Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 20 luglio 2021 n. 20691
PRINCIPI DI DIRITTO
Sono devolute al giudice ordinario e alla corte di appello, in unico grado, secondo una regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità espropriative, le controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto per l’acquisizione del bene utilizzato dall’autorità amministrativa per scopi di pubblica utilità ex art. 42 bis t. u. del 2001, in considerazione della natura intrinsecamente indennitaria del credito vantato dal proprietario del bene e globalmente inteso dal legislatore, come un «unicum» non scomponibile nelle diverse voci, con l’effetto non consentito di attribuire una diversa e autonoma natura e funzione a ciascuna di esse; di conseguenza, l’attribuzione di una somma forfettariamente determinata a «titolo risarcitorio» (pari all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, a norma del terzo comma dell’art. 42 bis) vale unicamente a far luce sulla genesi di uno degli elementi (il mancato godimento del bene per essere il cespite occupato «senza titolo» dall’amministrazione) che vengono in considerazione per la determinazione dell’indennizzo in favore del proprietario, il quale non fa valere una duplice legittimazione, cioè di soggetto avente titolo ora a un «indennizzo» (quando agisce per il pregiudizio patrimoniale, e non patrimoniale, conseguente alla perdita della proprietà del bene), ora a un «risarcimento» di un danno scaturito da un comportamento originariamente con tra jus dell’amministrazione; appartengono invece alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie nelle quali sia dedotta la illegittimità in sé del provvedimento di acquisizione, per insussistenza dei requisiti previsti dalla legge, anche ai fini della valutazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, in relazione ai contrapposti interessi privati e all’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.
La ricostruzione in termini indennitari e le modalità di determinazione dell’indennizzo, anche per la pregressa occupazione illegittima del bene, nel procedimento di cui all’art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011, dinanzi alla corte d’appello, in unico grado di merito, non sono suscettibili di arrecare un deficit di tutela né per l’amministrazione, per esserle preclusa la introduzione di azioni di rivalsa nei confronti di terzi, nell’ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell’opera pubblica, trattandosi di una limitazione coerente con la natura del procedimento, ferma restando la facoltà di rivalersi in separato giudizio ordinario sul soggetto corresponsabile della pregressa occupazione illegittima; né per il privato, per essergli consentito di agire nei confronti della sola autorità che utilizza il bene immobile per scopi di interesse pubblico, essendo tale autorità, cui è affidato il pagamento dell’indennità, il suo creditore, né essendo precluso al privato di avviare un autonomo giudizio di danno, a tutela dei suoi diritti, per il periodo di occupazione illegittima, prima dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis da parte della pubblica amministrazione;
La qualificazione in termini indennitari dell’indennizzo per la pregressa occupazione «senza titolo», nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, non è foriera di un deficit di tutela per le parti, avendo il legislatore previsto una clausola di salvaguardia che fa salva la prova di una diversa entità del danno, la cui applicazione è rimessa all’incensurabile valutazione del giudice di merito, il quale può modulare l’importo determinato dal legislatore in via forfettaria – in melius o in pejus – in sintonia con le istanze e le prove offerte dalle parti nel caso concreto.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.- L’ordinanza interlocutoria sollecita un ripensamento del principio di diritto, già affermato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 15283 del 2016, secondo cui, in materia di espropriazione per pubblica utilità, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario non Ric. 2017 n. 04216 sez. SU – ud. 11-05-2021 -6- solo la controversia relativa alla determinazione e corresponsione dell’indennizzo nella fattispecie della c.d. «acquisizione sanante» ex art. 42 bis, prima parte del terzo comma, del dPR n. 327 del 2001, ma anche quella avente ad oggetto l’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, dovuto, ai sensi dell’ultima parte del terzo comma, «a titolo di risarcimento del danno», sul criticato presupposto che, ad onta del tenore letterale della norma, esso costituisca solo «una voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al precedente comma 1, secondo un’interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori». Si chiede, dunque, di «ripensare al principio» di cui al citato arresto, «in un quadro in cui le ragioni della giurisdizione e della concentrazione della cognizione, alle quali si connettano più spedite modalità di definizione della lite in un quadro di più agevole accesso a tutela, restino coerenti con l’assetto sostanziale della materia».
2.1. – Invero, una questione di giurisdizione non si pone nella fattispecie in esame, ma è trattata ugualmente dalla citata ordinanza che implicitamente trae dall’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario (e della competenza funzionale della Corte d’appello) – anziché del giudice amministrativo – sulla istanza di tutela riferibile al pregresso «periodo di occupazione senza titolo», ai sensi dell’art.42 bis, terzo comma (seconda parte), t.u. del 2001, un elemento a conforto di una critica sostanziale rivolta alla ricostruzione dell’istituto in termini indennitari, in ragione di ipotizzati deficit di tutela per le parti (v. sub. 5). Ed è, implicitamente, nella prospettiva decisoria sui predetti motivi di ricorso (sintetizzati sub 1) che tale critica si assume rilevante nella fattispecie, come si vedrà.
