<strong>Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 09 giugno 2021 n. 16084</strong> <strong><em>PRINCIPI DI DIRITTO</em></strong> <strong><em>Nell’ambito della procedura della liquidazione coatta amministrativa, la mancata notifica da parte dell’opponente del decreto con il quale il giudice istruttore designato fissa, ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 87, comma 3, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 181, art. 1, comma 29, l’udienza in cui i commissari e le parti devono comparire davanti a lui, e assegna il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ai commissari e alle parti, non produce effetti preclusivi, allorché l’opponente non abbia avuto conoscenza del termine indicato per la notifica, perché la Cancelleria non gli ha comunicato il decreto citato.</em></strong> <strong><em>I versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare - sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore stesso - hanno natura previdenziale e non retributiva.</em></strong> <strong><em>Al credito correlato alle contribuzioni dei datori di lavoro ai Fondi di previdenza complementare, non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, in quanto non è corrisposto da un ente gestore di forme di previdenza obbligatoria, ma da un datore di lavoro privato".</em></strong> <strong><em>Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa, in virtù della L. Fall., art. 55, della L. Fall., art. 201, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 83, comma 2, nel testo applicabile ratione temporis, il corso di interessi e di rivalutazione monetaria sui crediti non assistiti da privilegio deve arrestarsi alla data del provvedimento che ha disposto la liquidazione".</em></strong> <strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong> <em>Esame dei motivi.</em> <ol start="21"> <li><em> Il terzo motivo di ricorso deve essere trattato in via prioritaria, in ragione della sua valenza preliminare rispetto all’esame di tutte le altre censure.</em></li> <li><em> La ricorrente, infatti, denunciando la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 87, nonché del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. nonché dell’art. 6 CEDU, assume che la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare l’improcedibilità del ricorso in opposizione allo stato passivo, perché il M. non aveva coltivato il ricorso in opposizione proposto il 12.2.1999.</em></li> <li><em> Il motivo è infondato.</em></li> <li><em> Il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 87 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), nel testo, applicabile ratione temporis alla vicenda dedotta in giudizio, antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 181, art. 1, comma 29, detta la disciplina delle opposizioni allo stato passivo.</em></li> <li><em> Al comma 3, dopo avere stabilito che tutte le cause relative alla stessa liquidazione devono essere assegnate a un unico giudice istruttore, dispone che "il giudice istruttore fissa con decreto l’udienza in cui i commissari e le parti devono comparire davanti a lui, dispone la comunicazione del decreto alla parte opponente almeno quindici giorni prima della data fissata per l’udienza e assegna il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ai commissari e alle parti. L’opponente deve costituirsi almeno cinque giorni liberi prima dell’udienza, altrimenti l’opposizione si reputa abbandonata".</em></li> <li><em> Il dato testuale della disposizione innanzi indicata, nella parte in onera la Cancelleria di comunicare alla parte opponente il decreto con il quale il giudice ha fissato l’udienza di comparizione e ha assegnato il termine per la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto, non lascia spazio a dubbi interpretativi in ordine alla non imputabilità all’opponente dell’omesso rispetto dei termini nel caso in cui la Cancelleria non abbia provveduto a comunicare il decreto.</em></li> <li><em> È, infatti, evidente che nell’assetto costituzionale che garantisce il diritto di agire in giudizio e il dritto di difesa (art. 24 Cost.), ove un termine sia prescritto per il compimento di un’attività.processuale, la cui omissione si risolva per la parte in pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale decorrenza del termine stesso, onde poter utilizzare, nella sua interezza, il tempo assegnatogli, pena la violazione del diritto di azione e di difesa.