<strong>Massima</strong> <em> </em> <em>Sul crinale schiettamente soggettivo, l’analisi del reato impone lo studio del c.d. soggetto attivo, ovvero (tradizionalmente, e salve recenti rivisitazioni ampliative agli “</em>enti<em>”) della persona “</em>fisica<em>” che lo commette ponendo in essere la condotta, commissiva od omissiva, che concretamente lo compendia; e se nella più parte dei casi può trattarsi, genericamente, di “</em>chiunque<em>”, in altri – talvolta anche “</em>celati<em>” dietro l’apparente </em>habitus<em> generalizzante – la peculiare qualifica soggettiva rivestita diviene imprescindibile per poter configurare la stessa ipotesi criminosa; la quale “</em>dipende<em>” dunque proprio dal soggetto attivo (esemplificativamente: pubblico, come nel peculato, o privato, come nella “</em>ragion fattasi<em>”) che specificamente la realizza, senza possibilità di vederla imputata al </em>quivis de populo<em>.</em> <strong> </strong> <strong>Crono-articolo</strong> Non è certo risalga al diritto romano (trova, assai più plausibilmente, la sua genesi nel periodo medievale) il noto brocardo “<em>societas delinquere non potest”</em>, formula con cui in modo tradizionale viene esclusa la possibilità di configurare una “<em>responsabilità penale</em>” in capo agli enti, dotati o meno di personalità giuridica. E’ invece certamente attribuibile al diritto romano, stando alle relative fonti, l’uso del termine “<em>persona</em>”, col significato originario di “<em>maschera</em>” e riferito esclusivamente all’uomo singolo, quale persona “<em>fisica</em>”. Peraltro, anche quando a fatica inizia a farsi strada un embrionale concetto di “<em>persona giuridica</em>” quale ente “<em>non persona fisica</em>” cui viene riconosciuta una certa capacità di diritto privato (come nel classico caso dei <em>municipia</em>), se ne esclude in ogni caso una responsabilità di tipo penale: nel IV libro del Digesto, Titolo III (<em>De dolo malo</em>) è contenuto un noto frammento di Ulpiano alla cui testuale stregua “<em>quid enim municipes dolo facere possunt?</em>” (D. 4.3.15.1), onde un <em>municipium</em> non può “<em>volere</em>” e - come tale - non può essere capace di dolo e di connesso “<em>reato</em>”. Su altro crinale, parte della dottrina fa poi risalire già al diritto romano la distinzione tra i c.d. <em>crimina propria</em>, soggettivamente qualificati, e i <em>crimina communia</em>, autore dei quali potrebbe essere una persona qualunque. Ciò, nondimeno, a valle della progressivamente invalsa distinzione tra <em>delicta</em> – perseguiti da un processo civile dove si giustappongono, in veste di soggetti privati, l’offensore e l’offeso e caratterizzati da pene private – e veri e propri “<em>crimina</em>”, perseguiti all’opposto in sede processuale pubblica e puniti con pene corporali o con multa all’Erario. Un riferimento particolare va riservato al peculato, le cui origini sarebbero antichissime tanto da farsi risalire financo alla legge delle XII Tavole. Successivamente si evince dalle fonti - già prima dell’avvento al potere di Silla, vittorioso contro Gaio Mario – l’istituzione di un tribunale orientato a perseguire stabilmente proprio i casi di <em>peculatus</em>, vale a dire di sottrazione a fini personali di denaro pubblico. Più in specie, nell’86 a.C. viene imputato dinanzi a tale tribunale “<em>speciale</em>” un giovanissimo Gneo Pompeo, futuro avversario di Cesare, chiamato a difendersi dall’accusa di essersi illecitamente appropriato (per fini personali) di una parte del bottino di guerra che il padre ha raccolto ad Ascoli al tempo della “<em>rivolta italica</em>”. Negli anni successivi – ed in particolare dall’82 al 79 a.C. durante la dittatura di Silla – vengono organizzate <em>ex lege</em> ben sei corti permanenti una delle quali, non a caso, investita proprio della competenza in materia di peculato che, laddove accertato come concretamente commesso, implica per il reo una sanzione pecuniaria commisurata all’entità delle somme sottratte. Solo con l’avvento del Principato di Augusto si assiste ad una autentica “<em>sistematizzazione</em>” della fattispecie attraverso la <em>lex Iulia de peculato et de sacrilegiis</em> (8 a.C.), ricordata anche nel Digesto di Giustiniano: l’appropriazione indebita di beni e denari appartenenti allo Stato o ai luoghi di culto pubblici viene punita con una multa pari al quadruplo di ciò che è stato e sottratto (probabilmente, nei casi più gravi interviene anche la <em>aqua et igni interdictio</em>, e dunque l’esilio con perdita della cittadinanza e del patrimonio). Laddove invece il denaro pubblico sottratto sia stato riconsegnato solo in parte, è prevista una multa corrispondente ad un importo pari alla somma non restituita, aumentata di un terzo. Nel c.d. tardo-antico, e dunque in epoca postclassica, l’obiettivo di moralizzare l’operato dei funzionari pubblici si fa più pressante, scaturendone un deciso ampliamento delle ipotesi di peculato, punito peraltro con pene decisamente più severe. In base al Codice Teodosiano del 438 d.C., ai funzionari corrotti si applica le pena augustea della multa, con l’aggiunta tuttavia della perdita di ogni carica pubblica oltre che della pena di morte nei casi di recidiva o di continuazione del reato. Significativamente, è ancora la condanna a morte ad essere comminata, tra gli altri, agli esattori del fisco che abbiano orientato a proprio vantaggio le somme pagate dai contribuenti allo Stato; inoltre il <em>sacrilegium</em>, quale sottrazione indebita di cose destinate al culto divino già “<em>tipizzata</em>” da Augusto come forma <em>sui generis</em> di peculato, viene trasformato nel ben più grave delitto di vilipendio al culto cristiano. Sempre in tema (esemplificativo) di reato proprio “<em>pubblicamente orientato</em>” e, come tale, soggettivamente qualificato, siccome giustapposto al reato “<em>comune</em>” a chiunque imputabile, importante rammentare del sistema giuridico romanistico la malversazione: il riferimento va al <em>crimen pecuniae repetundae</em> e, con esso, a tutta una gamma di reati che vanno dalla malversazione propriamente detta all'estorsione, dalla corruzione alla concussione; tutte fattispecie in età repubblicana punite con pene pecuniarie e nella successiva epoca imperiale con pene più ben più severe quali l'esilio e – laddove il soggetto agente appartenga a classi inferiori - perfino la morte. Come rammentato altrove (si rinvia sul punto al CRONOPERCOSO in tema di abuso di autorità) si registra la possibilità di chiedere in restituzione (c.d. <em>repetundae</em>) quanto indebitamente ottenuto da un funzionario pubblico (anche a livello provinciale) secondo schemi nel diritto moderno assimilabili all’estorsione, alla corruzione e soprattutto alla concussione, succedendosi in proposito – senza qui scandagliarne <em>singulatim</em> lo specifico contenuto - varie <em>Leges</em>: la <em>lex Calpurnia</em> del 149 a.C., la <em>lex Iuna</em> di poco successiva (viene collocata tra il 149 e il 123 a.C.), la <em>lex Sempronia repetundarum</em> del 123 a.C. – quest’ultima proposta da Caio Gracco – la <em>lex Acilia</em> del 111 a.C., le <em>leges Servilie</em> del 101-100 a.C., la <em>lex Cornelia</em> dell’ 81 a.C. varata su iniziativa di Silla e la <em>lex Iulia</em> del 59 a.C., proposta da Caio Giulio Cesare. Infine, sul crinale privatistico vale rammentare come il concetto di “<em>autotutela</em>” – costituente <em>ab origine</em> una forma primitiva di giustizia fatta con le proprie mani – subisca nel corso dei secoli progressive limitazioni, come dimostra per tutte la vicenda delle c.d. <em>legis actiones</em>, modulo embrionale di processo sorto proprio per consentire alla “<em>civitas</em>” un qualche controllo sull’autodifesa privata, secondo un percorso che sfocerà alfine, in epoca moderna e contemporanea, e con l’avvento del “<em>servizio pubblico giustizia</em>”, nel divieto di c.d. ragion fattasi. Più tardi, il diritto romano incrimina l’impossessamento delle cose del proprio debitore contro la volontà di quest’ultimo e la sottrazione violenta della propria <em>res</em> posseduta da terzi; e – ancora più avanti - il diritto intermedio punisce, in linea di principio, l’impossessamento violento della cosa propria posseduta, anche se illegittimamente, da terzi e l’uso delle armi per farsi giustizia, pur tollerando talora l’impiego delle armi per la rivendicazione dei propri diritti. <strong>1889</strong> Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che lascia implicita la distinzione tra reato c.d. comune – come tale imputabile a “<em>chiunque</em>” – e reato “<em>proprio</em>”, come tale soggettivamente qualificato. Si va da qualificazioni soggettive di natura privatistica, come esemplificativamente nel caso degli articoli 222-224 che in tema di c.d. “<em>prevaricazione</em>”, puniscono il “<em>patrocinatore</em>” nell’ambito di una data causa, a qualificazioni dalla connotazione più spiccatamente pubblicistica, come nel caso classico della concussione (art.169 e seguenti) e della corruzione (art.171 e seguenti), imputabili al solo “<em>pubblico ufficiale</em>”. Quest’ultimo viene definito tale all’art.207 onde, per gli effetti della legge penale, sono considerati appunto dei pubblici ufficiali: 1) coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni, anche temporanee, stipendiate o gratuite, a servizio dello Stato, delle Provincie, dei Comuni, o di un istituto sottoposto per legge alla tutela dello Stato, di una Provincia o di un Comune; 2) i notai; 3) gli agenti della Forza pubblica e gli uscieri addetti all’Ordine giudiziario (comma 1). Si afferma anche che ai pubblici ufficiali sono equiparati, per gli stessi effetti, i giurati, gli arbitri, i periti, gli interpreti e i testimoni, durante il tempo in cui sono chiamati ad esercitare le loro funzioni (comma 2). In forza poi del successivo art.208, quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale come elemento costitutivo (oltre che come circostanza aggravante) di un reato, perché commesso “<em>a causa</em>” delle funzioni da esso esercitate, essa comprende anche il caso in cui le persone indicate nel precedente art.207 più non abbiano la qualità di pubblico ufficiale o non esercitino quelle funzioni nel momento in cui è commesso il reato. Ne affiora una figura di reato “<em>proprio</em>” del pubblico ufficiale perché “<em>funzionale</em>” e strettamente avvinto ai compiti che l’ordinamento affida a tale “<em>soggetto</em>”, mentre nessun riferimento viene operato all’incaricato di pubblico servizio, in una fase in cui la Pubblica Amministrazione – tipica dello Stato liberale – è ancora, per l’appunto, solo “<em>funzione</em>” (autoritativa ed unilaterale) e non ancora “<em>servizio</em>”. In ambito privatistico, di particolare rilievo l’art.235 che punisce, nel contesto di una sola disposizione, la c.d ragion fattasi tanto con violenza sulle cose che sulle persone, facendo riferimento a chi “<em>… crede di avere una pretesa</em> <em>giuridica </em>[e] <em>sostituisce la sua forza al potere del giudice, </em>[così facendosi] <em>ragione da sé medesimo”.</em> Si tratta di una norma che proma dall’art. 146 del codice toscano del 1853 e dall’art. 286 e segg. del codice penale sardo-italiano del 1859. <strong>1930</strong> Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, alla stregua del cui art.117 se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l'offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato; nondimeno, se questo è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena. La norma palesa in modo più esplicito la consapevolezza del legislatore per la nozione di reato “<em>proprio</em>” e, dunque, soggettivamente qualificato, rispetto al reato “<em>comune</em>”, proprio laddove disciplina le ipotesi in cui taluno, quale persona fisica ”<em>qualunque</em>” (chiunque), partecipa a titolo di concorso ad un reato che è invece qualificato dalla particolare soggettività di talaltro. Ancora una volta, un reato può essere “<em>proprio</em>” (e, dunque, soggettivamente qualificato) in ottica meramente privatistica, come nel classico caso: - dell’incesto ex art.564 dove, pur parlandosi di “<em>chiunque</em>”, è solo un parente stretto della medesima famiglia a poterlo commettere, in modo che ne derivi <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5199.html">pubblico scandalo</a>, con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello; - o dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o sulle persone (articoli 392 e 393 del codice), dove occorre presumere da parte del soggetto attivo una vantabile “<em>pretesa</em>” da porre a base del contegno per poterne predicare una “<em>ragion fattasi</em>”. Una data fattispecie criminosa può poi assurgere al rango di “<em>reato proprio</em>” anche in una declinazione più squisitamente pubblicistica, come avviene – esemplificativamente - per tutti i reati riconducibili a figure come il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio ovvero l’esercente un servizio di pubblica necessità; è il caso del peculato, della corruzione, della concussione e così via. Per il codice (art.357) sono in proposito pubblici ufficiali agli effetti della legge penale coloro i quali esercitano una pubblica <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4846.html">funzione legislativa</a>, <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4847.html">giudiziaria</a> o <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4848.html">amministrativa</a> (comma 1); agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4849.html">norme di diritto pubblico</a> e da <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4850.html">atti autoritativi</a>, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3672.html">pubblica amministrazione</a> o dal relativo svolgersi per mezzo di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4851.html">poteri autoritativi</a> o <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4852.html">certificativi</a> (comma 2). Il codice Rocco, a differenza dello Zanardelli, si preoccupa anche di definire all’art.358 chi siano, agli effetti della legge penale, gli <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4853.html">incaricati di un pubblico servizio</a>, individuandoli in coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio (comma 1); per pubblico servizio deve poi intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2434.html">mansioni</a> di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4857.html">ordine</a> e della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4853.html">prestazione di opera meramente materiale</a> (comma 2). E’ un segno del passaggio dallo Stato liberale al c.d. <em>Welfar State</em>, dove non conta tanto ciò che l’Amministrazione e, più in genere, lo Stato apparato può “<em>togliere</em>” al cittadino (che vanta, come contraltare, interessi “<em>oppositivi</em>”) quanto piuttosto ciò che deve “<em>dargli</em>” in termini, appunto, di servizi pubblici (con giustapposti, novelli interessi “<em>pretensivi</em>”). Con norma di chiusura, l’art.359 definisce poi, sempre agli effetti della legge penale, persone che esercitano un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4859.html">servizio di pubblica necessità</a>: 1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4860.html">abilitazione</a> dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi; 2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4854.html">pubblico servizio</a>, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4861.html">atto</a> della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4861.html">pubblica Amministrazione</a>. Infine, ai sensi dell’art.360 quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale, o di incaricato di un pubblico servizio, o di esercente un servizio di pubblica necessità come <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4329.html">elemento costitutivo</a> (o anche come <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4379.html">circostanza aggravante</a>) di un reato, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l'esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto “<em>si riferisce</em>” all'ufficio o al servizio esercitato<a href="https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-ii/capo-iii/art360.html?utm_source=internal&utm_medium=link&utm_campaign=articolo&utm_content=nav_art_succ_top#nota_11294">.