2.2. – Nell’ordinanza interlocutoria, preliminarmente, la Sezione rimettente osserva che «per la fattispecie in esame viene all’attenzione […] in relazione all’istituto dell’acquisizione sanante di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, il passaggio, fondamentale, nella formulazione della norma, che attiene alla quantificazione della somma di denaro da corrispondersi “a titolo risarcitorio” al proprietario [per il periodo di occupazione senza titolo]»; che «una lettura della cornice di sistema» induce a dubitare della bontà della soluzione che, qualificando l’indicata posta in termini indennitari, ritiene che «l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “a titolo di risarcimento del danno” sia frutto di una “una mera imprecisione lessicale”»; in tale prospettiva si sostiene che l’operata esegesi «[sacrifichi], in modo non rispettoso del dato letterale, il ventaglio di posizioni sostanziali vantate dai soggetti coinvolti in una procedura espropriativa, sovvertendo altresì le regole, prioritarie, dell’effettività del diritto al risarcimento del danno e del relativo regime dell’onere probatorio».
Tale esegesi dell’istituto della c.d. acquisizione sanante si presterebbe così a critica per un duplice profilo: essa «infatti, da un canto “forza” il dato letterale della norma che, nella interpretazione datane, è destinato a collocarsi al di fuori di ogni possibile variante di senso, non vedendosi come quanto espressamente riconosciuto a titolo di risarcimento dei danno per il periodo di occupazione illegittima possa tramutarsi in un indennizzo per attività lecita, [senza considerare la] diversità della natura delle poste indicate, rimarcata, se del caso, dall’indole della fonte ovverosia dalla illegittimità dell’occupazione.
La lettura data – si legge nell’ordinanza interlocutoria – non rispetta neppure la sistematica del risarcimento del danno nella materia dell’esproprio. Il provvedimento di acquisizione sanante, fisiologicamente operante ex nunc in quanto espressivo di un’attività nuova e legittima della P.A., sortisce l’effetto di distendersi anche per il tempo passato, in un’epoca in cui non era stato ancora adottato, e tanto in ragione di una impropria operatività ex tunc destinata a tramutare, sotto la comune copertura indennitaria, in modo irragionevole, in lecito quanto era in precedenza illecito».
3.- Si deve, tuttavia, preliminarmente sottolineare che l’affermazione, nella giurisprudenza di legittimità (Cass. SU n. 15283 del 2016, cui adde n. 22096 del 2015, n. 19085 del 2017, n. 2583 e 33539 del 2018, n. 17581 del 2020) e amministrativa (ex plurimis, Cons. di Stato, sez. IV, n. 1917 del 2021 e n. 4550 del 2017), della giurisdizione del giudice ordinario, e della competenza funzionale della Corte d’appello, anche sulla pretesa concernente «il periodo di occupazione senza titolo», in relazione al quale è dovuto «l’interesse del cinque per cento annuo sul valore [venale del bene]», non costituisce – come si adombra nell’ordinanza interlocutoria – l’esito di una deroga alla giurisdizione del giudice amministrativo a favore del giudice (ordinario) naturalmente competente sulla controversia indennitaria «principale», concernente il pregiudizio patrimoniale per la perdita della proprietà del bene, ex art. 42 bis, primo comma e prima parte del terzo comma, t.u. del 2001. In realtà, con il riferimento in alcuni precedenti al principio di concentrazione della tutela giurisdizionale – peraltro in linea con la giurisprudenza Cedu (sentenza 28 gennaio 2021, rich. 74515/13, Alfa Glass Anonymi Emboriki Etairia Yalopinakon c. Grecia) che prescrive la necessità di un procedimento unico per la determinazione delle indennità espropriative, nel quale far valere ogni questione comunque connessa all’espropriazione -, le Sezioni Unite non hanno inteso superare il solido principio dell’inderogabilità della giurisdizione per ragioni di connessione (ex plurimis, SU n. 9185 del 2012), ma semplicemente riconoscere al giudice ordinario, funzionalmente competente, la giurisdizione su una controversia che a tale giudice appartiene naturaliter, avendo ad oggetto una pretesa intrinsecamente indennitaria per volontà del legislatore, giudicata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 71 del 2015 che, fugando i dubbi prospettati, ha dato avvio alla conforme giurisprudenza delle Sezioni Unite e della Prima sezione, la quale ha ribadito che «ambedue le indennità contemplate dal terzo comma della norma summenzionata, art. 42 bis cit., costituiscono altrettante voci del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale occorso» (Cass., sez. I, n. 13988 del 2018).
La Consulta – nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sul rilievo che «la norma riserverebbe un trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione rispetto a qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento che abbia commesso un fatto illecito, pur in mancanza di un pregresso effettivo esercizio di funzione amministrativa e, dunque, sulla base della sola qualifica soggettiva dell’autore della condotta» – ha affermato che «se pure il presupposto di applicazione della norma sia la “indebita utilizzazione dell’area” [comma 4] – ossia una situazione creata dalla pubblica Amministrazione in carenza di potere (per la mancanza di una preventiva dichiarazione di pubblica utilità dell’opera o per l’annullamento o la perdita di efficacia di essa) – tuttavia l’adozione dell’atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione.
