<strong>Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 26 maggio 2021, n. 20879</strong> <strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)</em></strong> <em>Il ricorso è fondato.</em> <ol> <li><em> Colgono nel segno le - assorbenti - censure svolte nel primo motivo di ricorso.</em></li> </ol> <em>1.1. Il tema che il ricorso impone, essenzialmente, di affrontare investe il <strong>se - ed in quale misura - l’esistenza di beni sociali, non rinvenuti dalla curatela, possa ritenersi comprovata attraverso le scritture contabili ed i documenti sociali e come si declini, in tal caso, l’onere di dimostrazione dell’imprenditore fallito</strong>.</em> <em>1.1.1. In materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, questa Corte ha affermato, con orientamento consolidato ed unanimemente seguito, come la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società, dichiarata fallita, sia desumibile dalla mancata dimostrazione, ‘da parte dell’amministratore, della loro destinazione (ex multis Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Costantino, Rv. 279204).</em> <em>L’imposizione di un onere della prova nei termini sopra illustrati a carico dell’amministratore, osserva la Corte, si giustifica a tutela del ceto creditorio perché è l’amministratore responsabile della gestione dei beni sociali e risponde nei confronti dei creditori della conservazione della garanzia dei loro crediti, con la conseguenza che solo lo stesso può chiarire, proprio in quanto artefice della gestione, quale destinazione effettiva abbiano avuto i beni sociali.</em> <em>1.1. 2. Siffatto onere dimostrativo presuppone, invero, <strong>la prova dell’esistenza dei beni non rinvenuti dagli organi della curatela</strong>.</em> <em>Sul punto, si è affermato come siffatta esistenza (e consistenza) possa essere desunta, in via indiretta, anche dagli ultimi documenti attendibili, pur risalenti nel tempo, redatti prima di interrompere l’esatto adempimento degli obblighi di tenuta dei libri contabili (Sez. 5, n. 6548 del 10/12/2018 - dep. 2019, Villa, Rv. 275499). Si è, a tal proposito, osservato come il principio, che fonda la prova della distrazione di beni sociali sulla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione di tali beni al soddisfacimento delle esigenze della società o al perseguimento dei relativi fini, debba valere non solo per quei cespiti che in epoca prossima al fallimento (è riscontrato che) fossero nella disponibilità della società dichiarata fallita, ma anche per quelli che parimenti risultassero nella disponibilità della medesima sulla scorta degli ultimi documenti contabili attendibili redatti in esercizi, anche distanti rispetto al fallimento, prima che gli amministratori venissero meno <strong>all’obbligo di tenuta dei libri contabili</strong>, in modo integrale o, comunque, attraverso la gestione della contabilità con modalità tali da impedire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. Ciò in quanto la mancata o irregolare tenuta della contabilità, in totale spregio degli obblighi di legge, non può certo costituire una circostanza da cui gli amministratori inadempienti possano trarre vantaggio, dovendo gli stessi comunque giustificare quale destinazione abbiano avuto i beni sociali - la cui esistenza risulti dagli ultimi documenti contabili redatti dalla società in modo attendibile - non rinvenuti dal curatore al momento della dichiarazione di fallimento.</em> <em>1.1.3. Siffatti principi, chiosa ancora la Corte, sono stati ulteriormente specificati, nella prospettiva di scongiurare inammissibili automatismi ed equazioni dimostrative.</em> <em>Si è, a tal fine, precisato come l’accertamento della precedente disponibilità, da parte dell’imputato, dei beni non rinvenuti in seno all’impresa non possa fondarsi sulla presunzione di attendibilità dei libri e delle scritture contabili prevista dall’art. 2710 c.c., dovendo, invece, le risultanze desumibili da questi atti essere valutate - anche nel silenzio del fallito - nella loro <strong>intrinseca affidabilità</strong>, sicché il giudice dovrà congruamente motivare ove l’attendibilità delle scritture non sia apprezzabile per l’intrinseco dato oggettivo (Sez. 5, n. 55805 del 03/10/2018, BE.MA. Costruzioni s.r.l., Rv. 274621); e siffatta valutazione d’attendibilità - prodromica e necessaria alla previa dimostrazione dell’esistenza di beni non rinvenuti dopo il fallimento - non può che investire <strong>anche il bilancio</strong> che, seppure non riconducibile nel novero delle scritture contabili (tanto da non rilevare ai fini della bancarotta documentale: Sez. 5, n. 42568 del 19/06/2018, E., Rv. 273925), rappresenta, purtuttavia, un documento sociale, finalizzato alla comunicazione ai terzi degli esiti dell’attività (Sez. 