</a> Il reato “<em>proprio</em>” di queste tre figure scatta dunque ormai non già solo quando vi sia un nesso “<em>causale</em>” tra le funzioni e il reato medesimo ma anche, assai più labilmente, laddove il fatto “si riferisca” all’ufficio o al servizio dispiegato dal soggetto agente prima che ne cessasse la pertinente qualità. Sul crinale della c.d. responsabilità degli “<em>enti</em>”, emblematico poi l’art.197 del codice, significativamente rubricato “<em>Obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende</em>” ed alla cui stregua (comma 1) gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le regioni, le province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2534.html">rappresentanza</a>, o l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4551.html">amministrazione</a>, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell'interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4548.html">insolvibilità</a> del condannato, di una somma pari all'ammontare della <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4312.html">multa</a> o dell'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/6032.html">ammenda</a> inflitta. <strong>1934</strong> Il 25 luglio esce la sentenza della Cassazione, Landinia, alla cui stregua il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è configurabile anche se il soggetto attivo abbia usato violenza per esercitare una pretesa giuridica accampata da altri, se ciò sia, però, avvenuto in nome e vece del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti, e nell’interesse esclusivo di lui. Questo orientamento, che richiede sempre e comunque il coinvolgimento nel reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. del soggetto "<em>qualificato</em>", ovvero il titolare del preteso diritto azionato, sarà in seguito costantemente ribadito. <strong>1936</strong> *Il 17 giugno esce la sentenza della Cassazione, Rainieri, alla cui stregua il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è configurabile anche se il soggetto attivo abbia usato violenza per esercitare una pretesa giuridica accampata da altri, se ciò sia, però, avvenuto in nome e vece del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti, e nell’interesse esclusivo di lui. Questo orientamento, che richiede sempre e comunque il coinvolgimento nel reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. del soggetto "<em>qualificato</em>", ovvero il titolare del preteso diritto azionato, sarà in seguito costantemente ribadito. <strong>1941</strong> Il 20 febbraio viene varato il R.D. n.303, recante i codici penali militari di pace e di guerra. Si tratta di un ordito codicistico in cui la figura del “<em>militare</em>” diviene specifica protagonista di tutta una serie di fattispecie criminose che solo in tale peculiare veste possono essere commesse, finendo con l’individuare una correlata serie di reati “<em>propri militari</em>”. Di rilievo l’art.1, comma 1, del codice penale militare di pace alla cui stregua la legge penale militare si applica ai militari in servizio alle armi e a quelli “<em>considerati tali</em>”, con norma che in qualche modo sembra configurare un reato “<em>eventualmente proprio</em>”, laddove commesso da parte di chi, ordinariamente “<em>non militare</em>”, possa tuttavia essere “<em>considerato tale</em>”. Per quanto concerne il codice penale militare di guerra, significativo l’art.6, rubricato “<em>legge penale militare di guerra in relazione alle persone</em>”, onde la legge penale militare di guerra si applica ai militari appartenenti ad armi, corpi, navi, aeromobili o servizi in generale, destinati a operazioni di guerra, ancorché il reato sia commesso in luogo che non si trovi in stato di guerra (comma 1), con la precisazione onde, nei luoghi in stato di guerra, i militari sono considerati permanentemente in servizio (comma 2). Va rammentato che esistono reati militari, quantunque pochi, che possono essere commessi anche da “<em>non militari</em>” e dunque da terzi estranei alle Forze Armate, qualificandosi come reati “<em>comuni</em>”: è il caso, esemplificativamente, dell’art.166 c.p.m.p. (acquisto o detenzione di effetti militari), che punisce “<em>chiunque</em>” acquista o per qualsiasi titolo ritiene oggetti di vestiario, equipaggiamento o armamento militare o altre cose destinate a uso militare, senza che siano muniti del marchio o del segno di rifiuto, o comunque che egli possa dimostrare che tali oggetti abbiano legittimamente cessato di appartenere al servizio militare. La qualifica “<em>militare</em>” del soggetto attivo non è peraltro di per sé sufficiente ad attribuire, sul crinale oggettivo, al reato la qualità di reato militare: occorre infatti che la fattispecie sia lesiva di un “<em>interesse militare</em>” e sia prevista da una “<em>legge penale militare</em>”. Sempre sul crinale soggettivo, la particolare posizione giuridica del soggetto attivo costituisce nell’ordinamento militare la normalità dei casi tanto dal punto di vista concettuale quanto da quello statistico, onde, nel contesto proprio dell’ordinamento penale militare, non si può parlare di reato realmente “<em>proprio</em>”, atteggiandosi piuttosto a tale quel reato che richieda nel militare (soggetto attivo) una tutt’affatto peculiare (ed ulteriore) posizione giuridica, quale ad esempio quella di Comandante (artt.111, 121, 124, 146, ecc. c.p.m.p.): è il caso – sempre esemplificativamente - dell’ipotesi prevista dall’art. 146 c.p.m.p., che può essere realizzata dal superiore che minacci l’inferiore per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, ovvero a compiere od omettere un atto inerente al proprio ufficio o servizio. Ancora, in ambito militare è reato “<em>proprio</em>” il peculato militare (art. 215 c.p.m.p). che può essere commesso dal militare incaricato di funzioni amministrative o di comando il quale - avendo per ragione del proprio ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile appartenente all’amministrazione militare - se ne appropri, come nell’ipotesi classica del militare consegnatario del magazzino viveri della caserma che si appropri di alcune scatole di viveri, di cui aveva il possesso per ragioni del suo servizio. <strong>1942</strong> Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, nuovo codice civile, i cui art.2621 e seguenti dettano le fattispecie penali di ascendenza commercialistica che – come nel classico caso delle false comunicazioni sociali (c.d. falso in bilancio) – vedono come possibili soggetti attivi del reato solo persone fisiche rivestenti determinate cariche nell’impresa, specie “<em>societaria</em>”. * * * Il 30 marzo viene varato il R.D. n.327, recante approvazione del testo definitivo del codice della navigazione. Nella parte “<em>penalistica</em>”, e precisamente nella parte III dedicata alle disposizioni penali e disciplinari (articoli 1080 e seguenti) figurano tutta una serie di fattispecie penali che vedono come autori specifici di una altrettanto vasta gamma di reati – proprio per questo, “<em>propri</em>” - rispettivamente, il comandante di nave, il comandante di aeromobile e altre figure legate al mondo della navigazione. Di rilievo l’art.1081, rubricato “<em>concorso di estranei in un reato previsto dal presente codice</em>”, onde – fuori del caso regolato nell’art.117 c.p. – quando per l’esistenza di un reato previsto dal codice medesimo è richiesta una particolare qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità, sono concorsi nel reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole (comma 1), potendo tuttavia il giudice diminuire la pena rispetto a coloro per i quali non sussiste la predetta qualità (comma 2). Costituiscono esempi di reati propri nel campo marittimo, l’ubriachezza (ex art. 1120, comma 1), la falsità ideologica nel ruolo di equipaggio, nel giornale o nelle relazioni (ex art. 1127), l’omissione di assistenza a navi o persone in pericolo (ex art. 1158), il rifiuto di servizio da parte del pilota (ex art. 1114), che possono essere commessi dal comandante di nave mercantile oppure dal pilota. * * * Il 17 agosto viene varata la legge n.1150, c.d. legge urbanistica, il cui articolo 41 prevede talune fattispecie contravvenzionali in materia urbanistica ed edilizia in relazione alle quali si discuterà se si sia o meno al cospetto di reati propri, con potenziale operatività dell’art.117 c.p. Ciò in quanto il precedente art.31 individua specificamente nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e – a particolari condizioni - nel direttore dei lavori i soggetti responsabili della conformità delle opere realizzate alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire e alle modalità esecutive in quest’ultimo specificamente stabilite, facendo ritenere appunto che le pertinenti violazioni, laddove penalmente sanzionate, compendino reati propri a cagione del relativo richiedere una specifica veste soggettiva in chi li commette. <strong>1948</strong> Viene varata la Costituzione che prevede la natura rigorosamente “<em>personale</em>” della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato – giocoforza una persona fisica capace di “<em>sentimento</em>” - deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato. Ciò è predicabile per l’appunto esclusivamente al cospetto di una persona “<em>fisica</em>”, mentre solo in via astratta e mediata può esserlo con riguardo ad enti di natura collettiva che rappresentano la sintesi delle persone fisiche che li compendiano. Del resto la reclusione - quale pena tra le più gravi previste dal sistema (è peraltro ancora prevista, per i reati militari in tempo di guerra, financo la pena di morte) – è concepita per essere applicata a persone fisiche e non già ad “<em>enti</em>” con qualificazione meramente “<em>giuridica</em>”, e dunque non in carne e ossa. In sostanza, la non configurabilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche pare trovare ulteriore, autorevole e definitiva conferma proprio dal testo costituzionale ed in particolare dall’art. 27, comma 1, della Carta che, col dichiarare la responsabilità penale “<em>personale</em>”, ne traduce il contenuto minimo in termini di “<em>responsabilità per fatto proprio</em>” e nel conseguente divieto di ogni forma di “<em>responsabilità penale per fatto altrui</em>”, la “<em>personalità</em>” della responsabilità penale finendo ineluttabilmente col saldarsi alla persona fisica in ragione delle relative potenzialità e qualità intellettive e volitive (quali componenti del dolo, o anche della colpa, in termini di coscienza e volontà della condotta violativa di una regola cautelare), sulla scorta del principio onde “<em>poena debet tenere suos auctores</em>", e non già ricadere su soggetti terzi. <strong>1969</strong> Il 15 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.1835, Zarba, onde, nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente opera con il convincimento di esercitare un proprio diritto, il che è avvertito dalla coscienza sociale come motivo di attenuazione della pena ed importa che i delitti in oggetto vengano considerati dalla legge, nella loro essenza unitaria, come una forma attenuata di danneggiamento, nell’ipotesi di cui all’art. 392 c.p., o di violenza privata, in quella di cui all’art. 393. Si tratta di una affermazione che è in linea con la tendenza a considerare la “ragion fattasi” come reato proprio, potendo imputarsi solo a chi agisca, per l’appunto, con il convincimento di esercitare un proprio diritto. <strong>1985</strong> Il 2 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.8434, Chiacchiera, onde va ammessa la configurabilità dei reati di ragion fattasi anche nei casi in cui il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, a condizione che quest’ultimo non sia animato da finalità proprie. Per il Collegio, più in specie, soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare come nel caso esaminato, in cui l’imputata aveva consumato il delitto esercitando, nella relativa qualità di coniuge, una pretesa di natura reale vantata dal consorte e nell’interesse di questo ultimo. <strong>1987</strong> Il 28 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione, n.8778, Schiera, onde ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 393 c.p., riconosciuto che l’agente può operare anche a vantaggio di un terzo, non è necessario che l’interessato abbia conferito mandato o dato informale incarico al soggetto di operare per suo conto, nè che la ragione vantata sia effettivamente realizzabile in giudizio (palesandosi sufficiente il convincimento della legittimità della pretesa vantata), né è richiesta l’impossibilità per l’interessato di far valere personalmente il proprio diritto. <strong>1988</strong> Il 18 luglio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.8116 alla cui stregua ai fini della configurabilità del delitto di peculato (con singolare veste “<em>collettiva</em>”) il possesso può essere anche mediato e può far capo congiuntamente a più di un pubblico ufficiale, qualora le norme interne dell'ente pubblico prevedano che l'atto dispositivo sia posto in essere con il concorso di più organi. Sicché per il Collegio risponde di peculato e non di truffa il pubblico ufficiale che, avendo insieme con altri il possesso del pubblico danaro, compia la parte dell'atto dispositivo di propria competenza e così consegua attraverso i concorrenti atti di disposizione degli altri compossessori, la disponibilità del danaro. <strong>1989</strong> Il 24 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.10 che premette come la R.a.i. Radiotelevisione Italiana, persona giuridica di diritto privato, si atteggi a società per azioni di interesse nazionale, concessionaria di un pubblico servizio di preminente interesse generale. In quest'ultimo rientrano – precisa il Collegio - non soltanto la gestione, l'esercizio degli impianti e l'attività di diffusione, ma anche l'attività diretta alla predisposizione dei programmi destinati alla trasmissione, escluse le attività commerciali «<em>connesse</em>», le quali non si pongono rispetto al servizio pubblico in rapporto di strumentalità necessaria. Gli amministratori della R.a.i., conclude il Collegio, sono dunque incaricati di pubblico servizio e possono come tali commettere i delitti di peculato o di malversazione secondo la natura giuridica dei fondi oggetto di appropriazione o di distrazione. <strong>1991</strong> Il 5 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8836, Paiano, onde il reato di "<em>ragion fattasi</em>" di cui all’art. 393 c.p. non è escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di <em>negotiorum gestor</em> e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato medesimo. <strong>2001</strong> Il 9 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.14335, Del Pivo, che ribadisce come il reato di "<em>ragion fattasi</em>" di cui all’art. 393 c.p. non sia escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di <em>negotiorum gestor</em> e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato medesimo. Nella fattispecie si tratta di arbitrario esercizio di un diritto del quale è titolare il coniuge del soggetto agente. * * * Il 18 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.15972, Corieri, che ribadisce come il reato di "<em>ragion fattasi</em>" di cui all’art. 393 c.p. non sia escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di <em>negotiorum gestor</em> e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato medesimo. Nella fattispecie, la violenza sulle cose è stata attuata per esercitare il presunto diritto di proprietà di un figlio del soggetto agente. <strong>2008</strong> Il 15 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 35373, Bellebono, che assume – in tema di gioco lecito - la configurabilità del reato di peculato nei confronti del gestore degli apparecchi da gioco che si appropri delle somme destinate al c.d. PREU. Ciò muovendo dalla proprietà pubblica <em>ab origine</em> degli incassi fatti oggetto di appropriazione da parte del gestore ridetto. <strong>2010</strong> Il 5 novembre esce la sentenza della Sezione regionale del Lazio della Corte dei Conti n.2110, che ribadisce come il denaro oggetto di PREU appartenga all'Erario. Per il Collegio, più in specie, «<em>è proprio la gestione in via esclusiva di un'attività propria del soggetto pubblico con attribuzione di poteri pubblici al concessionario ed imposizione di particolari obblighi a determinare la nascita di un soggetto che ha la disponibilità materiale di beni, materie e valori di pertinenza pubblica. Lo stesso denaro raccolto con l'utilizzo di apparecchiature collegate alla rete telematica della P.A. deve ritenersi, quindi, denaro pubblico e ciò, ovviamente, non tanto in ragione della sua provenienza, che è squisitamente privata, ma in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d'azzardo altrimenti vietato. </em> <em>Ed allora, se il privato deve utilizzare l'apposito canale pubblico rappresentato dalle apparecchiature elettroniche collegate alla rete telematica della Pubblica Amministrazione per effettuare la sua giocata, ne consegue che il denaro impiegato diventa denaro pubblico, soggetto alle regole pubbliche di rendicontazione e il cui maneggio genera ex se l'imprescindibile obbligo dell'agente a rendere giudiziale ragione della gestione attraverso un documento contabile che dia contezza della stessa e delle sue risultanze</em>». Nell'ambito di tale sistema pertanto, prosegue la Corte, i concessionari gestiscono l'attività di gioco nell'ambito di un continuo controllo realizzato per il tramite del collegamento alla rete telematica dei singoli apparecchi. Proprio tale «<em>sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica</em>». La tesi secondo cui il denaro provento delle giocate è di immediata appartenenza pubblica non è contraddetta neppure dal particolare regime fiscale adottato dal legislatore, lì dove il PREU viene qualificato quale prelievo di natura tributaria (come riconosciuto anche da Corte cost., n.334 del 2006) ed il concessionario è indicato quale soggetto passivo di imposta. Secondo le Sezioni unite civili infatti, rammenta la Corte, la natura tributaria del PREU non esclude la «<em>funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell'attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell'attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse</em>». Sulla base di tali argomentazioni le Sezioni unite civili ritengono che il denaro provento delle giocate, a prescindere dalla specifica destinazione <em>pro quota</em> dello stesso, è di «<em>diretta appartenenza pubblica</em>». <strong>2013</strong> *Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 18909, Torregrossa, che ribadisce – in tema di gioco lecito - la configurabilità del reato di peculato nei confronti del gestore degli apparecchi da gioco che si appropri delle somme destinate al c.d. PREU. Ciò muovendo dalla proprietà pubblica <em>ab origine</em> degli incassi fatti oggetto di appropriazione da parte del gestore ridetto. * * * Il 29 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.23322, Anzalone, per la quale soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose può essere anche chi esercita il preteso diritto pur non avendone la titolarità, in quanto, ai fini della configurabilità del ridetto delitto, rileva che l’agente si comporti come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà. Il principio viene affermato dalla Corte con riferimento ad un caso nel quale l’imputato, al fine di assicurare la somministrazione di energia elettrica al fondo del padre, ha collocato nel fondo di un vicino dei pali perché l’Enel possa esercitare la servitù di elettrodotto. <strong>2014</strong> Il 18 settembre esce la sentenza della I sezione di Appello della Corte dei Conti n.1086, che si pone in linea con la consolidata giurisprudenza del giudice contabile, nella relativa veste di giudice competente ad esercitare il controllo sui concessionari in virtù della loro qualificazione quali "<em>agenti contabili</em>". Il problema sottoposto al Collegio investe l'esatta qualificazione del PREU come un'entrata erariale qualificabile come tale <em>ab origine</em>, piuttosto che come un ordinario tributo rispetto al quale il concessionario non poteva assumere il ruolo di agente contabile, ma solo quello di soggetto passivo d'imposta. La Corte afferma in proposito testualmente che: «<em>la società appellata è concessionaria dell'Amministrazione Autonoma dei Monopoli dello Stato per l'attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito. </em> <em>Essa assicura, perciò, che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale. La società - inoltre - contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento. </em> <em>Tanto precisato, essa riveste la qualifica di agente della riscossione (agente contabile), tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario</em>». Quanto poi alla presunta incompatibilità tra la qualifica di agente contabile, derivante dalla riscossione di denaro pubblico, rispetto alla disciplina tributaria del PREU, per il Collegio «<em>la sottoposizione del concessionario al prelievo erariale unico (PREU) non incide sulla sua natura di agente contabile, stante che tale prelievo è solo la modalità con cui l'Amministrazione ottiene il versamento da parte del concessionario di somme dovute da calcolarsi, però, su conti da rendersi da chi rivesta la qualifica di contabile, per avere maneggio delle somme di denaro su cui anche il PREU deve calcolarsi</em>». <strong>2016</strong> Il 3 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.46288, Musa, che si colloca nel solco dell’orientamento dominante nella giurisprudenza della Corte onde, premesso che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p. unicamente da "<em>chiunque... si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo</em>", quest’ultima espressione