<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quello della “</em>ricaduta<em>” nel fatto inadempimento reato è un problema “</em>antico<em>” che, in guisa sinusoidale, compare (nel) e scompare dal dibattito penalistico, sulla scorta di prese di posizione del Legislatore ora più rigide ed “</em>automatiche<em>”, ora maggiormente elastiche ed orientate a conferire al giudice penale una maggiore discrezionalità applicativa; il tutto in un quadro che vede la recidiva - quale circostanza aggravante - da sempre in qualche modo “</em>qualificare”<em> il soggetto attivo del (nuovo) reato, nello spettro di una pertinente, maggiore pericolosità che lambisce (neppure troppo larvatamente) la figura del c.d. “</em>tipo di autore<em>”.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">I giuristi romani hanno certamente ben presente il concetto di reiterazione del reato e, con esso, di pluralità di reati che, in sequenza, vengono perpetrati da un medesimo soggetto: un fenomeno, dunque, empiricamente noto che tuttavia sembrerebbe all’apparenza non poter essere ricondotto, in termini di stretto rigore concettuale, al moderno concetto di recidiva come “<em>ricaduta</em>” nel reato da parte di chi abbia già subito una precedente condanna.</p> <p style="text-align: justify;">Le fonti dimostrano tuttavia che commettere un nuovo reato a Roma comporta, massime in età tardo imperiale, un più o meno consapevole aggravamento sanzionatorio per il soggetto attivo, in un contesto generale in cui – anche nella retorica – assume vieppiù rilevanza, anche criminale, la c.d. “<em>anteacta vita</em>” e, dunque, i frammenti di vita pregressa del reo, massime in tema di diserzione del <em>miles</em> (soldato), come testimonia in particolare Arrio Menandro, giureconsulto dell’età dei Severi.</p> <p style="text-align: justify;">Di soldati catturati e poi evasi, come tali non additabili come disertori, si occupa in specie, in un rescritto, l’Imperatore Adriano valorizzando proprio l’<em>anteacta vita</em>; ed è sempre questo Principe a dare una prima veste tecnicamente giuridica alla recidiva nel caso in cui il soggetto attivo si sia già macchiato, nel proprio passato, del medesimo reato per il quale viene processato, circostanza che tanto la prassi giudiziaria quanto i trattati retorici da sempre considerano come principale strumento per calibrare, in ottica commisuratoria, la vita pregressa del reo.</p> <p style="text-align: justify;">In un frammento afferente all’abigeato e ritratto dal libro VIII <em>de officio proconsulis</em>, è difatti il giurista Ulpiano a citare un rescritto proprio dell’imperatore Adriano rivolto al <em>concilium</em> tenutosi nella Provincia spagnola della Betica: il Principe rammenta come l’abigeato sia di norma punito <em>durissime </em>con la pena c.d. <em>ad gladium</em>, ovvero con la decapitazione o con lotte impari dal risultato scontato tra il condannato (spesso costretto a correre per tutta l’arena) e un gladiatore.</p> <p style="text-align: justify;">L’Imperatore precisa tuttavia come questa grave sanzione possa applicarsi solo quando il reato sia stato consumato <em>frequentius</em>, e dunque più spesso, mentre laddove il furto di bestiame sia stato dal soggetto attivo più raramente consumato, può essere sufficiente la pena della <em>damnatio ad opus metallicum </em>(lavori forzati in miniera), financo temporaneo nei casi più lievi.</p> <p style="text-align: justify;">Fatta questa premessa, l’Imperatore – palesando, precisa Ulpiano, di assumere per lui più grave la <em>damnatio ad metalla</em> rispetto al <em>gladium</em> ed applicando questo postulato al caso sottopostogli (dal <em>concilium</em> di Betica) – assume normalmente applicabile a chi abbia commesso abigeato per l’appunto la sanzione del <em>gladium</em>, tranne quando il reo abbia già riportato altre condanne per il medesimo reato, tanto da essere già <em>notus</em> e <em>gravis in abigeando</em>, circostanza nella quale va invece punito – quale “<em>recidivo</em>” - con la <em>damnatio ad metalla</em>.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una precisazione che, in ogni, caso lascia affiorare una evidente volontà di trattamento deteriore (o, comunque, diverso) per chi ricada nell’abigeato dopo essere stato già in passato condannato per il medesimo reato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che disciplina la recidiva agli articoli 80 e seguenti, nel contesto del Titolo VIII del libro I.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo l’art.80, comma 1, colui che, dopo una sentenza di condanna - e non oltre 10 anni dal giorno in cui la pena “<em>fu scontata</em>” o la condanna estinta, se la pena era superiore ai 5 anni di durata, o non oltre i 5 anni negli altri casi - commette un altro reato, non può essere punito col minimo della pena incorsa per il nuovo reato.</p> <p style="text-align: justify;">Se poi (comma 2) il nuovo reato sia della stessa indole di quello per il quale è stata pronunciata la precedente condanna, il colpevole soggiace ad un aggravamento della pena incorsa, secondo le norme seguenti:</p> <p style="text-align: justify;">1° se la pena incorsa per il nuovo reato sia la reclusione, la durata ordinaria della segregazione cellulare continua è aumentata in ragione di 1/6 della pena stabilita per il reato commesso; e ove la reclusione debba scontarsi interamente in tale segregazione, o il prolungamento suddetto non possa farsi nei limiti della pena da infliggere, per applicare il prolungamento stesso si aumenta proporzionalmente la durata della pena;</p> <p style="text-align: justify;">2° se la pena incorsa per il nuovo reato sia diversa dalla reclusione, essa è aumentata da un 1/6 ad 1/3.</p> <p style="text-align: justify;">In nessun caso (comma 3) l’aumento stabilito nelle disposizioni precedenti può applicarsi in misura superiore alla più grande delle pene anteriormente inflitte; e ove si tratti di pene pecuniarie, per determinare tale misura si fa il ragguaglio secondo le norme stabilite nell’art.19.</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi al successivo art.81 colui che, dopo essere stato più volte condannato a pena restrittiva della libertà personale, superiore per ciascuna volta ai 3 mesi, commette, nei termini indicati nell’articolo precedente, un altro reato della stessa indole e che importi anch’esso una pena restrittiva della libertà personale, soggiace ad un aumento della pena incorsa pari alla metà della durata della pena stessa, ove questa sia inferiore ai 30 mesi e ad 1/3 negli altri casi; purché non si superino i 30 anni per la reclusione e la detenzione (comma 1).</p> <p style="text-align: justify;">Se la nuova pena incorsa sia la reclusione, si applica anche la segregazione cellulare continua nella misura stabilita nel precedente articolo.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, stando all’art.82, per gli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli preveduti in uno stesso capo del codice e quelli rispettivamente indicati sotto le lettere seguenti:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>delitti contro la sicurezza dello Stato;</li> <li>delitti commessi da pubblici ufficiali, mediante violazione dei doveri inerenti all’ufficio o con abuso delle proprie funzioni;</li> <li>delitti contro le libertà politiche o la libertà dei culti, abusi dei ministri del culto nell’esercizio delle proprie funzioni, delitti commessi contro pubblici ufficiali a causa delle loro funzioni ed ogni altro delitto contro l’Amministrazione pubblica commesso da privati, e delitti contro l’ordine pubblico;</li> <li>simulazione di reato, calunnia, falsità in giudizio e prevaricazione;</li> <li>delitti contro l’incolumità pubblica;</li> <li>delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie preveduti negli articoli dal 331 al 348;</li> <li>omicidio e lesione personale;</li> <li>furto, rapina, effrazione, ricatto, truffa ed altre frodi, appropriazioni indebite, ricettazione, bancarotta fraudolenta, delitti preveduti negli articoli dal 203 al 206, 224, dal 256 al 260, dal 293 al 299, dal 319 al 322, 326, omicidio e lesione personale commessi a fine di lucro.</li> </ol> <p style="text-align: justify;">Stando al successivo art.83, per gli effetti delle disposizioni degli articoli precedenti non si tiene conto:</p> <p style="text-align: justify;">1° delle condanne per contravvenzioni rispetto a quelle per delitti, e viceversa;</p> <p style="text-align: justify;">2° delle condanne per delitti commessi per imprudenza o negligenza o per imperizia nell’arte o professione o per inosservanza di regolamenti, ordini o discipline, rispetto alle condanne per altri delitti, e viceversa;</p> <p style="text-align: justify;">3° delle condanne pronunziate per reati esclusivamente militari;</p> <p style="text-align: justify;">4° delle condanne pronunziate da tribunali stranieri.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, ai sensi dell’art.84, il condannato all’ergastolo, il quale commette un altro delitto, soggiace ad un nuovo periodo di segregazione cellulare continua, da 6 mesi a 5 anni, se il delitto importi la reclusione o la detenzione per un tempo superiore ad 1 anno; ad un nuovo periodo non inferiore a 8 anni, che può estendersi tutta la vita, se il delitto importi l’ergastolo.</p> <p style="text-align: justify;">Riassumendo, nella disciplina del codice penale liberale, ispirato alla codificazione francese, viene attribuita una significativa rilevanza alla espiazione della pregressa pena, forgiando un istituto tendenzialmente orientato alla c.d. special-prevenzione: si incorre in essa infatti quando si commette un altro reato “<em>non oltre i 10 anni dal giorno in cui la pena fu scontata o la condanna estinta</em>”, quale che sia stato poi il reato in precedenza commesso ed oggetto di condanna, e dunque tanto nel caso in cui si sia trattato di un delitto quanto in quello in cui si sia trattato di una contravvenzione, sia poi a titolo di dolo che di colpa,</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che, in ottica squisitamente “<em>soggettiva</em>”, prevede la recidiva nel medesimo capo (il II del Titolo IV del Libro I) in cui disciplina anche l’abitualità e professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, eliminando peraltro ogni riferimento al concetto di “<em>espiazione della pena</em>” per il precedente reato, contenuto invece nel codice del 1889.</p> <p style="text-align: justify;">Stando all’art.99, comma 1, chi, dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro, soggiace a un aumento fino a 1/6 della pena da infliggere per il nuovo reato (comma 1).</p> <p style="text-align: justify;">La pena è tuttavia aumentata fino alla metà (comma 2):</p> <p style="text-align: justify;">1° se il nuovo reato è della stessa indole;</p> <p style="text-align: justify;">2° se il nuovo reato è stato commesso nei 5 anni dalla condanna precedente;</p> <p style="text-align: justify;">3° se il nuovo reato è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Qualora poi concorrano più circostanze fra quelle indicate nei numeri precedenti, l’aumento di pena è da 1/3 alla metà (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">Infine, se il recidivo commette un altro reato, l’aumento della pena, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, è da 1/3 alla metà, e, nei casi preveduti dai capoversi precedenti, è dalla metà ai 2/3.</p> <p style="text-align: justify;">Stando al successivo art.100 il giudice, salvo che si tratti di reati della stessa indole, ha facoltà di escludere la recidiva fra delitti e contravvenzioni, ovvero fra delitti dolosi o preterintenzionali e colposi, ovvero fra contravvenzioni.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, ai sensi dell’art.101, agli effetti della legge penale sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse del codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni.</p> <p style="text-align: justify;">Significativo anche l’art.70, alla stregua del cui comma 1, agli effetti della legge penale:</p> <p style="text-align: justify;">1) sono circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell'offeso;</p> <p style="text-align: justify;">2) sono circostanze soggettive quelle che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l'offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole.