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, concernenti le medesime disposizioni. I relativi giudizi vanno pertanto riuniti per essere definiti con unica decisione.
3.– In via preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio (qualificata come atto di intervento) dell’avv. Pasquale Cananzi, nella qualità di curatore speciale dei minori S. B., C.M. D.S. e R.P. D.S., da considerare parti dei giudizi a quibus (sentenza n. 1 del 2002; Corte di cassazione, sezione prima civile, 25 gennaio 2021, n. 1471), in quanto avvenuta solo il giorno prima dell’udienza pubblica, e dunque largamente oltre il termine, stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, di venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio: termine che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ha natura perentoria (ex plurimis, sentenze n. 222 e n. 24 del 2018, e n. 219 del 2016).
4.– Ciò posto, l’esame nel merito delle questioni risulta precluso da un assorbente profilo di inammissibilità delle medesime, legato al difetto di competenza del giudice a quo.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, stante l’autonomia del giudizio di costituzionalità rispetto a quello dal quale la questione proviene, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – determina l’inammissibilità della questione, per irrilevanza, solo quando sia palese, ossia riscontrabile ictu oculi (ex plurimis, sentenza n. 136 del 2008, ordinanze n. 144 del 2011, n. 318 e n. 252 del 2010, e n. 82 del 2005; con particolare riguardo a questioni attinenti allo stesso art. 41-bis ordin. penit., sentenza n. 349 del 1993).
Tale ipotesi ricorre nel caso in esame.
Il giudice a quo è, infatti, un Tribunale per i minorenni investito di procedimenti civili de potestate, che lo hanno portato a dichiarare decaduti dalla responsabilità dei genitori, a sensi dell’art. 330 del codice civile, due detenuti in regime speciale, condannati a lunghe pene per reati di stampo mafioso, e ad impartire una serie di disposizioni a tutela del benessere psico-fisico e del corretto sviluppo della personalità dei loro figli minorenni. In questo ambito, il rimettente si trova investito di istanze con le quali i due detenuti chiedono di essere autorizzati ad effettuare colloqui audiovisivi a distanza con i figli, tramite strumenti informatici: istanze in rapporto alla cui decisione il giudice a quo reputa rilevanti le questioni sollevate.
Il rimettente appare, tuttavia, palesemente privo di qualsiasi competenza in materia di autorizzazione dei colloqui dei detenuti: competenza che non può essere in alcun modo fatta discendere da quella per la dichiarazione di decadenza dalla responsabilità dei genitori, riconosciuta al tribunale per i minorenni dall’art. 38 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 318 (Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie).
Per precisa indicazione della legge penitenziaria (art. 18, decimo comma, ordin. penit., art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, recante «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà»), i colloqui – ma anche la corrispondenza telefonica e «gli altri tipi di comunicazione» – dei detenuti sono autorizzati, per gli imputati fino alla sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria che procede (individuata ai sensi dell’art. 11, comma 4, ordin. penit.); dopo tale sentenza e per i condannati in via definitiva (quali i detenuti istanti nei giudizi a quibus), dal direttore dell’istituto, i cui provvedimenti sono suscettibili di reclamo davanti al magistrato di sorveglianza, ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.
Nelle ordinanze di rimessione, il giudice a quo svolge, in verità, ampie argomentazioni per dimostrare di fruire anch’esso di un potere autorizzatorio, quando si discuta dei colloqui con figli minorenni.
Il nucleo del suo ragionamento è che la preclusione dei colloqui audiovisivi a distanza, posta (in assunto) dalle norme censurate nei confronti dei detenuti in regime speciale, sarebbe, per così dire, “bivalente”: inciderebbe, cioè, non solo sui diritti del detenuto (la cui tutela spetta alla magistratura di sorveglianza), ma anche sui diritti del minore, la cui tutela – che assumerebbe, anzi, un rilievo preminente, alla luce di note indicazioni delle fonti sovranazionali – resterebbe affidata al tribunale per i minorenni, quale «giudice naturale de potestate». In assenza di specifiche disposizioni che regolino i rapporti tra tali competenze, sarebbe giocoforza ritenere che le stesse concorrano.
La tesi appare, peraltro, ictu oculi insuscettibile di avallo. La legge di ordinamento penitenziario reca plurime disposizioni nelle quali viene in rilievo l’interesse dei figli minorenni del detenuto: basti pensare, ad esempio, agli istituti – finanche più pregnanti, in tal ottica, di quello dei colloqui – della detenzione domiciliare speciale della madre (o, quando questa sia deceduta o impossibilitata, del padre) per accudire figli in tenera età (art. 47-quinquies, ordin. penit.), o dell’assistenza all’esterno dei figli stessi (art. 21-bis ordin. penit.). Il solo fatto che siano coinvolti interessi dei minori non significa affatto che alla competenza dei giudici di sorveglianza, specificamente prevista per l’accesso a tali misure dall’ordinamento penitenziario (artt. 21, comma 4, 21-bis, comma 1, 70, primo comma), possa sovrapporsi una concorrente competenza del tribunale civile minorile.
L’idea di una competenza concorrente di due diverse autorità in rapporto al medesimo provvedimento – con conseguente rischio di decisioni contrastanti – si presenta, d’altronde, palesemente confliggente con una logica di sistema.
5.– Per tali ragioni, e a prescindere da ogni altro possibile rilievo – anche quanto alle premesse ermeneutiche che fondano i dubbi di costituzionalità – le questioni vanno dichiarate inammissibili.