non può che indurre a ritenere che i predetti reati rientrino tra i cc.dd. reati propri esclusivi, o di mano propria, che si caratterizzano in quanto richiedono che la condotta tipica debba essere posta in essere dal soggetto "<em>qualificato</em>", ovvero, nel caso di specie, dal presunto creditore. Di conseguenza, per il Collegio quando la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. sia posta in essere da un soggetto diverso dal creditore, ovvero estraneo al rapporto obbligatorio che fonderebbe la pretesa azionata, non potrebbe ritenersi integrato l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L’assunto è corroborato per la Corte dalla particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posti a tutela anche dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può - in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione "<em>da sé medesimo</em>", non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia. <strong>2017</strong> Il 30 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.31725, onde si configura il reato di cui all’art. 393 c.p. con riferimento ad una fattispecie nella quale l’imputato (un avvocato nell’esercizio del proprio mandato professionale) abbia inviato una missiva con richieste di rilevanti somme di denaro per chiudere la controversia, minacciando altrimenti denunce che condurrebbero all’emissione di provvedimenti applicativi di misure cautelari nei confronti della controparte e del relativo difensore. Il Collegio osserva che "<em>il professionista che agisca nell’interesse di un cliente non può considerarsi "estraneo" alla contesa che opponga il proprio patrocinato ad un terzo</em> (...): <em>l’avvocato è una parte tecnica che si affianca alla parte sostanziale della contesa, nella conclusiva unitarietà di una parte complessa</em>". Proprio il discorrere di una parte complessa (parte sostanziale + avvocato difensore) ribadisce la natura di reato proprio esclusivo della ragion fattasi, che non può che essere commessa, per l’appunto, dalla “<em>parte</em>” (semplice o, per l’appunto, complessa) che vanta il diritto arbitrariamente esercitato. * * * Il 25 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.49070, Corsino, che si inserisce nel solco giurisprudenziale incline a riconoscere la natura pubblica delle somme raccolte da privati abilitati allo svolgimento di svariate tipologie di giochi autorizzati. Il Collegio qualifica il concessionario della gestione della rete telematica come "<em>agente contabile</em>" «<em>atteso che il denaro che riscuote è fin da subito di spettanza della P.A</em>.» come risulta dal decreto 12 marzo 2004 del Ministero dell'Economia e delle Finanze che dispone che il concessionario «<em>contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatagli, il prelievo erariale unico ed esegue il versamento del prelievo stesso, con modalità definite con decreto di AAMS</em>». Per la Corte, più in specie, «<em>riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il sub- concessionario per la gestione dei giochi telematici, trattandosi di un soggetto che, in virtù di una facoltà riconosciuta al concessionario dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), è investito contrattualmente dell'esercizio dell'attività di agente contabile addetto alla riscossione ed al successivo versamento del prelievo erariale unico sulle giocate previsto dall'art. 2, lett. g), del d.m. 12 marzo 2004</em>». La Corte argomenta che il concessionario, nel delegare le proprie attività al "<em>subconcessionario</em>", ancorché utilizzi lo schema del contratto di diritto privato, comunque «<em>demanda ad altro soggetto l'esercizio dell'attività di agente contabile</em>». Logico corollario di tale impostazione è che la condotta del gestore che si impossessa degli incassi delle giocate, omettendo di versarli al concessionario, integra il peculato ex art. 314 cod. pen. Una decisione cha assume dunque ricorrere, sostanzialmente, lo stesso schema del concessionario dell'attività di raccolta del gioco del lotto, la cui condotta di appropriazione delle giocate è qualificata in giurisprudenza come peculato. <strong>2018</strong> Il 14 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.21318, Poggianti, che – in tema di gioco lecito, ed andando in contrario avviso rispetto alla giurisprudenza dominante <em>ratione materiae</em> – si pronuncia in un caso in cui il gestore degli apparecchi ha utilizzato un espediente tecnico tale da impedire la comunicazione dei dati delle giocate all'Amministrazione, in tal modo nascondendo l'incasso indebito di somme non contabilizzate. La sentenza assume come la normativa positiva disciplini il PREU quale debito tributario, affermando per conseguenza che le somme materialmente prelevate dagli apparecchi da gioco sono in possesso del gestore del gioco il quale è tenuto al pagamento del PREU quale soggetto passivo d'imposta, sulla base di un'analitica valutazione di tutte le disposizioni rilevanti di tale normativa che consentono di qualificare il PREU quale imposta «<em>il denaro incassato all'atto della puntata, e a causa di questa, deve ritenersi non immediatamente di proprietà, pro quota, dell'erario (all'epoca dei fatti in misura pari al 12% degli introiti), bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all'importo da versare a titolo di prelievo unico erariale.</em> <em>Questo perché la giocata genera un ricavo di impresa sul quale è calcolato l'importo che la società deve corrispondere a titolo di debito tributario; quindi, l'impresa che gestisce il congegno da gioco non incassa neppure in parte denaro già in quel momento dell'erario, e, di conseguenza, quando non corrisponde le somme dovute a titolo di prelievo erariale unico, non si appropria di una cosa altrui, ma omette di versare denaro proprio all'Amministrazione finanziaria in adempimento di un'obbligazione tributaria</em>». Il Collegio giunge a tale conclusione sulla base dell'esegesi del d.l. 24 novembre 2003, n.326 da cui desume che: - il soggetto passivo di imposta non è individuato nel giocatore, ma nei concessionari della rete (art.39, commi 13 e 13-bis), con i quali i terzi incaricati della raccolta (i cd. gestori) sono solidamente responsabili (art.39-sexies); - l'unità temporale di riferimento per il calcolo finale del PREU è riferita all'anno solare (art.39, comma 13-bis), mediante un versamento finale a saldo dei versamenti periodici;- il PREU è dovuto su tutte le somme giocate tramite apparecchi e congegni che erogano vincite in denaro, anche se questi siano esercitati al di fuori di qualunque autorizzazione e non siano collegati alla rete telematica (art.39- <em>quater</em>). Per la Corte dunque la specifica disciplina, dettata per la categoria di apparecchi da gioco in esame, consentirebbe di affermare che il soggetto passivo dell'imposta non è il giocatore, bensì il concessionario ed il terzo incaricato della raccolta, sicché, ove il denaro non venga riversato all'AAMS (oggi ADM), non si configurerebbe l'appropriazione di somme già appartenenti all'erario, bensì un tipico caso di omesso versamento di un tributo (nel caso di specie il PREU). Corollario di tale affermazione è che il denaro raccolto mediante le giocate altro non è che il ricavo di un'attività commerciale, che a prescindere dal fatto che sia svolta in forma lecita o illecita, genera in ogni caso l'insorgere dell'obbligazione tributaria. * * * Il 10 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 15860, Cilli, che assume – in materia di gioco lecito - corretta la contestazione in sede cautelare di peculato all’imputato a fronte della condotta appropriativa del PREU e del canone di concessione, siccome posta in essere dal gestore che non abbia versato la raccolta del gioco esercitato con i noti apparecchi; la configurabilità del reato non è difatti esclusa, per il Collegio, dall'eventuale esistenza di contestazioni tra il gestore ed il concessionario circa le somme da riversare all'Erario. La Corte precisato inoltre che la sussistenza del reato in capo al gestore non è neppure esclusa per effetto dell'adempimento dell'obbligo fiscale da parte del concessionario. <strong>2019</strong> Il 29 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 14697 che – in tema di gioco lecito – assume espressamente la natura pubblica di tutti gli incassi degli apparecchi da gioco proprio in considerazione della funzione del collegamento diretto del sistema centrale dell'Amministrazione rispetto ai singoli apparecchi da gioco e hanno affermato che questo «<em>sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica</em>». Le Sezioni Unite escludono in particolare che vi sia contrasto tra l'essere il concessionario soggetto passivo d'imposta rispetto al PREU e l'essere gli incassi del gioco di proprietà pubblica: il regime fiscale previsto dal legislatore non incide sull'obbligo del concessionario di assicurare, mediante, la conduzione operativa della rete telematica, la contabilizzazione delle somme giocate, delle vincite e del P.R.E.U. La natura tributaria dell'imposta (Corte cost. 334 del 2006) e la qualificazione del concessionario come soggetto passivo d'imposta (ex art. 1, comma 81 della legge n. 296 del 2006) operano – chiarisce la Corte - limitatamente al rapporto di natura tributaria, senza incidere sulla funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell'attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell'attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse. <strong>2020</strong> Il 5 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.4937, Defraia, che ribadisce come il denaro delle giocate lecite sia fin da subito di spettanza della P.A. («<em>il denaro versato dai giocatori diviene 'pecunia publica' non appena entra in possesso del soggetto incaricato di raccogliere tale denaro</em>»). Il Collegio considera in proposito come la natura privatistica del contratto con cui il concessionario "<em>demanda</em>" ad altro soggetto l'esercizio dell'attività di agente contabile non esclude la qualifica di incaricato di pubblico servizio del sub-concessionario/gestore. Il contratto, difatti, regola comunque l'esercizio di servizi pubblici, in quanto il gestore viene investito della partecipazione all'attività di agente contabile quale «<em>addetto alla riscossione ed al successivo versamento del "prelievo erariale unico" sulle giocate, previsto dall'art. 2 lett. g) del D.M. 12 marzo 2004, poiché il servizio del gioco è riservato allo Stato</em>». In definitiva, la Corte esclude che l'attività del gestore possa ridursi alla semplice fornitura/assistenza delle macchine e che la relativa attività di raccolta degli incassi delle giocate possa essere qualificata come semplice attività materiale. * * * Il 23 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.29541 in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che ne predica la natura di reato proprio non esclusivo, fissando importanti principi nella pertinente materia, anche in rapporto alla diversa fattispecie di estorsione, che è invece un reato comune, e di concorso nelle due figure criminose. Il Collegio rammenta come il ricorso sia stato rimesso a queste Sezioni Unite in ordine alle seguenti questioni di diritto: se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi, come debba essere accertato tale elemento; se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile. L’ordinanza di rimessione – rammentano le SSUU - ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 629 e 393 c.p., peraltro circoscritto soltanto ai casi "<em>in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria</em>", tra i quali rientrerebbe quello in esame, ritenendo pacificamente configurabili come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela; sarebbero, in proposito, emersi due macro-orientamenti: (a) il primo distingue i predetti reati valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo della materialità; (b) l’altro li distingue valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo dell’elemento psicologico. Nell’ambito di quest’ultimo orientamento, chiosa ancora la Corte, alcune decisioni valorizzano come elemento distintivo soltanto la direzione della volontà dell’agente alla soddisfazione del credito, altre ritengono che le modalità della condotta, e dunque l’intensità della violenza e della minaccia, rilevino ai fini della prova del dolo dell’estorsione. Entrambi gli orientamenti presuppongono l’esistenza di un concorso apparente di norme e, dunque, di un reato "<em>con capacità assorbente</em>", senza prendere in esame la possibilità del concorso formale tra i reati, che potrebbe trovare plausibile legittimazione, secondo l’ordinanza di rimessione, "<em>nella diversa collocazione sistematica delle norme che prevedono i reati di estorsione e di esercizio arbitrario e nella diversità dei beni giuridici tutelati</em>". Inoltre, considerato che, nel caso di specie, la minaccia estorsiva sarebbe stata profferita dal creditore G. , confermata dal F. (terzo estraneo) e ribadita dal P. (anch’egli terzo estraneo), la Seconda sezione – prosegue il Collegio - ha rilevato l’esistenza di un ulteriore contrasto giurisprudenziale, riguardante la configurabilità del concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.), che l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità colloca tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, con la conseguenza che, se la condotta tipica sia posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, agente su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie; nei casi in cui la condotta tipica sia invece posta in essere da chi intenda "<em>farsi ragione da sé medesimo</em>" sarebbe, al contrario, configurabile il concorso ("<em>per agevolazione</em>", od anche "<em>morale</em>") dei terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Questo orientamento, che "<em>indirizza chiaramente verso la qualificazione del fatto come estorsione ogni volta che la condotta violenta sia posta in essere da un terzo, sebbene su mandato del titolare del diritto che si intende soddisfare</em>", non è condiviso dal collegio rimettente, essenzialmente perché l’art. 393 c.p. (come d’altro canto l’art. 392 stesso codice) indica il soggetto attivo del reato con il termine "<em>chiunque</em>", e ciò indicherebbe "<em>che ci si trov</em>(i) <em>al cospetto di un "</em>reato comune<em>", come risulta confermato dal fatto che gli elementi costitutivi del reato (pretesa giuridicamente tutelabile in sede giudiziaria; violenza o minaccia) non riguardano, nè richiamano la qualifica o la qualità del soggetto agente</em>". Per ragioni di ordine logico, chiosa a questo punto la Corte, è opportuno esaminare per prima la questione controversa riguardante l’individuazione del soggetto attivo dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La dottrina ha osservato in proposito che il reato proprio "<em>trova la propria genesi storica e ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità</em>" e si caratterizza perché il soggetto che ha una particolare qualifica acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la relativa qualifica, alternativamente: - lo pone in rapporto col bene protetto, consentendogli di arrecarvi l’offesa incriminata; - gli conferisce la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata; - rende opportuna l’incriminazione di fatti altrimenti non ritenuti meritevoli di pena; - limita la meritevolezza di un trattamento sanzionatorio di favore (come accade in favore della sola madre in relazione al reato d’infanticidio). Esso non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) se ed in quanto trovi ragionevole giustificazione nella tutela di interessi tali da legittimare, a seconda dei casi, il trattamento deteriore o di favore. L’incriminazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni risponde ad una esigenza istintivamente avvertita dalle coscienze dei popoli sin dai primordi del diritto penale: il diritto romano incriminava l’impossessamento delle cose del proprio debitore contro la volontà di quest’ultimo e la sottrazione violenta della propria <em>res</em> posseduta da terzi; il diritto intermedio puniva, in linea di principio, l’impossessamento violento della cosa propria posseduta, anche se illegittimamente, da terzi e l’uso delle armi per farsi giustizia, pur tollerando talora l’impiego delle armi per la rivendicazione dei propri diritti. Si trattava peraltro, precisa la Corte, di fattispecie non paragonabili al tipo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni inteso nel senso moderno. Il precedente immediato degli artt. 392 e 393 c.p. è costituito dall’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, a propria volta promanante dall’art. 146 del codice toscano del 1853 e dall’art. 286 e segg. del codice penale sardo-italiano del 1859. Con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle cose oppure alle persone), riprende a questo punto il Collegio, la dottrina è divisa. La dottrina tradizionale qualificava i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati comuni, che potevano essere commessi da "<em>chiunque</em>" agisse come privato (e non come pubblico ufficiale et c.) e non avesse il possesso della <em>res</em> oggetto di contesa, e precisava che "<em>insieme con colui che agisce per esercitare un preteso diritto possono concorrere persone che non abbiano alcun preteso diritto da far valere. Costoro, nondimeno, rispondono dello stesso titolo delittuoso, in base alle norme generali sulla compartecipazione criminosa</em>". Parte minoritaria della dottrina più recente ha ribadito l’orientamento, essenzialmente valorizzando il termine "<em>chiunque</em>" con il quale gli artt. 392 e 393 c.p. indicano il soggetto attivo dei predetti reati; analoga argomentazione è posta dall’ordinanza di rimessione a fondamento del manifestato convincimento che i reati in oggetto siano "<em>comuni</em>" e <em>non propri</em>". L’orientamento senz’altro dominante in seno alla dottrina più recente ritiene al contrario, precisano le SSUU, che i reati in oggetto abbiano natura di reato proprio, potendo essere commessi unicamente dal titolare del preteso diritto, dal soggetto che eserciti legittimamente in relativa vece il predetto diritto e dal <em>negotiorum gestor</em>; si è, talora, precisato che il terzo non titolare del preteso diritto che ne reclami arbitrariamente soddisfazione deve avere un particolare legame con il creditore ed essere assolutamente privo di un interesse proprio. Le prime decisioni giurisprudenziali intervenute in argomento (Cass. 25 luglio 1934, Landinia, Giust. pen., 1935, II, 799; Cass. 17 giugno 1936, Rainieri, Giust. pen., 1936, II, 1068) avevano ritenuto – rammenta la Corte - che "<em>il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è configurabile anche se il soggetto attivo abbia usato violenza per esercitare una pretesa giuridica accampata da altri, se ciò sia, però, avvenuto in nome e vece del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti, e nell’interesse esclusivo di lui</em>". Questo orientamento, che richiede sempre e comunque il coinvolgimento nel reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. del