Con l’adozione di tale atto, quest’ultima riprende a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino». Ed ha concluso, affermando che «sotto questo punto di vista […], la situazione appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte [costituzionale], secondo cui “la P.A. ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati” (così la sentenza n. 138 del 1981)» (Corte cost. n. 71 del 2015, Considerato in diritto 6.6.1).
La Consulta ha anche escluso l’ipotizzata compressione del diritto di difesa. Ha ritenuto che «la violazione di tale parametro può considerarsi sussistente solo nei casi di sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione […] o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa […] e non anche nel caso in cui, come nella specie, la norma censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale […]. Tale tutela viene bensì parzialmente “conformata”, in modo da garantire un serio ristoro economico, prevedendosi la esclusione delle sole azioni restitutorie, ma queste ultime non sarebbero congruamente esperibili rispetto ad un comportamento non più qualificato in termini di illecito» (considerato in diritto 6.6.1).
In definitiva, la Consulta ha giudicato infondato il dubbio di irragionevolezza della scelta del legislatore di assicurare il ristoro economico «trasformando il precedente regime risarcitorio in un indennizzo da atto lecito» (Considerato in diritto 6.6.4). 3.1. – Come già rilevato da queste Sezioni Unite (n. 22096 del 2015), «il punto debole della teoria risarcitoria risiede nella circostanza che ricollega all’agire illecito dell’amministrazione anche il rimedio finale previsto dall’art. 42 bis, consistente nell’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante, mostrando così di ritenere, correttamente, che ad essere rilevante non è il complessivo operato pregresso, contra jus, dell’amministrazione, bensì, a valle, il provvedimento di acquisizione sanante che sia stato emanato: se è legittimo quest’ultimo provvedimento, l’indennizzo liquidato non potrà che avere natura indennitaria, con conseguente radicamento della controversia sul quantum in capo al giudice ordinario».
Ed infatti, laddove il privato decidesse di contestare la legittimità dell’atto in sé per l’insussistenza dei requisiti previsti dalla legge per procedere all’acquisizione c.d. sanante, egli ben potrebbe adire il giudice amministrativo per chiedere la restituzione del bene e/o il risarcimento del danno per l’occupazione senza titolo, che a quel punto dovrà essere valutata sotto un profilo tipicamente risarcitorio, non essendo coperta da alcuna procedura amministrativa legittima, neppure ex post con il procedimento di cui all’art. 42 bis. L’ulteriore argomento posto a fondamento della «teoria risarcitoria» – cioè il riferimento del legislatore al «titolo risarcitorio» dell’attribuzione dell’interesse del cinque per cento annuo per il periodo di occupazione illegittima («senza titolo») – appare intrinsecamente debole: esso presuppone una permanente, appropriata e precisa utilizzazione del lessico giuridico da parte del legislatore che, invece ad esempio, nel terzo comma dello stesso art. 42 bis, richiamando l’art. 37 del t.u. del 2001 (che reca la rubrica «Determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area edificabile») per la determinazione dell’indennizzo in caso di provvedimento di acquisizione di aree edificabili, mostra evidentemente di utilizzare i due termini come sinonimi.
Non è la prima volta che il legislatore utilizza espressioni evocanti fattispecie risarcitorie o di «danno» in presenza di erogazioni di tipo indennitario: ad esempio, l’art. 35 ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, prevede il pagamento di somme «a titolo di risarcimento del danno», in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento non conforme ai criteri di cui all’art. 3 della Cedu (cfr. Cass. SU n. 11018 del 2018); alcune leggi di settore prevedono interventi economici di tipo indennitario a carico della pubblica amministrazione, pur qualificando la pretesa degli aventi diritti come volta ad ottenere il «risarcimento del danno» (cfr. Cass., sez. I, n. 7685 del 2005 e n. 14241 del 2004, in tema di danni arrecati alla produzione agricola dalla fauna selvatica e da specie di animali protetti); l’art. 28, secondo comma, legge 15 giugno 2015, n. 81, «nei casi di trasformazione del contratto [di lavoro] a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato», prevede che «il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva» che «ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore»; l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, prevede una «equa riparazione» di tipo indennitario per chi ha subito «un danno patrimoniale o non patrimoniale», in caso di violazione del termine ragionevole del processo, ecc. In definitiva, il primo comma dell’art. 42 bis t.u. del 2001, laddove dispone che «al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale», conferma che l’interesse del cinque per cento che la pubblica Amministrazione è tenuta a liquidare e corrispondere per la pregressa occupazione illegittima costituisce una voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale, «il diritto al quale (nella sua integralità, comprensiva delle voci valore venale, pregiudizio non patrimoniale e interesse del cinque per cento annuo) sorge solo a seguito dell’adozione del provvedimento di espropriazione c.d. sanante» (Cons. di Stato, sez. II, n. 1087 del 2020).
La predeterminazione legale dell’entità del pregiudizio per la pregressa «occupazione senza titolo», e la relativa semplificazione probatoria per la parte che la subisce, sono chiari indici della natura indennitaria che l’istituto in esame condivide con l’indennità di Ric. 2017 n. 04216 sez. SU – ud. 11-05-2021 -13- occupazione legittima, di cui all’art. 50, primo comma, t.u. del 2001 (cfr. anche l’art. 20, terzo comma, legge 22 ottobre 1971, n. 865).