</p> <p style="text-align: justify;">Il comma 2 precisa poi che le circostanze “<em>inerenti alla persona del colpevole</em>” riguardano la imputabilità e, appunto, la recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Stando poi all’art.151, comma 5, l’amnistia non si applica ai recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell’art.99, né ai delinquenti abituali o professionali o per tendenza, salvo che il decreto disponga diversamente; il medesimo regime “ostativo” si applica in tema di indulto, stante il richiamo dell’art.174, comma 3, tra gli altri, al comma 5 del ridetto art.151.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, ai sensi dell’art.172, comma 7, l’estinzione delle pene non ha luogo se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art.99, o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza; ovvero se il condannato, durante il tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, ai sensi dell’art.179, comma 2, il termine per la riabilitazione è di 10 anni se si tratta di recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell’art.99.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene “<em>rimproverato</em>” in quanto fatto suo “<em>personale</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Tale circostanza assume connotati tutt’affatto peculiari, proprio in termini di personalizzazione del trattamento sanzionatorio, nelle fattispecie di c.d. ricaduta criminosa, con rimproverabilità che si atteggia anch’essa a tutt’affatto peculiare e che sembra imporre – lungi da ogni possibile automatismo – delle calibrature da affidarsi, caso per caso, al giudice penale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 dicembre viene varato il D.p.R. n.1464, recante concessione di amnistia e di indulto in materia di abusiva detenzione di armi, il cui art.3, comma 1, stabilisce che l’amnistia si applica anche ai recidivi nei casi preveduti dai capoversi dell’art.99 del c.p. e ai delinquenti abituali o professionali o per tendenza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1974</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 aprile viene varato il decreto legge n.99, recante provvedimenti urgenti sulla giustizia penale, il cui art.9, comma 1, modifica l’art.99 del c.p.: si tratta di un primo intervento di ampio respiro in tema di recidiva, improntato fondamentalmente a garantismo.</p> <p style="text-align: justify;">L’applicazione della recidiva diviene infatti da obbligatoria meramente facoltativa, “<em>potendo</em>” essere applicata dal giudice – ai sensi del comma 1 – in caso di commissione di nuovo reato da parte del condannato.</p> <p style="text-align: justify;">L’aumento di pena poi, ai sensi del nuovo comma 2, può essere applicato non più fino alla metà, ma fino ad 1/3, e dunque in misura ridotta rispetto alla versione originaria della norma.</p> <p style="text-align: justify;">Qualora poi concorrano più circostanze “<em>aggravatrici</em>”, l’aumento di pena non è più da 1/3 alla metà, ma “<em>fino alla metà</em>”, anche in questo caso con una mitigazione “<em>verso il basso</em>” della cornice edittale (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">Al posto del vecchio comma 4, subentrano poi due nuovi comma: stando al nuovo comma 4 – nel cui contesto campeggia ancora, <em>ex novo</em>, la facoltatività rispetto alla precedente obbligatorietà - se il recidivo commette un altro reato (c.d. recidiva reiterata), l’aumento della pena, nel caso previsto dalla prima parte dell’articolo può essere fino alla metà e, nei casi preveduti dai numeri 1) e 2) del comma 2, può essere fino a 2/3, mentre nel caso previsto dal n.3) del comma 2, essa può essere da 1/3 ai 2/3.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, per il comma 5, in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato.</p> <p style="text-align: justify;">L’art.10 del decreto abroga poi l’art.100 del c.p., essendo ormai la “<em>facoltatività</em>” la regola nell’applicazione dell’aggravamento sanzionatorio per recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.99.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo esce la sentenza delle SSUU n.3152, Paolini, che afferma il principio onde la recidiva non è compresa nelle circostanze aggravanti che rendono il reato di truffa perseguibile d'ufficio, perché, inerendo esclusivamente alla persona del colpevole, non incide sul fatto-reato.</p> <p style="text-align: justify;">L'ordito motivazionale che sorregge l'enunciazione di tale principio di diritto muove dalla modifica dell'art. 640 cod. pen., introdotta dall'art. 98 della legge 24 novembre 1981 n. 689, che aveva aggiunto il seguente comma: «<em>Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un'altra circostanza aggravante</em>». Sin dalle prime applicazioni del suddetto comma, la giurisprudenza di legittimità aveva assunto due opposti orientamenti in ordine alla inclusione della recidiva fra le circostanze aggravanti indicate nella nuova disposizione.</p> <p style="text-align: justify;">Il problema, come indicato dalla Corte, era quello di qualificare o meno la recidiva, al fine della perseguibilità di ufficio del reato di truffa, quale "<em>circostanza aggravante</em>". Sul punto le SSUU rilevano che il codice penale si occupa della recidiva non nella parte che riguarda il reato, ma in quella che si riferisce al reo e, precisamente, nel Capo secondo del Titolo quarto del Libro primo, dedicato anche alla abitualità e alla professionalità nel reato, ossia a quelle condizioni personali alle quali più si avvicina la condizione del recidivo. Il che, ad avviso delle Sez. U, è coerente con il rilievo che, «<em>la recidiva qualifica il soggetto, ma resta del tutto estranea alla fattispecie legale, comunque circostanziata, del reato. </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Essa, infatti, a differenza di altre condizioni personali che incidono sulla tipicità del reato (ad esempio: la qualifica di pubblico ufficiale per i reati di concussione, abuso innominato di ufficio, ecc.), incide esclusivamente sulla quantità della pena da infliggere in concreto, alla stessa stregua delle condizioni economiche previste dall'art. 133-bis cod. pen</em>.».</p> <p style="text-align: justify;">Della diversità della recidiva rispetto alle altre circostanze, comuni e speciali, si annota nella predetta sentenza, è stato ben consapevole il legislatore del 1930, che ha escluso la recidiva dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. in base alla considerazione (cfr. Relazione al progetto definitivo del codice penale) che le circostanze inerenti alla persona del colpevole, ossia l'imputabilità e la recidiva, «<em>escono, per così dire, fuori dal quadro della equivalenza o della prevalenza, essendo del tutto eterogenee rispetto alle altre circostanze comuni e speciali</em>» e che «<em>le regole sulla prevalenza e sulla equivalenza sono applicabili soltanto in quanto si rimanga nel campo delle vere e proprie circostanze che modificano esclusivamente la quantità del reato, rappresentandone una accidentalità, una modalità, una causalità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">E coerentemente, anche in tema di concorso di persone nel reato, il legislatore ha riservato alle circostanze inerenti alla persona del colpevole una valutazione diversa rispetto alle altre circostanze soggettive (art. 118 cod. pen. nel testo <em>ratione temporis</em> vigente).</p> <p style="text-align: justify;">Secondo le SSUU, la riforma del 1974 non ha smentito il fondamento della originaria distinzione operata dal legislatore, avendo semplicemente eliminato l'evidente antinomia tra il fine del giudizio di bilanciamento, rivolto all'individualizzazione del trattamento punitivo tenendo anche conto «<em>della particolare personalità del reo considerata sotto ogni aspetto sintomatico</em>», e la rigida limitazione di tale giudizio ad una valutazione complessiva del disvalore materiale del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tali considerazioni la Corte giunge alla conclusione che la recidiva «<em>è una "</em>circostanza aggravante<em>" sui generis, che ha rilevanza solo quando sia presa in considerazione la misura della pena, mentre non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato, al quale resta estranea</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Le SSUU percorrono anche un ulteriore e convergente itinerario argomentativo, individuando la <em>ratio</em> della perseguibilità a querela del reato di truffa nei suoi sottostanti aspetti civilistici, che divengono recessivi rispetto agli interessi pubblicistici nel caso in cui ricorra una circostanza aggravante.</p> <p style="text-align: justify;">Osservano che le ragioni della procedibilità a querela del reato di truffa, introdotta dall'art. 98 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sono state puntualmente evidenziate dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 294 del 1987, nella quale si è sottolineato che la legge n. 689 del 1981 non soltanto ha tenuto conto della non rilevante gravità degli illeciti per i quali si è introdotto il regime della perseguibilità a querela, ma ha dato rilievo decisivo alla finalità di conseguire, anche per questa via, una significativa deflazione dei carichi giudiziali, ritenuta necessaria per l'effettiva funzionalità della giustizia penale.</p> <p style="text-align: justify;">A tale esigenza si affianca, come si legge nella Relazione di accompagnamento alla legge, quella «<em>di evitare che l'azione penale venga iniziata o proseguita, senza o addirittura contro la volontà di coloro che per essere i titolari degli interessi meritevoli di maggiore protezione sono abilitati a chiedere l'intervento del giudice penale</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Proprio in tale prospettiva, il Collegio evidenzia che il legislatore ha, comunque, voluto escludere dalla punibilità a querela anzitutto il reato di truffa aggravato ai sensi del capoverso dell'art. 640 e, cioè, il caso in cui il fatto assuma la tipicità descritta dalla norma stessa, equiparandovi poi, in seconda battuta, anche le altre circostanze aggravanti.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>La rimarcata equiparazione</em>», afferma la sentenza Paolini, «<em>deve fare ritenere che il legislatore abbia voluto includere solo le circostanze che, come quelle previste dal capoverso dell'art. 640, incidono sulla quantità del fatto</em>», ritenendo, per contro, «<em>indifferente la misura della pena</em>» derivante dall'applicazione delle circostanze stesse.</p> <p style="text-align: justify;">A queste considerazioni logico-giuridiche, ritenute decisive, il Collegio ne aggiunge altre, tutte conducenti alla medesima conclusione. Non si riscontrano precedenti ipotesi di perseguibilità d'ufficio per effetto della sola aggravante della recidiva. Sarebbe contraddittorio ritenere che il legislatore abbia voluto attribuire tale effetto alla recidiva nel momento stesso in cui ha ampliato il campo della procedibilità dell'azione penale a querela della persona offesa proprio in relazione al reato di truffa «<em>che, nella forma semplice, il legislatore ha voluto escludere dalla punibilità d'ufficio in considerazione dei suoi aspetti civilistici, i quali non vengono certo alterati dalle condizioni personali del reo</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Il principio della estensione della querela a tutti i concorrenti, affermato dall'art. 123 cod. pen., «<em>postula che il reato debba essere individuato sulla base della sua astratta struttura oggettiva, sia in relazione agli elementi costitutivi sia in relazione a quelli accidentali, con nessuno dei quali può identificarsi la condizione personale di recidivo di un singolo compartecipe</em>». Infine, sarebbe assurdo sottrarre la perseguibilità penale al potere dispositivo della persona offesa in base ad una mera presunzione di maggiore capacità a delinquere del recidivo, la quale può essere esclusa, in concreto, dal giudice del dibattimento.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un orientamento che sarà seguito anche da altre pronunce.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 luglio esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione n.17, Grassi, onde secondo cui una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai relativi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso.</p> <p style="text-align: justify;">Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica - pur se indiretta - esclusione di taluno di quegli effetti, una norma per il Collegio deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue per le SSUU che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il relativo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga - ai sensi dell'art. 69 c.p. - un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato.</p> <p style="text-align: justify;">Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei relativi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all'attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell'afflittività sanzionatoria l'aggravante risulta <em>tamquam non esset</em>».</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 giugno viene varata la legge n.134, recante modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti, il cui art.1 – nel modificare l’art.444 c.p.p. – vi introduce un comma 1 bis alla cui stregua sono esclusi dall’applicazione del comma 1 (e, dunque, dal patteggiamento) i procedimenti per i delitti di cui all’art.51, comma 3.bis e 3.quater, del codice di rito, nonché quelli contro coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art.99, comma 4, c.p. (c.d. recidivi reiterati), qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 dicembre viene varata la legge n.251, c.d. ex Cirielli, recante modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione; si tratta di un nuovo intervento di ampio respiro in tema di recidiva, a tratti improntato a rigore ed “<em>automaticità</em>” applicativa.</p> <p style="text-align: justify;">Il relativo art.4, comma 1, riformula <em>in primis</em> nuovamente l’art.99 del c.p. in tema di recidiva; secondo la nuova formulazione, la recidiva si applica fondamentalmente nei soli casi di reati dolosi, o meglio “<em>non colposi</em>”; onde essa non scatta in presenza di nuovo reato “<em>colposo</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Stando difatti al comma 1 del nuovo art.99, chi – dopo essere stato condannato per un delitto non colposo – ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento di 1/3 della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.</p> <p style="text-align: justify;">La pena può poi essere aumentata fino alla metà (comma 2):</p> <ul style="text-align: justify;"> <li>se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole;</li> <li>se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei 5 anni dalla condanna precedente;</li> <li>se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.</li> </ul> <p style="text-align: justify;">Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al comma 2, l’aumento di pena è pari alla metà (comma 3); se poi il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento di pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e - nei casi previsti dal comma 2 - è pari a 2/3.</p> <p style="text-align: justify;">Importante il comma 4, alla cui stregua se si tratta di uno dei delitti – particolarmente gravi – indicati all’art.407, comma 2, lettera a) del c.p.p., l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati dal comma 2, non può essere inferiore ad 1/3 della pena da infliggere per il nuovo delitto.</p> <p style="text-align: justify;">Infine (comma 5), in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo.</p> <p style="text-align: justify;">Il provvedimento normativo modifica anche l’art.69, comma 4, c.p. in tema di bilanciamento tra circostanze, prevedendo che tale meccanismo si applichi anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’art.99, comma 4, c.p., e dunque i casi di recidiva c.d. “<em>reiterata</em>” (oltre ai casi di cui agli articoli 111 e 112, comma 1, n.4, c.p.): ne discende che in tali fattispecie si configura il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ivi compresa la ridetta recidiva “<em>reiterata</em>”, secondo un meccanismo che opera anche al cospetto di qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato.</p> <p style="text-align: justify;">La legge incide anche sull’art.81 del codice penale in tema di continuazione, aggiungendovi un comma 4 alla cui stregua – fermi restando i limiti indicati dal precedente comma 3 – se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art.99, comma 4, e dunque la recidiva reiterata, l’aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad 1/3 della pena stabilita per il reato più grave.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, in tema di circostanze attenuanti c.d. generiche, l’art.62 bis vede modificato il proprio comma 2 nel senso onde, ai fini dell’applicazione del comma 1 (e, dunque, del riconoscimento delle ridette attenuanti generiche) non si tiene conto dei criteri di cui all’art.133, comma 1, n.3 e comma 2, nei casi previsti dall’art.99, comma 4, c.p. (c.d. recidiva reiterata) in relazione ai delitti previsti dall’art.407, comma 2, lettera a) c.p.p., nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni: si è dunque al cospetto di un altro caso di automatica esclusione di rilevanza delle attenuanti generiche.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto poi concerne l’interruzione della prescrizione, viene novellato anche l’art.161 c.p., il cui comma 2 prevede ora che – salvo che si proceda per i reati di cui all’art.51, comma 3 bis e 3 quater, del c.p.p., in nessun caso l’interruzione della prescrizione ridetta può comportare l’aumento di più di ¼ del tempo necessario a prescrivere, di ½ nei casi di cui all’art.99, comma 2, c.p., di 2/3 nel caso di cui all’art.99, comma 4, c.p. e del doppio nei casi di cui agli articoli 102, 103 e 105 c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, anche in tema di misure alternative alla detenzione e c.d. benefici penitenziari non mancano le novità introdotte dalla legge c.d. ex Cirielli che prevede più stringenti limiti per l’accesso a forme di espiazione della pena di natura extracercaria, l’esclusione dei recidivi dai meccanismi di sospensione automatica della pena prima dell’accesso in carcere e la limitazione del numero complessivo di benefici penitenziari concretamente ottenibili dal recidivo.</p> <p style="text-align: justify;">Più nel dettaglio, ai sensi dell’art. 7 della Legge, dopo l’att. 30-ter della l. 26 luglio 1975, n. 354 viene inserito un nuovo art. 30-quater alla cui stregua i permessi premio possono essere concessi ai detenuti, ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma del codice penale, nei seguenti casi previsti dal comma 4 dell’articolo 30-ter: alla lettera a) dopo l’espiazione di un terzo della pena; alla lettera b), dopo l’espiazione della metà della pena; alle lettere c) e d) dopo l’espiazione di due terzi della pena e, comunque, di non oltre quindici anni.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, ai sensi degli articoli 7 e 8 della legge 251/2005, in materia di semilibertà, dopo l'articolo 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 viene inserito art.50-bis (Concessione della semilibertà ai recidivi) onde la semilibertà ridetta può essere concessa ai detenuti ai quali sia stata “<em>applicata</em>” la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, del codice penale, soltanto dopo l’espiazione dei due terzi della pena ovvero, se si tratta di un condannato per taluno dei delitti indicati nel comma 1 dell’articolo 4-bis della legge, di almeno tre quarti di essa.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, in materia di affidamento in prova al servizio sociale, dopo il comma 7 dell’articolo 58-quater della legge 26 luglio 1975, n. 354 viene aggiunto un comma 7-bis onde l'affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma del codice penale (recidiva “<em>reiterata</em>”).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.257 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-quater della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall’art. 7 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso sulla base della normativa previgente nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore della citata legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto.</p> <p style="text-align: justify;">Preliminarmente, occorre per il Collegio ribadire che tra le finalità che la Costituzione «<em>assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo – non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione</em>» (v. la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0306s-93.html">sentenza n. 306 del 1993</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Le differenti contingenze, storicamente mutevoli, che condizionano la dinamica dei fenomeni delinquenziali, comportano logicamente la variabilità delle corrispondenti scelte di politica criminale che il legislatore è chiamato a compiere: così da dar vita ad un sistema normativamente “<em>flessibile</em>”, proprio perché potenzialmente idoneo a plasmare i singoli istituti in funzione delle diverse esigenze che quelle scelte per loro natura coinvolgono.</p> <p style="text-align: justify;">Da qui – riprende la Corte - l’impossibilità di stabilire, <em>ex ante</em>, un punto di equilibrio dogmaticamente “<em>cristallizzato</em>” tra le diverse funzioni che il sistema penale, nel relativo complesso, è chiamato a soddisfare nel quadro dei valori costituzionali; e, quindi, la impossibilità, anche, di censurare, in astratto, opzioni normative, sol perché di tipo “<em>repressivo</em>” rispetto al quadro preesistente, o, all’inverso, perché ispirate ad un maggior <em>favor libertatis</em>. «<em>Il legislatore può cioè – nei limiti della ragionevolezza – far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata</em>» (v. ancora la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0306s-93.html">sentenza n. 306 del 1993</a>).</p> <p style="text-align: justify;">In tanto può concretamente parlarsi di una sostanziale non elusione delle funzioni costituzionali della pena, in quanto il sacrificio dell’una sia il “<em>minimo indispensabile</em>” per realizzare il soddisfacimento dell’altra, giacché soltanto nel quadro di un sistema informato ai paradigmi della “<em>adeguatezza e proporzionalità</em>” delle misure (per mutuare principi tipici delle cautele personali) è possibile sindacare la razionalità intrinseca (e, quindi, la compatibilità costituzionale) degli equilibri normativi prescelti dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">In tale cornice la Corte rammenta di avere sottolineato come, a proposito delle misure di “<em>rigore</em>” che, in tema di ordinamento penitenziario, furono adottate – dopo i tragici fatti di Capaci – con il d. l. n. 306 del 1992, dovesse ritenersi non in linea con la finalità rieducativa della pena la scelta di precludere l’accesso ai benefici penitenziari in ragione del semplice <em>nomen juris</em> per il quale era stata pronunciata la condanna. «<em>Ed infatti</em>» – si osservò – «<em>la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante – venne ancora puntualizzato – la tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita</em>» (v. la già citata <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0306s-93.html">sentenza n. 306 del 1993</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Tali rilievi, chiosa a questo punto la Corte, valgono anche con riferimento alla disposizione oggetto di impugnativa; la linea perseguita con essa dal legislatore ha chiaramente privilegiato – inasprendo i presupposti per la concessione dei permessi premio ai recidivi – una scelta general-preventiva, obliterando l’iter di risocializzazione già concretamente perseguito.</p> <p style="text-align: justify;">È evidente, infatti, che, accomunando fra loro le posizioni dei recidivi reiterati – senza alcuna valutazione della “<em>qualità</em>” dei comportamenti, del tipo di devianza, della lontananza nel tempo fra le condanne ed altri possibili parametri “<em>individualizzanti</em>” – l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo; quest’ultimo viene ad essere addirittura vanificato per quanti abbiano – come nella ipotesi dedotta dal giudice <em>a quo</em> – già raggiunto un grado di risocializzazione adeguato al godimento del beneficio penitenziario, all’atto della entrata in vigore della nuova e più restrittiva normativa.</p> <p style="text-align: justify;">Un percorso di emenda, quindi, che – per la Corte - il legislatore ha bruscamente interrotto, al di fuori di qualsiasi concreta ponderazione dei valori coinvolti.