Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 15 luglio 2021 n. 27421
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di confisca ex art. 240-bis cod. pen., esercitando gli stessi poteri che, in ordine alla detta misura di sicurezza atipica, sono propri del giudice della cognizione, può disporla, fermo restando il criterio di “ragionevolezza temporale”, in ordine ai beni che sono entrati nella disponibilità del condannato fino al momento della pronuncia della sentenza per il c.d. “reato-spia”, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza, ma con risorse finanziarie possedute prima».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è formulata nei seguenti termini: «Se la confisca di cui all’art. 240-bis cod. pen., disposta in fase esecutiva, possa avere ad oggetto beni riferibili al soggetto condannato ed acquisiti alla sua disponibilità fino al momento della pronuncia di condanna per il cd. reato “spia” ovvero successivamente, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza ma con risorse finanziarie possedute prima».
- Per ragioni di ordine logico si rende necessario esaminare preliminarmente le questioni processuali.
- E’ privo di fondamento il primo motivo, comune a tutti i ricorrenti, col quale si ripropone l’eccezione di nullità del provvedimento di confisca per violazione del principio della domanda e per l’omessa specificazione dell’oggetto del procedimento nell’avviso di fissazione dell’udienza camerale.
3.1. Contrariamente a quanto rappresentato dalle difese, la decisione sulla confisca è stata assunta nell’ambito di un procedimento sorto a seguito della richiesta del pubblico ministero di sottoporre i beni dei ricorrenti a sequestro preventivo finalizzato alla confisca. L’imposizione della misura ablatoria ha costituito l’esito di una decisione richiesta dalla parte pubblica legittimata ed è intervenuta quando la Corte di appello, investita delle opposizioni dei soggetti che avevano subito il sequestro, era stata sollecitata a stabilire la successiva destinazione dei beni: dissequestro e restituzione agli aventi diritto, come richiesto dagli opponenti, oppure confisca.
Diversamente da quanto dedotto dalle difese, il pubblico ministero, in relazione all’udienza dell’I. marzo 2017, aveva depositato il 22 febbraio 2017 una memoria, con la quale aveva chiesto il rigetto delle richieste di revoca del sequestro preventivo e «la confisca di tutti i beni mobili ed immobili sequestrati il 6 dicembre 2016».
3.2. Non può, dunque, condividersi l’assunto difensivo, per il quale la richiesta di imporre la sola misura cautelare del sequestro preventivo avrebbe impedito al giudice dell’esecuzione di assumere la decisione sulla confisca in assenza di una istanza ulteriore del pubblico ministero, con la conseguente omessa preventiva informazione delle parti sull’oggetto del procedimento camerale. L’istanza, seppur non necessaria, era stata avanzata ed è stata legittimamente delibata con piena effettività del contraddittorio tra le parti, sicché deve escludersi che il procedimento di esecuzione sia stato celebrato in assenza dell’impulso di parte.
Come affermato da precedenti decisioni di questa Corte, del tutto condivisibili, l’iniziativa del pubblico ministero per l’attivazione del procedimento esecutivo ex art. 666 cod. proc. pen. differisce dall’esercizio dell’azione penale nel processo di cognizione di cui all’art. 405 cod. proc. pen. ed è priva di formalità, potendo essere affidata anche alle conclusioni rassegnate nel contesto dell’udienza camerale (Sez. 1, n. 19998 del 12/02/2013, Morabito ed altro, Rv. 257008; Sez. 3, n. 6901 del 18/11/2008, dep. 2009, Favato, Rv. 242734).
A tal fine non può ritenersi che l’aver richiesto un provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca determini una qualche ipotesi di nullità degli atti ai sensi dell’art. 178 lett. b) e c) cod. proc. pen. per omessa iniziativa assunta dal pubblico ministero o per omessa partecipazione al procedimento dell’organo dell’accusa. Inoltre, non vale nemmeno obiettare che l’adozione di un provvedimento di confisca pretenda necessariamente il previo sequestro del bene.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno già chiarito che «Il sequestro non è indissolubilmente correlato alla confisca (arg. ex art. 12-sexies, comma 1 e 4) come un passaggio necessario dell’iter procedimentale conducente al provvedimento ablativo» e, comunque, «non costituisce principio assoluto (arg. ex art. 676, comma 3, cod. proc. pen.) che il giudice dell’esecuzione non possa mai procedere di ufficio» (Sez. U, n. 29022 del 30/05/2001, Derouach, Rv. 219221). Nel caso specifico, la natura cautelare del sequestro, quale anticipazione interinale e provvisoria di una decisione conclusiva di confisca, era già di per sé idonea a rendere le parti edotte dell’oggetto della procedura instaurata e del suo fisiologico epilogo definitivo in caso di mancato accoglimento delle loro istanze.
Tanto più che, in riferimento alla confisca applicata in esecuzione, non è riproducibile la dicotomia tra procedimento cautelare e procedimento principale, propria del giudizio di cognizione e non è pretesa una specifica e distinta richiesta del soggetto legittimato.
3.3. La giurisprudenza richiamata dalla difesa a sostegno del proprio assunto (Sez. 1, n. 1839 del 28/11/2006, dep. 2007, Fortini, Rv. 235794) non é pertinente, in quanto ha riguardo ad ipotesi di non consentite iniziative officiose del giudice. Ben diverso è il caso in esame, in cui è stata la parte pubblica a sollecitare il sequestro in funzione della successiva misura di sicurezza e poi l’adozione della stessa, con conseguente investitura del giudice dell’esecuzione del potere di assumere entrambi i provvedimenti.
- Altrettanto infondato è il secondo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti in termini coincidenti hanno sollevato un’ulteriore questione procedurale pregiudizi a le.
4.1. I ricorrenti non contestano l’avvenuta celebrazione dell’udienza in forma pubblica, come da loro stessi richiesto, bensì si dolgono dell’errore contenuto nel decreto di fissazione dell’udienza e nel verbale di udienza, redatto dal cancelliere, atti che fanno entrambi improprio riferimento alla “camera di consiglio”. Si tratta all’evidenza di meri errori materiali (Sez. 3, n. 3585 del 13/11/2018, F., Rv. 275831 in un caso di contrasto tra verbale d’udienza e provvedimento giudiziale; Sez. 5, n. 11064 del 07/11/2017, dep. 2018, Puliga Rv. 272658; Sez. 3, n. 45251 del 09/02/2016, Agostinelli, Rv. 268055; Sez. 2, n. 32991 del 24/06/2011, V., Rv. 251350) che non hanno avuto alcuna concreta incidenza sulla validità della vocatio in iudicium, sull’esercizio effettivo del diritto di difesa, sulla pienezza del contraddittorio, sul regime di pubblicità dell’udienza.
4.2. Infine, i riferimenti alla “camera di consiglio”, contenuti nel provvedimento impugnato, attengono al solo momento deliberativo della decisione adottata e non alle forme di celebrazione dell’udienza.
- Tanto osservato sulle questioni preliminari in rito, il terzo motivo proposto da Crostella investe il giudizio di sproporzione tra le acquisizioni patrimoniali ed i redditi percepiti e documentati.
5.1. Il motivo di ricorso è manifestamente infondato. Le deduzioni del ricorrente, pur denunziando formalmente la violazione della norma di riferimento e carenze ed illogicità motivazionali del provvedimento impugnato, in realtà censurano il merito della decisione della Corte territoriale, per di più in termini non specifici.
5.2. In primo luogo, la pretesa illogicità del giudizio di sperequazione per difetto tra redditi ed acquisti patrimoniali con un saldo negativo di poche migliaia di euro viene prospettata in termini vaghi ed imprecisi. Manca la specifica confutazione dei passaggi argomentativi dell’ordinanza contestata, che, con motivazione immune da vizi ha messo in luce la modesta entità dei redditi ufficiali disponibili e ha correttamente posto a confronto investimenti e redditi leciti per inferirne la riconosciuta sproporzione.
5.3. Le censure difensive, inoltre, omettono di confrontarsi con un dato oggettivo evidenziato nell’ordinanza impugnata: l’avvenuto trasferimento in Bulgaria da parte di Crostella e della moglie Borissova in diverse epoche, comprese tra il 2004 ed il 2008 – coincidenti sul piano cronologico con l’attività criminosa svolta da Crostella e giudicata con la sentenza della Corte di appello di Milano del 10 gennaio 2013, (irrevocabile il 29 aprile 2014) – di consistenti somme di denaro per l’importo complessivo di euro 440.390,00, dei quali euro 138.655,00 giustificati come destinati ad investimenti immobiliari e la restante parte a regalie e sussidi a terzi (pag. 34 ordinanza impugnata).
La circostanza, mai contestata nella sua veridicità e concludenza probatoria, ha indotto la Corte di merito a ravvisare una vistosa sproporzione tra i beni di cui Crostella, anche tramite la moglie, ha acquisito la titolarità e i flussi leciti di ricchezza di cui aveva potuto beneficiare. Le obiezioni mosse in ricorso (necessità di considerare la media di introiti leciti, pari a 13.000 euro annui, conseguiti tra il 2000 ed il 2009; utilizzo del corrispettivo della vendita di altri veicoli prima dell’acquisto di quelli nuovi; percezione di indennizzi assicurativi) ripropongono temi già affrontati e risolti dai giudici di merito con motivazione adeguata, attinente alle questioni proposte con l’atto di opposizione, oltre che logicamente coerente.
- Col quarto ed ultimo motivo Crostella deduce il vizio di motivazione con riferimento all’omessa considerazione della percezione di redditi ulteriori rispetto a quelli fiscalmente dichiarati, conseguiti grazie ad indennizzi per sinistri stradali ed all’attività lavorativa di sorvegliante e “buttafuori”, svolta presso alcuni locali notturni. In particolare, censura l’illogica omessa valutazione di quanto riferito da soggetti informati sui fatti e di quanto accertato dalla sentenza del Tribunale di Camerino n. 204/2001.