Neppure rileva l’uso del termine «indennizzo» anziché di quello «indennità» per il ristoro anche del «pregiudizio non patrimoniale», trattandosi di un ristoro automatico e predeterminato nel quantum in una percentuale del valore venale del bene, oltre a non incidere, di per sé, sulla questione della giurisdizione, trattandosi chiaramente di una misura accessoria (cfr. Cass. SU n. 22096 del 2015 cit.).
- – Tale natura non comporta alcun deficit di tutela per le parti. Al proprietario è riconosciuto il diritto a un indennizzo che deve mirare ad essere integrale e, per questa ragione, di regola commisurato al valore venale del bene, anche ai fini della determinazione dell’indennizzo accessorio del pregiudizio per l’occupazione illegittima (ma anche legittima, cfr. Cass. SU n. 17581 del 2020) che ha preceduto l’evento traslativo, coerentemente con il sicuro fondamento costituzionale dell’espropriazione per motivi d’interesse generale (art. 42, terzo comma, Cost.), cui è riconducibile il «procedimento ablatorio sui generis» di cui all’art. 42 bis t.u. 2001 (cfr. Cons. di Stato, ad. pl., n. 4 del 2020, che evidenzia la «precisa base legale» dell’istituto).
La Corte costituzionale, nella citata pronuncia del 2015, ha fugato gli ulteriori dubbi sollevati con riguardo all’indennità dovuta dall’amministrazione per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione, osservando che «è vero che essa viene determinata in base ad un parametro [«l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del primo comma»] riduttivo rispetto a quello cui è commisurato l’analogo indennizzo per la (legittima) occupazione temporanea dell’immobile [pari per ogni anno ad un dodicesimo dell’indennità annua, corrispondente all’8,33 per cento], ma il terzo comma della norma impugnata contiene una clausola di salvaguardia [«se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno»], in base alla quale viene fatta salva la prova di una diversa entità del danno» (considerato 6.6.2).
Si deve anche considerare che l’entità dell’indennizzo per l’occupazione legittima, di cui all’art. 50 t.u. del 2001, è fissata in misura «di evidente notevole entità, in un’ottica di disincentivazione di tale preventiva occupazione, non disciplinata dall’originario testo unico approvato con il dPR n. 327 del 2001, ma ridisciplinata prima della sua entrata in vigore» (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 4709 del 2020). E’ inoltre significativo che una parte della giurisprudenza amministrativa faccia applicazione del parametro del cinque per cento annuo anche quando l’area sia restituita al proprietario, cioè nel caso in cui all’occupazione senza titolo non segua il provvedimento acquisitivo di cui all’art. 42 bis (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 3428 del 2019 e n. 3929 del 2016; in senso contrario, però, Cons. di Stato, sez. IV, n. 4709 del 2020), ciò concorrendo a dimostrare che la critica dell’ordinanza di rimessione alla ricostruzione dell’istituto in termini indennitari, anziché risarcitori, non incide sulla effettività della tutela che è riconosciuta al proprietario per il pregiudizio subito per l’occupazione illegittima del bene.
5.- La sostenibilità delle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza dominante, qui condivise, deve essere vagliata alla luce delle critiche svolte nell’ordinanza interlocutoria, la quale denuncia un deficit di tutela in relazione a due particolari profili concernenti, in particolare, la posizione dell’ente titolare del potere acquisitivo. Il primo profilo, perché unico legittimato passivo sulle richieste indennitarie sarebbe la sola pubblica amministrazione che ha adottato il provvedimento acquisitivo, con l’effetto di «nega[re] per il periodo di occupazione che precede l’acquisizione [il] carattere illegittimo del provvedimento, con la illiceità degli effetti», anche la possibilità «che di questi ultimi venga chiamato a rispondere il concessionario ovverosia il soggetto con cui l’amministrazione […] abbia condiviso le attività di esproprio, nella negata configurabilità di forme di responsabilità o di corresponsabilità». Il secondo, perché sarebbe sovvertito il principio dell’onere probatorio, in quanto il soggetto danneggiato non sarebbe chiamato a provare il pregiudizio sofferto «e tanto in ragione di una forfettizzazione presuntiva del danno (così per la percentuale del cinque per cento del valore venale del bene) che […] deve consentire, pure nel suo predefinito ammontare, non solo modifiche in melius, ma anche in peius nello scrutinio della posizione del privato».
5.1. – Con riferimento al secondo profilo poc’anzi menzionato, la misura del cinque per cento annuo, da un lato, non può reputarsi irragionevolmente gravosa per la parte pubblica, essendo inferiore a quanto dovuto dalla stessa amministrazione per l’occupazione legittima (cfr. art. 50 t.u. del 2001); dall’altro, come si è detto (sub 4), è modificabile (anche) in senso riduttivo per il privato, sempre che l’autorità che acquisisce il bene dimostri che il pregiudizio concretamente patito dal proprietario sia inferiore. Si tratta di una agevolazione e non di un indebito sovvertimento (del principio) dell’onere della prova.