soggetto "qualificato", ovvero il titolare del preteso diritto azionato, è stato in seguito costantemente ribadito. È stata ammessa la configurabilità dei reati in oggetto anche nei casi in cui il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, a condizione che quest’ultimo non sia animato da finalità proprie: in particolare, Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985, Chiacchiera, Rv. 170533 riconobbe che soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare (nel caso esaminato, l’imputata aveva consumato il delitto esercitando, nella sua qualità di coniuge, una pretesa di natura reale vantata dal consorte e nell’interesse di questo ultimo); Ancora, proseguono le SSUU, secondo Sez. 2, n. 8778 del 09/04/1987, Schiera, Rv. 176469, "ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 393 c.p., riconosciuto che l’agente può operare anche a vantaggio di un terzo, non è necessario che l’interessato abbia conferito mandato o dato informale incarico al soggetto di operare per suo conto, nè che la ragione vantata sia effettivamente realizzabile in giudizio (è sufficiente, infatti, il convincimento della legittimità della pretesa), nè è richiesta l’impossibilità per l’interessato di far valere personalmente il proprio diritto"; Nel medesimo senso, prosegue la Corte si è anche ritenuto che il reato di "<em>ragion fattasi</em>" di cui all’art. 393 c.p. non è escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di negotiorum gestor e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; conformi, Sez. 6, n. 14335 del 16/03/2001, Federici, Rv. 218728: fattispecie relativa all’arbitrario esercizio di un diritto del quale era titolare il coniuge del soggetto agente; Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, Rv. 218668; Sez. 6, n. 1257 del 03/11/2003, dep. 2004, Paoli, Rv. 228415: fattispecie in cui la violenza sulle cose era stata attuata per esercitare il presunto diritto di proprietà di un figlio dell’agente). L’orientamento è stato più recentemente ribadito da Sez. 6, n. 23322 del 08/03/2013, Anzalone, Rv. 256623, per la quale "soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose può essere anche chi esercita il preteso diritto pur non avendone la titolarità, in quanto, ai fini della configurabilità del delitto, rileva che l’agente si comporti come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà" (principio affermato con riferimento ad un caso nel quale l’imputato, al fine di assicurare la somministrazione di energia elettrica al fondo del padre, aveva collocato nel fondo di un vicino dei pali perché l’Enel potesse esercitare la servitù di elettrodotto). Le Sezioni Unite ritengono a questo punto di poter affermare che i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni abbiano natura giuridica di reati propri. La dottrina – riprende il Collegio - è pressoché concorde nel ritenere che attraverso l’incriminazione dei fatti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è stato perseguito "<em>lo scopo di impedire la violenta sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari</em>", onde evitare "<em>che il privato si faccia ragione con le proprie mani, compromettendo la pubblica pace</em>"; coerentemente con tale <em>ratio</em> dell’incriminazione, "<em>l’oggetto della tutela è stato ravvisato in un interesse pubblico, e precisamente nell’interesse dell’Autorità giudiziaria all’esercizio esclusivo dei suoi poteri</em>", e le relative norme incriminatrici sono state collocate nel titolo del codice penale relativo ai delitti contro l’amministrazione della giustizia. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assume dunque rilevanza penale se commesso con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone. Come pure evidenziato dalla dottrina, e come già emerso in seno alla giurisprudenza della Corte (Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, in motivazione), nel reato previsto dall’art. 392 c.p. ricorrono sempre o quasi gli estremi del fatto di danneggiamento (art. 635 c.p.), mentre in quello previsto dal successivo art. 393 sono configurabili in ogni caso gli estremi del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.): l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è, tuttavia, punito meno gravemente dei delitti che in esso sono necessariamente contenuti (salvo che nel caso del danneggiamento non aggravato, trasformato in illecito civile dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 4, comma 1), nonostante il fatto che, rispetto al danneggiamento previsto dal testo attualmente vigente dell’art. 635 c.p. ed alla violenza privata, in esso, alla lesione, rispettivamente, del patrimonio o della persona, si aggiunga l’offesa dell’interesse all’amministrazione della giustizia. Inoltre, proseguono le SSUU, nonostante comporti anche la lesione di un interesse pubblico, esso è perseguibile non d’ufficio, ma a querela di parte, il che comporta che il danneggiamento e la violenza privata, ordinariamente procedibili d’ufficio, quando ledono una prerogativa dell’Autorità giudiziaria, oltre ad essere puniti meno gravemente, diventano procedibili a querela di parte. Può pertanto convenirsi per la Corte con la dottrina nel senso onde tale disciplina trova l’unica plausibile giustificazione nella considerazione che "<em>il fatto di agire col convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come un motivo di attenuazione della pena</em>"; in proposito, un pur risalente precedente della Corte medesima (Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113341) aveva osservato che, nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente opera con il convincimento di esercitare un proprio diritto, il che è avvertito dalla coscienza sociale come motivo di attenuazione della pena ed importa che i delitti in oggetto vengano considerati dalla legge, nella loro essenza unitaria, come una forma attenuata di danneggiamento, nell’ipotesi di cui all’art. 392 c.p., o di violenza privata, in quella di cui all’art. 393. La medesima ratio può ritenersi suscettibile anche di affievolire l’interesse statale all’esercizio della pretesa punitiva, destinato ad insorgere soltanto a seguito della tempestiva iniziativa del presunto debitore/querelante. I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano quindi, conclude sul punto la Corte, per il fatto che il soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe "<em>ricorrere al giudice</em>", acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la relativa qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima. Non costituisce apprezzabile ostacolo alla qualificazione dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri, prosegue poi la Corte, l’indicazione, negli artt. 392 e 393 c.p., del soggetto attivo come "<em>chiunque</em>", al contrario <em>sic et simpliciter</em> valorizzata da parte minoritaria della dottrina più recente e dalla stessa ordinanza di rimessione. Per confutare l’assunto appare sufficiente ricordare che in numerosi reati pacificamente "<em>propri</em>", il soggetto attivo è normativamente indicato in "<em>chiunque</em>": si pensi, per tutti, alla falsa testimonianza (art. 372 c.p.) ed addirittura all’incesto (art. 564 c.p.). Il "<em>chiunque</em>" indicato dagli artt. 392 e 393 c.p. è dunque, per il Collegio, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto. Su altro crinale, rappresenta la Corte, secondo il tradizionale e consolidato insegnamento della giurisprudenza civile, l’istituto della <em>negotiorum gestio</em>, previsto e disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., postula lo svolgimento di un’attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento dell’esclusivo interesse di un altro soggetto, caratterizzato dall’assoluta spontaneità dell’intervento del gestore, e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del quale egli sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Sez. 3, n. 23823 del 22/12/2004, Rv. 579141; Sez. 1, n. 16888 del 24/07/2006, Rv. 591617). Sempre sotto il profilo civilistico, la legittimazione ad esercitare nel processo un diritto altrui è eccezionale (cfr. art. 81 c.p.c., a norma del quale, "<em>Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui</em>"). Nella giurisprudenza penale di legittimità – chiarisce a questo punto il Collegio - è talora emersa la preoccupazione che, legittimando incondizionatamente il terzo ad attivarsi in luogo del reale creditore, il debitore/vittima possa trovarsi esposto a danni ulteriori rispetto a quelli connaturali alle fattispecie di reato tipiche, perché "<em>costretto a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio</em>" (Sez. 5, n. 5193 del 27/02/1998, P.G., Lentini ed altri, Rv. 211492), potendo in tali casi ingenerarsi una situazione "<em>che non avrebbe permesso alla vittima di ottenere garanzie dell’estinzione del proprio debito con il versamento sollecitato</em>" (Sez. 6, n. 41329 del 19/10/2011, Di Salvatore, n. m., in motivazione). Tutto ciò premesso, osserva il Collegio che la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (a seconda dei casi, con violenza sulle cose oppure con violenza o minaccia alle persone) delle condotte poste in essere <em>sponte</em> da terzi non appartenenti al nucleo familiare del creditore (coniuge, figlio, genitore, come emerso nella casistica giurisprudenziale innanzi riepilogata), che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d’intesa con il creditore, comporterebbe l’immotivata applicazione del previsto regime <em>favorable</em>, che trova giustificazione, anche quanto al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo (il creditore ricorrendo al giudice civile, il debitore sporgendo querela). Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo all’iniziativa del terzo <em>negotiorum gestor</em>, non potrà quindi per le SSUU essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma ricorreranno quanto meno (e salvo quello che si osserverà in seguito con riguardo ai rapporti tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione) gli estremi dei corrispondenti reati comuni (danneggiamento o violenza privata). Una volta affermata la natura di reato proprio dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, va affrontata per il Collegio la questione accessoria e consequenziale, ovvero se si tratti, o meno, di un reato proprio esclusivo, o di mano propria. L’orientamento attualmente dominante nella giurisprudenza della Corte, premesso che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p. unicamente da "<em>chiunque... si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo</em>", ritiene che quest’ultima espressione induca a ritenere che i predetti reati rientrino tra i cc.dd. reati propri esclusivi, o di mano propria, che si caratterizzano in quanto richiedono che la condotta tipica debba essere posta in essere dal soggetto "<em>qualificato</em>", ovvero, nel caso di specie, dal presunto creditore: di conseguenza, quando la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. sia posta in essere da un soggetto diverso dal creditore, ovvero estraneo al rapporto obbligatorio che fonderebbe la pretesa azionata, non potrebbe ritenersi integrato l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L’assunto sarebbe corroborato dalla particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posti a tutela anche dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può - in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione "<em>da sé medesimo</em>", non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; nel medesimo senso, pur implicitamente, Sez. 5, n. 5241 del 20/06/2014, D’Ambrosio, Rv. 261381; Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco, Rv. 268630; Sez. 2, n. 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285). All’orientamento – prosegue la Corte - mostrano di aderire anche Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016, Arcidiacono, n. m., e Sez. 2, n. 31725 del 05/04/2017, P.M. in proc. Arnone, Rv. 271760, che ha configurato il reato di cui all’art. 393 c.p. con riferimento ad una fattispecie nella quale l’imputato (un avvocato nell’esercizio del proprio mandato professionale) aveva inviato una missiva con richieste di rilevanti somme di denaro per chiudere la controversia, minacciando altrimenti denunce che avrebbero portato l’emissione di provvedimenti applicativi di misure cautelari nei confronti della controparte e del relativo difensore, osservando che "<em>il professionista che agisca nell’interesse di un cliente non può considerarsi "estraneo" alla contesa che opponga il proprio patrocinato ad un terzo</em> (...): <em>l’avvocato è una parte tecnica che si affianca alla parte sostanziale della contesa, nella conclusiva unitarietà di una parte complessa</em>". Il riferimento al farsi ragione "<em>da sé medesimo</em>", chiarisce a questo punto il Collegio, mai valorizzato dalla giurisprudenza tradizionale, è stato generalmente interpretato dalla dottrina come pleonastico. Secondo la dottrina tradizionale, l’espressione "<em>farsi ragione da sé medesimo</em>" significa unicamente "<em>realizzare con le proprie forze quella pretesa che l’agente ritiene giusta in sé: per rendersi, insomma, giustizia da sé stesso</em>"; essa evocherebbe, quindi, "<em>null’altro che la realizzazione dello scopo (di regola economico) al cui soddisfacimento è preordinato il diritto che si vanta</em>". Nell’ambito della dottrina più recente, si è ritenuto che l’espressione integri la materialità dei reati in oggetto, evocando o l’arbitraria realizzazione di una situazione di fatto corrispondente al preteso diritto, oppure l’impiego della forza privata per realizzare la pretesa; talora essa è stata interpretata in duplice accezione, "<em>in un’ottica oggettivistica non è niente altro che il momento realizzativo dello scopo economico del diritto esercitato; in chiave soggettivistica l’autosoddisfazione è invece la affermazione unilaterale ed autoritaria di una situazione attualmente o potenzialmente favorevole al reo, tale da mostrarsi soltanto "</em>congrua<em>" rispetto al diritto al fine dell’esercizio del quale essa è realizzata</em>". L’orientamento che considera i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri esclusivi, o di mano propria, rappresenta a questo punto la Corte, non può essere condiviso. Il riferimento, per integrare la descrizione della fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, alla necessità che il soggetto che vanta il preteso diritto si faccia ragione "<em>da sé medesimo</em>", già esistente nell’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, è stato mutuato dall’art. 146 del codice toscano del 1853, in relazione al quale esso era stato pacificamente interpretato dalla dottrina come meramente descrittivo: "<em>quando chi crede di avere una pretesa giuridica sostituisce la sua forza al potere del giudice, si fa ragione da sé medesimo. Perciò i giureconsulti toscani denominarono l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ragion fattasi</em>". I lavori preparatori del codice penale del 1889 non attribuiscono all’espressione un diverso significato: i verbali della Commissione istituita con R.D. 13 dicembre 1888 (cfr. intervento del relatore Auriti) confermano, anzi, che l’espressione "<em>da sé medesimo</em>" esprime unicamente "<em>la surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità, in che il reato consiste</em>". I lavori preparatori del codice penale del 1930 sono, sul punto, assolutamente silenti. Tali rilievi - che pure consentono di confermare il significato meramente pleonastico tradizionalmente attribuito all’espressione in oggetto, mai messo in discussione, unitamente alla genericità di essa di per sé considerata - non consentono tuttavia per le SSUU anche di avvalorare l’orientamento che la valorizza per argomentare la natura giuridica di reati propri esclusivi, o di mano propria, dei reati <em>de quibus</em>. Fatte queste premesse, e negata alla “<em>ragion fattasi</em>” la natura di reato proprio “<em>esclusivo</em>”, con possibilità dunque che possa anche commetterlo un <em>extraneus</em>, vanno a questo punto esaminati per la Corte i rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione. Sin da epoca risalente, le SSUU rammentano come la propria giurisprudenza abbia ritenuto che il criterio differenziale tra i delitti di cui agli artt. 629 e 393 c.p. consista nell’elemento intenzionale, in quanto nel primo l’intenzione dell’agente è di procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo il reo agisce per conseguire un’utilità che ritiene spettargli, nonostante che il relativo diritto sia contestato o contestabile, senza adire l’Autorità giudiziaria (Cass. 21 gennaio 1941, Clocchiatti, Giust. pen., 1941, II, 810, 1078; Cass. 27 marzo 1950, Paoli, Riv. pen., 1950, 679). Ponendosi sulla scia di questo pur risalente insegnamento, in epoca successiva l’orientamento prevalente della Corte ha distinto i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un proprio diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto (Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018, Iannuzzi, Rv. 274256; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285; Sez. 2, n. 1901 del 20/12/2016, dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 268770; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Stradi, Rv. 265214; Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015, Bonaccorso, Rv. 265190; Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015, Capuozzo, Rv. 265410; Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106; Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Conte, Rv. 260474; Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014, Comite, Rv. 259966; Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831; Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344; Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375; Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013, dep. 2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012, Di Vuono, Rv. 253192; Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Olmastroni, Rv. 247228; Sez. 2, n. 9121 del 19/04/1996, Platania, Rv. 206204; Sez. 2, n. 6445 del 14/02/1989, Stanovich, Rv. 181179; Sez. 2, n. 5589 del 12/11/1982, dep. 1983, Rossetti, Rv. 159513). Nell’ambito di questo orientamento, proseguono le SSUU, va anche collocata Sez. 6, n. 58087 del 13/09/2017, Di Lauro, Rv. 271963, per la quale il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione si distingue da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, posto in essere in concorso con il sequestro di persona, non già in base alla intensità della violenza che connota la condotta, bensì in ragione del fine perseguito dal suo autore che, nel primo caso, è volta al conseguimento di un profitto ingiusto, e, nell’altro, alla realizzazione, con modi arbitrari, di una pretesa giuridicamente azionabile: in tal caso, infatti, l’ingiusto profitto sussiste sia nel caso in cui il vantaggio ricercato dal reo coincida con il prezzo della liberazione, sia nel caso in cui detto vantaggio derivi dall’esecuzione di un pregresso rapporto illecito con la vittima del reato, trattandosi di una pretesa non tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria. Altro orientamento – proseguono le SSUU - ha, al contrario, valorizzato, ai fini della distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all’art. 