6.1. Ad avviso del Collegio, le doglianze non colgono nel segno. In primo luogo, restano insuperate le considerazioni critiche della Corte di appello sulla inidoneità dimostrativa della documentazione prodotta a supporto dell’allegata percezione di indennizzi assicurativi, liquidati in favore del ricorrente nell’arco di venti anni. L’assenza di tracce documentali circa l’erogazione degli importi e l’assoluta impossibilità di attribuire rilievo probatorio alle copie di perizie mediche, contenenti quietanza manoscritta vergata con unica grafia e prive di qualsiasi attestazione di conformità all’originale, nell’assenza di documentazione ufficiale, danno conto dell’impossibilità, ritenuta nell’ordinanza impugnata, di utilizzare il materiale documentale prodotto per assenza di rilievo oggettivo.
Altrettanto corrette sono le argomentazioni sviluppate nel provvedimento impugnato in ordine all’incerta provenienza delle informazioni, contenute in fogli manoscritti privi di qualsiasi attestazione di autenticità e dei requisiti formali per essere qualificabili come testimonianze, oppure esito di indagini difensive, condotte ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. pen. Si ricorda al riguardo che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, da confermare in questa sede, sono inutilizzabili le dichiarazioni di persone informate dei fatti, acquisite senza il rispetto delle forme e delle garanzie dettate dagli artt. 391-bis e segg. cod. proc. pen. ed introdotte nel procedimento quali allegati ad una memoria difensiva (Sez. 6, n. 12921 del 28/02/2019, Galletti, Rv. 275645; Sez. 2, n. 51073 del 15/09/2016, La Cava, Rv. 268903; Sez. 1, n. 36036 del 28/11/2013, Miceli, Rv. 261119).
In ricorso si è richiamato quanto risultante dalla sentenza del Tribunale di Camerino circa l’attività svolta da Crostella quale “buttafuori-addetto alla sicurezza” in locali notturni. La deduzione soffre di generica formulazione, poiché priva della precisa indicazione dei periodi di svolgimento dell’attività lavorativa non regolare e dei relativi proventi, in modo tale da consentire una loro contabilizzazione e di ravvisarvi una fonte lecita, ancorché sfuggita a tassazione, accrescitiva dei mezzi finanziari di cui Crostella aveva potuto disporre. In definitiva, non è censurabile nella sua logicità e legittimità il giudizio espresso dalla Corte territoriale che non ha accreditato, quale criterio attendibile di ricostruzione dei flussi di ricchezza accessibili, la mera verosimiglianza delle deduzioni difensive, quando, come nel caso, non supportate da puntuali e verificabili allegazioni e non in grado di offrire dati certi di conoscenza.
Da quanto esposto discende la non pertinenza dei rilievi, svolti in ricorso e diretti a sostenere l’inapplicabilità, alla fattispecie, della regola dettata dall’art. 240- bis cod. pen., come modificato dall’art. 31 della legge n. 161 del 2017, per il quale il condannato per un reato “spia” «non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale». In linea generale risponde al vero che la disposizione, di natura processuale, non può disciplinare un caso, come quello presente, in cui gli accertamenti patrimoniali hanno riguardato annualità antecedenti alla sua entrata in vigore. Tuttavia, la decisione sfavorevole alla tesi del ricorrente non si è basata sulla non computabilità di entrate lecite, ma percepite “in nero”, bensì sulla mancanza di prova della loro effettiva corresponsione e dei relativi importi.
6.2. Le superiori considerazioni rendono inammissibile, per difetto di rilevanza, anche la questione di legittimità costituzionale, sollevata con i motivi aggiunti dalla difesa di Crostella in riferimento ad una disciplina normativa, che non risulta essere stata applicata nell’ambito della decisione contestata. Ne discende il rigetto del ricorso, infondato in tutte le sue deduzioni, con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali.
- Vanno ora esaminati i motivi di ricorso proposti da Dimitrinka Petrova Borissova e da Katerina Mario Miteva, che prospettano ulteriori questioni preliminari.
7.1 Col terzo motivo le ricorrenti si dolgono della mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dalle dichiarazioni di Matteo Luigi Carretta, raccolte nell’ambito delle indagini difensive, e di quelle degli agenti verbalizzanti della Guardia di Finanza, prove idonee a dimostrare la capienza del patrimonio di Borissova, la fruizione di introiti extra-lavorativi in grado di giustificare il suo tenore di vita e gli investimenti effettuati in Italia ed in Bulgaria, nonché a smentire la ritenuta riconducibilità a Crostella dei beni confiscati.
7.2. L’ordinanza in esame non è censurabile sotto il profilo dell’adeguatezza e della logicità motivazionale e della mancata assunzione delle prove richieste dalle ricorrenti. Va premesso che nella giurisprudenza di legittimità il motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. è considerato proponibile soltanto per il processo di cognizione a rito dibattimentale, non anche per i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio e che sono regolati da differenti disposizioni con riferimento all’attività istruttoria (Sez. 1, n. 32116 del 10/09/2020, Gaita; Sez. 1, n. 49180 del 6/07/2016, Barberio ed altro, rv. 268652; sez. 1, n. 8641 del 10/02/2009, Giuliana, rv. 242887; Sez. 1, n. 38947 del 01/10/2008, Greco, Rv. 241309; Sez. 1, n. 15605 del 28/03/2008, Locci, rv. 242148).
Anche a prescindere da tale preliminare ed assorbente rilievo, il Collegio rileva che la doglianza non ha pregio, per il difetto del requisito della decisività della prova non ammessa. Sul punto la Corte di appello, con analitico argomentare, ha osservato che i presunti interventi in favore di Borissova da parte di Carretta non potevano ritenersi riscontrati dalle dichiarazioni del teste Carretta in assenza di idonea «documentazione bancaria anche del solo prelievo delle dette somme dai conti correnti del Carretta».
Ha giustificato tale valutazione in base agli esiti degli accertamenti patrimoniali, condotti dalla Guardia di Finanza, per i quali: non era emersa nessuna traccia di rapporti di natura finanziaria tra Carretta e Borissova; la pretesa vincita al lotto di Carretta, collocabile nel 2008, era successiva agli acquisti immobiliari effettuati da Borissova nel 2003 e nel 2007 e non poteva, dunque, essere correlata ad essi quale fonte della provvista utilizzata; i redditi netti percepiti dal teste nell’anno 2007 erano pari a 24.000 euro, sicché, se le elargizioni in favore della ricorrente fossero state pari a 4.000.000 di lire mensili, come sostenuto dalla sua difesa, avrebbero dovuto assorbire l’intero suo reddito annuo, circostanza ritenuta inverosimile.
Anche una verifica estesa ad altre annualità, a giudizio della Corte di appello, non rende plausibili trasferimenti per oltre 400.000,00 euro complessivi in assenza di qualsiasi traccia documentale delle imprescindibili operazioni bancarie. Analogo rigore logico è riscontrabile nel giudizio di insufficienza ed inattendibilità espresso in riferimento alle informazioni fornite da Nicola Gismondi, Sesto Mengani e Sergio Mengo. Premesso che costoro hanno rilasciato dichiarazioni su fogli manoscritti, privi di qualsiasi formalità e dell’accertamento sulla loro provenienza, su circostanze non riscontrate dalle fonti dirette, ossia dai datori di lavoro, e smentite dai dati documentali agli atti, valgono le medesime considerazioni già svolte al punto 6.1.
7.3. Le argomentazioni esposte dalla Corte di merito, connotate da pertinenza ai temi sollevati dalla difesa, coerenza e logicità, danno conto in modo esaustivo ed incensurabile della non decisività delle prove non ammesse. Gli accertamenti richiesti, nel confronto con la piattaforma probatoria acquisita, sono stati motivatamente ritenuti inidonei a condurre ad un esito decisorio differente e più favorevole per la parte che intendeva avvalersene ed a compromettere, per la loro mancata assunzione, la tenuta logica del ragionamento valutativo condotto in sede di merito. Basti considerare che l’impostazione difensiva mira ad accreditare la tesi del possesso in capo a Borissova di entrate lecite, diverse dagli introiti lavorativi ufficiali, ma non si confronta minimamente con le argomentazioni spese nel provvedimento per dimostrare l’intestazione fittizia dei beni riconducibili a Crostella, che ne aveva conservato la disponibilità materiale.
7.3.1. Il giudizio di inaffidabilità dei contributi informativi offerti dalla difesa e di incapienza della situazione finanziaria della ricorrente non si pone in contrasto con gli oneri di mera allegazione di circostanze in grado di giustificare le proprie possidenze, gravanti sul terzo proprietario di beni confiscati.
7.3.2. In ordine alla confisca atipica, disposta nei confronti di un terzo estraneo al reato per cui è intervenuta condanna irrevocabile, questa Corte ha già avuto modo di affermare che è la pubblica accusa ad essere gravata dell’onere di dimostrare l’esistenza di situazioni indicative della divergenza tra intestazione formale del terzo e disponibilità effettiva del bene in capo al condannato, intesa quale riconducibilità alla sua persona dell’iniziativa economica sottesa all’acquisizione.
Da tale accertamento si può desumere con certezza che il terzo intestatario si sia prestato ad assumere la titolarità apparente del bene al solo fine di favorirne la conservazione in capo ad altri. Spetta al giudice che disponga la misura ablativa illustrare efficacemente le ragioni della ritenuta interposizione, reale o fittizia, valorizzando allo scopo circostanze sintomatiche ed elementi fattuali, dotati dei crismi della gravità, precisione e concordanza, idonei a sostenere, anche in chiave indiretta, l’assunto accusatorio secondo lo schema tipico del ragionamento indiziario.
A tale fine, non soccorre la presunzione relativa, fondata sulla sproporzione dei valori, operante nei confronti del solo condannato, ma è richiesta un’attivazione probatoria da parte della pubblica accusa istante, analoga a quella necessaria per l’accertamento giudiziale di qualsiasi fatto avente giuridica rilevanza.