Nella materia espropriativa, è consolidato il principio secondo cui, quando (vi sia prova che) l’amministrazione abbia temporaneamente occupato senza titolo un bene altrui, nel corso di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione e non lo abbia formalmente acquisito ex art. 42 bis t.u. del 2001, è configurabile un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, che la giurisprudenza abitualmente determina in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (ex plurimis, Cass., sez. I, n. 29990 e 20545 del 2018, n. 11391 del 2011, n. 4797 del 2005, n. 17142 del 2004).
L’allegazione del mancato godimento del bene nel periodo cui si riferisce lo spossessamento è sufficiente a comprovare in via presuntiva l’esistenza del danno (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 4709 del 2020 e precedenti ivi citati). Il proprietario potrà allegare e dimostrare conseguenze economiche più puntuali e significative rispetto a quelle ravvisate nella perdita temporanea del godimento del bene (ad esempio, per il mancato uso remunerativo del bene), così come viceversa l’amministrazione potrà dedurre circostanze e avvenimenti specifici volti a smentire la sussistenza di conseguenze economiche pregiudizievoli o a ridimensionarle nella loro entità. Tanto premesso, qualora l’amministrazione titolare del relativo potere adotti il provvedimento acquisitivo di cui all’art. 42 bis t.u. del 2001, è la legge che riconosce al proprietario che abbia subito una occupazione senza titolo una somma corrispondente – in mancanza di prova di una diversa entità del pregiudizio – all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, stimato all’attualità, utilizzato per scopi di pubblica utilità.
Si tratta di una valutazione legale tipica che presuppone il solo accertamento dell’occupazione materiale del bene, di regola desumibile da atti formali di agevole verifica in sede giurisdizionale (ad es., di immissione in possesso conseguente al decreto di occupazione, o altri). La ragionevolezza di questa disciplina non è contraddetta dai precedenti citati nell’ordinanza interlocutoria (v. Cass., sez. III, n. 11203 del 2019 e n. 13071 del 2018, cui adde sez. III, n. 14268 del 2021; ma contra Cass., sez. II, n. 20708 del 2019, n. 21239 del 2018, n. 20823 del 2015, sez. III n. 16670 del 2016), riguardanti prevalentemente materie diverse da quella espropriativa, dai quali non è possibile trarre argomenti a sostegno della tesi secondo cui, nei casi di occupazione senza titolo cui abbia fatto seguito un provvedimento acquisitivo ex art. 42 bis, sarebbe il proprietario a dovere, di volta in volta, provare (non solo lo spossessamento in sé, ma anche) il danno in ogni sua articolazione.
Sul proprietario ricade l’onere di provare di avere perduto occasioni particolari di profitto, al fine di innalzare l’entità del danno in concreto rispetto alla misura fissata dal legislatore, ma non anche di avere perduto il godimento e le facoltà di disposizione del bene nel periodo dell’occupazione. Una simile interpretazione vanificherebbe la portata della disposizione, che riconosce al proprietario l’interesse del cinque per cento in presenza dell’occupazione senza titolo in sé, salva la possibilità per entrambe le parti di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in me/ius o in pejus rispetto a quel limite).
Peraltro, il diritto vivente (cfr., tra le più risalenti, Cass. n. 314 e 1105 del 1962) da sempre riconosce al proprietario la facoltà di dimostrare il danno per l’occupazione illegittima sulla base di presunzioni semplici e lo liquida, in via equitativa, in misura corrispondente agli interessi maturati anno per anno sull’indennità virtuale di espropriazione o sulla base di altri parametri, anche nel caso in cui l’autorità amministrativa restituisca il bene occupato d’urgenza in vista di una espropriazione non portata a compimento. Nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica Amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge. Non si riscontra, dunque, il paventato vulnus di tutela per le ragioni della parte pubblica nella qualificazione in termini indennitari dell’interesse del cinque per cento annuo a favore del proprietario del bene acquisito (ex art. 42 bis) che subisca una occupazione senza titolo, trattandosi di una forma compensativa tipizzata dal legislatore con modalità forfetizzate non dissimili da quelle, di tipo equitativo, elaborate dalla giurisprudenza in favore del proprietario che invochi la tutela risarcitoria in caso di occupazione senza titolo dell’amministrazione in ambito espropriativo.
5.2.- Venendo all’ulteriore deficit di tutela (v. sub 5) ipotizzato dall’ordinanza interlocutoria, quale criticato effetto della qualificazione in termini indennitari del compenso in discorso, si sostiene che nel giudizio indennitario dinanzi alla Corte d’appello non potrebbero essere chiamati a rispondere delle conseguenze dell’attività illecita, che ha dato causa all’occupazione senza titolo, il concessionario o altri soggetti che quell’attività illecita abbiano condiviso con l’amministrazione che ha adottato il provvedimento di acquisizione di cui all’art. 42 bis, diversamente da quanto accade nei giudizi ordinari di tipo risarcitorio, nei quali può essere convenuto in giudizio chiunque abbia concorso nell’illecito.