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma risulta strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza: di conseguenza, quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza intimidatoria e sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume <em>ex se</em> i caratteri dell’ingiustizia ed, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, di per sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità in cui essa risulti formulata denotino una prava volontà ricattatoria che le facciano assumere connotazioni estorsive (Sez. 5, n. 35563 del 15/07/2019, Russo, Rv. 277316; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425; Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017, P.M. in proc. Maisto, Rv. 270024; Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643; Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316; Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320; Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255; Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, P.G. in proc. Caruso, Rv. 262291; Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, Palazzotto, Rv. 256249; Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882; Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248736; Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv. 248169; Sez. 2, n. 35610 del 27/06/2007, Della Rocca, Rv. 237992; Sez. 2, n. 14440 del 15/02/2007, Mezzanzanica, Rv. 236457; Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004, Caldara, Rv. 230709; Sez. 1, n. 10336 del 02/12/2003, dep. 2004, Preziosi, Rv. 228156). Nell’ambito di questo orientamento, riprende il Collegio, è enucleabile un sotto-orientamento, ampiamente illustrato nell’ordinanza di rimessione, a parere del quale il delitto di estorsione sarebbe configurabile quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della relativa capacità volitiva; sarebbe, invece, configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che abbiano un epilogo "<em>non costrittivo</em>", ma "<em>più blandamente persuasivo</em>" (così, più o meno pedissequamente, Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469; Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837). In dottrina, rammenta ancora la Corte, può senza dubbio definirsi unanime il convincimento che i due reati in oggetto si distinguano in relazione al fine perseguito dall’agente. Le dottrine tradizionali avevano affermato che, nel caso in cui l’agente "<em>non agì per trarre ingiusto profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, ma per uno scopo diverso, potrà ricorrere il titolo di</em> (..) <em>esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o altro; ma non quello di estorsione</em>", precisando che "<em>spesso però l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto</em> (...), <em>non è che un pretesto per larvare l’estorsione</em>", ed ammonendo i giudici quanto all’opportunità di adoperare "<em>molta cautela nell’accertare il vero scopo dell’agente</em>"; naturalmente, "<em>pur mirando l’agente anche a conseguire il profitto relativo a un preteso diritto esistente o supposto, la estorsione sussist</em>(e) <em>quando egli chieda più di ciò che tale diritto comporta</em>"; si ammetteva che l’estorsione presentasse tratti comuni con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, "<em>ma a stabilirne la diversità basta l’elemento psicologico, che nel secondo consiste nel fine di esercitare un preteso diritto, quando si abbia la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria</em>". Altra dottrina ha successivamente ritenuto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni "<em>richiede il fine di esercitare un preteso diritto azionabile e l’estorsione la coscienza e volontà di conseguire un profitto non fondato su alcuna pretesa giuridica</em>"; nel medesimo senso, la dottrina più recente afferma che "<em>il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di conseguire un ingiusto profitto</em>". Le Sezioni Unite, fatte queste premesse, assumono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento psicologico. La materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di "<em>costrizione</em>" della vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: "<em>mediante violenza sulle cose</em>"; art. 393 c.p.: "<em>usando violenza o minaccia alle persone</em>"; art. 629 c.p.: "<em>mediante violenza o minaccia</em>"): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente, che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno. Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato. Cionondimeno, prosegue il Collegio, come già rilevato (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, in motivazione), la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità strutturale può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia mira ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile. D’altro canto, il riferimento all’effetto "<em>costrittivo</em>" della condotta appare, nella sistematica codicistica, piuttosto finalizzato a distinguere il reato di estorsione, previsto e punito dall’art. 629 c.p., da quello di rapina, previsto e punto dal precedente art. 628: come chiarito dalla stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul Libro I del Progetto del codice penale del 1930 (pag. 450), "<em>premesso che in entrambe tali ipotesi delittuose la spogliazione in danno della vittima di consuma mercè violenza o minaccia, il Progetto coglie la nota differenziale dei due delitti negli effetti della coercizione usata, riscontrando la rapina, se l’agente s’impossessa egli stesso della cosa altrui, e l’estorsione, se la persona, a cui la violenza o la minaccia è diretta, è obbligata a consegnare la cosa</em>". Il criterio è stato pacificamente accolto dalla giurisprudenza della Corte, che distingue correntemente le due fattispecie proprio osservando che, nella rapina, il reo sottrae la <em>res</em> esercitando sulla vittima una violenza od una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell’estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo, che è soltanto "<em>costretto</em>" a determinarsi come gli viene imposto dal soggetto agente, ma potrebbe determinarsi diversamente (così Sez. 2, n. 44954 del 17/10/2013, Barillà, Rv. 257315). Come già evidenziato, tra le altre, da Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss. e Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375, riprendono le SSUU, sia l’art. 393 c.p., comma 3, che l’art. 629 c.p., comma 2, (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628 c.p., comma 3, n. 1) prevedono che la pena è aumentata "<em>se la violenza o minaccia è commessa con armi</em>", senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco: è quindi normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall’uso di un’arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero "<em>costrittiva</em>", e comunque "<em>sproporzionata</em>", rispetto al fine perseguito. Detto riferimento appare decisivo, atteso che, secondo il contrario orientamento, siffatta condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è. La stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, insiste il Collegio, pur in estrema sintesi (pag. 158), osserva che la fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è "<em>comprensiva d’ogni specie di violenza, fisica o morale</em>", senza attribuire, quindi, alcuna rilevanza al <em>quantum</em> di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia profferita. È stato, infine, già evidenziato dalla Corte (Sez. 6, n. 45064 del 12/06/2014, Sevdari, in motivazione) che "<em>le norme sostanziali poste a confronto non contengono alcuna gradazione (nè "verso l’alto" nè "verso il basso") delle modalità espressive della condotta violenta o minacciosa, e che le fattispecie si distinguono in base al solo finalismo della condotta medesima, che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell’altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrari, una pretesa giuridicamente azionabile. In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l’incidere sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto</em>". Risulta, pertanto, evidente la "<em>carenza di tipicità che si connette all’enucleazione, in assenza di qualsiasi segnale linguistico, di una sottofattispecie delle nozioni di violenza e minaccia, così "gravemente intimidatorie" da connotare ex se di ingiustizia qualunque finalismo, e dunque sostanzialmente da annullare la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall’estorsore</em>". Deve quindi concludersi per il Collegio che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un proprio diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia. Ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362). Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve peraltro trattarsi, precisano le SSUU. di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della relativa pretesa, ovvero ad autotutela di un proprio diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967). Detta verifica, come pure è stato già osservato, è preliminare: "<em>i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito - che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare - deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo</em>" (Sez. 2, n. 52525 del 10/11/2016, D.V., rv. 268764). In applicazione del principio, riprende il Collegio, è già stata ad esempio ritenuta la configurabilità del delitto di estorsione, e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiché in tal caso egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. 2, n. 9931 del 09/03/2015, Iovine, Rv. 262566; Sez. 2, n. 26235 del 12/05/2017, Nicosia, Rv. 269968). Orientamenti risalenti della propria giurisprudenza, rammenta la Corte (Cass. 23 gennaio 1952, Costa, Riv. it. dir. pen., 1952, 419; Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113338), e parte della dottrina tradizionale, premesso che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 393 c.p., la legge richiede soltanto l’uso della violenza o minaccia alla persona, avevano ritenuto non necessario che la persona rimasta vittima della violenza o della minaccia fosse quella in conflitto d’interessi con l’agente, poiché si dovrebbe avere riguardo non tanto e non solo alla persona verso la quale si indirizza la violenza o la minaccia, "<em>ma al nesso di mezzo al fine che tra il fatto violento o la minaccia e il proposito di farsi ragione da sé deve ricorrere</em>", con l’ulteriore conseguenza che il reato, sempre che un tale nesso sia riscontrabile, sarebbe completo in tutti i relativi elementi anche se la violenza o minaccia siano dirette non contro l’antagonista del soggetto attivo, ma contro altra e diversa persona. L’orientamento può ritenersi ormai superato, e comunque non condivisibile: proprio in considerazione del fatto che la sussistenza del requisito della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo è diretta va verificata preliminarmente (poiché commette il reato di cui all’art. 393 c.p. "<em>chiunque</em>" possa ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto), risulta evidente che l’agente non potrebbe azionare in giudizio la propria pretesa chiamando in causa, in garanzia, e senza titolo alcuno, i terzi oggetto di violenza o minaccia. Come già correttamente ritenuto, in più occasioni, dalla stessa Corte, è, pertanto, configurabile, il delitto di estorsione nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente <em>inter partes</em>, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344: fattispecie in cui il creditore ed i coimputati avevano rivolto nei confronti del debitore gravi minacce in danno del figlio e della moglie; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017), poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, D’Errico, Rv. 259555 e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Immordino, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio). Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume pertanto, chiosa ancora la Corte, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del proprio operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere <em>contra ius</em>, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli. L’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estorsione vanno accertati – proseguono le SSUU - secondo le ordinarie regole probatorie: alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, pertanto, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione. La Corte è infatti ferma nel ritenere, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012); con specifico riferimento al tema in esame, si è inoltre osservato che "<em>il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante</em>", e, di conseguenza, "<em>le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.",</em> ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile (Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320). Un orientamento – prosegue il Collegio - ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. "<em>metodo mafioso</em>" (già D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. L. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 c.p.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ugualmente aggravato, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di tipo mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. Agostino, Rv. 264628). L’orientamento tuttavia – precisano le SSUU - non può essere condiviso, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 c.p. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 c.p.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. "<em>metodo mafioso</em>", unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione. A ben vedere allora, chiosa il Collegio, il denunciato contrasto di orientamenti riguardante la distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. risulta più apparente che reale. Limitando la disamina che segue alle decisioni più recenti e significative, nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 35563 del 17/07/2019, Russo, Rv. 277316, il creditore, agendo con metodo mafioso, aveva dato alle fiamme una minipala nel giardino di una villa di proprietà della persona offesa, con il rischio che il fuoco si propagasse anche all’immobile, arrecando un danno ben superiore rispetto all’entità del credito vantato: in siffatta situazione, l’impiego del metodo mafioso, che aveva comportato l’attuazione della pretesa in forme che, richiamando alla mente del soggetto passivo il potere di intimidazione dell’associazione criminale e la promessa di passare ad ulteriori e più gravi danneggiamenti, ed il rischio di cagionare al debitore danni sproporzionati rispetto all’entità del debito, senz’altro esorbitanti rispetto al fine di ottenere il pagamento del credito ed idonei ad annichilire le capacità di reazione della persona offesa, integravano certamente il necessario dolo di estorsione. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425, la stessa decisione dà preliminarmente atto che l’imputato non vantava alcun credito ragionevolmente azionabile nei confronti del debitore, e tale rilievo risultava senz’altro assorbente. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643, si era accertato che l’agente aveva richiesto al proprio debitore "<em>una somma maggiore di quanto dalla stessa in precedenza richiesto perché a suo dire "bisognava pagare i ragazzi" (cioè i concorrenti nel reato da lei chiamati ad agire con violenza e minacce nei confronti della persona offesa</em>)": a prescindere dal fatto che "<em>le modalità di soddisfacimento del preteso diritto erano travalicate in forme di particolare violenza, sistematicità e pervicacia</em>", pure valorizzato, in realtà risultava preliminare il rilievo che l’agente ed i terzi incaricati della riscossione avevano perseguito (anche) la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316, gli imputati avevano posto in essere condotte violente e minacciose nei confronti delle diverse persone offese - per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria - finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall’acquisizione della percentuale concordata come "<em>tangente</em>" per la riscossione delle somme, e quindi per la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile. Nella fattispecie esaminata dalla già citata Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320, alla p.o., sottoposta ad una serie continua di gravi minacce da parte di più persone, singolarmente e in gruppo, "<em>fu poi intimato di firmare cambiali in bianco (che effettivamente in seguito firmò a decine sul cruscotto di un’autovettura nei pressi dello stadio di Casal di Principe) e venne anche prospettata</em> (..) <em>la possibilità di lavorare, unitamente ai fratelli, presso un’azienda della zona, onde guadagnare le somme necessarie a ripianare l’esposizione debitoria (prospettiva imposta con la forza dell’intimidazione, e non quale espressione sintomatica di una libera scelta lavorativa</em>)": i soggetti agenti avevano, quindi, perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, non essendo mossi dal ragionevole intento di trovare soddisfazione di un preteso diritto. Ancora, prosegue il Collegio, nella fattispecie esaminata da Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255, i contratti preliminari rispetto ai quali, con le violenze accertate, si intendeva indurre le pp.oo. a far seguire la stipula un contratto di vendita di quota, "<em>erano stati stipulati nel 1989, non dagli attuali soci della</em> (...) <em>s.r.l. ma dagli originari soci della stessa</em> (...); <em>occorreva, dunque, un formale conferimento della relativa posizione negoziale nella società e di tanto manca agli atti la prova si che, dal punto di vista documentale, come evidenziato dal Tribunale, la pretesa ancorata al citato preliminare risulta comunque riferibile a soggetti diversi dagli odierni indagati</em> (...)": i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile. Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298, l’imputato, per riscuotere il proprio credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai relativi familiari ove non avesse pagato il debito, ed aveva quindi perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, avendo agito anche in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio vantato. Nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 19230 del 03/05/2013, Palazzotto, Rv. 256249, ricorreva, con riferimento ad entrambi i tentativi di estorsione contestati e ritenuti, la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.), "<em>in quanto le modalità della minaccia, la sua stessa indeterminatezza, l’intervento di persona formalmente estranea al rapporto tra S. e T., la vicinanza di P. a personaggi della famiglia F. (ovviamente la separazione legale di questo imputato dalla moglie di per sé non può essere circostanza significativa), la richiesta di versare Euro 15.000 a favore proprio della famiglia mafiosa del quartiere, sono tutte circostanze che militano, come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, nel senso della sussistenza dell’utilizzazione del metodo mafioso. E se, erroneamente, anche il secondo giudice ha escluso, con riferimento al primo episodio estorsivo, la sussistenza della predetta aggravante (e tale errore non può essere corretto in mancanza di una impugnazione sul punto della parte pubblica), non vi è ragione per la quale non si debba riconoscerne la sussistenza e la operatività con riferimento al secondo episodio estorsivo</em>": l’estrema invasività della forza intimidatoria esercitata costituiva, pertanto, indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di soddisfazione di una legittima pretesa civilistica. Anche il riferimento, come criterio per distinguere i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dall’estorsione, all’effetto "<em>costrittivo</em>" della condotta di estorsione – chiosano ancora le SSUU - pur essendo stato in più occasioni enunciato, non è stato mai concretamente e decisivamente valorizzato, poiché, in tutte le sentenze che lo hanno accolto, la pretesa azionata dal presunto creditore non sarebbe stata in realtà azionabile in giudizio: - nel caso esaminato da Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837, il credito del quale si pretendeva soddisfazione non era esigibile, "<em>tenuto conto dei vincoli imposti da Equitalia sui beni della vittima</em>"; - nel caso esaminato da Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123, il terzo incaricato della riscossione aveva agito per la soddisfazione di un credito rispetto al quale era già stata esperita una infruttuosa azione esecutiva, e quindi - attraverso la condotta contestata - pretendeva inammissibilmente di aggredire le cc.dd. <em>res sacra miseris</em>; - nel caso esaminato da Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469, attraverso la condotta contestata, il creditore aveva richiesto la corresponsione di interessi usurari, pretesa certamente non azionabile in giudizio. Alla luce della disamina che precede, prosegue a questo punto il Collegio, possono essere esaminate le connotazioni del concorso di persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione. La propria giurisprudenza, chiosa la Corte, ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del relativo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209). Qualora il terzo agente - seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 - inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651). Questo orientamento va condiviso e ribadito. Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati: - il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo; - il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico. Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati <em>de quibus</em>, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti <em>ad adiuvandum</em> del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Non appare inopportuno precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. "<em>finalità mafiosa</em>" (art. 416-bis.1 c.p.: essere "<em>i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi</em> (...) <em>al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste</em>" dall’art. 416-bis c.p.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 c.p., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto <em>lato sensu</em>) di profitto di terzi. D’altro canto, la Corte rammenta di avere già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117). Per la Corte, vanno conclusivamente enunciati i seguenti principi di diritto onde: 1) i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo; 2) il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie; 3) il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità. Così focalizzata la distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ed il reato di estorsione, appare evidente per il Collegio che, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione, non residui alcuno spazio per ipotesi di concorso formale, risultando le due fattispecie, proprio in relazione all’elemento psicologico, alternative: nei casi di concorso in estorsione, l’eventuale fine di soddisfazione di un diritto del preteso creditore resta, infatti, assorbito nel concorrente fine di profitto illecito dei terzi concorrenti. <strong>2021</strong> Il 29 gennaio esce l’ordinanza della II sezione penale del Tribunale di Lecce alla cui stregua è possibile per il danneggiato avanzare la propria pretesa risarcitoria nei confronti dell’ente imputato ex d.lgs. 231/2001, giusta costituzione di parte civile all’uopo. Per il Tribunale infatti il rinvio operato dagli artt. 34 e 35 del decreto citato consente l'estensione al procedimento concernente gli illeciti amministrativi dipendenti da reato delle norme di procedura penale, in quanto compatibili, e l'estensione all'ente della disciplina relativa all'imputato, sempre in quanto compatibile, tra cui le norme che prevedono la possibilità per la persona danneggiata di costituirsi parte civile nei confronti di quest’ultimo. Né – soggiunge il Collegio - vi sono argomenti letterali, storico – interpretativi o sistematici che possano indurre ad una differente lettura interpretativa. * * * Il 16 febbraio esce la sentenza delle SSUU n.6087 alla cui stregua integra il reato di peculato la condotta del gestore o dell'esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all'art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del PREU, non versandoli al concessionario competente. La questione di diritto rimessa, rammentano in incipit le Sezioni Unite, è la seguente: "<em>se l'omesso versamento del prelievo unico erariale (PREU), dovuto sull'importo delle giocate al netto delle vincite erogate, da parte del "gestore" degli apparecchi da gioco con vincita in denaro o del "concessionario" per l'attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito, costituisca il delitto di peculato</em>". Prima di affrontare il tema in oggetto il Collegio assume utile, nei limiti di quanto di interesse ai fini della decisione, illustrare sinteticamente la disciplina della tipologia degli apparecchi da gioco lecito cui è applicato il PREU, un settore relativo all'ambito di esercizio del monopolio fiscale su giochi e scommesse, destinato a fornire risorse finanziarie allo Stato, in cui le finalità del controllo pubblico comprendono il contrasto alla ludopatia, la gestione dei flussi di denaro derivanti dal gioco, in maggiore parte destinati all'erario, i sistemi di controllo per evitare frodi ed evasione fiscale. Nella vicenda sottesa alle condotte oggetto di giudizio – precisa la Corte - viene in rilievo l'utilizzazione di giochi tipo slot-machine, ovvero quegli apparecchi "<em>autosufficienti</em>" che, con varie forme di automatismo, interagendo direttamente con il soggetto scommettitore, consentono la giocata previo inserimento di denaro, elaborano il meccanismo di vincita e, se del caso, consegnano immediatamente il premio al giocatore. La legge 27 dicembre 2002, n. 289 ha modificato l'art. 110 R.D. 18 giugno 1931 n.773, disciplinando la installazione di apparecchi automatici "<em>leciti</em>" nei seguenti termini: - si è previsto che la installazione degli «<em>apparecchi automatici di cui ai commi 6 e 7, lettera b), dell'articolo in esame è consentita negli esercizi assoggettati ad autorizzazione ai sensi degli articoli 86 o 88</em>» (comma 3); - sono state regolamentate le macchine "<em>autosufficienti</em>" che prevedono la scommessa in denaro ed il gioco gestito esclusivamente dalla macchina locale (comma 6); - sono state previste altre tipologie di macchine che non offrono la vincita diretta in denaro, ma per le quali si introduce un controllo diretto (anche) alla verifica del pagamento delle imposte che gravano sulle stesse (comma 7). Con riferimento alle macchine "<em>autosufficienti</em>" (che qui maggiormente interessano) la norma prevede – proseguono le SSUU - precise condizioni per l'esercizio del gioco (si fa riferimento alla previsione attuale, essendo intervenute varie modifiche delle percentuali di destinazione dell'incasso delle giocate): - gli apparecchi, di proprietà privata, sono leciti a condizione che siano «<em>dotati di attestato di conformità alle disposizioni vigenti rilasciato dal Ministero dell'economia e delle finanze - Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato</em>» e siano «<em>obbligatoriamente collegati alla rete telematica di cui all'articolo 14-bis, comma 4, del DPR 26 ottobre 1972, n. 640</em>»; - la giocata ammessa non può superare un euro e la durata della partita non deve essere inferiore a quattro secondi; - la vincita non può essere superiore a Euro 100 e deve essere pagata con denaro erogato direttamente dalla macchina; - su di un ciclo di 140.000 partite, ogni singola macchina deve restituire in premi il 75% delle somme inserite. Il sistema essenziale di controllo sul regolare esercizio delle attività di gioco, compresa la gestione degli incassi, previsto da tale normativa si incentra – prosegue il Collegio - sulla creazione di una rete telematica per potere avere il controllo diretto ed in tempo reale dell'utilizzazione di ogni singolo apparecchio: a tale fine è stato modificato il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 640 (imposta sugli spettacoli) e si è previsto che l'AAMS individui con gare ad evidenza pubblica uno o più concessionari della «<em>rete o delle reti per la gestione telematica degli apparecchi</em>». Il successivo d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 ha introdotto il sistema di raccolta della quota destinata all'Erario degli introiti degli apparecchi da gioco, lasciati in esercizio ai concessionari delle reti ed ai loro gestori ed esercenti. Il citato decreto-legge, all'art. 39, comma 13, dispone che su tali apparecchi «si applica un Prelievo Erariale Unico fissato in misura del 13,5 per cento delle somme giocate, dovuto dal soggetto al quale l'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato ha rilasciato il nulla osta di cui all'articolo 38, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni. A decorrere dal 26 luglio 2004 il soggetto passivo d'imposta è identificato nell'ambito dei concessionari individuati ai sensi dell'articolo 14-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, e successive modificazioni, ove in possesso di tale nulla osta rilasciato dall'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato». Il PREU è quindi configurato – precisano le SSUU - come imposta sul consumo. La relativa natura tributaria è stata affermata dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 334 del 2006, che, in sede di conflitto di attribuzione tra la Regione Siciliana e lo Stato, ha risolto il dubbio su alcuni profili ambigui della disciplina, ritenendo il PREU una «<em>entrata tributaria erariale</em>», sostitutiva della precedente forma di imposta sugli intrattenimenti applicata agli apparecchi da gioco. La natura di imposta di consumo, quindi, porta a ritenere che rispetto al PREU il giocatore è il contribuente di fatto, mentre il concessionario è il contribuente di diritto; l'imposta, difatti, è computata sull'importo della giocata e non sul reddito di impresa del contribuente di diritto. Le ulteriori norme introdotte con la legge finanziaria del 2006 hanno completato la specifica disciplina del PREU, per il quale è prevista la riscossione mediante ruolo. Per completare la disciplina della destinazione degli introiti degli apparecchi di gioco lecito, oltre al PREU, determinato per legge, le convenzioni di concessione delle reti per la gestione telematica degli apparecchi, predisposte dall'AAMS in base al D.M. 12 marzo 2004 n. 86 del Ministero dell'Economia e delle Finanze (Regolamento per la gestione telematica di tali apparecchi da divertimento e intrattenimento), dispongono l'ulteriore destinazione delle somme nette incassate dagli apparecchi da gioco: canone di concessione, destinato alla AAMS, aggio destinato al concessionario, quota residua che va divisa tra il concessionario ed il gestore (o esercente) degli apparecchi. Le somme costituenti aggio e residuo andranno a formare il ricavo di impresa del concessionario. Il d.P.R. n. 640 del 1972, prosegue il Collegio, come anticipato, prevede che l'esercizio delle attività nel settore in questione sia affidata con concessione "<em>traslativa</em>", avente ad oggetto la gestione della rete di controllo e l'esercizio dei singoli apparecchi che sono di proprietà privata, ma devono essere muniti dell'apposito nulla osta rilasciato dall'ente concedente (si tratta dell'attestato di conformità alle disposizioni vigenti, previsto dall'art. 110, comma 6, T.U.L.P.S.). Si devono quindi chiarire – rappresentano a questo punto significativamente le SSUU - i ruoli dei singoli soggetti che partecipano in vario modo all'esercizio di tale concessione. In particolare, oltre al concessionario, rilevano le figure del "<em>gestore</em>" e dell'”<em>esercente</em>" i quali, pur svolgendo la propria attività nella gestione del gioco sulla base di un contratto di diritto privato con il concessionario, sono figure che ricevono una regolamentazione prevalentemente dalla convenzione di concessione. Il gestore è il soggetto che esercita un'attività organizzata diretta alla distribuzione, installazione e gestione economica degli apparecchi da intrattenimento. In particolare, provvede materialmente a prelevare i proventi, mediante l'operazione gergalmente denominata di "<em>scassettamento</em>"; quindi è il gestore che in prima battura ha la disponibilità materiale delle somme contenute nei singoli apparecchi, al netto delle vincite erogate. L'esercente è il titolare dell'esercizio ove sono installati gli apparecchi, che svolge attività simili quando non vi sia un soggetto gestore. Nel prosieguo si farà riferimento al solo gestore, considerando che comunque le stesse regole valgono anche per l'esercente. La convenzione di concessione con l'AAMS (oggi ADM) prevede – riprende la Corte - che il concessionario di rete possa avvalersi nell'attività di gestione degli apparecchi di gioco dei citati ausiliari che devono essere in possesso delle prescritte autorizzazioni, devono essere iscritti nell'apposito elenco di cui all'art. 1, comma 533, della I. 23.12.2005, n. 266 e successive modifiche e sono legati al concessionario da appositi contratti di diritto privato il cui contenuto è predeterminato dall'atto di concessione e dall'AAMS (oggi ADM). Il gestore è tenuto a rispettare specifici obblighi nello svolgimento dell'attività di interesse dell'Amministrazione. Poste queste premesse, va evidenziato per il Collegio che - come sottolineato dall'ordinanza di rimessione - le decisioni che hanno dato luogo al contrasto riguardano casi in cui il soggetto gestore che operava per conto del concessionario nell'effettivo esercizio degli apparecchi si è appropriato di tutte le somme materialmente raccolte nei dispositivi da gioco non riversandole al concessionario; è il caso che ricorre anche nel presente processo in cui l'imputazione fa riferimento non solo all'appropriazione delle somme destinate al pagamento del PREU, ma anche di quelle destinate a canone di concessione e di quelle destinate al concessionario. Un primo orientamento, in linea con una giurisprudenza incline a riconoscere la natura pubblica delle somme raccolte da privati abilitati allo svolgimento di svariate tipologie di giochi autorizzati, qualifica il concessionario della gestione della rete telematica come "<em>agente contabile</em>" «<em>atteso che il denaro che riscuote è fin da subito di spettanza della P.A</em>.» come risulta dal decreto 12 marzo 2004 del Ministero dell'Economia e delle Finanze che dispone che il concessionario «<em>contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatagli, il prelievo erariale unico ed esegue il versamento del prelievo stesso, con modalità definite con decreto di AAMS</em>». In questo senso, Sez. 6, n.49070 del 05/10/2017, Corsino, Rv. 271498, secondo la quale «<em>riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il sub- concessionario per la gestione dei giochi telematici, trattandosi di un soggetto che, in virtù di una facoltà riconosciuta al concessionario dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), è investito contrattualmente dell'esercizio dell'attività di agente contabile addetto alla riscossione ed al successivo versamento del prelievo erariale unico sulle giocate previsto dall'art. 2, lett. g), del d.m. 12 marzo 2004</em>». La Corte argomenta che il concessionario, nel delegare le proprie attività al "<em>subconcessionario</em>", ancorché utilizzi lo schema del contratto di diritto privato, comunque «<em>demanda ad altro soggetto l'esercizio dell'attività di agente contabile</em>». Logico corollario di tale impostazione è che la condotta del gestore che si impossessa degli incassi delle giocate, omettendo di versarli al concessionario, integra il peculato ex art. 314 cod. pen. Tale decisione ritiene che ricorra sostanzialmente lo stesso schema del concessionario dell'attività di raccolta del gioco del lotto, la cui condotta di appropriazione delle giocate è qualificata in giurisprudenza come peculato. Questa impostazione risulta condivisa anche da Sez.6, n.15860 del 10/4/2018, Cilli, non mass., che, affrontando la questione in sede cautelare, ha ritenuto corretta la contestazione di peculato a fronte della condotta appropriativa del PREU e del canone di concessione posta in essere dal gestore che non aveva versato la raccolta del gioco esercitato con apparecchi del tipo in questione; questa decisione sottolinea, altresì, che la configurabilità del reato non è esclusa dall'eventuale esistenza di contestazioni tra il gestore ed il concessionario circa le somme da riversare all'Erario. Inoltre, la Corte ha anche precisato che la sussistenza del reato in capo al gestore non è neppure esclusa per effetto dell'adempimento dell'obbligo fiscale da parte del concessionario. Sez. 6 n. 4937 del 30/04/2019, dep. 2020, Defraia, Rv. 278116, è sostanzialmente adesiva alle argomentazioni della sentenza Corsino; difatti, ribadisce con argomentazioni simili che il denaro delle giocate è fin da subito di spettanza della P.A. («<em>il denaro versato dai giocatori diviene 'pecunia publica' non appena entra in possesso del soggetto incaricato di raccogliere tale denaro</em>»). Considera come la natura privatistica del contratto con cui il concessionario "<em>demanda</em>" ad altro soggetto l'esercizio dell'attività di agente contabile non esclude la qualifica di incaricato di pubblico servizio del sub-concessionario/gestore. Il contratto, difatti, regola comunque l'esercizio di servizi pubblici, in quanto il gestore viene investito della partecipazione all'attività di agente contabile quale «<em>addetto alla riscossione ed al successivo versamento del "prelievo erariale unico" sulle giocate, previsto dall'art. 2 lett. g) del D.M. 12 marzo 2004, poiché il servizio del gioco è riservato allo Stato</em>». In definitiva, anche tale sentenza esclude che l'attività del gestore possa ridursi alla semplice fornitura/assistenza delle macchine e che la relativa attività di raccolta degli incassi delle giocate possa essere qualificata come semplice attività materiale. Le sentenze Sez. 6, n. 35373 del 28/05/2008, Bellebono, non mass., e Sez. 2, n. 18909 del 10/04/2013, Torregrossa, non mass., confermano la configurabilità del reato di peculato nei confronti del gestore che si appropria delle somme destinate a PREU ravvisando la originaria proprietà pubblica degli incassi. Il diverso orientamento – riprende a questo punto la Corte - è rappresentato dalla sentenza Sez. 6, n. 21318 del 05/04/2018, Poggianti, Rv. 272951, che è intervenuta in un caso in cui il gestore degli apparecchi aveva utilizzato un espediente tecnico tale da impedire la comunicazione dei dati delle giocate all'Amministrazione ed in tal modo aveva nascosto l'incasso indebito delle somme non contabilizzate. La sentenza ha considerato che la normativa positiva disciplina il PREU quale debito tributario. Ha, quindi, affermato che le somme materialmente prelevate dagli apparecchi da gioco sono in possesso del gestore del gioco il quale è tenuto al pagamento del PREU quale soggetto passivo d'imposta, sulla base di un'analitica valutazione di tutte le disposizioni rilevanti di tale normativa che consentono di qualificare il PREU quale imposta «<em>il denaro incassato all'atto della puntata, e a causa di questa, deve ritenersi non immediatamente di proprietà, pro quota, dell'erario (all'epoca dei fatti in misura pari al 12% degli introiti), bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all'importo da versare a titolo di prelievo unico erariale.