L’intestazione al terzo del bene in realtà appartenente al condannato va, dunque, dimostrata e la relativa prova può essere desunta anche per facta concludentia mediante la considerazione, ad esempio, dei rapporti e dei vincoli personali tra terzo e condannato, della condizione personale del terzo per età, salute ed attività svolta, della natura giuridica e delle modalità esecutive della vicenda negoziale acquisiva, della sproporzione di valore tra il bene formalmente intestato e il reddito percepito dal terzo, del potere di disposizione esercitato dal condannato, nonostante l’altruità del bene.
Circostanze queste da confrontarsi con gli altri aspetti concreti del caso, in modo che risulti sicuramente dimostrata la discrasia tra titolarità ufficiale ed appartenenza del bene (Sez. 5, n. 13084 del 06/03/2017, Carlucci, Rv. 269711; Sez. 2, n. 15829 del 25/02/2014, Podestà, Rv. 259538; Sez. 1, n. 6137 del 11/12/2013, dep. 2014, Soriano, Rv. 259308; Sez. 1, n. 44534 del 24/10/2012, Ascone, Rv. 254699; Sez. 1, n. 27556 del 27/05/2010, Buompane, Rv. 247722).
Inoltre, al terzo non compete l’onere della positiva dimostrazione della lecita origine del proprio patrimonio, ma della sola allegazione di circostanze contrarie all’assunto dell’accusa, che il giudice, secondo il principio del libero convincimento, è tenuto a vagliare (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, Rv. 226491). E’ altrettanto vero, però, che tale onere non può essere assolto dalla parte mediante giustificazioni prive di serietà (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola ed altri, Rv. 238216), perché, come nel caso specifico, non credibili ed insuscettibili di qualsiasi verifica oggettiva.
7.3.3. Non è, infine, ravvisabile nessun profilo di irrazionalità nella motivazione del provvedimento per non avere considerato dimostrata l’avvenuta percezione da parte di Borissova di contributi economici extra-lavorativi, erogati da ignoti amanti e da Cardella, non contabilizzabili, né denunciabili a fini fiscali: seppure la circostanza fosse rispondente al vero, la relativa deduzione pecca di genericità per la mancata allegazione dei relativi importi, delle modalità di erogazione e di custodia del denaro, nonché del suo reinvestimento.
Risultano, pertanto, incensurabili nella loro logicità le valutazioni svolte dalla Corte di appello sulla non plausibilità dell’acquisizione con mezzi leciti della somma di oltre 440.000 euro, trasferita in Bulgaria in un arco temporale di quattro anni dal 2003 al 2007, oltre che degli altri investimenti mobiliari ed immobiliari effettuati. Meramente esplorativa risulta la richiesta di escutere i verbalizzanti della Guardia di Finanza, inammissibilmente finalizzata ad attestare la consuetudine di retribuire “in nero” i lavoratori dei locali notturni. Deve essere, infine, sottolineata la irrimediabile astrattezza e genericità del quesito da rivolgere ai testi, non riferito agli esercizi commerciali ed ai periodi nei quali Borissova aveva prestato la sua attività.
7.3.4. Infine, come già riscontrato per la posizione di Crostella, nel caso in esame non assume rilievo il divieto di giustificare la legittima provenienza dei beni con l’impiego di denaro frutto di evasione fiscale, secondo la disposizione dettata dall’art. 240-bis cod. pen., dal momento che il rigetto delle deduzioni difensive è stato determinato da differenti ragioni.
- Il quarto motivo proposto da Borissova e Miteva riguarda le vicende degli immobili siti in Bulgaria, la cui intestazione congiunta alla prima ricorrente ed al marito Fausto Crostella si assume essere stata determinata quale effetto automatico del regime patrimoniale di comunione tra coniugi e non frutto dell’apporto finanziario di entrambi o del solo Crostella, anche perché acquisiti in parte prima del matrimonio.
Per contrastare il giudizio espresso nell’ordinanza impugnata, in ricorso si afferma che la relazione tra Crostella e Borissova doveva essere fatta decorrere dal matrimonio contratto nel 1997, mentre la proprietà dell’area in seguito edificata era entrata nel patrimonio di Borissova nel 1994, il permesso di costruire era stato rilasciato in quell’anno e l’approvazione del progetto risaliva al 1996, sicché nel 2006 era avvenuta soltanto la regolarizzazione urbanistica della costruzione, realizzata in epoca antecedente al rapporto di coniugio.
L’assunto difensivo ha già ricevuto adeguata e pertinente smentita nel provvedimento in esame, laddove si è rimarcato che, non soltanto non è dato conoscere il periodo di inizio della relazione sentimentale tra Crostella e Borissova, che certamente non può farsi decorrere dal momento delle nozze, ma anche che la pretesa automatica cointestazione ad entrambi i coniugi dei beni acquistati in costanza di matrimonio in Bulgaria, conseguenza della disciplina giuridica applicabile, è smentita documentalmente dal fatto che gli stessi sono risultati proprietari esclusivi di singoli cespiti: Crostella dell’appartamento di Sofia, ,via Chataldzha n, 49; Borrisova del terreno di Bankya e dell’appartamento di Sofia, via Kiril and Metodiy, n. 22. Inoltre, nessun travisamento dei dati documentali è ravvisabile, avendo la Corte di merito considerato in modo fedele le relative emergenze.
Non giova alla difesa nemmeno sostenere il modesto valore degli altri beni acquisiti in Bulgaria nel 2005 e delle polizze Intesa San Paolo Vita stipulate nel 2009 e la loro congruità rispetto alla redditualità di Borissova a prescindere da qualsiasi operazione interpositiva: il giudizio sull’impossibilità per la stessa di ottenere tali incrementi patrimoniali con mezzi personali è stato giustificato dai giudici di merito con motivazione esente da vizi giuridici e logici in base al confronto con gli emolumenti riscossi negli anni di acquisto, pari a 1.298,00 euro nel 2005 ed a 1.399,75 euro nel 2009, somme analoghe a quelle percepite negli anni precedenti, quando realmente incamerate.
- Col quinto motivo Borissova e Miteva hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 666, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., che assumono in contrasto col diritto di difesa e di iniziativa economica di cui agli artt.3, 24 e 42 Cost., oltre che con gli artt. 6, comma 1, 13 della Convenzione EDU e 1 Prot. add. stessa Convenzione.
9.1. Il tema non è nuovo, perché è stato già risolto in termini condivisibili dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 29022 del 17/07/2001, Derouach, Rv. 219221. Tale decisione, nell’ammettere la possibilità che la confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 sia imposta anche con autonomo provvedimento del giudice dell’esecuzione, da adottarsi nell’ambito di procedimento che segue il rito degli incidenti di esecuzione, ha escluso ogni profilo di illegittimità costituzionale della relativa disciplina. Per pervenire a tale affermazione di principio, le Sezioni Unite hanno respinto la prospettazione, secondo la quale dovrebbe provvedersi soltanto nel giudizio di cognizione a contraddittorio pienamente attuato.
Hanno testualmente osservato: «l’obiezione più consistente che l’opposto orientamento muove al riguardo fa leva sul penetrante accertamento che di norma richiede la giustificazione della provenienza del possesso di patrimoni, anche per interposta persona, che il condannato deve dare, ove il valore sia sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla sua attività economica. Intanto, sul punto deve osservarsi che la procedura de plano in materia di confisca in sede esecutiva (art. 676 correlato all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.) postula una semplicità nell’accertamento – arg. anche dallo stesso art. 676, comma 2 – compatibile col provvedimento ablativo in oggetto ove i risultati da ricercare, emersi in sede di merito, siano contenuti nella sentenza di condanna o di patteggiamento. D’altra parte, non si rinviene una regola generale che riservi la procedura in discorso alla confisca codicistica ed è apodittico affermare che le questioni inerenti a tale misura siano sempre di facile soluzione, mentre tale semplicità non inerisce alla confisca speciale, richiedendosi di norma approfonditi accertamenti.
Tale assunto non ha un referente normativo che assurga a canone definitorio di competenza. Comunque, esperita la procedura de plano, l’interessato con l’opposizione avverso il provvedimento emesso può attivare il procedimento di esecuzione ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen. che prevede la piena attuazione del contraddittorio (comma 4) e la possibilità di completa acquisizione probatoria (comma 5 e art. 185 disp. att. cod. proc. pen.) in ordine alla quale, in effetti, si esalta l’esercizio del diritto di difesa.
In ogni caso, nulla vieta al giudice dell’esecuzione di disporre sin dall’inizio, come si è verificato nel caso in esame, il procedimento di esecuzione, azionando direttamente il meccanismo del contraddittorio ai fini di un immediato accertamento probatorio (Cass. Sez. 1 9/8/2000 n. 3599 e Sez. 3 28/7/95 n. 2414). […] Sotto il profilo costituzionale, nessun problema d’illegittimità deriva accordando privilegio all’indirizzo che riconosce la competenza a disporre la confisca in questione al giudice dell’esecuzione.
Non in riferimento all’art. 24 Cost., comma 2, per quanto si è evidenziato, aggiungendo che il diritto di difesa non va inteso in senso assoluto ma va modulato secondo l’oggetto (altro è in relazione all’accertamento della colpevolezza, altro è in rapporto all’applicazione di una misura di sicurezza patrimoniale). Il fenomeno del contraddittorio differito, poi, è presente nel sistema (v. in materia di applicazione di misure cautelari, di procedimento per decreto), senza che il doppio grado di merito sia un postulato generale (arg. ex art. 111 Cost., art. 593, comma 3, cod. proc. pen. e, appunto, art. 666, comma 6, cod. proc. pen., nonché v. sentenze n. 236/84 e n. 116/74 della Corte Costituzionale)».