</em></li> <li><em> Diversamente, la parte sarebbe vincolata al rispetto di oneri processuali, che non è in grado di assolvere, non avendo avuto conoscenza del provvedimento del giudice, salvo l’uso di una diligenza ben superiore a quella "normale" che la Corte costituzionale ha ritenuto doverosa per la conoscibilità di un evento processuale (C. Cost. n. 34 del 1970; C. Cost. n. 159 del 1971; C. Cost. n. 14 e n. 15 del 1977; C. Cost. n. 303 del 1985; C. Cost. n. 255 e n. 156 del 1986; C. Cost., C. Cost. n. 120 del 1986; C. Cost. n. 223/1993; C. Cost. n. 144 del 1996).</em></li> <li><em> In</em><em>particolare, con riguardo al caso in esame, l’opponente allo stato passivo, potrebbe, infatti, conoscere del provvedimento giudiziale che fissa l’udienza di comparizione e assegna il termine per il compimento delle attività processuali di cui è onerata, soltanto attraverso un accesso quotidiano negli Uffici della Cancelleria e, per di più, per un tempo indefinito, posto che l’art. 87, comma 3 cit. non impone al giudice nessun termine, nemmeno ordinatorio, per la pronuncia del decreto di comparizione delle parti.</em></li> <li><em> Deve escludersi, poi, che le conseguenze pregiudizievoli per il diritto di difesa possano essere superate accedendo alla tesi che il termine di adempimento delle attività processuali che gravano sulla parte opponente sia di tipo ordinatorio.</em></li> <li><em> Ciò perché la ritenuta non perentorietà del termine consentirebbe di escludere, che pur dopo il suo decorso, resti preclusa alla parte opponente la notificazione del decreto, ma non la porrebbe, certo, al riparo dalle conseguenze che, con particolare riguardo ai procedimenti di impugnazione, possono riconnettersi alla violazione del termine a comparire che, proprio in dipendenza della non tempestiva conoscenza del decreto, l’appellante non fosse stato in grado di rispettare (Corte Cost. n. 15 del 1977).</em></li> <li><em> I principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze sopra richiamate sono stati fatti propri da questa Corte, relativamente alle norme riguardanti i giudizi di impugnazione (nella liquidazione coatta amministrativa, dopo la fase amministrativa con la partecipazione del creditore mediante istanze ed osservazioni, l’eventuale opposizione ha carattere impugnatorio dell’atto amministrativo del commissario liquidatore ed apre la fase giurisdizionale, Cass. 12551/2014), le quali prevedano termini di decadenza.</em></li> <li><em> E proprio in una prospettiva di interpretazione adeguatrice ai valori costituzionali delle norme concernenti materie e riti tra loro diversi, questa Corte ha costantemente affermato, che se è innegabile che il legislatore possa condizionare l’esercizio di atti di difesa giudiziale al rispetto di termini, anche a pena di improcedibilità o di inammissibilità, nondimeno, in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, non è lecito presumere che una tale conseguenza sia prevista implicitamente in situazioni nelle quali non risulti, al contempo, garantito alla parte onerata dal rispetto del termine la tempestiva conoscenza del momento dal quale esso prende a decorrere (Cass. Sez. Un. 5700/2014 e Cass. Sez. Un. 9558/2014, in tema di equa riparazione; Cass. Sez. Un. 25494/2009 in materia di impugnazione di lodo arbitrale; Cass. n. 9394/2011, in materia di opposizione al decreto di liquidazione degli onorari al difensore).</em></li> <li><em> Il canone ermeneutico della tutela del diritto di difesa ha ispirato anche la decisione di questa Corte n. 3082 del 2011 (cfr. anche Cass. n. 12172/2020).</em></li> <li><em> È ben vero che nella giurisprudenza di legittimità il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2) è divenuto punto costante di riferimento nell’ermeneutica delle norme, in particolare di quelle processuali, e nella individuazione del rispettivo ambito applicativo. Esso, infatti, ha condotto a privilegiare, pur nel doveroso rispetto del dato letterale, opzioni contrarie ad ogni inutile appesantimento del giudizio (tra le tante, Cass. Sez. Un. 20604/2008; Cass. Sez. Un. Cass.n. 4636/febbraio 2007).</em></li> <li><em> Nondimeno, questa Corte ha precisato che il principio del giusto processo non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso e ha ritenuto necessario prestare la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui, pure, si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio.</em></li> <li><em> D’altra parte, la stessa Corte Europea di Strasburgo, pur sottolineando che ad essa non compete un sindacato sull’interpretazione e ull’applicazione della regola emessa a livello nazionale, ammette poi le limitazioni all’accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (tra le altre, Omar c. Francia, 29 luglio 1998; Bellet c. Francia, 4 dicembre 1995), ha affermato anche in particolare che ritenere l’irricevibilità di un ricorso non articolato con la specificità richiesta configura un eccessivo formalismo (Walchi c. Francia, 26 luglio 2007); ed ha posto in rilievo l’esigenza che le limitazioni al diritto di accesso ad un giudice siano stabilite in modo chiaro e prevedibile, e, dunque, alla stregua di una giurisprudenza non ondivaga o non specifica (Faltejsek c. Rep. Ceca, 15 agosto 2008).</em></li> <li><em> La soluzione della questione all’odierno esame non può, dunque, prescindere dagli principi innanzi richiamati e non consente di affermare, come prospetta l’odierna ricorrente, che l’inerzia dell’opponente, protrattasi per cinque anni possa essere sanzionata con la improcedibilità anche nella ipotesi in cui difetti la comunicazione del decreto del giudice di fissazione dell’udienza di comparizione e di assegnazione dei termini per la notifica del decreto, comunicazione disposta dall’art. 87 c. 3 cit.</em></li> <li><em> Tra le parti era incontroverso (nel giudizio di merito) ed è indiscusso oggi che la Cancelleria non comunicò al M. il decreto con il quale il giudice aveva fissato l’udienza di comparizione delle parti, comunicazione, come detto, dovuta ai sensi dell’art. 87, comma 3 del D.Lgs. n. 385.</em></li> <li><em> Deve, in conseguenza, affermarsi la correttezza della statuizione della Corte territoriale, che ha escluso che la mancata notifica del ricorso in opposizione, e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, alla liquidazione coatta amministrativa comportasse l’improcedibilità dello stesso ricorso in opposizione.</em></li> <li><em> Pertanto, il terzo motivo del ricorso deve essere rigettato.</em></li> <li><em> Il primo ed il secondo motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della connessione logico giuridica delle questioni che essi pongono (natura retributiva o previdenziale dei contributi versati al Fondo, ammissione del credito concernente la restituzione di tali contributi allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa in via privilegiata ovvero in via chirografaria, regime del cumulo di interessi e rivalutazione e decorrenza).</em></li> <li><em> Il primo motivo, diversamente da quanto prospetta il controricorrente, è ammissibile.</em></li> <li><em> Il giudicato si può formare solo in relazione ai capi della sentenza completamente autonomi rispetto a quelli investiti dall’impugnazione, perché fondati su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva, anche se gli altri vengono meno. La suddetta autonomia non ricorre rispetto ai meri passaggi motivazionali, oppure qualora venga in rilievo un presupposto necessario di fatto o di diritto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (tra le molte, Cass. n. 4905/2021, Cass. n. 27560/2020; Cass. n. 5552/2020; Cass. n. 16836/2019, Cass. n. 24358/2018, Cass. n. 21566/2017, Cass. n. 726/2006).</em></li> <li><em> Questa Corte ha anche precisato che la locuzione giurisprudenziale "minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno" individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, con la conseguenza che la censura, motivata anche in ordine ad uno solo di tali elementi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perché, impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione (Cass. n. 16853/2018, Cass. n. 24783/2018, Cass. n. 12202/2017).</em></li> <li><em> Deve, inoltre, osservarsi che è consolidato nell’orientamento di questa Corte (tra le altre, Cass. n. 4905/2021, cit., Cass. n 34026/2019) il principio per il quale il giudicato si forma anche sulla qualificazione giuridica data dal giudice all’azione, quando essa abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito e la parte interessata abbia omesso di proporre specifica impugnazione sul punto. Ma, è stato precisato, che non si può formare giudicato sulla qualificazione giuridica quando l’appellante abbia formulato difese di merito incompatibili con essa, pur non avendola impugnata espressamente.</em></li> <li><em> Ebbene, con riguardo alla fattispecie in esame, va rilevato che dalla sentenza impugnata emerge in modo chiaro ed inequivoco che la liquidazione amministrativa con l’atto di appello non si era limitata a domandare il rigetto delle domande proposte dal M. , ma aveva chiesto "comunque il rigetto della richiesta di riconoscimento del privilegio" (sentenza impugnata, pg. 3 primo rigo), aveva contestato la statuizione del giudice di primo grado, che aveva riconosciuto il diritto alla rivalutazione monetaria in concorso con gli interessi legali, "deducendo che la contribuzione che spetta all’iscritto, che cessa senza diritto a pensione non riveste natura pensionistica e, pertanto, mancano i presupposti per riconoscere alla stessa la natura di retribuzione differita" (sentenza impugnata, pg. 3 secondo capoverso).