5.2.1.- Si deve premettere che le controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo, globalmente inteso, previsto per la c.d. acquisizione sanante sono devolute, in unico grado, alla corte di appello, secondo una regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità espropriative, in relazione alle diverse voci contemplate nell’art. 42 bis, dovendosi interpretare in via estensiva l’art. 29 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto – quale quello della c.d. acquisizione sanante – introdotto nell’ordinamento solo in epoca successiva (ex plurimis, Cass. SU n. 15343 del 2018). La tutela giurisdizionale connessa all’adozione del provvedimento acquisitivo in questione è necessariamente quella propria della sede processuale in cui essa può essere fatta valere, cioè della corte d’appello funzionalmente competente.
E’ noto che la competenza eccezionale in unico grado attribuita alla corte d’appello è circoscritta alla domanda di determinazione delle indennità di espropriazione dovute al proprietario del bene espropriato ed a quelle di pagamento degli accessori, e non è estensibile a rapporti diversi, ancorché asseritamente connessi, rispetto a quello inerente al credito indennitario, fra espropriato ed espropriante, non potendosi dare ingresso a domande aventi «causa petendi» e «petitum» diversi e autonomi, al fine di stabilire, nell’ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell’opera pubblica, chi sia, nei rapporti interni, il soggetto che, in via di regresso, debba sopportare l’onere economico dell’indennità corrisposta all’espropriato, ovvero al fine di determinare le quote di responsabilità dei diversi soggetti coinvolti ai fini del regresso (ex plurimis, Cass. n. 1090 del 2020, n. 24036 del 2015, n. 25718 del 2011, n. 1234 del 1995, n. 5632 del 1994, n. 4841 del 1993).
Non vi è ostacolo all’applicazione dei suddetti principi al giudizio introdotto a seguito dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis tu. del 2001 che, seppure speciale e autonomo, ha ad oggetto la determinazione di indennità appartenenti al genus espropriativo. A conferma di questa conclusione è il rilievo che, in tale giudizio, sono legittimati passivi, oltre al proprietario del bene immobile, necessariamente ed esclusivamente l’ente che ha adottato il provvedimento di acquisizione che contiene la determinazione delle diverse voci indennitarie, il quale coincide con la «autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico» (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 862 del 2016 e n. 437 del 2015, in quest’ultimo arresto precisandosi che «laddove non si addivenga alla emissione di un simile provvedimento, la eventuale responsabilità risarcitoria affermata non potrebbe che rimanere ad esclusivo carico dell’amministrazione che, “ratione temporis”, si rese protagonista dell’illecito»).
Non si ravvisa un deficit di tutela né per il danneggiato, per essergli consentito di agire nei confronti della sola autorità che utilizza il bene immobile per scopi di interesse pubblico, essendo tale autorità, cui è affidato il pagamento dell’indennità, l’unico debitore del pagamento dell’unitario indennizzo ex art. 42 bis, giacché non gli è comunque precluso di avviare un autonomo giudizio di danno, a tutela dei suoi diritti, per il periodo di occupazione illegittima, prima dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis da parte della pubblica amministrazione; né per l’amministrazione, che ben può rivalersi in separato giudizio ordinario sul soggetto che ritenga essere responsabile della pregressa occupazione illegittima, avendo partecipato alla realizzazione dell’opera (cfr. Cons. Stato n. 862 del 2016). Peraltro, parte della giurisprudenza amministrativa ammette la legittimazione passiva del concessionario (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 4777 del 2015: ha ritenuto legittimata passiva la «concessionaria per la costruzione e l’esercizio dell’autostrada Al […], appartenendo solo al soggetto cui fa capo la realizzazione dell’opera pubblica l’onere di espletare tutte le attività per l’avvio ed il compimento del procedimento espropriativo e quindi anche del provvedimento di acquisizione de quo agitur»), ma ciò postula, nel giudizio indennitario devoluto alla corte d’appello, la verifica che al soggetto «sia stato affidato il pagamento dell’indennità» (cfr. art. 29, quarto comma, d.lgs. n. 150 del 2011) e siano stati conferiti, in virtù di legge o di atti amministrativi e mediante figure sostitutive di rilevanza esterna, il potere e il compito di procedere all’acquisizione delle aree (cfr. art. 6, ottavo comma, t.u. del 2001).
5.3. – Il Procuratore Generale ha condivisibilmente osservato che la locuzione «a titolo risarcitorio», che compare al terzo comma dell’art. 42 bis, non può essere valorizzata obliterando le ragioni fondative dell’istituto in esame e la interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza, al punto di ritenere che il legislatore abbia voluto in tal modo indicare l’esistenza di un «danno» da pregressa occupazione «sine titolo» che verrebbe risarcito solo contestualmente all’indennizzo vero e proprio, correlato alla perdita del diritto di proprietà per effetto del provvedimento acquisitivo, rappresentando, invece, solo una componente del complessivo e unitario importo indennitario, non scomponibile nelle diverse voci, sì da attribuire una diversa e autonoma natura e funzione a ciascuna di esse. Il credito del proprietario è considerato come un «unicum» dal legislatore, il quale non riconosce alle singole voci, confluenti nell’importo complessivo, una autonoma e specifica giustificazione causale riverberantesi sulla legittirnazione dell’avente diritto e sulla stessa legittimazione passiva del debitore.