</p> <p style="text-align: justify;">In tale quadro di riferimento risulta perciò pertinente il richiamo che il giudice rimettente opera alla <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1999/0173o-99.html">sentenza n. 173 del 1999</a>, correttamente evocata quale precedente “<em>specifico</em>”, in considerazione del fatto che i relativi <em>dicta</em> appaiono sovrapponibili alla peculiare situazione generata dalla nuova disposizione oggetto del nuovo scrutinio di costituzionalità demandato alla Corte.</p> <p style="text-align: justify;">Con tale sentenza, infatti, venne dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevedeva che il beneficio del permesso premio potesse essere concesso nei confronti dei condannati che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del già citato d.l. n. 306 del 1992 – introduttivo del nuovo e più rigoroso testo dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario in tema di misure alternative, permessi premio e lavoro all’esterno per i condannati di reati (<em>lato sensu</em>) di criminalità organizzata – avessero realizzato le condizioni per usufruire del beneficio richiesto, e per i quali non fosse accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.</p> <p style="text-align: justify;">Nella pronuncia innanzi richiamata, la Corte sottolineò come il percorso compiuto dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalla più volte ricordata <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0306s-93.html">sentenza n. 306 del 1993</a>, fosse diretto a mantenere il rispetto del principio rieducativo nella fase della esecuzione penale, anche in presenza di leggi con le quali si era ritenuto di restringere gli accessi alle misure alternative alla detenzione o a determinati benefici penitenziari, per far fronte ai pericoli creati dalla criminalità organizzata.</p> <p style="text-align: justify;">In tale cornice si era così iscritta la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1997/0445s-97.htm">sentenza n. 445 del 1997</a>; in essa si era affermato che quando la condotta penitenziaria del detenuto ha consentito «<em>di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire</em>», «<em>la innovazione legislativa che vieta la concessione di misure alternative alla detenzione finisce per atteggiarsi alla stregua di un meccanismo a connotazioni sostanzialmente ablative, riproducendo così quei caratteri di “</em>revoca<em>” non fondata sulla condotta colpevole del condannato</em>», che la stessa Corte aveva già censurato nella <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0306s-93.html">sentenza n. 306 del 1993</a>.</p> <p style="text-align: justify;">Il punto di arrivo del percorso tracciato dalla giurisprudenza costituzionale, era così rappresentato – osservò la Corte – dalla affermazione secondo la quale «<em>non si può ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dalla Costituzione nell’art. 27, con il precludere l’accesso a determinati benefici o a determinate misure alternative in favore di chi, al momento in cui è entrata in vigore una legge restrittiva, abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici o di quelle misure</em>». Quindi, l’identico dispositivo tracciato per la semilibertà nella richiamata <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1997/0445s-97.htm">sentenza n. 445 del 1997</a>, venne esteso anche ai permessi premio.</p> <p style="text-align: justify;">L’identica <em>ratio decidendi</em> deve perciò, chiosa la Corte, valere anche con riferimento alle misure di rigore stabilite per i condannati recidivi, posto che la preclusione alla fruizione di benefici scaturita dal nuovo regime, ove applicata nei confronti di quanti abbiano già raggiunto, all’atto della relativa entrata in vigore, uno stadio del percorso rieducativo adeguato al godimento dei permessi premio, finirebbe per tradursi in un incoerente arresto dell’<em>iter</em> trattamentale, in violazione del principio sancito dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">D’altra parte, la «<em>funzione “</em>pedagogico-propulsiva<em>” assolta dal permesso premio ha indotto questa Corte ad individuare – rimarcando il decisivo valore della computabilità del periodo trascorso in permesso nella durata della detenzione – una progressione nella premialità, cui fa da contrappunto una regressione nella medesima» in ipotesi di «gravi comportamenti da cui risulta che il soggetto non si è dimostrato meritevole del beneficio</em>» (v. <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0504s-95.htm">sentenza n. 504 del 1995</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Così da rendere evidente come l’introduzione di una sostanziale “<em>regressione</em>” nella fruizione del permesso premio, non collegata ad una corrispondente “<em>regressione comportamentale</em>” da parte del condannato, si pone in evidente frizione rispetto alla stessa logica di progressività che, come si è detto, muove l’intero (e individualizzato) programma trattamentale.</p> <p style="text-align: justify;">Resta conseguentemente assorbito – conclude la Corte - il dubbio di costituzionalità che il giudice rimettente formula in riferimento all’art. 25 della Costituzione, giacché, al di là della enunciazione formale, non si tratta di questione autonoma, né di censura correlata all’altra da vincolo di pregiudizialità logica o di subordinazione in senso tecnico, ma di semplice diverso profilo dell’unico quesito di legittimità.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 agosto esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.27814 onde, richiamando un consolidato orientamento in tema di circostanze – ed in tal modo confermando la natura circostanziale della stessa recidiva - con particolare riguardo al concetto di “<em>applicazione</em>” della recidiva medesima, occorre evidenziare che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come (per l’appunto) “<em>applicata</em>” non solo quando esplica il relativo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la relativa funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.</p> <p style="text-align: justify;">AI contrario, precisa il Collegio, l'aggravante medesima non può assumersi “<em>applicata</em>” allorquando, verificata la configurabilità delle circostanze fattuali dalla medesima descritte, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri, a causa della prevalenza attribuita all’attenuante, che non si limita a paralizzarla, ma prevale su di essa, in modo che, sul piano dell’effettività sanzionatoria, l'aggravante di pertinenza risulta <em>tamquam non esset</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 27 febbraio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.8152 onde, richiamando un consolidato orientamento in tema di circostanze – ed in tal modo confermando la natura circostanziale della stessa recidiva - con particolare riguardo al concetto di “<em>applicazione</em>” della recidiva medesima, occorre evidenziare che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come (per l’appunto) “<em>applicata</em>” non solo quando esplica il relativo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la relativa funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.</p> <p style="text-align: justify;">AI contrario, precisa il Collegio, l'aggravante medesima non può assumersi “<em>applicata</em>” allorquando, verificata la configurabilità delle circostanze fattuali dalla medesima descritte, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri, a causa della prevalenza attribuita all’attenuante, che non si limita a paralizzarla, ma prevale su di essa, in modo che, sul piano dell’effettività sanzionatoria, l'aggravante di pertinenza risulta <em>tamquam non esset</em>.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.79, dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 7-bis dell’art. 58-quater della legge 26 luglio 1975 n. 375 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà), introdotti dall’art. 7, commi 6 e 7, della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975 n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non prevedono che i benefici in essi indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore della citata legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti.</p> <p style="text-align: justify;">Va ribadito per il Collegio che – secondo un orientamento giurisprudenziale costante ed univoco della Corte medesima – la finalità rieducativa della pena, stabilita dall’art. 27, terzo comma, Cost., deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria. Quest’ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l’emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione.</p> <p style="text-align: justify;">La massima valorizzazione dei percorsi rieducativi compiuti da chi deve espiare una pena mal si concilia con la vanificazione, in tutto o in parte, degli stessi, per effetto di una mera successione delle leggi nel tempo. Le diverse valutazioni di carattere generale e preventivo, operate dal legislatore in ordine alla previsione di misure alternative alla detenzione o di benefici penitenziari, non possono incidere negativamente sui risultati già utilmente raggiunti dal condannato.</p> <p style="text-align: justify;">Nell’ipotesi di una sopravveniente normativa che escluda da un beneficio una data categoria di soggetti, l’applicazione della nuova restrizione a chi aveva già maturato, secondo la previgente disciplina, le condizioni per godere del beneficio stesso, rappresenta, rispetto all’iter rieducativo, «<em>una brusca interruzione, senza che ad essa abbia in alcun modo corrisposto un comportamento colpevole del condannato</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1997/0445s-97.htm">sentenza n. 445 del 1997</a>). Tale interruzione pone nel nulla le positive esperienze già registrate ed ostacola il raggiungimento della finalità rieducativa della pena prescritta dalla Costituzione (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1999/0137s-99.html">sentenza n. 137 del 1999</a>).</p> <p style="text-align: justify;">In tal modo «<em>l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo</em> […] <em>al di fuori di qualsiasi concreta ponderazione dei valori coinvolti</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0257s-06.html">sentenza n. 257 del 2006</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Le norme censurate – da intendersi circoscritte, secondo la motivazione dell’ordinanza di rimessione, alle previsioni contenute nell’art. 7, commi 6 e 7, della legge n. 251 del 2005 – incorrono per la Corte nel medesimo vizio di legittimità costituzionale già riscontrato da questa Corte nelle norme che hanno formato oggetto delle pronunce sopra citate, in quanto escludono i condannati per il reato di evasione (art. 385 cod. pen.) dalla possibilità di ottenere i benefici di cui all’art. 47 dell’ordinamento penitenziario ed escludono, altresì, che l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà possano essere concessi più di una volta ai recidivi reiterati.</p> <p style="text-align: justify;">Non è previsto infatti che i benefici in questione possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati i quali, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto.</p> <p style="text-align: justify;">L’identità della <em>ratio decidendi</em> comporta per il Collegio che si debba dichiarare, come nelle pronunce di questa Corte sopra citate, l’illegittimità costituzionale delle norme censurate nella presente sede, per violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.192, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, della Costituzione, dai Tribunali di Ravenna, Cagliari, Livorno, Perugia e Firenze.</p> <p style="text-align: justify;">I giudici <em>a quibus</em> – rammenta la Corte - dubitano, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, della conformità a Costituzione dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee – vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">La maggioranza dei rimettenti sottopone a scrutinio tale divieto nella relativa globalità; mentre il solo Tribunale di Perugia si duole, in modo specifico, del fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza sia stata sancita anche in rapporto alla circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, relativamente ai delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope.</p> <p style="text-align: justify;">Le censure formulate dai giudici <em>a quibus</em> trovano, in ogni caso, la loro comune premessa fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un «<em>automatismo sanzionatorio</em>», correlato ad una presunzione <em>iuris et de iure</em> di pericolosità sociale del recidivo reiterato.