Nell’interpretazione offerta dalla sentenza Derouach, all’opposizione è assegnato il valore di strumento essenziale, ineliminabile anche quando la confisca sia disposta in una prima fase esecutiva nel contraddittorio delle parti, per far valere il diritto di difesa del soggetto condannato o del terzo e contrastare la domanda anche col ricorso ad acquisizioni probatorie. La trattazione da parte dello stesso giudice, pronunciatosi inizialmente de plano, non costituisce motivo di compromissione dell’effettività del diritto di difesa e del diritto ad ottenere una pronuncia a cognizione piena sui temi proposti dal condannato o dal terzo, ai quali, in conformità ai canoni del giusto processo ed ai principi costituzionali, è comunque riconosciuta la possibilità di impugnazione mediante ricorso per cassazione per far valere l’insussistenza dei presupposti applicativi della confisca.
9.2. Anche il possibile contrasto tra la confisca atipica disposta in sede esecutiva ed il diritto di proprietà ed iniziativa economica, tutelato dall’art. 42 Cost., è stato risolto negativamente dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 920 del 2003, L Montella, già citata, per la quale «[…] La prevenzione speciale e la dissuasione, perseguite non irragionevolmente dal legislatore attraverso la presunzione in esame, assolvono appunto ad una funzione sociale che è a fondamento dei limiti che il legislatore stesso può imporre». I dubbi di incostituzionalità non risultano fondati nemmeno sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), poiché nel caso specifico le limitazioni sul piano probatorio subite dai ricorrenti non sono dipese dalla trattazione della richiesta di confisca in sede esecutiva, piuttosto che nel processo ordinario di cognizione, quanto dalla natura e dai contenuti delle prove sollecitate, che, per gli aspetti di incertezza sulla provenienza e di scarsa verosimiglianza delle circostanze di fatto che si è chiesto di dimostrare nei termini già evidenziati, non avrebbero avuto accesso nemmeno nel giudizio di cognizione.
Infine, non ha pregio la denuncia di sperequazione nelle posizioni tra la pubblica accusa e la difesa a scapito degli interessi delle parti private, che non è rintracciabile nella struttura del procedimento esecutivo per come delineato nel sistema processuale. Il lamentato pregiudizio alla possibilità di articolare un’efficace strategia di contrasto della domanda di confisca non può riconoscersi nella necessità di superare la presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, che, come già detto, non opera nei riguardi dei terzi, ma soltanto del condannato.
Al contrario ai terzi è richiesta soltanto l’allegazione di circostanze giustificative specifiche e verificabili. In ragione di queste considerazioni parte della dottrina assume che proprio la sede esecutiva costituisce il momento processuale più idoneo ad affrontare la questione della confisca ed a deciderla nel contraddittorio delle parti, perché successivo alla condanna ed allo sforzo dimostrativo per conseguire l’accertamento di responsabilità in superamento della presunzione di non colpevolezza e per consentire l’esercizio più completo del diritto di difesa.
La compatibilità del modello procedurale esecutivo rispetto ai principi costituzionali evocati dalla difesa delle ricorrenti si apprezza anche in relazione al profilo dell’attribuzione al medesimo giudice, già pronunciatosi de plano, della competenza a decidere sull’opposizione ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. avverso il medesimo provvedimento. La Corte di cassazione si è già occupata del tema, osservando l’insussistenza di motivi incompatibilità, che presuppongono l’espressione di valutazioni di merito pregiudicanti nell’ambito di gradi o di fasi diverse del processo.
Tale condizione non si realizza nel giudizio di opposizione, che non ha natura di impugnazione e non rappresenta una fase distinta ed autonoma, ma integra un segmento, nell’ambito di un procedimento unitario, attraverso il quale si attua, in via eventuale e su iniziativa della parte stessa, il contraddittorio pieno. Per tale ragione, l’adozione della decisione sull’opposizione da parte dello stesso giudice non contrasta con le esigenze di imparzialità e di terzietà del giudice 20 (Sez. 1, n. 35580 del 25/11/2020, Rabeschi, non mass.; Sez. 1, n. 30638 del 14/02/2017, Lombardo, Rv. 270959; Sez. 1, n. 52058 del 10/06/2014, Bimbola, Rv. 261604).
In conclusione sul punto, va aggiunto che il dubbio di costituzionalità sollevato in relazione alla violazione del principio di eguaglianza risulta inammissibile per difetto di rilevanza, oltre che manifestamente infondato: il mancato accoglimento delle richieste difensive non dipende da inesistenti limitazioni alle facoltà probatorie in sede di incidente di esecuzione, bensì soltanto dalla genericità e dalla manifesta infondatezza delle prospettazioni.
- Col sesto e col settimo motivo di ricorso, da valutarsi congiuntamente perché implicanti la soluzione del medesimo quesito in punto di diritto, le ricorrenti si dolgono della disposta confisca di elementi patrimoniali, conseguiti in data successiva alla pronuncia della sentenza di condanna in primo grado, emessa a carico di Crostella dal Tribunale di Milano il 17 maggio 2011 per il “reato-spia” di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 e, comunque, posteriori persino alla irrevocabilità della predetta sentenza che ha definito il processo di cognizione.
10.1. I motivi di ricorso prospettano la questione, sulla quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi, della individuazione del limite temporale per l’applicabilità della confisca obbligatoria, prevista dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 (ora dall’art. 240-bis cod. pen.), in riferimento alla acquisizione dei valori e dei beni di cui il condannato sia titolare, anche per interposta persona. La tematica si è posta all’attenzione degli interpreti a seguito dell’avvenuto riconoscimento, da parte delle Sezioni Unite nella citata sentenza Derouach, del potere del giudice dell’esecuzione di ordinare la confisca c.d. “allargata” «sul patrimonio del soggetto al momento della condanna o del patteggiamento». Da qui la necessità di stabilire se in sede esecutiva i beni e le utilità confiscabili siano quelli esistenti nel patrimonio al momento della pronuncia di condanna per uno dei reati inclusi nell’elencazione della norma stessa, oppure se si possa procedere anche su quelli pervenuti nella disponibilità del condannato successivamente alla detta pronuncia e sino al suo passaggio in giudicato.
10.2. La questione ha ricevuto soluzioni opposte nella giurisprudenza di questa Corte.
10.2.1. Un primo indirizzo interpretativo, sostenuto anche da parte della dottrina, ritiene che siano confiscabili soltanto i beni esistenti al momento della pronuncia della sentenza di condanna per il reato presupposto, salvo che ulteriori valori ed utilità, pervenuti al condannato in epoca successiva, costituiscano il reimpiego di risorse finanziarie già disponibili in precedenza. Sin dalle prime pronunce ascrivibili a questo orientamento (Sez. 1, n. 12047 del 11/02/2015, Nikolla, Rv. 263096; Sez. 2, n. 46291 del 06/11/2012, Polinti, Rv. 255239), si è ritenuto che ammettere l’ablazione di beni acquistati dal condannato dopo la sentenza di condanna significa negare ogni distinzione fra confisca obbligatoria ex art. 12-sexies dl. n. 306 del 1992 e confisca di prevenzione e riconoscere la possibilità di monitorare il patrimonio del reo attraverso indagini patrimoniali, condotte in fase di esecuzione senza limiti temporali, analogamente a quanto disposto per il settore della prevenzione dall’art. 19 del d.lgs. n. 159 del 2011. Inoltre, in tale ipotesi si finirebbe per gravare il giudice dell’esecuzione dell’accertamento tipico del giudizio di cognizione ed in termini ancora più estesi rispetto alla sede processuale di accertamento della responsabilità in ordine al “reato-spia”.
Poiché, invece, la confisca atipica presuppone il giudizio di colpevolezza del reo e viene adottata in sede esecutiva in funzione surrogatoria della mancata pronuncia del giudice della cognizione, il limite temporale per poterla disporre coincide con il momento della pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento, non con quello del suo passaggio in giudicato, pena lo stravolgimento dei confini che l’ordinamento processuale assegna alla giurisdizione esecutiva (Sez. 1, n. 22820 del 12/04/2019, Panfili, Rv. 276192; Sez. 1, n. 9984 del 23/01/2018, Ousmane; Sez. 1, n. 36592 del 28/03/2017, Barresi; Sez. 1, n. 17539 del 21/10/2016, dep. 2017, Consiglio, Rv. 269866).
10.2.2. Altro orientamento assume che la confisca atipica può aggredire, in sede esecutiva, anche beni pervenuti nel patrimonio del condannato fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato presupposto (Sez. 1, n. 51 del 19/12/2016, dep. 2017, Cecere, Rv. 269293). La citata sentenza muove dalla premessa che la confisca ex art. 12-sexies è strumento di privazione della ricchezza accumulata dal soggetto in quanto condannato per determinate gravi fattispecie di reato e non derivata dalla commissione dell’illecito penale e che, pertanto, non assume rilievo il nesso pertinenziale tra reato e bene e nemmeno il momento di acquisto di quanto da confiscare (precedente o successivo al reato per il quale è intervenuta condanna) così come non è nemmeno richiesto un giudizio di proporzione del suo valore rispetto al profitto ricavato (Sez. U, n. 920 del 2004, cit.).
Osserva, poi, che nel caso concreto esaminato dalle Sezioni Unite Montella la decisione era stata assunta in un procedimento cautelare, cui era risultato del tutto estraneo qualsiasi riferimento alla circostanza che gli acquisti fossero stati effettuati «in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna»; b) una parte dei beni colpita da sequestro finalizzato alla confisca atipica era stata acquistata in anni coincidenti con la commissione di alcuni episodi delittuosi per i quali si era proceduto; c) l’analisi era stata concentrata sulla « rilevanza del tempo con riguardo alla persistenza del sospetto di illecita accumulazione, essendo illogico escludere detto sospetto per i beni acquistati nell’arco temporale in cui il delitto è stato commesso». Pertanto, secondo Sez. 1 Cecere, gli acquisti vanno considerati in riferimento a due distinti ambiti temporali: l’uno anteriore al reato e l’altro ad esso successivo e protratto sino alla formazione del giudicato di condanna.