Il riferimento al «titolo risarcitorio» vale unicamente a far luce sulla genesi di uno degli elementi (il mancato godimento del bene da parte del proprietario per essere il cespite occupato illegittimamente dall’amministrazione) che vengono in considerazione per la determinazione dell’indennizzo in favore del proprietario, il quale non fa valere una duplice legittimazione, cioè di soggetto avente titolo ora all’«indennizzo» ora al «risarcimento» di un danno scaturito da un comportamento originariamente contra jus dell’amministrazione. La permanenza dell’illegittima occupazione del cespite è uno degli elementi di cui l’amministrazione deve tenere presente nella valutazione della sussistenza delle attuali ragioni di pubblico interesse per acquisire un determinato bene. 6.- Venendo ad esaminare i due motivi (v. sub 1) del ricorso principale dei Ministeri delle Infrastrutture e Trasporti e della Giustizia, il primo – che censura il dichiarato (dalla Corte milanese) difetto di legittimazione passiva di Itinera nel giudizio vertente sulla quantificazione dell’indennizzo in questione, in relazione all’occupazione senza titolo che ha preceduto l’emissione del provvedimento acquisitivo – è inammissibile per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, esso non si confronta con (e non censura specificamente) la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha correttamente evidenziato che, trattandosi di un giudizio indennitario, ex artt. 54 t.u. del 2001 e 29 d.lgs. n. 150 del 2011, a seguito del provvedimento acquisitivo ex art. 42 bis t.u. del 2001, gli unici legittimati passivi sono le autorità che tale provvedimento legittimo hanno emesso, senza possibilità di introdurre domande attinenti a rapporti diversi o connessi, peraltro relativi ad una fase contenziosa precedente, ai fini dell’accertamento della responsabilità concorrente di altri enti che hanno partecipato alla realizzazione dell’opera pubblica e dell’eventuale regresso. Le difese svolte, che denunciano unicamente la responsabilità concorrente di Itinera, introducono una tematica estranea alla ratio decidendi, la quale si rivela coerente con l’oggetto del giudizio che è volto unicamente a determinare le diverse voci dell’unitario indennizzo dovuto all’espropriato.
In secondo luogo, il motivo è privo di specificità, non precisando quale sia il titolo specifico – addotto nella precedente fase del giudizio e diverso dalla mera denuncia della «responsabilità» per l’occupazione senza titolo – della invocata «legittimazione passiva» di Itinera (per essere, in tesi, affidataria del mandato al pagamento dell’indennità, cfr. art. 29, quarto comma, d.lgs. n. 150 del 2011), che avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a giudicare nel merito sulla domanda dei Ministeri di accertamento della responsabilità concorrente. Con il secondo motivo i Ministeri ricorrenti criticano la quantificazione della voce indennitaria relativa all’occupazione senza titolo, sostenendosi che si sarebbe dovuto parametrare tale voce alla redditività prodotta dalla convenzione agraria stipulata tra la proprietà e terzi coltivatori, con l’effetto di adeguare al ribasso il parametro dell’interesse del cinque per cento annuo, per pervenire ad un risultato in melius per l’amministrazione. La censura, per come è formulata, è inammissibile, essendo volta a sollecitare una impropria rivisitazione di motivati apprezzamenti di fatto svolti dai giudici di merito, i quali hanno illustrato le ragioni che inducevano a ritenere il contratto di affittanza agraria inconferente ai fini della dimostrazione del minor valore del terreno, essendo ampiamente scaduto prima dell’adozione del provvedimento acquisitivo.
7.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale (sub 1.1), la società Sintesi critica l’ordinanza impugnata per essersi la Corte di merito limitata ad esaminare esclusivamente la richiesta di rivalutazione monetaria (rigettandola per la mancata dimostrazione del maggior danno, sul presupposto che si tratti di un debito indennitario di valuta) e per avere riconosciuto gli interessi sulla indennità di occupazione senza titolo dalla domanda, omettendo tuttavia di pronunciare sulla domanda di riconoscimento degli interessi dalla data in cui i singoli importi annuali avrebbero dovuto essere corrisposti e, quindi, da ogni singolo anno di occupazione fino alla data della loro effettiva corresponsione.
Il motivo è infondato. L’art. 42 bis (terzo comma, seconda parte) prevede, come detto, una forma di liquidazione forfetizzata del pregiudizio per l’occupazione senza titolo antecedente al decreto di acquisizione del bene, che costituisce una voce dell’unitario e complessivo indennizzo dovuto al proprietario, sempre che «dagli atti del procedimento non [risulti] la prova di una diversa entità del danno». Se ne possono trarre le seguenti considerazioni. In primo luogo, al giudice di merito è rimessa una valutazione da compiere all’attualità, «con riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione», come rilevato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 71 del 2015, Considerato 6.6.4) per fugare il dubbio di legittimità della norma, prospettato sotto il profilo che «la norma avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assumerebbe natura di debito di valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria».