</em> <em>Questo perché la giocata genera un ricavo di impresa sul quale è calcolato l'importo che la società deve corrispondere a titolo di debito tributario; quindi, l'impresa che gestisce il congegno da gioco non incassa neppure in parte denaro già in quel momento dell'erario, e, di conseguenza, quando non corrisponde le somme dovute a titolo di prelievo erariale unico, non si appropria di una cosa altrui, ma omette di versare denaro proprio all'Amministrazione finanziaria in adempimento di un'obbligazione tributaria</em>». La sentenza citata giunge a tale conclusione sulla base dell'esegesi del d.l. 24 novembre 2003, n.326 da cui desume che: - il soggetto passivo di imposta non è individuato nel giocatore, ma nei concessionari della rete (art.39, commi 13 e 13-bis), con i quali i terzi incaricati della raccolta (i cd. gestori) sono solidamente responsabili (art.39-sexies); - l'unità temporale di riferimento per il calcolo finale del PREU è riferita all'anno solare (art.39, comma 13-bis), mediante un versamento finale a saldo dei versamenti periodici;- il PREU è dovuto su tutte le somme giocate tramite apparecchi e congegni che erogano vincite in denaro, anche se questi siano esercitati al di fuori di qualunque autorizzazione e non siano collegati alla rete telematica (art.39- <em>quater</em>). Secondo la sentenza in esame, la specifica disciplina, dettata per la categoria di apparecchi da gioco in esame, consentirebbe di affermare che il soggetto passivo dell'imposta non è il giocatore, bensì il concessionario ed il terzo incaricato della raccolta, sicché, ove il denaro non venga riversato all'AAMS (oggi ADM), non si configurerebbe l'appropriazione di somme già appartenenti all'erario, bensì un tipico caso di omesso versamento di un tributo (nel caso di specie il PREU). Corollario di tale affermazione è che il denaro raccolto mediante le giocate altro non è che il ricavo di un'attività commerciale, che a prescindere dal fatto che sia svolta in forma lecita o illecita, genera in ogni caso l'insorgere dell'obbligazione tributaria. Nell'ordinanza di rimessione, oltre a considerare in modo dettagliato gli argomenti della sentenza Poggianti, si osserva che, in tale prospettiva, «<em>il soggetto che incassa le somme delle giocate non ha il possesso o la disponibilità di denaro altrui, ovviamente per la parte da versare all'Amministrazione finanziaria a titolo di prelievo erariale unico, ma, diversamente, è debitore nei confronti di questa in relazione ad una obbligazione pecuniaria commisurata all'entità del denaro percepito</em>». In definitiva, secondo tale impostazione il denaro incassato non è di proprietà pubblica, bensì del concessionario della rete il quale, su tale incasso dei "<em>propri</em>" apparecchi di gioco, assume un'obbligazione tributaria. Per tale ragione, la condotta di appropriazione non integra il reato di peculato. Il contrasto scaturisce dunque – chiosano le SSUU - da un'unica decisione rispetto ad un orientamento sostanzialmente stabile. Va sottolineato per il Collegio che la differenza di ricostruzione, che porta alla alternativa qualificazione giuridica della condotta di indebito trattenimento degli incassi delle giocate, non verte sulla natura di obbligazione tributaria del versamento del PREU, bensì sulla proprietà del denaro versato dai giocatori negli apparecchi da gioco, al netto di quanto restituito direttamente in vincite. Secondo il primo indirizzo, tale denaro è incassato, a prescindere dalla proprietà dei dispositivi di gioco, nell'esercizio della concessione e per conto della concedente, e, quindi, appartiene alla Amministrazione; la peculiare modalità di riversamento del denaro, con il meccanismo tributario per una gran parte (il PREU) e con il canone di concessione per altra, non incide sulla natura di denaro pubblico, dato rilevante ai fini che qui interessano. L'altro indirizzo, invece, accentuando il profilo di natura tributaria e, qualificando il PREU come imposta sui redditi di impresa (come sembra affermare quando parametra l'imposta al «<em>ricavo di impresa</em>») anziché come imposta sui consumi, usa tale argomento per affermare che l'incasso delle somme residuate dalle giocate, detratte le vincite, rappresenta un "<em>guadagno</em>" privato sottoposto, appunto, ad imposta (PREU). Il Collegio assume a questo punto di dover condividere la conclusione cui giunge il primo indirizzo, con le precisazioni di cui appresso. Devono, innanzitutto, essere distinti due diversi profili, quello riguardante la proprietà delle somme incassate dagli apparecchi da gioco, di cui (una gran) parte destinata al pagamento del PREU, e quello relativo all'obbligo di versamento del PREU quale tributo. Tale profilo appare al Collegio dirimente per rispondere al quesito posto dalla ordinanza di rimessione quanto alla qualità di incaricato di pubblico servizio del gestore. La soluzione prescelta poggia sulla considerazione che non è dubitabile che (tutti) i proventi del gioco presenti negli apparecchi, al netto del denaro restituito quale vincita agli scommettitori, appartengano all'Amministrazione. La questione della proprietà degli incassi è già stata risolta dalle Sezioni Unite civili della Corte che in più occasioni hanno confermato la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti dei concessionari di rete, chiamati dal giudice contabile alla resa del conto giudiziale, ai sensi del R.D. 23 maggio 1924, n. 827, per la gestione degli incassi, in quanto originariamente appartenenti alla pubblica amministrazione concedente e gestiti dai soggetti concessionari nel ruolo di "<em>agente contabile</em>". In tali termini – rammenta la Corte - si sono espresse in primo luogo Sez. U. civ. n. 13330 dell'01/06/2010, Rv. 613290, secondo cui «<em>la società contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento; come tale essa riveste la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario</em>». Un'altra decisione ha precisato che la società concessionaria dell'Azienda Autonoma dei Monopoli dello Stato per la attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito assicura che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale, e, inoltre, provvede a contabilizzare, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico, seguendone il versamento (così, Sez. U civ., ord. n. 14891 del 21/06/2010, Rv. 613822). Secondo queste decisioni la società concessionaria riveste la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario. Negli stessi termini – rammenta la Corte - e con più ampio sviluppo, proprio degli aspetti rilevanti ai fini della odierna decisione, sono intervenute di recente Sez. U civ., n. 14697 del 29/05/2019, Rv. 653988, che hanno ritenuto espressamente la natura pubblica di tutti gli incassi degli apparecchi da gioco in questione proprio in considerazione della funzione del collegamento diretto del sistema centrale dell'Amministrazione rispetto ai singoli apparecchi da gioco e hanno affermato che questo «<em>sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica</em>». Soprattutto, le Sezioni Unite civili risolvono l'aspetto qui rilevante, escludendo che vi sia contrasto tra l'essere il concessionario soggetto passivo d'imposta rispetto al PREU e l'essere gli incassi del gioco di proprietà pubblica: il regime fiscale previsto dal legislatore non incide sull'obbligo del concessionario di assicurare, mediante, la conduzione operativa della rete telematica, la contabilizzazione delle somme giocate, delle vincite e del P.R.E.U. La natura tributaria dell'imposta (Corte cost. 334 del 2006) e la qualificazione del concessionario come soggetto passivo d'imposta (ex art. 1, comma 81 della legge n. 296 del 2006) operano limitatamente al rapporto di natura tributaria, senza incidere sulla funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell'attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell'attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse(Sez. Un. civ. n. 14697 del 2019, cit.). La soluzione recepita dalle Sezioni unite civili è in linea – rappresenta a questo punto il Collegio - con la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti, competente ad esercitare il controllo sui concessionari in virtù della loro qualificazione quali "<em>agenti contabili</em>". Il problema sottoposto al Collegio si era già ampiamente posto dinanzi al giudice contabile, sostanzialmente nei medesimi termini circa l'esatta qualificazione del PREU come un'entrata erariale qualificabile come tale <em>ab origine</em>, piuttosto che come un ordinario tributo rispetto al quale il concessionario non poteva assumere il ruolo di agente contabile, ma solo quello di soggetto passivo d'imposta. Nella sentenza resa da Sez. I App., n. 1086 del 18.09. 2014, la Corte dei Conti ha testualmente affermato: «<em>la società appellata è concessionaria dell'Amministrazione Autonoma dei Monopoli dello Stato per l'attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito. </em> <em>Essa assicura, perciò, che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale. La società - inoltre - contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento. </em> <em>Tanto precisato, essa riveste la qualifica di agente della riscossione (agente contabile), tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario</em>». La suddetta pronuncia si confronta espressamente anche con la presunta incompatibilità tra la qualifica di agente contabile, derivante dalla riscossione di denaro pubblico, rispetto alla disciplina tributaria del PREU, laddove argomenta che «<em>la sottoposizione del concessionario al prelievo erariale unico (PREU) non incide sulla sua natura di agente contabile, stante che tale prelievo è solo la modalità con cui l'Amministrazione ottiene il versamento da parte del concessionario di somme dovute da calcolarsi, però, su conti da rendersi da chi rivesta la qualifica di contabile, per avere maneggio delle somme di denaro su cui anche il PREU deve calcolarsi</em>». L'appartenenza del denaro oggetto di PREU all'erario è esplicitata in maniera ancor più netta – rammentano le SSUU - da Corte Conti Lazio, sez. reg. giurisd., n. 2110 del 05/11/2010, secondo cui «<em>è proprio la gestione in via esclusiva di un'attività propria del soggetto pubblico con attribuzione di poteri pubblici al concessionario ed imposizione di particolari obblighi a determinare la nascita di un soggetto che ha la disponibilità materiale di beni, materie e valori di pertinenza pubblica. Lo stesso denaro raccolto con l'utilizzo di apparecchiature collegate alla rete telematica della P.A. deve ritenersi, quindi, denaro pubblico e ciò, ovviamente, non tanto in ragione della sua provenienza, che è squisitamente privata, ma in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d'azzardo altrimenti vietato. </em> <em>Ed allora, se il privato deve utilizzare l'apposito canale pubblico rappresentato dalle apparecchiature elettroniche collegate alla rete telematica della Pubblica Amministrazione per effettuare la sua giocata, ne consegue che il denaro impiegato diventa denaro pubblico, soggetto alle regole pubbliche di rendicontazione e il cui maneggio genera ex se l'imprescindibile obbligo dell'agente a rendere giudiziale ragione della gestione attraverso un documento contabile che dia contezza della stessa e delle sue risultanze</em>». Nell'ambito di tale sistema, pertanto, i concessionari gestiscono l'attività di gioco nell'ambito di un continuo controllo realizzato per il tramite del collegamento alla rete telematica dei singoli apparecchi. Proprio tale «<em>sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica</em>». La tesi secondo cui il denaro provento delle giocate è di immediata appartenenza pubblica non è contraddetta neppure dal particolare regime fiscale adottato dal legislatore, lì dove il PREU viene qualificato quale prelievo di natura tributaria (come riconosciuto anche da Corte cost., n.334 del 2006) ed il concessionario è indicato quale soggetto passivo di imposta. Secondo le Sezioni unite civili, infatti, la natura tributaria del PREU non esclude la «<em>funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell'attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell'attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse</em>». Sulla base di tali argomentazioni le Sezioni unite civili ritengono che il denaro provento delle giocate, a prescindere dalla specifica destinazione <em>pro quota</em> dello stesso, è di «<em>diretta appartenenza pubblica</em>». L'interpretazione data dalle SS.UU. civili e dal giudice contabile è univoca e – per il Collegio - ne vanno condivisi gli argomenti. Il privato concessionario gestisce in via esclusiva un'attività propria dell'Amministrazione, rientrante nell'ambito di un monopolio legale, esercitandone i medesimi poteri pubblici. In un tale contesto, il concessionario procede alla raccolta di denaro, tramite gli apparecchi collegati alla rete telematica della Pubblica Amministrazione, attività che assume carattere pubblico in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d'azzardo che, altrimenti, integrerebbe un'attività assolutamente vietata dall'art. 110 T.U.L.P.S. e sanzionata. Il soggetto al quale viene affidata dalla Pubblica Amministrazione la gestione della funzione pubblica del gioco lecito ed, in particolare, deputato istituzionalmente al maneggio di tale denaro pubblico, riveste obiettivamente – proseguono le SSUU - il ruolo di agente contabile ex art. 178, R.D. 23 maggio 1924 n. 827 in virtù delle regole che gli conferiscono specifici compiti di raccolta, rendicontazione e riversamento della quota parte della giocata sotto forma di prelievo unico erariale, secondo quanto previsto testualmente dalla convenzione di concessione in conformità alle inequivoche disposizioni del D. M. 12 marzo 2004, n. 86 (Regolamento concernente disposizioni per la gestione telematica degli apparecchi in questione). A questo punto può offrirsi per il Collegio una prima risposta alla questione essenziale che ha dato luogo al contrasto: non è in discussione se il PREU in sé sia un'imposta, in quanto questa natura è pacifica proprio alla luce della normativa inequivoca che lo disciplina. E', invece, in questione la natura pubblica degli incassi del gioco realizzati utilizzando una certa tipologia di apparecchi. L'orientamento minoritario che ritiene che gli incassi degli apparecchi rappresentino "<em>ricavi</em>" dell'attività imprenditoriale svolta dalla concessionaria non può essere condiviso per gli argomenti in precedenza illustrati che dimostrano che la proprietà degli incassi, proprio per l'attività dalla quale provengono, non può essere attribuita al privato. Come sopra argomentato, è corretto – chiosa la Corte - quanto affermato dal primo indirizzo che, del resto, non qualifica quale peculato il mancato pagamento del PREU quale imposta, bensì l'indebita appropriazione dell'intero incasso prelevato dagli apparecchi di cui una (maggior) parte, ma non il tutto, destinata al pagamento del PREU. La condanna di cui al caso di specie – prosegue il Collegio - è stata disposta espressamente per essersi appropriato anche della quota destinata, come aggio e come ricavo residuo, al concessionario, nonché delle somme destinate a canone di convenzione come ben chiarito nel prospetto fatto nel corpo della motivazione della sentenza di primo grado. La risposta al quesito, per quanto riguarda il concessionario di rete, è quindi nel senso che lo stesso è responsabile del reato di peculato lì dove si appropri degli incassi (anche) per la parte destinata a PREU, perché si tratta di "<em>denaro pubblico</em>", che egli gestisce in veste formale di agente contabile indipendentemente dalla ulteriore considerazione se, nella gestione del gioco lecito, svolga un pubblico servizio. Ulteriore problema – riprendono a questo punto le SSUU - è quello di verificare se il concessionario vada qualificato quale incaricato di pubblico servizio per la complessiva attività svolta, a prescindere dal ruolo di agente contabile. Si tratta di un passaggio necessario per ritenere che tale qualificazione spetti anche al gestore il cui eventuale ruolo di incaricato di pubblico servizio è condizionato dall'esserlo il concessionario dal quale, in ipotesi, deriverebbe il conferimento dei compiti nella conduzione del servizio pubblico. Il tema, inoltre, va esplicitamente affrontato anche perché la questione del ruolo del concessionario, al di là dell'ambito del maneggio di denaro di proprietà pubblica, è stata posta in termini dubitativi dall'ordinanza di rimessione. L'ordinanza, rammenta la Corte, dopo avere richiamato i comuni principi secondo i quali il soggetto "<em>incaricato di pubblico servizio</em>" va individuato sotto il profilo funzionale della attività effettivamente svolta, ritiene che proprio le Sezioni Unite civili, in particolare con l'ordinanza n. 14697 del 2019, dubitino che nella attività devoluta al concessionario di rete vi sia un contenuto di pubblico servizio. Secondo la Sezione rimettente tale ordinanza espressamente afferma che la società ricorrente è concessionaria di un'attività che non ha né natura di servizio pubblico, né assolve una funzione neanche <em>latu sensu</em> “<em>pubblicistica</em>", evidentemente riferendosi alla intrinseca estraneità dell'esercizio del gioco d'azzardo da parte dello Stato dal perimetro proprio ai pubblici servizi, ove si astragga dalle connesse