Per gli elementi patrimoniali conseguiti prima e durante la commissione del reato opera il criterio della “ragionevole distanza” da esso; per quelli successivi il limite temporale di confiscabilità coincide con la data di irrevocabilità della sentenza di condanna, poiché «fino a tale momento opera la presunzione d’illecita accumulazione del patrimonio». Le successive sentenze Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018, Quattrone, Rv. 273612 e Sez. 1, n. 35856 del 17/05/2019, Iannò, Rv. 276717 hanno ribadito gli stessi principi, osservando che, poiché la presunzione di illecito arricchimento, introdotta dall’art. 12-sexies del dl. n. 306 del 1992, trova il proprio fondamento nell’accertamento definitivo della commissione di uno dei delitti indicati nel medesimo articolo e nel suo epilogo con la sentenza di condanna, essa determina anche l’estensione temporale sino alla quale opera la presunzione ed autorizza la sottoposizione a confisca dei beni acquistati o comunque entrati nella disponibilità del condannato fino alla data di passaggio in giudicato, oppure in un momento successivo ove si dimostri, in modo specifico ed incontroverso, che l’acquisto sia avvenuto con mezzi ottenuti prima della condanna.
- Le Sezioni Unite ritengono di dover aderire al primo orientamento.
11.1. E’ opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale sull’istituto in esame, ricavabili da orientamenti ermeneutici ormai pacifici nella giurisprudenza di legittimità ed in dottrina. La “confisca in casi particolari”, in origine disciplinata dal dl. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, convertito dalla legge n. 356 del 1992, è ora prevista dall’art. 240- bis cod. pen. a seguito dell’introduzione con la legge n. 103 del 2017 del principio di riserva di codice, attuato dal digs. 1 marzo 2018, n. 21.
Quest’ultima disposizione stabilisce: «nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall’articolo 51, comma 3- bis, del codice di procedura penale, dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis, 325, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 453, 454, 455, 460, 461, 517-ter e 517-quater, nonché dagli articoli 452-quater, 452-octies, primo comma, 493-ter, 512-bis, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 603-bis, 629, 644, 648, esclusa la fattispecie di cui al secondo comma, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1, dall’articolo 2635 del codice civile, o per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine costituzionale, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica».
Con specifico riferimento alla violazione dell’art. 73 del d.P.R. 30 ottobre 1990, n. 309, rilevante nel caso in esame, il Collegio osserva che la sua mancata inclusione nel catalogo dei reati che impongono la confisca, contenuto nell’art. 240- bis cod. pen., non ostacola l’applicazione della misura ablativa, atteso che con il d. Igs. n. 21 del 2018, contestualmente all’abrogazione dell’art. 12-sexies, commi 1, 2-ter, 4-bis, 4-quinquies, 4-sexies, 4-septies, 4-octies e 4-novies del dl. n. 306 del 1992, sono stati introdotti l’art. 240-bis con il medesimo contenuto delle norme abrogate e, nel corpo delle disposizioni del d.P.R. n. 309 del 1990, l’art. 85-bis, che testualmente recita «nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta, per taluno dei reati previsti dall’articolo 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, si applica l’articolo 240-bis del codice penale».
Tanto convince della mancata eliminazione dall’orizzonte normativo della previsione, già contenuta nell’art. 12- sexies, del reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 quale “reato-spia”, per effetto della sua sostituzione, in perfetta continuità prescrittiva, con il citato art. 85- bis, introdotto dalla stessa legge abrogante, che rimanda all’art. 240-bis cod. pen. attualmente vigente. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo, realizzatosi mediante l’intervento di riordino dei testi normativi contenenti la disciplina della confisca allargata, non ha determinato l’eliminazione della possibilità della sua applicazione a fattispecie concrete antecedenti all’entrata in vigore del d. Igs. n. 21 del 2018 ed all’abrogazione dell’art. 12-sexies, come accaduto nel caso in esame, poiché l’art. 240-bis si pone in rapporto di continuità con la disposizione abrogata (Sez. 1, n. 35580 del 25/11/2020, Rebeshi, non mass.; Sez. 1, n. 15542 del 12/11/2019, dep. 2020, Ianni, Rv. 278900).
Nella prassi applicativa la confisca in casi particolari è definita “atipica”, “allargata” o “estesa” per distinguerla dalle altre ipotesi di confisca obbligatoria, dalle quali si differenzia perché non colpisce il prezzo, il prodotto o il profitto del reato per il quale sia stata pronunciata condanna, ma beni del reo che, al momento del loro acquisto, siano non giustificabili e di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività svolta. La previsione normativa della confisca, che anche dalla collocazione sistematica qualifica la sua natura di misura di sicurezza patrimoniale, replicante alcuni caratteri della misura di prevenzione antimafia disciplinata dalla legge n. 575 del 1965 e la stessa finalità preventiva perseguita (Sez. U, n. 29022 del 2001, Derouach, cit.), trae giustificazione dalla presunzione relativa di accumulo di ricchezza illecita da parte del soggetto condannato penalmente.
L’accertata responsabilità per taluni reati tassativamente elencati di particolare gravità ed allarme sociale costituisce “spia” ovvero indice presuntivo della commissione di altre attività illecite, fattori di un arricchimento che l’ordinamento intende espropriare per prevenirne l’utilizzo quale strumento per ulteriori iniziative delittuose.
Nell’ottica del contrasto alla proliferazione del crimine, il legislatore consente una semplificazione probatoria, che si realizza mediante lo svincolo dell’oggetto dell’ablazione dal reato e l’onere, gravante sul condannato titolare o detentore dei beni da confiscare, di giustificarne la provenienza mediante specifica allegazione di elementi in grado di superare la presunzione e di elidere l’efficacia dimostrativa dei dati probatori offerti dall’accusa.
11.2. Sul piano dell’analisi testuale, la disposizione dell’art. 12-sexies, così come quella dell’art. 240-bis cod. pen., non contiene indicazioni per la soluzione del quesito devoluto alle Sezioni Unite, dal momento che si limita a stabilire che la confisca va “sempre” disposta, prevedendo così la sua obbligatoria applicazione, quando sia intervenuta la condanna per taluno dei reati previsti. In via interpretativa è pacificamente escluso che la disposizione di legge pretenda che tra i beni del condannato ed il delitto presupposto sussista un collegamento di derivazione quale profitto o provento dello stesso, oppure un nesso pertinenziale (Sez. U, n. 920 del 2004, Montella, cit.; Sez. U, n. 29022 del 2001, Derouach, cit.). La relazione tra “reato-spia” ed elemento patrimoniale non è espressa dal legislatore in termini di produzione causale del secondo ad opera del primo, né di proporzione di valore tra i due elementi, ragione per la quale anche la collocazione temporale dell’incremento della ricchezza del condannato di per sé non assume rilievo quale criterio di selezione dei beni confiscabili.
Nel silenzio della norma di riferimento, secondo la lettura offerta dalle Sezioni Unite nella sentenza Montella, «essendo la condanna e la presenza della somma dei beni di valore sproporzionato realtà attuali, la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosità presente, non è certo esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna». Tra i pochi dati obiettivamente ricavabili dal testo normativo, vi è la necessaria subordinazione della confisca all’accertamento della responsabilità penale per uno dei reati inclusi nella sua elencazione.
11.3. La configurazione della confisca atipica come collegata al giudizio di sussistenza del reato – definito nella prassi “spia”, “matrice” o “sorgente” – e di commissione da parte dell’imputato, o comunque alla accettazione dell’ipotesi accusatoria, implicita nella pronuncia di applicazione della pena a richiesta delle parti, nonché il tenore di un nutrito novero di disposizioni sostanziali e processuali, che ne menzionano l’adozione con sentenza, autorizzano a ritenere che il relativo provvedimento trovi la sua collocazione naturale nell’ambito del giudizio di cognizione e della pronuncia giudiziale che lo definisce.
In tal senso militano: l’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., per il quale «con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza»; l’art. 546, comma 1, lett. e) n. 2, cod. proc. pen. che, in tema di requisiti della sentenza e di obbligo di motivazione, lo impone anche in ordine alle «misure di sicurezza»; gli artt. 417, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. per la richiesta di rinvio a giudizio, 429, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il decreto che dispone il giudizio e 552, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per il decreto di citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero, i quali, fra i requisiti formali dei rispettivi atti, prescrivono di specificare il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza; l’art. 579, commi 1 e 2, cod. proc. pen., secondo il quale l’impugnazione può investire i punti della sentenza riguardanti le sole misure di sicurezza; l’art. 578-bis cod. proc. pen., per il quale, quando sia stata applicata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’art. 240-bis cod. pen., in caso di proscioglimento dell’imputato per estinzione del reato per prescrizione o amnistia, il giudice dell’impugnazione decide ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato; l’art.597 cod. proc. pen. che assoggetta al divieto di reformatio in peius anche le statuizioni della sentenza applicative di misure di sicurezza; l’art. 205 cod. pen., a norma del quale «le misure di sicurezza sono ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento» e solo in via di eccezione, nei casi previsti dalla legge, anche con provvedimento successivo.
11,4. Con l’introduzione dell’art. 183-quater disp, att. cod. proc. pen, ad opera del d. Igs. n. 21 del 2018 si sono tradotti in disposizione di legge i principi affermati dalle Sezioni Unite con la pronuncia Derouach, costantemente ribaditi dalle pronunce di legittimità successive (ex multis: Sez. 1, n. 16122 del 28/02/2018, Spaziante, Rv. 276183; Sez. 6, n. 5018 del 17/11/2011, dep. 2012, Chafìk, Rv. 251792; Sez. 1, n. 19516 dell’01/04/2010, Barilari, Rv. 247205; Sez. 1, n. 22752 del 09/03/2007, Billeci, Rv. 236876) e si è stabilito che: «competente ad emettere i provvedimenti di confisca in casi particolari previsti dall’art. 240-bis del codice penale o da altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, dopo l’irrevocabilità della sentenza è il giudice di cui all’articolo 666 commi 1, 2 e 3 del codice».