</em></li> <li><em> La sentenza impugnata (sentenza impugnata, pg. 5 u.cpv., pg. 6 primo e secondo rigo), ha anche affermato che i trattamenti pensionistici integrativi hanno natura giuridica di retribuzione differita, sia pure con funzione previdenziale" e che, pertanto "contrariamente a quanto affermato dall’appellante, correttamente il primo giudice ha riconosciuto la rivalutazione monetaria ed aveva ammesso il credito in via privilegiata, ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 1".</em></li> <li><em> È, quindi, evidente che le contestazioni formulate in appello dalla liquidazione coatta amministrativa, quanto alla spettanza del cumulo degli interessi con la rivalutazione monetaria ed alla ammissione del credito in via privilegiata, affermata dal giudice di primo grado, hanno impedito il passaggio in giudicato anche della statuizione che ha attribuito al credito natura retributiva e, su questa premessa, ha ritenuto applicabile l’art. 2751 bis c.c., n. 1. Si tratta, infatti, di difese che, sul piano logico giuridico, erano in contrasto con la qualificazione retributiva del credito e con la sua natura di credito assistito dal privilegio generale.</em></li> <li><em> Nel merito il primo motivo è fondato.</em></li> <li><em> Sulla natura previdenziale o retributiva del credito concernente i versamenti effettuati dal datore di lavoro alla cd. previdenza complementare. 52. Con la sentenza del 9 marzo 2015 n. 4684, queste Sezioni Unite hanno risolto il contrasto esistente in seno alla Suprema Corte, concernente la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza integrativa o complementare (la fattispecie concreta esaminata concerneva la questione della loro computabilità o meno ai fini del trattamento di fine rapporto e dell’indennità di anzianità), affermandone il carattere previdenziale (e, per tal via, hanno escluso la computabilità nel TFR e nell’indennità di anzianità).</em></li> <li><em> Nella menzionata sentenza, la linea di demarcazione tra previdenza obbligatoria (ex lege) e previdenza integrativa o complementare (ex contractu) è stata individuata nel carattere generale, necessario e non eludibile della prima, a fronte della natura eventuale delle garanzie della seconda, che sono fonte di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari, e in relazione alla quale non opera il principio dell’automatismo delle prestazioni. 54. È stato anche ritenuto che, anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non possono essere considerati di natura retributiva. Tanto, sul rilievo che gli stessi non sono corrisposti ai dipendenti ma erogati direttamente al fondo.</em></li> <li><em> Al già menzionato principio questa Corte si è conformata nelle numerose sentenze pronunciate in fattispecie nelle quali, come in quella in esame, i lavoratori dipendenti della Sicilcassa s.p.a., iscritti al relativo Fondo Integrativo Pensioni, avevano chiesto l’ammissione, in via privilegiata, allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa della Sicilcassa s.p.a., delle somme corrispondenti ai contributi versati al F.I.P. dalla datrice di lavoro (tra le molte, Cass. sez. Lav. n. 25958/2017, n. 20829/2017, n. 20828/2017, n. 20775/2017, n. 20717/2015, n. 18041/2015).</em></li> <li><em> La natura previdenziale dei contributi versati dalla Sicilcassa al FIP è stata nuovamente ribadita da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 6928/2018 (p.14 lett. a)), alle quali era stata sottoposta (Ordinanza della VI Sezione Civile I n. 20512/2017) la questione, qualificata "di massima di particolare importanza" relativa alla applicabilità o meno del divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi legali, previsto dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, anche ai crediti - maturati da lavoratore, con riguardo alle somme versate nei fondi integrativi, come quello di cui si tratta nel presente giudizio (su cui, più diffusamente di seguito).