In secondo luogo, il pregiudizio per l’occupazione senza titolo, di cui si discute, è compensato mediante il pagamento di un importo determinato in via forfettaria in misura corrispondente al cinque per cento annuo sul valore venale del bene, ma modulabile dal giudice – in melius o in pejus – in sintonia con le istanze e le prove delle parti nel caso concreto. E’ una valutazione riservata al giudice di merito sulla base di una «clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta salva la prova di una diversa entità del danno» (Corte cost. cit., Considerato 6.6.2). Il giudice potrà tenere conto di ogni elemento idoneo a giustificare una quantificazione diversa, in senso riduttivo su impulso dell’autorità emittente (come tentato, nella specie, dai Ministeri ricorrenti) o migliorativo su impulso del danneggiato (nella specie, di Sintesi Spa), il quale potrebbe dimostrare un pregiudizio eccedente, ad esempio, in considerazione dell’eventuale perdita di occasioni di investimento o opportunità, a causa del ritardo nel pagamento (dovendosi, peraltro, tenere conto della possibilità che il privato ha di avviare un autonomo giudizio di danno per il periodo di occupazione illegittima, prima dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis da parte della pubblica amministrazione).
Nell’ambito di tale valutazione, incensurabile in sede di legittimità, la Corte milanese, riconoscendo gli interessi dalla data della domanda sulla somma liquidata secondo il parametro più volte indicato, ha Ric. 2017 n. 04216 sez. SU – ud. 11-05-2021 -25- implicitamente ritenuto, in tal modo, integralmente riparato il danno subito dalla proprietaria, senza necessità di ulteriori integrazioni. 8.-
Le critiche sviluppate nell’ordinanza interlocutoria sono dirette, in conclusione, non già all’interpretazione dell’art. 42 bis t.u. del 2001, ormai consolidata nella giurisprudenza ordinaria e amministrativa, ma all’istituto in sé della c.d. acquisizione sanante per come configurato dal legislatore, in modo costituzionalmente legittimo e sistematicamente coerente.
Si devono enunciare i seguenti principi:
8.1) sono devolute al giudice ordinario e alla corte di appello, in unico grado, secondo una regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità espropriative, le controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto per l’acquisizione del bene utilizzato dall’autorità amministrativa per scopi di pubblica utilità ex art. 42 bis t. u. del 2001, in considerazione della natura intrinsecamente indennitaria del credito vantato dal proprietario del bene e globalmente inteso dal legislatore, come un «unicum» non scomponibile nelle diverse voci, con l’effetto non consentito di attribuire una diversa e autonoma natura e funzione a ciascuna di esse; di conseguenza, l’attribuzione di una somma forfettariamente determinata a «titolo risarcitorio» (pari all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, a norma del terzo comma dell’art. 42 bis) vale unicamente a far luce sulla genesi di uno degli elementi (il mancato godimento del bene per essere il cespite occupato «senza titolo» dall’amministrazione) che vengono in considerazione per la determinazione dell’indennizzo in favore del proprietario, il quale non fa valere una duplice legittimazione, cioè di soggetto avente titolo ora a un «indennizzo» (quando agisce per il pregiudizio patrimoniale, e non patrimoniale, conseguente alla perdita della proprietà del bene), ora a un «risarcimento» di un danno scaturito da un comportamento originariamente con tra jus dell’amministrazione; appartengono invece alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie nelle quali sia dedotta la illegittimità in sé del provvedimento di acquisizione, per insussistenza dei requisiti previsti dalla legge, anche ai fini della valutazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, in relazione ai contrapposti interessi privati e all’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
8.2) la ricostruzione in termini indennitari e le modalità di determinazione dell’indennizzo, anche per la pregressa occupazione illegittima del bene, nel procedimento di cui all’art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011, dinanzi alla corte d’appello, in unico grado di merito, non sono suscettibili di arrecare un deficit di tutela né per l’amministrazione, per esserle preclusa la introduzione di azioni di rivalsa nei confronti di terzi, nell’ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell’opera pubblica, trattandosi di una limitazione coerente con la natura del procedimento, ferma restando la facoltà di rivalersi in separato giudizio ordinario sul soggetto corresponsabile della pregressa occupazione illegittima; né per il privato, per essergli consentito di agire nei confronti della sola autorità che utilizza il bene immobile per scopi di interesse pubblico, essendo tale autorità, cui è affidato il pagamento dell’indennità, il suo creditore, né essendo precluso al privato di avviare un autonomo giudizio di danno, a tutela dei suoi diritti, per il periodo di occupazione illegittima, prima dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 42 bis da parte della pubblica amministrazione;
8.3) la qualificazione in termini indennitari dell’indennizzo per la pregressa occupazione «senza titolo», nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, non è foriera di un deficit di tutela per le parti, avendo il legislatore previsto una clausola di salvaguardia che fa salva la prova di una diversa entità del danno, la cui applicazione è rimessa all’incensurabile valutazione del giudice di merito, il quale può modulare l’importo determinato dal legislatore in via forfettaria – in melius o in pejus – in sintonia con le istanze e le prove offerte dalle parti nel caso concreto.
9.- Il ricorso principale è inammissibile, il ricorso incidentale di Sintesi è rigettato e il ricorso di Itinera, proposto in via condizionata, è assorbito.
10.- Le spese devono essere compensate tra le parti, in considerazione della complessità e parziale novità delle questioni trattate.