Anche questo intervento legislativo non apporta, tuttavia, elementi utili per il componimento del contrasto, rimesso alle Sezioni Unite, poiché esso, se da un ’76 lato consente esplicitamente che la confisca allargata sia disposta in fase esecutiva, dall’altro non chiarisce, né delimita il possibile oggetto della misura da adottare dopo la formazione del giudicato di condanna, lasciando irrisolti gli interrogativi sollevati nel caso in esame. 12. Le Sezioni Unite ritengono che la soluzione risieda, in primo luogo, nella considerazione del presupposto soggettivo della confisca e della collocazione sistematica della giurisdizione esecutiva.
12.1. Sotto il primo profilo, il legislatore ha scelto di delineare la confisca allargata quale misura di sicurezza che, seppur basata su un sistema probatorio presuntivo, è necessariamente dipendente dalla sussistenza del “reato-spia”. L’accertamento giudiziale della configurabilità in tutti i suoi elementi costitutivi di una delle fattispecie criminose previste dall’art. 240-bis cod. pen. fonda il sospetto che il condannato (o chi ha definito il processo con sentenza di patteggiamento) abbia tratto dall’attività delittuosa le forme di ricchezza di cui dispone, anche per interposta persona.
Il giudizio di colpevolezza in ordine al reato commesso e la natura particolare di questo, idoneo ad essere realizzato in forma continuativa e professionale ed a procurare illecita ricchezza, fanno ritenere l’origine criminosa di cespiti, di cui si sia titolari in valore sproporzionato rispetto a redditi ed attività, in base alla presunzione relativa della loro derivazione da condotte delittuose ulteriori rispetto a quelle riscontrate nel processo penale, che, comunque, costituiscono la base della presunzione stessa. Nella considerazione del legislatore, quindi, l’attribuzione al soggetto della commissione di uno dei “reati-spia” costituisce indicatore dell’acquisizione dei beni, sia pure non per derivazione da quel reato specifico.
E’ la previsione di tale imprescindibile condizione a dare ragione del fatto che il processo di cognizione costituisce la sede naturale ed ordinaria per imporre la confisca, unitamente alle altre statuizioni penali, in un unico contesto deliberativo. La “destinazione funzionale” della sentenza quale provvedimento che deve contenere la decisione anche sulla confisca trova conferma nell’impossibilità di provvedervi in sede esecutiva, quando la relativa domanda sia stata già respinta dal giudice della cognizione, o di revocarla, se disposta in quella sede.
L’unica eccezione all’intangibilità della decisione di confisca, dipendente dal giudicato, è ravvisabile nei riguardi del terzo non partecipe al processo già definito ed ammesso a proporre incidente di esecuzione per ottenere la revoca della misura (Sez. 1, n. 4096 del 24/10/2018, dep. 2019, Lacatus, Rv. 276163; Sez. 3, n. 29445 del 19/06/2013, Principalli e altro, Rv. 255872; Sez. 3, n. 7036 del 18/01/2012, Aharens, Rv. 252022; Sez. 1, n. 3311 del 11/11/2011, deo. 2012, Lonati, Rv. 251845).12.2. Nella giurisprudenza di questa Corte è, piuttosto, controverso il valore da assegnare alla conclusione del processo ed alla formazione del giudicato. Per la tesi sostenuta dalle pronunce più recenti, che si inseriscono nel primo orientamento tra quelli citati al paragrafo
10.2., il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento del “reato-spia” costituisce soltanto il momento terminale del giudizio di cognizione, a partire dal quale la competenza a decidere sulla confisca allargata spetta al giudice dell’esecuzione. Pertanto, non opera anche quale limite temporale finale per aggredire quanto entrato nel patrimonio del condannato. Per l’altra linea interpretativa, invece, sino all’irrevocabilità della decisione non si realizza la condizione dell’affermazione della responsabilità in ordine al reato presupposto, cui è subordinata l’applicabilità della presunzione di acquisto illegale dei beni, ed il giudicato rappresenta anche il limite finale sino al quale opera la presunzione stessa.
12.3. Per come strutturata, la norma di cui all’art. 183 -quater disp. att. cod. proc. pen. si limita ad esplicitare il conferimento al giudice dell’esecuzione della competenza ad adottare i provvedimenti sulla confisca di cui all’art. 240-bis cod. pen., peraltro già genericamente previsto dall’art. 676 cod. proc. pen., per significare che si tratta delle stesse determinazioni che avrebbero potuto e dovuto essere adottate con la sentenza. L’estensione in tali termini della sfera di attribuzioni della giurisdizione esecutiva non muta e non amplia l’orizzonte decisorio, poiché l’intervento del giudice dell’esecuzione è concepito come surrogatorio e residuale sul presupposto dell’omessa adozione della confisca nella sua sede propria, quella di cognizione. Se, dunque, dopo il giudicato di condanna si può e si deve ancora disporre la confisca, ciò potrà avvenire soltanto nel rispetto dei limiti e dell’ambito cognitivo del giudice che ha accertato la responsabilità penale in ordine al “reato spia”.
Tale considerazione e ragioni di coerenza sistematica impongono di affermare la perfetta simmetria del potere di ablazione in casi particolari dei beni del condannato, esercitatile entro gli stessi confini, tanto in fase di cognizione, quanto in quella di esecuzione e di negare in quest’ultima situazione processuale uno spazio di intervento più esteso sino a consentire la confisca di elementi patrimoniali pervenuti al condannato dopo la pronuncia di condanna o, persino, dopo il giudicato. Del resto, anche sul piano pratico, all’atto dell’emissione della sentenza di condanna o di patteggiamento il giudice conosce e valuta i fatti rappresentati dai mezzi di prova assunti sino a quel momento, e, quanto alla confisca, può attingere soltanto i beni esistenti e noti nella fase del procedimento che ha celebrato, senza poter estendere il proprio giudizio ad altri cespiti non ancora entrati nel patrimonio dell’imputato o dei terzi. La limitazione che vale per il giudice della cognizione, per la descritta simmetria di funzioni e di poteri, circoscrive anche l’ambito oggettivo della confisca in sede esecutiva.
12.4. Le considerazioni sinora svolte trovano conferma anche nella giurisprudenza costituzionale. Invero, pronunciando in ordine al sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12 -sexies dl. n. 306 del 1992, la Consulta ne ha affermato la legittimità a ragione della sua strumentalità ad impedire la sottrazione o dispersione dei beni da confiscare in ipotesi di condanna (Corte cost., ord. n. 18 del 1996), così riconoscendo che il sequestro deve essere emesso in via ordinaria nel corso del giudizio di cognizione ed in funzione del suo esito; pertanto, ove sia disposto da parte del giudice di esecuzione dopo la sentenza di condanna, non per questo si può autorizzare la modifica della «prospettiva temporale, che è anche prospettiva funzionale, connessa a tale misura ed alla confisca rispetto a cui il sequestro è strumentale» (Sez. 1, n. 9984 del 23/01/2018, Ousmane, cit.).
- La diversa tesi, sostenuta anche dal Procuratore generale nella sua requisitoria, che afferma l’autonomia della competenza, attribuita dall’art. 183- quater, perché svincolata dai limiti propri del giudizio di cognizione, fa affidamento sulla natura innovativa della previsione e sulla funzione della confisca, finalizzata a privare il soggetto responsabile di gravi illeciti della ricchezza conseguita grazie alla commissione, rimasta “sommersa” ed incerta nei dati circostanziali di perpetrazione, di altri reati. Secondo tale prospettiva, sarebbero aggredibili le utilità, magari non individuate nel corso del processo già definito, di valore sproporzionato e non giustificato nella lecita provenienza, pervenute al condannato sia prima che dopo la sentenza definitiva che lo ha condannato.
13.1. A tale ricostruzione difetta, però, il necessario riscontro normativo, poiché l’art. 183-quater, come già detto, in tema di confisca conferisce al giudice una competenza in nulla diversa rispetto a quella esercitabile in fase di cognizione, tanto meno più estesa. Per superare tale considerazione non giova nemmeno richiamare la riflessione più generale e di ordine sistematico sul ruolo assegnato dall’ordinamento al giudice dell’esecuzione ed i penetranti poteri riconosciutigli di intervento sul giudicato. L’argomentazione, per quanto corretta in linea teorica, non si confronta con lo statuto normativo specifico della confisca allargata e non considera la asimmetria cognitiva che in modo ingiustificato verrebbe determinata dal riconoscimento al solo giudice dell’esecuzione del potere di confiscare beni, acquisiti dal condannato sino all’irrevocabilità della pronuncia di condanna, potere non egualmente esercitatile dal giudice in sede di cognizione.
13.2. Inoltre, pur essendo indiscutibile che il giudizio di penale responsabilità interviene soltanto con la sentenza definitiva, ritenere che la condanna cui, in assenza di ulteriori specificazioni, fa riferimento l’art. 240-bis cod. pen. sia soltanto quella irrevocabile, comporta effetti distonici con il proposito del legislatore e persino paradossali, poiché, a stretto rigore, tale condizione non sussisterebbe mai per il giudice della cognizione, che sarebbe sempre inibito dal disporre la confisca con la propria sentenza, perché non ancora formatosi il giudicato sulla condanna dalla stessa stabilita.
13.3. L’orientamento interpretativo qui disatteso non si misura nemmeno con l’ulteriore argomento, fatto proprio dal primo indirizzo, secondo il quale l’opposta lettura della confisca allargata, disposta in esecuzione, finirebbe per annullare ogni distinzione rispetto alla confisca di prevenzione, rivelando un’inutile duplicazione di istituti giuridici. Infatti, se il momento della emissione della sentenza di condanna (o di patteggiamento) non costituisse lo sbarramento temporale, oltre il quale è impedita la confisca allargata e se fosse consentita la conduzione sine die di indagini patrimoniali per l’individuazione dei beni pervenuti al condannato anche in tempi ad essa successivi, si consentirebbe un’esplorazione continua ed illimitata, analoga a quella che l’art. 19 del d. Igs. n. 159 del 2011 consente per la formulazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione reale.