</em></li> <li><em> Al principio per il quale i versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza integrativa o complementare hanno natura previdenziale e non retributiva deve essere data continuità, perché sono condivisibili le ragioni esposte nelle sentenze innanzi richiamate, ragioni che devono intendersi qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c., che non risultano efficacemente contrastate nel controricorso e che trovano conforto nelle pronunce della Corte costituzionale, che ha ricondotto all’alveo dell’art. 38 Cost., comma 2 la funzione della previdenza complementare, in ragione del suo concorso alla realizzazione dell’obiettivo dell’adeguatezza dei mezzi al soddisfacimento delle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione volontaria (Corte Cost. n. 303/2000, Corte Cost. n. 319/2001, C. Costit. n. 218/2019).</em></li> <li><em> Natura chirografaria o privilegiata dei versamenti effettuati da Sicilcassa al FIP. 59. Dalla affermata natura previdenziale delle contribuzioni dei datori di lavoro ai Fondi di previdenza complementare consegue che non è possibile accordare ai crediti correlati a detta contribuzione il privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 1, riservato, come recita la rubrica della disposizione, ai "Crediti per "retribuzioni e provvigioni, crediti dei coltivatori diretti, delle società o enti cooperativi e delle imprese artigiane", indicati nei nn. da 1 a 5 ter, nei termini precisati dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 326/1983, n. 1/1998 e n. 220/2002.</em></li> <li><em> Deve, anche, escludersi che la riconducibilità del sistema della previdenza complementare al principio affermato dall’art. 38 Cost., comma 2 (cfr. p. n. 57 di questa sentenza), consenta di applicare ai crediti correlati ai contributi versati dal datore di lavoro ai Fondi di previdenza complementare il regime del privilegio previsto dagli art. 2753 e 2754 c.c..</em></li> <li><em> L’art. 2753 c.c. (Crediti per contributi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti) limita, infatti, l’attribuzione del carattere di privilegio generale ai Soli crediti "derivanti dal mancato versamento dei contributi ad istituti, enti o fondi speciali, compresi quelli sostituiti o integrativi, che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti".</em></li> <li><em> L’art. 2754 c.c. (Crediti per contributi relativi ad altre forme di assicurazione), attribuisce la garanzia del privilegio generale anche ai crediti per contributi relativi ai contributi dovuti "per forme di tutela previdenziale e assistenziale diverse da quelle indicate dal precedente articolo".</em></li> <li><em> L’espressione di apertura "Hanno pure privilegio" che si legge nell’art. 2754 c.c. attesta, in modo inequivoco, lo stretto legame di continuità tra le due norme destinate a garantire in modo completo e coerente le contribuzioni dovute al sistema della previdenza obbligatoria e la finalità di chiusura del sistema di garanzia propria dell’art. 2754 c.c..</em></li> <li><em> In</em><em>altri termini, le disposizioni contenute negli artt. 2753 e 2754 c.c. sono diverse solo per l’oggetto del rischio: invalidità, vecchiaia e superstiti indicate nell’art. 2753; forme di tutela previdenziale e assistenziale diverse da quelle indicate dal precedente articolo, indicate nell’art. 2754, ma entrambe giustificano l’attribuzione del privilegio generale di cui all’art. 2751 c.c. solo nell’ambito delle forme di "assicurazione generale obbligatoria (Cass. 25173/2015).</em></li> <li><em> Deve osservarsi che il privilegio previsto dall’art. 2754 c.c. trova anch’esso giustificazione nel fatto che l’interesse pubblico al reperimento ed alla conservazione delle fonti di finanziamento della previdenza sociale è il medesimo, indipendentemente dall’oggetto del rischio coperto e ciò spiega la ragione per la quale non è applicabile ai contributi dovuti agli enti privati che gestiscono forme integrative di previdenza ed assistenza, non essendo gli stessi dovuti in base alla legge, ma in forza della contrattazione collettiva (Cass. 19792/2015, Cass. n. 15676/2006; Cass. n. 12821/1998).</em></li> <li><em> In</em><em>conclusione, una diversa lettura dell’art. 2754 c.c., volta a ritenere che esso metta insieme sia previsioni legali di contributi di assicurazione obbligatoria per evenienze diverse da invalidità, vecchiaia e superstiti, sia forme di assicurazione volontaria, oltreché contraria al chiaro ed inequivoco dato testuale e sistematico, determinerebbe una protezione così aperta da risultare indiscriminata ed irrazionale, perché gioverebbe anche ad interessi non riconoscibili ex ante in una disciplina pubblicistica o, più semplicemente, di predeterminazione normativa, che proprio l’obbligatorietà dell’assicurazione, da cui muove con chiarezza l’art. 2753 c.c. tende, invece, ad attuare.