entrate tributarie e dal vantaggio erariale che ad esse consegue. Va invero chiarito che questo passaggio della decisione citata va collegato a quanto sostenuto nella ordinanza delle Sezioni Unite civili che, subito dopo avere escluso la funzione pubblicistica del gioco d'azzardo in sé, fa riferimento al compito proprio del concessionario di esercizio della rete telematica deputata al controllo ed afferma che solo all'interno «<em>di queste rigide maglie</em>» il gioco può ritenersi lecito. Il "<em>pubblico servizio</em>" è, quindi, rappresentato – chiosa significativamente la Corte - dal diretto e continuativo controllo di un'attività che, altrimenti, sarebbe illecita. L'ambito del pubblico servizio attribuito al concessionario di rete è chiaramente individuato anche dalla recente giurisprudenza costituzionale. Infatti, la sentenza costituzionale n. 56 del 2015, proprio con riferimento alla tipologia di concessioni riferite agli apparecchi da gioco di cui all'art. 110, comma 6, T.U.L.P.S., ne ha rammentato la natura di "<em>concessione traslativa</em>", in quanto «<em>la materia dei giochi pubblici è riservata al monopolio dello Stato, che ne può affidare a privati l'organizzazione e l'esercizio in regime di concessione di servizio, sulla base di una disciplina che trova origine negli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496 (Disciplina dell'attività di giuoco</em>)». In particolare, ravvisa gli interessi pubblici tutelati dalla normativa che disciplina tali giochi nella «<em>pubblica fede, l'ordine pubblico e la sicurezza, la salute dei giocatori, la protezione dei minori e delle fasce di giocatori adulti più deboli, la protezione degli interessi erariali relativamente ai proventi pubblici derivanti dalla raccolta del gioco</em>». Quindi, l'attività di gestione della rete di controllo deve qualificarsi come pubblico servizio, come del resto chiarisce il decreto ministeriale 12 marzo 2004, n. 86, del Ministero dell'Economia e delle Finanze, contenente il Regolamento per la gestione telematica degli apparecchi da divertimento e intrattenimento in questione, secondo il quale la Amministrazione «<em>affida in concessione l'attivazione e la gestione operativa delle reti telematiche</em>» e non l'esercizio del gioco d'azzardo. È inoltre un pubblico servizio l'esercizio del monopolio fiscale connesso ai giochi leciti. Nel già citato d.l. n. 269 del 2003, n. 269, istitutivo del PREU, prosegue la Corte, si fa riferimento più volte a tale monopolio con riferimento alla gestione delle entrate fiscali (art. 39, comma 13-quinquies: «<em>Al fine di evitare fenomeni di elusione del monopolio statale dei giuochi</em> ...», «<em>attività di giuoco riservato allo Stato</em>»). In definitiva, conclude il Collegio, non può dubitarsi che il concessionario svolga in regime di concessione un pubblico servizio, riservato al monopolio statale, che consiste proprio nel controllo delle attività di gioco sia per il rispetto dei limiti entro quale può ritenersi lecito, svolgendo quella funzione pubblica, più volte dichiarata nella normativa, di contrasto alla diffusione della ludopatia e delle attività criminali nel dato settore, sia per la gestione degli incassi delle giocate, destinati all'Erario. Per quanto riguarda il ruolo del gestore, chiosa ancora la Corte, quanto sinora esposto chiarisce che il denaro che le figure di supporto dell'attività del concessionario hanno in gestione non può mai definirsi a loro appartenente. La stessa questione controversa, verte sul profilo della spettanza degli incassi allo Stato, concedente dell'esercizio del gioco lecito, o al concessionario. In ogni caso, il gestore non assume mai il possesso autonomo del denaro, secondo gli schemi della convenzione di concessione che non consente di "<em>cedere</em>" la concessione, ma solo di avvalersi di soggetti addetti ai dati compiti, imponendo contenuti ai contratti di collaborazione per funzioni di garanzia del corretto esercizio dell'attività. Quindi, il rapporto del gestore con il denaro che raccoglie dagli apparecchi è di detenzione <em>nomine alieno</em>, che ai fini dell'art. 314 cod. pen., integra la condizione di altruità della cosa. Il gestore, comunque, sicuramente non riveste in proprio il ruolo di agente contabile. Si è detto come tale ruolo risulti già attribuito al concessionario, né la convenzione di concessione, che pure disciplina il rapporto dei gestori, assegna loro alcun ruolo autonomo nel "<em>maneggio</em>" degli incassi, quanto ad autonomia e responsabilità di gestione. Del resto, un ruolo autonomo di agente contabile del gestore contrasterebbe con quello, avente lo stesso oggetto, del concessionario, e vi dovrebbe essere una autonoma relazione, quanto alla resa del conto ex R.D. 23 maggio 1924, n. 827, tra i "<em>subconcessionari</em>" ed il giudice contabile. Dal punto di vista del Regolamento di contabilità, del resto, la posizione degli ausiliari rientra agevolmente nell'art. 188 del R.D. 23 maggio 1924 n. 827, che prevede la responsabilità dell'agente contabile nei confronti dell'Amministrazione anche per le attività dei propri ausiliari con funzione di cassieri etc. «<em>anche se la loro assunzione sia stata approvata dalle autorità competenti</em>». Va ora verificato – precisano le SSUU - se il gestore (o l'esercente) svolga, su incarico del concessionario, solo attività comuni o anche compiti rientranti nel pubblico servizio quale sopra delineato, in modo da acquisire a propria volta la qualità pubblicistica in base al quale la sua condotta di appropriazione del denaro altrui integra il peculato: diversamente, ricorrerebbe l'appropriazione indebita o un diverso reato "<em>comune</em>", come nel caso della sentenza Poggianti che, ricorrendo le ulteriori condizioni di occultamento fraudolento degli incassi, ha qualificato la condotta quale truffa. La questione si pone poiché, non essendo neanche prevista la figura del gestore dal citato regolamento di cui al D.M. n. 86 del 2004, le attività previste dai contratti di collaborazione con il concessionario, quali la collocazione fisica degli apparecchi, la verifica del loro corretto funzionamento e la necessaria manutenzione, lo "<em>scassettamento</em>" del denaro e la relativa movimentazione, potrebbero valutarsi quali attività meramente materiali e non di partecipazione all'esercizio del servizio pubblico. Invero, il contenuto della convenzione di concessione dimostra che l'Amministrazione impone che i soggetti delegati all'esercizio dei dati compiti per conto del concessionario esercitino anche attività proprie del pubblico servizio. In particolare, prosegue la Corte, pur se non si prevede alcun rapporto diretto ed obbligo di rendiconto direttamente nei confronti dell'Amministrazione, il gestore (che può essere anche proprietario delle macchine o può operare con apparecchi altrui) svolge la propria attività in autonomia, senza il controllo diretto del concessionario, ed a lui è affidata, tra l'altro, la verifica della funzionalità della rete telematica con obblighi di segnalazione di anomalie, risultando già solo per questo avere un ruolo determinante nel profilo che qualifica l'attività data in concessione quale pubblico servizio. Inoltre, tali soggetti, pur non essendo loro assegnato un ruolo diretto ed autonomo nella gestione del denaro per conto dell'ente pubblico proprietario, lì dove delegati anche alla gestione degli incassi, sono comunque destinatari, secondo la convenzione di concessione (artt. 6-bis, del contratto con il gestore, e 6, del contratto con l'esercente), di penetranti obblighi di controllo, offerta di garanzie, tracciabilità; tali obblighi sono evidentemente fondamentali per la verifica dei corretti flussi finanziari per la prevenzione dell'inserimento di fenomeni criminali, anche di riciclaggio, così realizzando altri interessi pubblici sottesi alla gestione monopolistica nei termini di cui si è già detto. Si può, quindi, affermare per le SSUU che anche il gestore riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio quando, come nel caso qui in considerazione, abbia la gestione degli incassi, trovandosi a detenere <em>nomine alieno</em> il denaro per ragione del suo servizio pubblico. Difatti partecipa, per la parte delegatagli, all'esercizio delle attività in concessione e, in particolare, partecipa anche all'esercizio della stessa attività di agente contabile del concessionario, svolgendo rispetto a questa, pur nell'ambito del rapporto di dipendenza considerato dal citato art. 188, R.D. 23 maggio 1924 n. 827, funzioni che non sono di mero concetto, essendogli delegate parte delle necessarie attività di contabilizzazione e movimentazione che il gestore svolge in piena autonomia ed al di fuori del diretto controllo del proprio committente, condizioni che, a ben vedere, hanno consentito proprio nella vicenda oggetto di scandaglio da parte del Collegio la rilevante sottrazione di incassi per un ampio arco temporale. In definitiva, la condotta del gestore (cui, si rammenta, va equiparato l'esercente) di appropriazione degli incassi degli apparecchi da gioco, in quanto denaro "<em>altrui</em>" del quale ha il possesso per ragione del proprio ufficio di incaricato di pubblico servizio, è quindi correttamente qualificata come peculato. In conclusione, in risposta al quesito va affermato per le SSUU il principio di diritto onde integra il reato di peculato la condotta del gestore o dell'esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all'art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del PREU, non versandoli al concessionario competente. <strong>Questioni intriganti</strong> <strong>Cosa occorre rammentare del c.d. soggetto attivo del reato?</strong> <ol> <li>un fatto inadempimento reato rileva dal punto di vista giuridico perché esiste qualcuno che lo pone in essere, ovvero che lo “<em>commette</em>”;</li> <li>chi commette il fatto inadempimento reato è il soggetto che realizza la pertinente fattispecie incriminatrice, detto soggetto “<em>attivo</em>”; ciò tanto nell’ipotesi in cui – già dal punto di vista della condotta – tale commissione si risolva in una “<em>azione</em>”, quanto nel caso in cui si compendi in una “<em>omissione</em>”;</li> <li>il soggetto attivo si studia nell’ambito della c.d. analisi del reato e ancora oggi paga sostanzialmente dazio ad una concezione del reato che rimane antropocentrica, secondo il prototipo illuminista e liberale dell’azione umana cosciente e volontaria;</li> <li>proprio muovendo da questi presupposti, il soggetto attivo del reato è da sempre assunto potersi compendiare nella sola persona fisica, unica potenziale “<em>responsabile</em>” dal punto di vista penale proprio in quanto esclusiva destinataria del precetto o del divieto penalmente rilevante e, come tale, rimproverabile ex art.27, comma 1, Cost. alla cui stregua la responsabilità penale è “<em>personale</em>” e, dunque, propria di una “<em>persona</em>” fisicamente intesa;</li> <li>dando uno sguardo alla parte speciale del codice penale, ad essere puniti sono infatti comportamenti umani declinati come contegni propri di una persona fisica, che è poi la medesima destinata a subire le sanzioni penali, massime se “<em>personali</em>” come nel classico caso della reclusione.</li> </ol> <strong>Cosa distingue il reato “<em>comune</em>” dal c.d. reato “<em>proprio</em>”?</strong> <ol> <li>molte fattispecie penalmente rilevanti si presentano come commissibili da “<em>chiunque</em>”, da intendersi come “<em>qualunque persona fisica</em>”;</li> <li>si tratta dei reati c.d. comuni, tali proprio perché il contegno penalmente rilevante può essere realizzato da “<em>chiunque</em>” in guisa generalizzata;</li> <li>non mancano tuttavia fattispecie nelle quali dietro all’apparente “<em>chiunque</em>” si cela in realtà qualcuno specificamente qualificato, come nel caso dell’art.392 c.p. in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (o, analogamente, l’art.393 c.p. nel caso della violenza sulle persone) che punisce “<em>chiunque</em>” – al fine di esercitare un preteso diritto – potendo ricorrere al giudice, si fa arbitariamente ragione da sé medesimo; qui, in realtà, il reato non è appannaggio di “<em>chiunque</em>” ma piuttosto, e solo, di chi assuma di vantare un preteso diritto, agendo in autotutela piuttosto che ricorrendo ad un giudice;</li> <li>si tratta delle ipotesi di c.d. “<em>reato proprio</em>”, connotato dalla peculiare qualifica del soggetto attivo del reato medesimo e che affiora vieppiù nitidamente laddove ad agire possa essere, con pertinente responsabilità penale, non già “<em>chiunque</em>”, quanto piuttosto – e solo – chi rivesta un peculiare <em>habitus</em> soggettivo privato o, più spesso, pubblico, come nel classico caso del peculato ex art.314 c.p., che può essere commesso solo da chi sia pubblico ufficiale ovvero incaricato di un pubblico servizio;</li> <li>in sostanza, nel reato “<em>proprio</em>” il soggetto attivo – sempre e comunque una persona fisica – si presenta con particolari qualità “<em>soggettive</em>”di tipo naturalistico o giuridico, come nel già menzionato caso del peculato (laddove ad agire è una persona fisica che è anche, giuridicamente, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) ovvero nella fattispecie dell’incesto (laddove soggetto attivo è una persona fisica che è anche, naturalisticamente, un parente stretto ex art.564 c.p., ad esempio un ascendente, del relativo compartecipe necessario);</li> <li>i reati propri possono essere: f.1) esclusivi: può commetterli solo ed esclusivamente il soggetto agente titolare della peculiare qualifica soggettiva che all’uopo lo connota: solo il testimone può commettere falsa testimonianza ex art.372 c.p.; solo un parente stretto può commettere incesto ex art.564 c.p.; f.2) non esclusivi o “<em>semi-esclusivi</em>”: può concretamente commetterli anche un terzo estraneo, in accordo con quello titolare della peculiare qualifica soggettiva richiesta ex art.117 c.p., ovvero in difetto di tale accordo, sulla scorta di un mero mutamento del <em>nomen iuris</em> del reato: l’appropriazione indebita ex art. 646 c.p. diviene peculato ex art.314 c.p. se commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, ovvero anche solo “<em>in concorso</em>” con questi ultimi; ancora, l’uccisione di un neonato commessa dalla madre costituisce infanticidio ex art. 578 c.p., mentre laddove commessa da altro soggetto costituisce omicidio “<em>semplice</em>” ex art. 575 c.p;</li> <li>settori ordinamentali in cui rilevano “<em>tout court</em>” figure di reato “<em>proprio</em>” sono il diritto penale militare, il diritto penale della navigazione, il diritto penale commerciale ed il diritto penale tributario;</li> <li>la dottrina rappresenta come il reato proprio trovi la propria genesi storica e ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità, caratterizzandosi perché il soggetto che ha una particolare qualifica acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la relativa qualifica, alternativamente: h.1) lo pone in peculiare rapporto col bene protetto, consentendogli di arrecarvi l’offesa incriminata; h.2) gli conferisce peculiarmente la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata; h.3) rende opportuna l’incriminazione di fatti altrimenti non ritenuti meritevoli di pena; h.4) limita la meritevolezza di un trattamento sanzionatorio di favore (come accade in favore della sola madre in relazione al reato d’infanticidio);</li> <li>il reato proprio, secondo l’impostazione dominante, non si pone peraltro astrattamente in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), ma ciò solo se ed in quanto – concretamente – esso trovi ragionevole giustificazione nella tutela di interessi tali da legittimare, a seconda dei casi, il trattamento deteriore o di favore.</li> </ol> <strong>In cosa si compendia il brocardo “<em>societas delinquere non potest</em>” ed è stato in qualche modo superato?</strong> <ol> <li>occorre distinguere cronologicamente due fasi ben precise;</li> <li>prima dell’avvento del decreto legislativo 231.01, la sola persona fisica può ineludibilmente commettere reato e rendersene pertanto soggetto attivo; dire che la responsabilità penale è “<em>personale</em>”, come fa l’art.27 Cost., significa postulare un coefficiente di partecipazione psichica imputabile all’autore della fattispecie criminosa, giustificando una risposta sanzionatoria almeno tendenzialmente “<em>rieducativa</em>”, percepibile come tale da chi ne è il destinatario;</li> <li>da questo punto di vista, un ente, una persona giuridica o comunque non fisica, non potendo consapevolmente volere, non potrebbe commettere azioni od omissioni coscienti e volontarie capaci di far scattare, per l’appunto, una risposta che - nel mentre “<em>sanziona</em>” – ad un tempo tende a “<em>rieducare</em>”;</li> <li>né potrebbe affermarsi che la coscienza e volontà della persona fisica “<em>organo</em>”, e dunque strumento, dell’ente, si tradurrebbe in coscienza e volontà dell’ente medesimo, stante la “<em>personale</em>” responsabilità solo del primo, e non anche del secondo che dal primo dipende interamente (risultandone una variante “<em>dipendente</em>”);</li> <li>di qui il noto brocardo (più medioevale che romano) “<em>societas delinquere non potest</em>”, potendo delinquere, per l’appunto, la sola persona fisica alla stregua di un orientamento dottrinale (oltre che giurisprudenziale) pressoché granitico;</li> <li>ciò anche leggendo l’art.27, comma 1, Cost. quale divieto di una responsabilità penale per fatto del terzo, dove “<em>terzo</em>” è appunto la persona fisica “<em>organo</em>” che materialmente pone in essere la condotta punibile e che tuttavia – accogliendo la tesi per cui “<em>societas delinquere potest</em>” – finirebbe con l’impegnare la responsabilità dell’ente, estraneo al fatto materiale, oltre che delle altre persone fisiche che in qualche modo “<em>partecipano</em>” all’ente medesimo;</li> <li>il tutto si assume confermato dall’art.197 c.p. laddove tale norma prevede gli enti forniti di personalità giuridica – eccezion fatta per lo Stato, le Provincie e i Comuni – come obbligati al pagamento di una somma pari all’ammontare dell’ammenda inflitta all’autore “<em>fisico</em>” del reato in caso di pertinente condanna per contravvenzione di soggetti che ne abbiano la rappresentanza, l’amministrazione o ne siano dipendenti, sempre che l’illecito (penalmente rilevante) commesso costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità del colpevole (in termini di reato c.d. “<em>proprio</em>”) e che quest’ultimo sia insolvibile; si tratta di una norma che prevede dunque una mera obbligazione di garanzia “<em>patrimoniale</em>” e “<em>sussidiaria</em>” dell’ente per il caso di insolvibilità del reo persona fisica, con ciò confermando appunto la validità del brocardo “<em>societas delinquere non potest</em>”;</li> <li>solo dopo l’avvento del decreto legislativo n.231.01 si è riacceso il dibattito sulla configurabilità di un soggetto attivo del reato <em>sub specie</em> di persona “<em>giuridica</em>”, o comunque “<em>non fisica</em>”, dovendosi rinviare al CRONO-PERCORSO in proposito all’uopo elaborato.</li> </ol>