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratterebbe, peraltro, di una presunzione irrazionale, a fronte dei caratteri di “<em>perpetuità</em>” e “<em>genericità</em>” propri della recidiva, la quale – fatta eccezione per le ipotesi di recidiva aggravata previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 99, secondo comma, cod. pen. (recidiva specifica e infraquinquennale) – si configura a prescindere dal tempo trascorso dalla condanna precedente e dalla identità dell’indole fra il nuovo delitto e quelli anteriormente commessi.</p> <p style="text-align: justify;">Ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi – quali che essi siano – farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dall’art. 69, quarto comma, cod. pen.: con l’effetto di “<em>neutralizzare</em>” – anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto – la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime.</p> <p style="text-align: justify;">Siffatto assunto poggia peraltro a propria volta, precisa la Corte, sul presupposto – implicito e non motivato – che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto; con la conseguenza di rendere inapplicabile la censurata disciplina in tema di bilanciamento con le circostanze attenuanti concorrenti.</p> <p style="text-align: justify;">Quella che i rimettenti danno per scontata – chiosa a questo punto la Corte - non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo.</p> <p style="text-align: justify;">A sostegno della tesi della obbligatorietà, in ogni caso, della recidiva reiterata, regolata dal quarto comma dell’art. 99 cod. pen. (nel nuovo testo introdotto dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005) – così come della recidiva cosiddetta pluriaggravata, di cui al terzo comma del medesimo articolo – parrebbe militare, in effetti, <em>prima facie</em>, l’argomento letterale. L’avvenuta utilizzazione, in tali disposizioni, con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente («<em>è</em>») – in luogo della voce verbale «<em>può</em>», che compariva nel testo precedente, e che figura tuttora nei primi due commi dello stesso art. 99 cod. pen., con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva aggravata – indurrebbe difatti a ritenere che il legislatore abbia inteso ripristinare, rispetto alle due forme di recidiva considerate, il regime di obbligatorietà preesistente alla riforma attuata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220.</p> <p style="text-align: justify;">Nondimeno – secondo quanto osservato da più parti – la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente «<em>è</em>» si riferisca, nella relativa imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso. A tale conclusione indurrebbe, segnatamente, la considerazione che la recidiva pluriaggravata e la recidiva reiterata rappresentano mere “<em>species</em>” della figura generale delineata dal primo comma dell’art. 99 cod. pen.: il che implicherebbe che la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata, limitandosi i commi successivi a derogare alla relativa disciplina solo in relazione all’entità degli aumenti di pena.</p> <p style="text-align: justify;">La soluzione interpretativa in parola, prosegue la Corte, risulterebbe avvalorata – ad avviso dei relativi fautori – soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’art. 99 cod. pen., è quella racchiusa nell’attuale quinto comma; quest’ultimo – con disposizione collocata dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva – stabilisce che, «<em>se si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Da tale previsione si desumerebbe che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività: e che, dunque – per quanto al presente più interessa – la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale.</p> <p style="text-align: justify;">Avendo omesso di verificare la praticabilità di tale diversa opzione interpretativa, i giudici rimettenti non si sono posti neppure l’ulteriore problema – anch’esso rilevante, in rapporto al <em>thema decidendum</em> – della corretta esegesi della previsione del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., dianzi riprodotta: quello, cioè, di stabilire se – affinché divenga operante il regime di obbligatorietà della recidiva ivi prefigurato – debba rientrare nell’elenco dei gravi reati, di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo <em>status</em> di recidivo; o, piuttosto, indifferentemente l’uno o l’altro, o addirittura entrambi; soluzioni, queste, tutte alternativamente prospettate dai primi interpreti della norma, a fronte del suo dettato letterale.</p> <p style="text-align: justify;">Nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è d’altro canto possibile ritenere – prosegue il Collegio – che venga meno, <em>eo ipso</em>, anche l’«<em>automatismo</em>» oggetto di censura, relativo alla predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale. Conformemente, infatti, ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.</p> <p style="text-align: justify;">I giudici <em>a quibus</em> non indicano del resto, chiosa ancora la Corte, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione. In particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare ostacolo nell’indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità – formatosi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (e peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria) – in forza del quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all’aumento di pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza; o se assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo – la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch’esso al momento commisurativo della pena.</p> <p style="text-align: justify;">In effetti, qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale, di una circostanza “<em>neutra</em>” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “<em>aggravante</em>” – eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato “<em>in mitius</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">In altre parole, precisa la Corte, appare assai problematico, sul piano logico, supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: profilo problematico, questo, con il quale i giudici <em>a quibus</em> avrebbero dovuto necessariamente misurarsi.</p> <p style="text-align: justify;">In tale ottica, l’eventuale esclusione dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, nei termini precedentemente indicati, verrebbe dunque ad inficiare tanto la motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza delle questioni, formulate dai rimettenti.</p> <p style="text-align: justify;">Sotto il primo profilo, vale infatti osservare che, alla stregua di quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, tutti i giudici rimettenti – fatta eccezione per il solo Tribunale di Ravenna – procedono per delitti non compresi nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. I delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (oggetto dei giudizi <em>a quibus</em> in rapporto a tredici delle quindici ordinanze di rimessione) risultano difatti inclusi nel suddetto elenco solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 80, comma 2, e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990; mentre il delitto di estorsione vi figura solo se aggravato ai sensi dell’art. 629, secondo comma, cod. pen. (numeri 2 e 6 dell’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">I rimettenti che procedono per i delitti ora indicati non riferiscono, peraltro, dell’avvenuta contestazione delle predette aggravanti.</p> <p style="text-align: justify;">D’altro canto, tutte le ordinanze di rimessione – senza alcuna eccezione – o non indicano i delitti ai quali si riferiscono le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero fanno riferimento a condanne relative a delitti non compresi nell’elencazione dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Sotto il secondo profilo, poi – al lume di quanto dianzi indicato – sia il problema dei limiti di obbligatorietà della recidiva reiterata, sia quello della necessità o meno di effettuare comunque il giudizio di comparazione, a fronte di una recidiva facoltativa, incidono anche sulla valutazione di non manifesta infondatezza della questione formulata dai singoli rimettenti: questi ultimi – espressamente o implicitamente – si dolgono tutti del fatto che la presunzione di pericolosità, sottesa alla norma denunciata, scatti a prescindere dalla natura dei reati di cui si discute.</p> <p style="text-align: justify;">La stessa ordinanza del Tribunale di Ravenna – l’unica emessa, come detto, nell’ambito di un processo per delitti inclusi nella lista dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (in specie, rapina e violenza sessuale aggravate dall’uso di armi: numeri 2 e 7-bis della citata disposizione) – afferma, del resto, <em>expressis verbis</em>, che la valutazione circa la ragionevolezza della scelta legislativa di limitare i possibili esiti del giudizio di bilanciamento potrebbe essere diversa, in presenza di un divieto di prevalenza delle attenuanti limitato ai soli recidivi reiterati «<em>condannati per reati di una certa gravità</em>»; e ciò analogamente a quanto la medesima legge n. 251 del 2005 ha previsto con riguardo alla neointrodotta limitazione alla concessione delle attenuanti generiche, di cui all’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen. (limitazione, peraltro, parimenti connessa al fatto che si discuta di uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen., sia pure con l’ulteriore condizione che la relativa pena minima risulti non inferiore a cinque anni di reclusione).</p> <p style="text-align: justify;">L’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “<em>nuova</em>” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) – è riscontrabile per il Collegio anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza della Corte (<em>ex plurimis</em>, tra le ultime, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0032o-07.html">ordinanze n. 32 del 2007</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0244o-06.html">n. 244</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0064o-06.html">n. 64</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0034o-06.html">n. 34 del 2006</a>) – l’inammissibilità delle questioni sollevate.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.29228 alla cui stregua, se si esclude che la recidiva “<em>reiterata</em>”, con la riforma del 2005, sia divenuta obbligatoria (come letteralmente pure parrebbe), è possibile assumere esser venuto meno anche l’“<em>automatismo</em>” previsto dal co. 4 dell’art. 69 c.p. in tema di “<em>non prevalenza</em>” delle eventuali circostanze attenuanti, atteso che l’indicato carattere facoltativo deve ritenersi attenere alla stessa declaratoria di recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Sicché, in difetto di dichiarazione della recidiva ridetta, non potrebbero prodursi per la Corte neppure gli effetti minori; invero, se si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all'applicazione di circostanze attenuanti concorrenti, ne deriverebbe la previsione di una circostanza “<em>neutra</em>” agli effetti della determinazione della pena nell'ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato, ma in concreto passibile di aggravare sensibilmente la pena anche nell’ipotesi di reato circostanziato.</p> <p style="text-align: justify;">Si dovrebbe in altre parole, chiosa ancora il Collegio, supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato.</p> <p style="text-align: justify;">Nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile sostenere – precisa la Corte - che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento - soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, co. 4- c.p. - unicamente quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede: il che avviene - alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa - solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">L’11 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4623 che si occupa della questione se – affinché possa dirsi operativo l’art. 99, comma 5, c.p., la commissione di un delitto menzionato dall’art. 407, co. 2, lett. 2), c.p.p. debba essere oggetto della condanna precedente (c.d. delitto fondante), ovvero di quella susseguente il (c.d. delitto espressivo) ovvero, ancora, indifferentemente dell’una o dell’altra piuttosto che di entrambe.