</em></li> <li><em> In</em><em>conclusione, il primo motivo, nei diversi profili di censura in cui è articolato, deve essere accolto.</em></li> <li><em> Il secondo motivo è fondato nei termini e nei limiti che sono indicati di seguito.</em></li> <li><em> Sul cumulo di rivalutazione monetaria e interessi legali.</em></li> <li><em> L’attrazione della previdenza complementare (cfr p. n. 57 di questa sentenza) nell’orbita dell’art. 38 Cost., comma 2 non elide la linea di demarcazione, tra previdenza obbligatoria (ex lege) e previdenza integrativa o complementare (ex contractu), individuata, come detto, nel carattere generale, necessario e non eludibile della prima, a fronte della natura eventuale delle garanzie della seconda, che sono fonte di prestazioni aggiuntive, rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari.</em></li> <li><em> Il divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria sui crediti è stato introdotto, dalla L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, per le forme di gestione di previdenza obbligatoria per un’esigenza di salvaguardia del bilancio statale. 72. Il diritto alla rivalutazione monetaria del credito previdenziale di natura non pubblicistica deriva dall’intervento della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 156/1991 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 442 c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare gli interessi a tasso legale dovuti e il maggior danno eventualmente subito dal titolare del credito per la diminuzione di valore del credito a causa della svalutazione monetaria.</em></li> <li><em> Dunque, l’equiparazione ai crediti di lavoro di quelli previdenziali non aventi natura pubblicistica (ovviamente ai. fini dell’applicazione della rivalutazione monetaria) deriva dal già menzionato intervento della Consulta e non da un’interpretazione a contrariis dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6.</em></li> <li><em> Come già detto, la previdenza complementare presenta, pur sempre, caratteristiche strutturali che la differenziano rispetto a quella obbligatoria: le risorse necessarie al perseguimento delle sue finalità sono estranee al bilancio pubblico e tanto spiega la sua sottrazione al principio dell’automatismo delle prestazioni postulato dall’art. 2116 c.c., che ne limita l’applicazione, attraverso il richiamo espresso dell’art. 2114 c.c., alla sola previdenza ed assistenza obbligatoria.</em></li> <li><em> L’estraneità alle risorse finanziarie pubbliche costituisce, ad un tempo, la ragione per la quale non trova applicazione, sui crediti correlati alla contribuzione ed alle correlate prestazioni, il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi legali. 76. Va pertanto confermato il principio affermato da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 6928 del 2008, nella parte in cui ha affermato (p. 14 lett. a)) che al trattamento pensionistico erogato dai fondi pensione integrativi, pur avendo natura previdenziale, fin da quando tali fondi sono stati istituiti, non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6. 77. Alle argomentazioni spese nella menzionata sentenza, da intendersi qui richiamate ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., deve essere aggiunto quanto segue.</em></li> <li><em> È innegabile che, nell’ambito della previdenza complementare, contribuzione e prestazione sono indubbiamente concettualmente distinte, ma, pur sempre intimamente correlate: la contribuzione mira a predisporre le risorse economiche e finanziarie da destinare all’erogazione delle prestazioni, in un sistema sottratto, come detto, al principio dell’automaticità delle prestazioni, il quale, in quanto espressione del principio di solidarietà della previdenza pubblica, allenta in quest’ultima il nesso tra contribuzione e prestazione.</em></li> <li><em> Pur nella diversità strutturale del sistema di previdenza obbligatoria, rispetto a quella complementare, nei termini descritti innanzi, deve ritenersi che anche nell’ambito di quest’ultima, non è dato distinguere tra le due obbligazioni, quella di versamento dei contributi e quella di erogazione della prestazione nè, tampoco, di affermare che abbia natura pecuniaria la seconda e non anche la prima.