Come correttamente osservato nell’ordinanza di rimessione, le due misure ablatorie presentano indubbie affinità di funzioni e di effetti, poiché «il legislatore utilizza […] la condotta illecita formalizzata (il reato-spia) come indice rivelatore di una particolare pericolosità soggettiva ed adotta un modello descrittivo dell’analisi patrimoniale (disponibilità anche indiretta dei beni, mancata giustificazione della provenienza, sproporzione di valore con il reddito dichiarato o con i risultati dell’attività economica svolta) del tutto coincidente con quello elaborato nel settore della prevenzione patrimoniale». Risponde al vero che da tempo è in atto un progressivo allineamento della rispettiva disciplina giuridica, al punto che anche la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato marcati profili di assonanza, individuati nel requisito della pericolosità sociale del destinatario, nell’assenza del nesso di derivazione dal reato dell’utilità confiscata e nella comune finalità di contrasto alla criminalità lucrogenetica (Corte cost., sent. n. 33 del 2018 e sent. n. 24 del 2019).
Tuttavia, l’affermazione che le due forme di confisca costituiscono «altrettante species di un unico genus […] identificato nella confisca dei beni di sospetta origine illecita» (Corte cost., n. 24 del 2019, punto 10.3) non può essere condotta sino alle estreme conseguenze per desumerne la loro coincidenza, posto che esse mantengono autonomia ontologica e parziale divergenza di requisiti, che il secondo orientamento finisce per negare inconsapevolmente. E’ sufficiente considerare al riguardo che il principale elemento differenziale consiste nella superfluità dell’instaurazione di un processo penale nei confronti del soggetto e del giudicato sulla responsabilità penale quale presupposto soggettivo per imporre la confisca di prevenzione, che pretende piuttosto l’inquadramento in una delle categorie di pericolosità tipizzate dagli artt. 1 e 4 del d. Igs. 159 del 2011, oltre che nella ben più ampia piattaforma probatoria attingibile per il giudizio prevenzionale.
13.4. Ad avviso delle Sezioni Unite s’impone la necessità di fornire una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto in esame. La confisca, adottata in sede esecutiva, di beni pervenuti al condannato fino o anche dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna o di patteggiamento comporta possibili ingiustificate disparità di trattamento tra soggetti, che, seppur chiamati a rispondere dello stesso illecito quale “reato-spia”, verrebbero a subire la privazione definitiva dei loro beni in misura diversa e con maggior pregiudizio a seconda che la confisca sia adottata dal giudice all’atto della pronuncia della sentenza di condanna, piuttosto che in esecuzione.
Solo in questo secondo caso, infatti, verrebbe ampliata l’area della confiscabilità in dipendenza di fattori del tutto estranei al volere del condannato ed al di fuori della sua sfera di controllo. Di conseguenza il criterio differenziale sarebbe costituito dai motivi di opportunità, che hanno guidato le scelte operate dal pubblico ministero sul momento di proposizione della domanda. Tale opzione ermeneutica comporterebbe la violazione dell’art. 3 della Costituzione, perché in modo illogico e privo di valida giustificazione determinerebbe un differente trattamento di situazioni eguali.
Altrettanto vulnerato ne risulterebbe il principio di ragionevolezza con effetti contra reum: la protrazione del processo per effetto di impugnazione proposta dall’imputato, e per tempi non preventivabili, in dipendenza della legittima aspettativa di riforma della condanna emessa in primo grado, finirebbe per penalizzarlo, in quanto legittimerebbe un più esteso potere di aggressione patrimoniale, conseguente alla proposizione dell’istanza di confisca al giudice dell’esecuzione. In altri termini, l’esigenza di garanzia, che ispira il riconoscimento al condannato della facoltà di impugnazione, potrebbe risolversi in un fattore di pregiudizio e di inibizione dell’assunzione di iniziative che dilatino la durata del processo per il timore di vedersi espropriati beni acquisiti successivamente alla condanna, subita in primo grado, in conseguenza della maggiore protrazione del giudizio a causa delle impugnazioni proposte.
Al contrario, soltanto riconoscendo che la pronuncia della sentenza di condanna (o di patteggiamento) costituisce il termine finale di riferimento per operare la confisca dei beni ex art. 240-bis cod. pen. si assicura identità di regime giuridico a situazioni coincidenti e si prevengono strumentali iniziative temporeggiatrici dell’accusa, finalizzate ad ottenere una confisca più estesa iin sede esecutiva.
- Gli inconvenienti segnalati sul piano del possibile contrasto con i principi costituzionali si risolvono, facendo ricorso al criterio della “ragionevolezza temporale”.
14.1. La premessa di fondo da cui muove l’intera costruzione dogmatica dell’istituto della confisca in casi particolari, come già detto, si basa sull’assenza del nesso di pertinenzialità tra il reato presupposto ed i beni da confiscare e tale postulato dà ragione della negazione in via di principio della rilevanza, quale criterio normativo di selezione dei beni aggredibili, della relazione di collegamento temporale tra momento della loro acquisizione ed il tempus commissi delicti.
Per le Sezioni Unite Montella e per le decisioni successive sono appunto confiscabili indifferentemente i cespiti pervenuti al condannato in epoca anteriore o successiva alla commissione del “reato spia”, poiché non è pretesa la loro acquisizione in periodo coincidente con la specifica condotta di reato giudicata. L’assenza di un collegamento di natura cronologica tra l’ingresso nel patrimonio del soggetto di ricchezza, sproporzionata ed ingiustificata nella sua origine, e l’attività criminosa presupposta, di per sé consentirebbe applicazioni illimitate della misura ablativa con effetti fortemente pregiudicanti i diritti di proprietà e di iniziativa economica del destinatario, oltre a rendergli molto difficoltosa, se non impossibile, la dimostrazione della legittima provenienza degli incrementi patrimoniali distanziati dal reato, specie se ad esso di molti anni antecedenti.
14.2. La giurisprudenza della Corte di cassazione a Sezioni semplici già da tempo ha avvertito la necessità di rinvenire un punto di equilibrio tra la finalità del contrasto alla criminalità lucrogenetica ed il sacrificio dei diritti di proprietà individuali, consapevolezza che ha ispirato la linea interpretativa, per la quale le possibilità applicative della confisca allargata vanno circoscritte in funzione del criterio della “ragionevolezza temporale”. Con tale locuzione s’intende significare che il momento di acquisto del bene non deve essere talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato-spia” da determinare l’irragionevolezza della presunzione di derivazione da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella giudicata (Sez. 1, n. 41100 del 16/04/2014, Persichella, Rv. 260529; Sez. 4, n. 35707 del 07/05/2013, D’Ettorre, Rv. 256882; Sez. 1, n. 2634 del 11/12/2012, Capano, Rv. 254250, Sez. 4, n. 12734 del 16/01/2014, Valentino; Sez. 1, n. 11049 del 05/02/2001, Di Bella, Rv. 226051).
Un approccio ermeneutico ispirato da analoghe esigenze di garanzia ha indotto in via interpretativa anche alla delimitazione temporale dell’area oggettiva della confisca di prevenzione: le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli ed altro, Rv. 262605, hanno affermato n ‘ come necessario per garantire la costituzionalità della misura reale che, nella ricognizione dei presupposti richiesti, sia assicurata la correlazione temporale tra l’acquisto del bene e la manifestazione di pericolosità sociale, la quale, oltre che presupposto imprescindibile della confisca, costituisce anche “misura temporale” del suo ambito applicativo, nel senso che sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è accertata la pericolosità sociale.
14.3. Assume rilievo significativo che il criterio, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, sia stato assunto anche dalla Corte costituzionale a parametro di verifica della tenuta costituzionale della confisca in casi particolari. Con la sentenza interpretativa di rigetto n. 33 del 2018 la Consulta, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata nell’ambito di una procedura di esecuzione, dell’art. 12-sexies nella parte in cui include la ricettazione tra i delitti presupposto, ha riconosciuto che la coerenza col sistema dei valori costituzionali della presunzione relativa di illecita accumulazione dei beni di valore sproporzionato pretende che essa «sia circoscritta […] in un ambito di ragionevolezza temporale».
Ha specificato tale concetto, affermando che il momento di acquisizione del bene da confiscare non dovrebbe risultare così lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, anche se differente da quella che ha determinato la condanna e rimasta priva di un positivo accertamento.
A tal fine, il criterio della ragionevolezza temporale impedisce la abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca “allargata” ed il monitoraggio patrimoniale dell’intera vita del soggetto, sebbene condannato per un singolo reato compreso nella lista. Pur senza spingersi a suggerire concreti elementi orientativi del giudizio sulla ragionevole distanza tra reato ed acquisto del bene confiscabile, la Corte costituzionale ha precisato che la stessa va determinata in riferimento «alle caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela» e che compete al giudice verificare se, in relazione a tali circostanze e alla personalità del reo, la vicenda criminosa risulti episodica ed occasionale e produttiva di modesto arricchimento, così da non corrispondere al “modello” normativo che fonda la presunzione che ricostruisce in via indiziaria la illiceità della ricchezza acquisita.
14.4. La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema evidenzia la costante adesione ai medesimi principi, divenuti patrimonio del diritto vivente, seppur applicati in riferimento a fattispecie concrete nelle quali al giudice dell’esecuzione era stata posta la questione con esclusivo riferimento all’anteriorità dell’acquisto dei cespiti rispetto all’epoca di commissione del “reato- spia” (Sez. 2, n. 32626 del 26/10/2018, Grillo, Rv. 274468; Sez. F., n. 56596 del 03/09/2018, Balsebre ed altri, Rv. 274753; Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018, Quattrone, cit.; Sez. 5, n. 21711 del 28/02/2018, Betti, Rv. 272988).