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio abbraccia la tesi onde a dover essere incluso nel ridetto catalogo è il c.d. delitto espressivo (in sostanza, quello successivo o della “<em>ricaduta</em>”).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.35, che ordina la restituzione degli atti al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro e alla Corte di cassazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro ridetto, con ordinanza del 10 febbraio 2006, dubita più in specie della legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 27 della Costituzione, dell'art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), aggiunto dall'art. 7, comma 7, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui vieta la concessione per più d'una volta delle misure alternative alla detenzione ai soggetti riconosciuti recidivi reiterati con il titolo in esecuzione, senza tenere conto del grado di rieducazione raggiunto dall'interessato.</p> <p style="text-align: justify;">Analoga questione – precisa il Collegio - è sollevata dalla Corte di cassazione con ordinanza del 9 novembre 2006.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte, successivamente alle ordinanze di rimessione, con la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0079s-07.html">sentenza n. 79 del 2007</a>, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 12 del 21 marzo 2007, rammenta di avere già dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., dell'art. 58-quater, commi 1 e 7-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotti dall'art. 7, commi 6 e 7, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevedono che i benefici in essi indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima dell'entrata in vigore della citata legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 giugno esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.193, che dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 81, quarto comma, del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 5, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Cagliari.</p> <p style="text-align: justify;">Scrutinando analoghe questioni di costituzionalità, la Corte rammenta di avere già avuto modo di rilevare come l’interpretazione prospettata nel caso di specie dal rimettente in termini assiomatici non costituisca affatto l’unica lettura possibile del vigente quadro normativo (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0192s-07.html">sentenza n. 192 del 2007</a>; ordinanze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0409o-07.html">n. 409 del 2007</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0033o-08.html">n. 33 del 2008</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Da un lato, infatti, è possibile ritenere che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente nei casi previsti dall’art. 99, quinto comma, cod. pen., rispetto ai quali soltanto tale regime è espressamente contemplato: e cioè ove essa si riferisca ad uno dei delitti indicati dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale.</p> <p style="text-align: justify;">Resta, poi, fermo l’ulteriore problema interpretativo di stabilire quale delitto debba rientrare in tale catalogo, affinché scatti l’obbligatorietà: se il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; indifferentemente l’uno o l’altro; o addirittura entrambi;</p> <p style="text-align: justify;">D’altro lato, chiosa ancora la Corte, nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile sostenere la necessità del giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando il giudice ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede: e cioè – alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa – solo quando il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">La stessa Corte di cassazione – la quale in un primo tempo si era espressa sul tema in modo contrastante – risulta aver adottato nelle più recenti decisioni, precisa il Collegio, la linea interpretativa dianzi indicata.</p> <p style="text-align: justify;">Nella specie, il rimettente procede per delitti non compresi nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (il delitto di rapina vi rientra solo in presenza delle aggravanti speciali di cui al terzo comma dell’art. 628 cod. pen., che non risultano essere state contestate); lo stesso rimettente, inoltre, non specifica a quali delitti si riferiscano le precedenti condanne riportate dall’imputato; nell’ottica della soluzione interpretativa dianzi indicata pertanto, afferma la Corte, il giudice rimettente – all’esito di un apprezzamento basato sulle caratteristiche del caso concreto – potrebbe non applicare affatto l’aumento di pena per la recidiva reiterata; e, conseguentemente, non procedere ad alcun giudizio di bilanciamento fra detta aggravante e le attenuanti concorrenti.</p> <p style="text-align: justify;">Considerazioni similari possono essere svolte anche in rapporto all’ulteriore questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 81, quarto comma, cod. pen., aggiunto dall’art. 5, comma 1, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede, rispetto ai recidivi reiterati, un aumento minimo di pena per la continuazione pari ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.</p> <p style="text-align: justify;">Nel sollevare la questione, precisa la Corte, il rimettente muove dall’implicito, e in sé non implausibile, presupposto interpretativo di riferire la norma impugnata – ad onta dell’indicazione, apparentemente contraria, ricavabile dalla <em>consecutio temporum</em> delle voci verbali impiegate («<em>reati … commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma</em>») – al caso in cui l’imputato venga dichiarato recidivo reiterato in rapporto agli stessi reati uniti dal vincolo della continuazione, del cui trattamento sanzionatorio si discute; e non, invece, al caso in cui l’imputato sia stato ritenuto recidivo reiterato con una precedente sentenza definitiva (nell’ordinanza di rimessione non vi è, infatti, alcun riferimento al fatto che l’evenienza da ultimo indicata si sia verificata nel caso di specie).</p> <p style="text-align: justify;">A prescindere da ogni rilievo circa la correttezza della qualificazione della fattispecie oggetto del giudizio principale quale ipotesi di reato continuato, anziché quale concorso formale di reati (istituto che, comunque, la norma censurata assoggetta al medesimo regime), va tuttavia osservato per il Collegio come, alla stregua della soluzione ermeneutica dianzi prospettata, anche l’operatività dell’art. 81, quarto comma, cod. pen. presupponga che il giudice abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la pena per i reati in continuazione (o in concorso formale): e ciò in pieno accordo, peraltro, con lo stesso tenore letterale della norma de qua («<em>soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva</em>»).</p> <p style="text-align: justify;">Risulterebbe del resto, prosegue la Corte, affatto illogico che una circostanza, priva di effetti ai fini della determinazione della pena per i singoli reati contestati all’imputato (ove non indicativa, in tesi, di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), possa produrre un sostanziale aggravamento della risposta punitiva in sede di applicazione di istituti – quali il concorso formale di reati e la continuazione – volti all’opposto fine di mitigare la pena rispetto alle regole generali sul cumulo materiale.</p> <p style="text-align: justify;">La mancata sperimentazione, da parte del giudice <em>a quo</em>, della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati – e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie – rende dunque le questioni sollevate, per la Corte, manifestamente inammissibili.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 6 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.27599 che si occupa della questione se – affinché possa dirsi operativo l’art. 99, comma 5, c.p., la commissione di un delitto menzionato dall’art. 407, co. 2, lett. 2), c.p.p. debba essere oggetto della condanna precedente (c.d. delitto fondante), ovvero di quella susseguente il (c.d. delitto espressivo) ovvero, ancora, indifferentemente dell’una o dell’altra piuttosto che di entrambe.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio abbraccia la tesi onde a dover essere incluso nel ridetto catalogo è il c.d. delitto espressivo (in sostanza, quello successivo o della “<em>ricaduta</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*Il 9 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.46875 che si occupa della questione se – affinché possa dirsi operativo l’art. 99, comma 5, c.p., la commissione di un delitto menzionato dall’art. 407, co. 2, lett. 2), c.p.p. debba essere oggetto della condanna precedente (c.d. delitto fondante), ovvero di quella susseguente il (c.d. delitto espressivo) ovvero, ancora, indifferentemente dell’una o dell’altra piuttosto che di entrambe.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio abbraccia la tesi onde a dover essere incluso nel ridetto catalogo è il c.d. delitto espressivo (in sostanza, quello successivo o della “<em>ricaduta</em>”).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">*L’11 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.36218 che si occupa della questione se – affinché possa dirsi operativo l’art. 99, comma 5, c.p., la commissione di un delitto menzionato dall’art. 407, co. 2, lett. 2), c.p.p. debba essere oggetto della condanna precedente (c.d. delitto fondante), ovvero di quella susseguente il (c.d. delitto espressivo) ovvero, ancora, indifferentemente dell’una o dell’altra piuttosto che di entrambe..</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio abbraccia la tesi onde a dover essere incluso nel ridetto catalogo è il c.d. delitto espressivo (in sostanza, quello successivo o della “<em>ricaduta</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.35738, Calibè, che, recependo l’orientamento già palesato dalla Corte costituzionale, riconosce natura facoltativa di tutte le ipotesi di recidiva, ad eccezione di quella rappresentata dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen..</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte va ritenuto che quando la contestazione concerne una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen. è compito del giudice verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito è effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistenti fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante, significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero riscontro formale dei precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">All’esito di tale verifica – assume il Collegio - al giudice deve ritenersi consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione.</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso di specie, l'art. 81 cod. pen. – chiosa la Corte - stabilisce al quarto comma, aggiunto dall'art. 5, comma 1, legge 5 dicembre 2005, n. 251: «<em>Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio, escludendo che il testo dell'art. 99 cod. pen., come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, abbia sostanzialmente ripristinato il regime di obbligatorietà della recidiva preesistente alla riforma del 1974 e condividendo l'analisi della disposizione operata dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, la sentenza ridetta ha ribadito – chiosa la Corte - che la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell'art. 99 cod. pen. opera quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa.</p> <p style="text-align: justify;">Nel senso che è consentito al giudice di escluderla motivatamente e considerarla <em>tamquam non esset</em> ai fini sanzionatori, all'esito di una verifica in concreto sulla reiterazione dell'illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, da effettuare tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">Rileva ancora la Corte che, se tale valutazione ha esito negativo, il giudice, escludendo la recidiva, la ritiene non rilevante e non la applica, non considerandola ai fini della determinazione della pena, né, tanto meno, nel giudizio di comparazione di cui all'art. 69 cod. pen. Diversamente, nel caso in cui la recidiva venga apprezzata come indicativa di maggior colpevolezza e pericolosità, essa produce tutti i relativi effetti, ivi compresi quelli di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">In tali ipotesi, infatti, essa, oltre che "<em>accertata</em>" nei presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), è anche "<em>ritenuta</em>" dal giudice ed "<em>applicata</em>", determinando l'effetto tipico di aggravamento della pena, anche nel caso in cui svolga semplicemente la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 09 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.9636, Ortoleva, alla cui stregua – in tema di operatività del limite minimo di aumento di pena per il concorso formale o la continuazione in caso di recidiva reiterata ritenuta equivalente alle attenuanti riconosciute dal giudice - tale limite minimo (<em>contra reum</em>) va assunto non applicabile nel caso in cui il giudice non abbia considerato la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale, ed in relazione ad essi l'abbia esclusa e, pertanto, non "<em>applicata</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte ciò si verifica anche nel caso in concreto esaminato, laddove il Tribunale aveva riconosciuto all'imputato l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., assumendola equivalente alle contestate aggravanti, tra cui la recidiva specifica reiterata.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, il giudizio di equivalenza consente, stante la “<em>neutralità sanzionatoria</em>” che ne deriva, di assumere la recidiva reiterata come sostanzialmente non incidente in concreto sull'entità della pena e, dunque, “<em>non applicata</em>”, così ritenendo neutralizzato anche il limite minimo di aumento di pena ex art.81, comma 4, c.p. che dovrebbe essere predicato laddove la recidiva fosse “<em>applicata</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di un orientamento <em>pro reo</em> che verrà in seguito abbracciato anche da altre pronunce della Cassazione.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.20798, Indelicato, onde non è conforme ai principi generali di un moderno diritto penale espressivo dei valori enunciati dalla Carta fondamentale una concezione della recidiva quale <em>status</em> soggettivo correlato al solo dato formale della ricaduta nel reato dopo una previa condanna passata in giudicato che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della pertinente contestazione.</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva è piuttosto, precisa il Collegio, una circostanza pertinente al reato che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo <em>status</em> e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale del reo.</p> <p style="text-align: justify;">Essa, soggiunge la Corte, quando comporta un aumento di pena superiore a un terzo, è una circostanza aggravante a effetto speciale e pertanto soggiace, in caso di concorso con altre circostanze aggravanti a effetto speciale, alla regola prevista dall’att. 63, comma 4, c.p. dell’applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di un ulteriore aumento.</p> <p style="text-align: justify;">Le SSUU danno poi anche una autorevole risposta al quesito se – affinché possa dirsi operativo l’art. 99, comma 5, c.p., la commissione di un delitto menzionato dall’art. 407, co. 2, lett. 2), c.p.p. debba essere oggetto della condanna precedente (c.d. delitto fondante), ovvero di quella susseguente il (c.d. delitto espressivo) ovvero, ancora, indifferentemente dell’una o dell’altra piuttosto che di entrambe.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio, seppure solo in <em>obiter dictum</em>, ribadisce la giurisprudenza delle sezioni semplici onde a dover essere incluso nel ridetto catalogo è il c.d. delitto espressivo (in sostanza, quello successivo o della “<em>ricaduta</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, per le SSUU le ipotesi di recidiva previste dal comma 4 dell’att. 99 c.p. (c.d. recidive plurima e reiterata) non integrano una forma autonoma di recidiva, ma solo una particolare manifestazione delle fattispecie di cui ai comma precedenti, così vincolando la discrezionalità del giudice in ordine al solo <em>quantum</em> della pena, e non anche all’<em>an</em>, e dunque riaffermando la “<em>facoltatività</em>” anche di queste ipotesi, potendo il giudice penale decidere se applicare o meno l’aumento di pena; e tuttavia, laddove decida in senso affermativo, egli deve applicare il ridetto aumento nella misura predeterminata dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, si tratta dell’interpretazione maggiormente conforme al principio di personalizzazione della risposta sanzionatoria di cui all’art. 27, co. 1 e 3, Cost., oltre che al canone di teoria generale del diritto secondo cui, tra più significati attribuibili ad una data disposizione, va privilegiato quello più congruente con i principi generali.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.183 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato.</p> <p style="text-align: justify;">. Il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. che forma oggetto della questione di legittimità costituzionale, rammenta la Corte, stabilisce che, ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, non si tiene conto dei criteri di cui all’art. 133, primo comma, numero 3), cod. pen., e dei criteri commisurativi afferenti alla capacità a delinquere (art. 133, secondo comma, cod. pen.), «<em>nei casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni</em>».</p> <p style="text-align: justify;">I criteri considerati dalla norma censurata sono vari, ma la formulazione della questione e gli argomenti addotti a sostegno fanno ritenere, nonostante alcune genericità della motivazione, che il dubbio del rimettente investa esclusivamente il divieto, nei casi suddetti, di tenere conto, ai fini delle circostanze attenuanti generiche, della condotta del reo successiva al reato.</p> <p style="text-align: justify;">La regola preclusiva stabilita si collega al consolidato orientamento della giurisprudenza comune che, ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, fa leva su una valutazione incentrata sugli elementi presi in considerazione dai criteri commisurativi dettati dall’art. 133 cod. pen., benché diversi indirizzi si confrontino sul tema se, ai fini indicati, il riferimento a tali criteri, attesa la loro “<em>onnicomprensività</em>”, possa esaurire l’ambito dell’apprezzamento rimesso al giudice ovvero se la decisione possa essere fondata anche su altri elementi.</p> <p style="text-align: justify;">In ogni caso, è certo che il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. offre nuove conferme della valenza generale rivestita, ai fini delle circostanze attenuanti generiche, dai parametri stabiliti dall’art. 133 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">D’altra parte, con riferimento al criterio commisurativo della condotta successiva al reato, va osservato che la valorizzazione, a tali fini, del ravvedimento dell’imputato trova conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che tende ad instaurare un legame tra il valore sintomatico del ravvedimento e l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (Cass. pen., sez. V, n. 33690 del 14 maggio 2009).</p> <p style="text-align: justify;">La norma censurata – chiosa a questo punto la Corte - introduce dunque una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze.</p> <p style="text-align: justify;">Per un compiuto inquadramento della portata della preclusione introdotta dalla norma censurata, deve rilevarsi che il richiamo congiunto alla recidiva reiterata («… <em>nei casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, …»)</em> e al catalogo dei «<em>delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale</em>», cui rinvia anche il quinto comma dell’art. 99 cod. pen., fa sì che il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. debba intendersi riferito a un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che preclude al giudice l’accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – «<em>sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0192s-07.html">sentenza n. 192 del 2007</a>).</p> <p style="text-align: justify;">L’ordinanza di rimessione, nel censurare i limiti introdotti con il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen., muove – precisa il Collegio - dalla rilevanza che, nel quadro dei principi costituzionali e con particolare riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., è riconosciuta al potere discrezionale del giudice per la determinazione della pena e aggiunge che «<em>lo strumento tradizionalmente più duttile</em>» a tal fine «<em>è rappresentato dalla possibilità di concedere all’imputato le attenuanti generiche</em>».</p> <p style="text-align: justify;">E’ in questa prospettiva che, secondo il giudice rimettente, dovrebbe essere valutata la norma in questione, per l’impedimento che ne deriva alla valutazione di alcuni elementi a favore dell’imputato, altrimenti utilizzabili per il riconoscimento delle attenuanti generiche.</p> <p style="text-align: justify;">In proposito però può osservarsi che se è vero che il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena forma oggetto, nell’ambito del sistema penale, di un principio di livello costituzionale, è anche vero che il meccanismo preclusivo realizzato attraverso la norma in questione limita solo parzialmente tale potere, il quale continua ad avere un ampio ambito di esplicazione, attraverso la possibilità di spaziare tra il minimo e il massimo edittale relativi allo specifico reato, con l’integrazione degli aumenti o delle diminuzioni per le altre circostanze eventualmente esistenti e per le stesse attenuanti generiche, che rimangono applicabili in base a elementi diversi da quelli «<em>di cui all’articolo 133, primo comma, numero 3), e secondo comma</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta quindi di una limitazione che non si pone in contrasto con i principi costituzionali richiamati dal rimettente.</p> <p style="text-align: justify;">Pure insussistente è la pretesa violazione dell’art. 3 Cost., denunciata, sotto il profilo dell’irragionevolezza e della disparità di trattamento, perché la norma censurata farebbe discendere la preclusione della concessione delle circostanze attenuanti generiche «<em>da una circostanza inerente la persona del colpevole, associata a un coacervo disomogeneo di titoli di reati, delineati dall’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., ulteriormente qualificato dal minimo della pena edittale</em>».</p> <p style="text-align: justify;">In proposito infatti è sufficiente per la Corte osservare, da un lato, che in linea di principio la considerazione, ai fini del trattamento penale, della recidiva reiterata in unione con alcuni gravi reati non contrasta con l’art. 3 Cost. e, dall’altro, che l’individuazione di questi reati rientra nella discrezionalità del legislatore e non può essere messa in questione, come ha fatto l’ordinanza di rimessione, solo perché le pene comminate per l’uno o per l’altro reato presentano delle differenze.</p> <p style="text-align: justify;">Deve quindi concludersi che non dà luogo a una disparità di trattamento, né è di per sé irragionevole prevedere un regime di maggior rigore nei confronti di una persona che ha commesso un grave reato trovandosi in una situazione di recidiva reiterata; resta però da stabilire se – come pure prospetta l’ordinanza di rimessione – sia in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. lo specifico trattamento previsto dall’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., e più in particolare il divieto di riconoscere all’imputato le attenuanti generiche per la condotta, positivamente apprezzabile, tenuta dopo la commissione del reato.</p> <p style="text-align: justify;">E’ in relazione a tale divieto che il giudice rimettente ha denunciato l’incongruenza di «<em>privilegiare in astratto solo uno dei parametri valutativi della capacità a delinquere, disconoscendo a priori la possibilità di individuare parametri ugualmente o maggiormente idonei a lumeggiare quella capacità ed a fondare una diminuzione di pena, in termini conformi al dettato costituzionale</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Sotto questo aspetto la questione per la Corte è fondata perché contrasta con il principio di ragionevolezza la scelta normativa di escludere, nell’ipotesi del secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen., il potere del giudice di valutare ed apprezzare la condotta tenuta dal colpevole nel periodo successivo alla commissione del reato.