</em></li> <li><em> Occorre considerare che il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 11, applicabile ratione temporis (l’intero decreto è stato abrogato dal D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, art. 21, comma 8), disciplina, in modo dettagliato, le vicende del Fondo e prevede (comma 1) che "nel caso di scioglimento del fondo pensione per vicende concernenti i soggetti tenuti alla contribuzione, si provvede alla intestazione diretta della copertura assicurativa in essere per coloro che fruiscono di prestazioni in forma pensionistica" mentre per gli altri destinatari si applicano le disposizioni di cui all’art. 10 il quale prevede alla lett. c) "il riscatto della posizione individuale".</em></li> <li><em> Il pagamento della contribuzione versata al Fondo, nei casi nei quali la prestazione non possa essere erogata per la cessazione del Fondo, coincide in sostanza con il riscatto, previsto dalla legge (D.Lgs. n. 124 del 1993, artt. 10 e 11) della contribuzione versata dal datore di lavoro a favore del lavoratore, per ampliarne la tutela previdenziale, e resta estraneo all’istituto disciplinato dall’art. 2033 c.c.. 82. In conclusione, il secondo motivo di ricorso deve essere rigettato nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di avere errato nell’estendere l’art. 429 c.p.c. alla quota dei contributi riscattati e nell’avere escluso l’operatività del divieto di cumulo di cui alla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6.</em></li> <li><em> Decorrenza di rivalutazione monetaria ed interessi legali. 84. Il secondo motivo è fondato nella parte in cui imputa alla Corte territoriale la violazione dell’art. 80 T.U.B. e della L. Fall., art. 55.</em></li> <li><em> Al principio per il quale il credito non. è assistito da privilegio (cfr. supra dal p. n. 58 al p. n. 67 di questa sentenza), in virtù della L. Fall., art. 55, applicabile anche alla liquidazione coatta amministrativa (L. Fall., art. 201, D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 83, comma 2, nel testo vigente alla data del 5 settembre 1997, allorché provvedimento è stata disposta la liquidazione coatta amministrativa, applicabile ratione temporis), consegue che, in continuità con il principio affermato da questa Corte (Cass. n. 12551/2014) il corso di interessi e di rivalutazione monetaria deve arrestarsi alla data del provvedimento che ha disposto la liquidazione coatta amministrativa (nella fattispecie in esame il 5 settembre 1997) e non, come affermato dalla sentenza impugnata alla data di deposito dello stato passivo.</em></li> <li><em> Sulla scorta delle considerazioni svolte vanno affermati i principi di diritto che seguono:</em></li> <li><em> "Nell’ambito della procedura della liquidazione coatta amministrativa, la mancata notifica da parte dell’opponente del decreto con il quale il giudice istruttore designato fissa, ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 87, comma 3, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 181, art. 1, comma 29, l’udienza in cui i commissari e le parti devono comparire davanti a lui, e assegna il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ai commissari e alle parti, non produce effetti preclusivi, allorché l’opponente non abbia avuto conoscenza del termine indicato per la notifica, perché la Cancelleria non gli ha comunicato il decreto citato".</em></li> <li><em> "I versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare - sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore stesso - hanno natura previdenziale e non retributiva".</em></li> <li><em> "Al credito correlato alle contribuzioni dei datori di lavoro ai Fondi di previdenza complementare, non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, in quanto non è corrisposto da un ente gestore di forme di previdenza obbligatoria, ma da un datore di lavoro privato".</em></li> <li><em> "Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa, in virtù della L. Fall., art. 55, della L. Fall., art. 201, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 83, comma 2, nel testo applicabile ratione temporis, il corso di interessi e di rivalutazione monetaria sui crediti non assistiti da privilegio deve arrestarsi alla data del provvedimento che ha disposto la liquidazione".</em></li> <li><em> Sulla scorta dei siffatti principi, va accolto il primo motivo di ricorso e, nei limiti e nei termini sopra esposti, va accolto anche il secondo motivo di ricorso, mentre va rigettato il terzo motivo di ricorso.</em></li> <li><em> La sentenza impugnata deve essere cassata in ordine ai motivi accolti e la causa va rinviata alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, che farà applicazione dei principi di diritto, innanzi enunciati.</em></li> <li><em> Le spese del giudizio di legittimità vanno dichiarate compensate, in ragione del contrasto giurisprudenziale.</em></li> </ol>