14.5. Ulteriore sollecitazione all’individuazione di limiti di natura temporale all’operatività della presunzione di illecito arricchimento di chi sia stato condannato per determinate fattispecie di reato si coglie nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014, con la quale sono state dettate prescrizioni per la regolamentazione nell’Unione Europea del congelamento e della confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato e che ha ricevuto attuazione nell’ordinamento italiano con il d. Igs. 29 ottobre 2016, n. 202, contenente modifiche all’art. 240 cod. pen. ed all’art. 12 -sexies del dl. n. 306 del 1992. La Direttiva, con il dichiarato scopo programmatico di «modificare e ampliare le disposizioni delle decisioni quadro 2001/500/GAI e 2005/212/GAI», pur nel suo limitato contenuto di previsione di norme minime, «non impedisce agli Stati membri di attribuire poteri più estesi nel proprio diritto nazionale» (punto 22 del considerando).
In particolare, all’art. 5 detta la nozione di “confisca estesa” di beni derivanti da condotte criminose, anche se non accertate dall’autorità giudiziaria, ma imposta in base alla probabilità che siano di origine illecita, nel cui schema rientra pacificamente la confisca in casi particolari ex art. 240-bis cod. pen.; quindi, al successivo punto 21 del considerando ha espressamente previsto: «In tale contesto, l’autorità giudiziaria deve considerare le circostanze specifiche del caso, compresi i fatti e gli elementi di prova disponibili, in base ai quali può essere adottata una decisione di confisca estesa. Una sproporzione tra i beni dell’interessato e il suo reddito legittimo può rientrare tra i fatti idonei ad indurre l’autorità giudiziaria a concludere che i beni derivano da condotte criminose.
Gli Stati membri possono inoltre fissare un periodo di tempo entro il quale si può ritenere che i beni siano derivati da condotte criminose». Dal citato testo legislativo comunitario si trae, dunque, conferma del possibile ricorso alla delimitazione temporale della presunzione, che autorizza la confisca, quale strumento per assicurare il rispetto del principio di necessità e proporzionalità del sacrificio imposto al destinatario della misura, riconosciuto dagli artt. 42 della Convenzione EDU e 1 del Protocollo addizionale, e per contenere il potere statuale di espropriare ricchezza di origine illecita, cui si ispira anche il criterio di ragionevolezza temporale, elaborato dalla giurisprudenza italiana. La rassegna delle fonti normative sopranazionali consente di ricavare altro argomento rafforzativo della tesi esposta: il Regolamento n. 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e confisca, emessi in procedimenti in materia penale, adottato il 14 novembre 2018 dal Parlamento europeo e dal Consiglio, al considerando punto 15 impone che «le decisioni da riconoscere ed eseguire siano presumibilmente sempre prese in conformità dei principi di legalità, sussidiarietà e proporzionalità», concetto ribadito al punto 21, per il quale «Nell’emettere un provvedimento di congelamento o un provvedimento di confisca, l’autorità di emissione dovrebbe assicurare il rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità».
14.6. Il medesimo criterio di ragionevolezza temporale, con analoghi effetti e finalità, deve essere riferito anche alle situazioni in cui l’acquisizione patrimoniale si collochi in un momento successivo alla perpetrazione del “reato-spia” e l’intervento ablatorio sia richiesto al giudice dell’esecuzione. Le Sezioni Unite ritengono debba essere superato il principio affermato dalla sentenza Montella di indifferenza del momento in cui il bene da confiscare sia entrato nel patrimonio del soggetto che amplia a dismisura l’area della confiscabilità.
Al contrario, ferma restando la natura non pertinenziale della relazione tra cosa e reato e l’assenza del nesso di derivazione della prima dal secondo, vanno ritenuti confiscabili anche gli elementi patrimoniali acquisiti dopo la perpetrazione del reato, purché non distaccati da questo da un lungo lasso temporale che renda irragionevole la ablazione e, comunque, non successivi alla pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento. Ammettere la confisca anche in caso di divario cronologico di molti anni tra compimento dell’attività criminosa e successivo conseguimento dei valori sproporzionati darebbe luogo ai medesimi dubbi di costituzionalità per irragionevolezza e sproporzione per eccesso del mezzo rispetto al fine che sono stati riconosciuti dalla Corte costituzionale.
Diversamente da quanto osservato dalla Sezione rimettente, lo scrutinio sulla ragionevolezza temporale non è estraneo e non opera su un piano diverso rispetto all’ambito oggettivo della confiscabilità dei beni in sede esecutiva, dal momento che decidere se la disposizione dell’art. 240-bis cod. pen. imponga di apprendere consistenze patrimoniali esistenti al momento della emissione della decisione di condanna o al momento del suo passaggio in giudicato riguarda situazioni concrete di aggressione di forme di ricchezza pervenute necessariamente dopo il reato giudicato. Inoltre, nella prassi giudiziaria non è infrequente che i tempi di avvio e di definizione anche solo in primo grado del processo si distacchino notevolmente dalla consumazione dell’illecito sorgente.
Dalle premesse poste deve pervenirsi alla conclusione che il momento dell’acquisto dei beni da sottoporre a confisca non è indifferente alla dimensione temporale del reato presupposto, ma deve risultare a distanza ragionevole dallo stesso, tanto se antecedente, come se successivo. La limitazione in termini che devono essere ragionevoli del distacco tra i due elementi a raffronto concorre anche ad individuare nella emissione della sentenza di condanna o di patteggiamento, non nella data di irrevocabilità, il termine ultimo ed invalicabile di operatività della presunzione di provenienza illecita dei beni del condannato di valore sproporzionato al reddito o all’attività svolta, che il giudice deve sempre rispettare, sia se si pronunci nella fase della cognizione, sia che intervenga in sede esecutiva.
Tanto comporta il riconoscimento della possibilità che un’acquisizione patrimoniale, collocata in un tempo successivo, ma molto distanziato dal “reato- spia”, renda irragionevole il giudizio presuntivo sulla sua origine criminosa, anche se antecedente al processo penale ed al momento di ricostruzione della responsabilità dell’imputato. Al contrario, collocare il termine ultimo della confiscabilità dei beni nel momento del passaggio in giudicato della sentenza, che segue di anni anche il solo avvio del processo penale e si distanzia ancor più dalla consumazione del delitto sorgente, significa ignorare l’esigenza di ragionevolezza ed il parametro che, nell’interpretazione della Consulta, garantisce la legittimità costituzionale della confisca per sproporzione.
14.7. S’impongono ulteriori precisazioni. Poiché l’affermazione della responsabilità dell’imputato può intervenire in gradi diversi a seconda dello sviluppo concreto del rapporto processuale e dell’impulso che vi diano le parti con la proposizione delle impugnazioni, per sentenza di condanna deve intendersi quella emessa dal giudice di merito in primo grado – se nei successivi sia confermata o riformata soltanto in punto di pena – in grado di appello o di rinvio in ipotesi di riforma di una precedente pronuncia assolutoria. Inoltre, in situazioni di processi cumulativi sul piano oggettivo o soggettivo la medesima osservazione va riferita alla statuizione adottata per ciascun reato presupposto e nei confronti di ognuno degli imputati chiamati a risponderne. Pertanto, il momento finale di aggredibilità a fini di confisca del loro patrimonio potrebbe variare, pur nell’ambito dello stesso unico processo, in dipendenza delle vicende riguardanti i singoli capi della sentenza.
Va, infine, ribadita l’ammissibilità, pacifica per entrambi gli orientamenti interpretativi contrapposti, della confisca, quando sia offerto congruo riscontro probatorio, di beni pervenuti anche in data successiva alla sentenza come sopra individuata nei casi in cui i cespiti siano frutto del reimpiego di mezzi finanziari acquisiti in un momento antecedente alla sentenza stessa, oppure si tratti di denaro o di altri strumenti di investimento mobiliare, preesistenti alla sentenza e solo in seguito scoperti o rinvenuti, ossia di beni che si sarebbe potuto confiscare nel processo di cognizione (Sez. 1,n. 51 del 19/12/2016, dep. 02/01/2017, Cecere, cit; Sez. 1, n. 9984 del 23/01/2018, Ousmane, cit.; Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018, Quattrone, cit.).
- Deve, dunque, essere formulato il seguente principio di diritto:«Il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di confisca ex art. 240-bis cod. pen., esercitando gli stessi poteri che, in ordine alla detta misura di sicurezza atipica, sono propri del giudice della cognizione, può disporla, fermo restando il criterio di “ragionevolezza temporale”, in ordine ai beni che sono entrati nella disponibilità del condannato fino al momento della pronuncia della sentenza per il c.d. “reato-spia”, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza, ma con risorse finanziarie possedute prima».
- La considerazione delle restanti censure non ancora esaminate, formulate dalle sole Borissova e Miteva, in base al principio di diritto stabilito, induce a ritenere illegittima la confisca di cespiti nella loro formale titolarità, ma riferiti al condannato Fausto Crostella, esistenti sino all’anno 2016, quindi in un momento persino successivo alla data del 29 aprile 2014, in cui è divenuta irrevocabile la condanna inflitta a Crostella. Ne discende l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata con esclusivo riferimento alla confisca di beni mobili, pervenuti nel patrimonio delle ricorrenti nel periodo temporale posteriore alla sentenza di condanna, emessa in data 17 maggio 2011, dal Tribunale di Milano nei confronti di Crostella nel procedimento penale a suo carico. Spetterà comunque al giudice di rinvio verificare, in piena libertà cognitiva sui presupposti di fatto, ma nel rispetto del principio sopra espresso, vincolante ex art. 627, comma 3, cod. proc. pen., se gli investimenti finanziari operati dalle ricorrenti dopo il 17 maggio 2011 costituiscano eventuale reimpiego di somme di denaro già nella loro disponibilità in un momento antecedente.
- Nel resto s’impone il rigetto del loro ricorso.