5, n. 49507 del 19/07/2017, Cereseto, Rv. 271439). Occorre, infatti, sottolineare come - ai sensi dell’art. 2423 c.c., comma 2, - il bilancio debba essere redatto secondo i <strong>principi di chiarezza e verità</strong> (standard c.d. I.A.S.), sì da rappresentare in modo trasparente e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio; ai sensi dell’art. 2423 bis c.c., n. 1, inoltre, la valutazione delle voci deve essere formulata secondo prudenza e nella prospettiva della continuità aziendale, tenendo conto della funzione economica dell’elemento dell’attivo e del passivo preso in considerazione; l’art. 2426, n. 9), c.c. quanto alle rimanenze, prescrive che le stesse debbano essere iscritte al costo di acquisto o produzione o al valore di realizzazione secondo l’andamento del mercato, se minore.</em> <em>Va, pertanto, qui affermato come, <strong>in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, anche il bilancio può costituire documento utile ai fini della ricostruzione del patrimonio sociale, purché redatto in conformità alle prescrizioni imposte dalla legge e sia, dunque, assistito dal crisma dell’attendibilità</strong>.</em> <em>1.2. Nel quadro così delineato, prosegue la Corte, pienamente condivisibile s’appalesa la censura sollevata dal ricorrente, che contesta alla Corte territoriale di aver sostanzialmente risolto la prova della sottrazione dei beni postulandone l’esistenza alla stregua di una mera posta del bilancio 2010, antecedente all’epoca di acquisto delle quote sociali da parte dell’imputato.</em> <em>Del resto, dal testo della sentenza impugnata non risultano valorizzati elementi a supporto della fisica sottrazione di beni, basandosi invece l’affermazione di responsabilità su di un mero dato contabile, non sottoposto alla prova di resistenza delle deduzioni critiche dell’appellante, che non aveva mancato di segnalare - in punto di censura all’attendibilità del procedimento inferenziale - l’incongruità del prezzo della cessione delle quote sociali rispetto al patrimonio esposto in bilancio dal precedente amministratore.</em> <em>Del tutto non pertinente s’appalesa, pertanto, il richiamo alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, supra richiamata al § 1.1.1.: siffatto orientamento, infatti, presuppone il dato fisico della mancanza dei beni di cui sia certa la previa esistenza, senza la quale nemmeno può prospettarsi la loro distrazione (che implica la trasmissione indebita a terzi), ovvero il loro occultamento, o la conservazione aliunde del possesso, in modo segreto e clandestino.</em> <em>Ne consegue, conclude la Corte, che la motivazione rassegnata sul capo relativo alla condotta distrattiva si rivela del tutto assertiva, siccome esclusivamente fondata su dati, spiegazioni e prospettazioni contabili contenuta in un bilancio, redatto dal precedente amministratore; nè risultano valorizzati elementi di collegamento con la pregressa gestione tali da cogliere profili strumentali in un’operazione contabile di appostazione effettuata un anno prima della cessione delle quote, tre anni prima del fallimento e cinque anni prima della formulazione dell’accusa, senza neppure indagare le condizioni economico-finanziarie della società all’epoca della redazione del bilancio: tema, quest’ultimo, del tutto trascurato e invece rilevante non tanto e non solo <strong>ai fini del pericolo concreto di pregiudizio alle ragioni dei creditori</strong>, quanto, piuttosto e soprattutto, nella prospettiva della <strong>strumentalità della successiva condotta dell’imputato, apoditticamente ravvisata</strong>.</em> <ol start="2"> <li><em> Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale e vizio logico della motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del <strong>dolo specifico della correlata bancarotta documentale</strong>.</em></li> </ol> <em>La sentenza impugnata ravvisa il dolo come intrinseco alla scelta deliberata e consapevole di occultare i beni, ma risente chiaramente dell’errore di fondo che l’aveva portata a risolvere il tema di prova della distrazione in una mera comunicazione sociale.</em> <em>Il dolo specifico richiesto per la configurazione delle ipotesi di reato di sottrazione, distruzione o falsifica.zione di libri e scritture contabili previste dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2, prima parte, (Sez. 5, n. 17084 del 09/12/2014 - dep. 2015, Caprara, Rv. 263242), <strong>deve essere, invero, valutato in relazione al concreto contesto, sì da ravvisare lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori</strong>.</em> <ol start="3"> <li><em> La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma perché, in piena libertà di giudizio ma facendo corretta applicazione degli enunciati principi, proceda a nuovo esame.</em></li> </ol>