</p> <p style="text-align: justify;">La disposizione impugnata, infatti, precludendo al giudice di fondare il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla condotta successiva al reato, privilegia uno dei parametri indicati dal secondo comma dell’art. 133 cod. pen. – la precedente attività delittuosa del reo – come sintomatico della capacità a delinquere rispetto agli altri e in particolare rispetto alla condotta successiva alla commissione del reato, benché questa possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale capacità criminale del reo e della relativa, complessiva personalità.</p> <p style="text-align: justify;">La preclusione è fondata su una valutazione preventiva, predeterminata e astratta, che non risponde a un dato di esperienza generalizzabile, in quanto la rigida presunzione di capacità a delinquere, presupposta dalla norma censurata, è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento.</p> <p style="text-align: justify;">Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei relativi rapporti sociali, che, pur potendo essere di grande significato per valutare l’attualità della capacità a delinquere, sono indiscriminatamente neutralizzati ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.</p> <p style="text-align: justify;">A ben vedere il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. dà luogo a un duplice automatismo, basato su presunzioni: il primo deriva dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen., che nel caso di commissione da parte di un recidivo di uno dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. rende obbligatoria l’applicazione della recidiva (mentre negli altri casi si ritiene che sia rimessa alla valutazione discrezionale del giudice: <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0192s-07.html">sentenza n. 192 del 2007</a>; ordinanze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2009/0171o-09.html">n. 171 del 2009</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0257o-08.html">n. 257</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0193o-08.html">n. 193</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0090o-08.html">n. 90</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0033o-08.html">n. 33 del 2008</a>); il secondo concerne la presunta prevalenza della recidiva rispetto alla condotta dell’imputato susseguente al reato.</p> <p style="text-align: justify;">Com’è noto, secondo la giurisprudenza della Corte, «<em>le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’</em>id quod plerumque accidit<em>. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “</em>agevole<em>” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa</em>» (sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0164s-11.html">n. 164 del 2011</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0265s-10.html">n. 265</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0139s-10.html">n. 139 del 2010</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Ciò posto, non può disconoscersi che nel caso in esame una siffatta formulazione sia agevole, considerando, da un lato, che la recidiva può basarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante gravità e, dall’altro, che la decisione può intervenire anche a distanza di anni dalla commissione del fatto per cui si procede e che successivamente l’imputato potrebbe aver tenuto comportamenti sicuramente indicativi di una risocializzazione in corso, o interamente realizzata, e potrebbe anche essere divenuto una persona completamente diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il reato.</p> <p style="text-align: justify;">E’ da aggiungere che l’impossibilità di dare rilevanza, ai fini delle circostanze attenuanti generiche, alla condotta del condannato successiva alla commissione del reato risulta ancor più irragionevole se si considera il limitato effetto che l’applicazione di tali circostanze potrebbe determinare, dato che, per la disposizione del quarto comma dell’art. 69 cod. pen., esse continuerebbero a trovare un limite nella recidiva, rispetto alla quale potrebbero essere ritenute equivalenti ma mai prevalenti; avrebbero cioè il solo effetto di neutralizzare il rilevante aumento di pena previsto per la recidiva, ma non potrebbero anche determinare una diminuzione della pena base.</p> <p style="text-align: justify;">Escludere che possa assumere rilevanza, ai fini delle attenuanti generiche, una condotta, successiva al reato, indicativa di una positiva evoluzione in atto della personalità del condannato significa per il Collegio anche porsi in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Infatti l’obiettivo della rieducazione del condannato, posto da questa norma costituzionale, non può essere efficacemente perseguito negando valore a quei comportamenti che manifestano una riconsiderazione critica del proprio operato e l’accettazione di quei valori di ordinata e pacifica convivenza, nella quale si esprime l’oggetto della rieducazione.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già avuto occasione di affermare, la finalità rieducativa della pena non è limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce «<em>una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1990/0313s-90.html">sentenza n. 313 del 1990</a>; si vedano anche le sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0129s-08.html">n. 129 del 2008</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0257s-06.html">n. 257 del 2006</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1994/0341s-94.html">n. 341 del 1994</a>).</p> <p style="text-align: justify;">E’ da aggiungere che «<em>tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo – non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione. Il legislatore può cioè – nei limiti della ragionevolezza – far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata. Per un verso, infatti, il perseguimento della finalità rieducativa</em> (…) <em>non può condurre a superare l’afflittività insita nella pena detentiva determinata nella sentenza di condanna. Per altro verso, il privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi fino al punto da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0306s-93.html">sentenza n. 306 del 1993</a>; si veda anche la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2006/0257s-06.html">sentenza n. 257 del 2006</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Posti questi princìpi, si deve concludere che con l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i “<em>recidivi reiterati</em>”, autori di determinati reati, senza la possibilità di tenere conto del loro comportamento successivo alla commissione del reato, anche quando è particolarmente meritevole ed espressivo di un processo di rieducazione intrapreso, o addirittura già concluso, la norma in esame, in violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., privilegiando un profilo general-preventivo, elude la funzione rieducativa della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Deve essere pertanto, conclude la Corte, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.25082, Levacovich, che assume di dover pervenire a conclusioni diametralmente opposte – in tema di applicazione del c.d. limite minimo <em>contra reum</em> di aumento di pena per la continuazione o per il concorso formale, laddove venga “<em>applicata</em>” la recidiva – rispetto al trend più favorevole al recidivo.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, ad eccezione dei casi in cui la recidiva sia stata esclusa, in quanto non sintomatica di una più accentuata colpevolezza e pericolosità dell'imputato, venendo così totalmente espunta dal regime sanzionatorio applicabile, essa conserva inalterati – in tutte le altre ipotesi - i relativi effetti ulteriori, ivi compreso quello di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Tale evenienza, in presenza in particolare di un giudizio di bilanciamento, si verifica per la Corte tanto nel caso di ritenuta equivalenza quanto in quello di subvalenza rispetto alle attenuanti riconosciute, poiché, verificandosi dette ipotesi, la recidiva deve comunque considerarsi "<em>ritenuta</em>" ed "<em>applicata</em>", facendo scattare il limite minimo di aumento di pena previsto dall’art.81, comma 4, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Anche questo diverso orientamento sarà seguito da altre pronunce conformi della Cassazione, consolidando dunque un pertinente contrasto di giurisprudenza.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 agosto viene varato il decreto legge n.138, che introduce nel codice penale l’art.603 ter, onde la condanna per i delitti di cui agli articoli <a href="https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-i/art600.html">600</a>, limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad oggetto prestazioni lavorative, e <a href="https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-i/art603bis.html">603 bis</a>, importa l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, nonché il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti (comma 1).</p> <p style="text-align: justify;">La condanna per i delitti di cui al primo comma importa altresì l'esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell'Unione europea, relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">Infine, ai sensi del comma 3, l'esclusione di cui al comma 2 è aumentata a cinque anni quando il fatto è commesso da soggetto al quale sia stata applicata la recidiva ai sensi dell'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/titolo-iv/capo-ii/art99.html">99</a>, secondo comma, numeri 1) e 3).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 settembre viene varata la legge n.148 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.138.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.5859 che si occupa dei rapporti tra affidamento in prova al servizio sociale, pertinente esito positivo e recidiva, con particolare riguardo alla questione se l'estinzione di ogni effetto penale prevista dall’art. 47, comma 12, ord. pen., in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, comporti che della relativa condanna non possa tenersi conto agli effetti della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il ridetto art. 47, comma 12, della legge ord. pen., nella relativa originaria formulazione prevedeva testualmente – rappresenta la Corte – che “<em>L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale</em>”. La norma era stata interpretata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nel senso che l'effetto estintivo ivi previsto era riferibile alla sola pena detentiva, posto che ad essa si riferiva l’intera disciplina e la <em>ratio</em> dell’istituto.</p> <p style="text-align: justify;">Successivamente, il d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. dalla 1. 21 febbraio 2006, n. 49, ha così riformulato la norma: “<em>L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale. Il tribunale di sorveglianza, qualora l'interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">A fronte del novellato dettato normativo, ci si è chiesti se “<em>ogni altro effetto penale</em>” si riferisse o meno anche alla recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Per le SSUU la recidiva non può assumersi produrre effetti qualora sussista una causa di estinzione del reato o della pena che comporti anche l’estinzione degli effetti penali della condanna; per espresso dettato normativo, anche la recidiva segue dunque per il Collegio la sorte degli effetti penali della condanna allorché gli stessi vengano ad essere formalmente neutralizzati da una qualche causa di estinzione del reato o della pena, come stabilito, peraltro, dall’art. 106, co. 2, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Ne discende per il SSUU il principio secondo onde l’estinzione di ogni effetto penale prevista dall'art. 47, co. 12, ord. pen., in conseguenza dell’esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, comporta che della relativa condanna non possa tenersi conto neppure agli effetti della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.251 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 – precisa la Corte - ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., e il giudice <em>a quo</em> prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma «<em>nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata</em>», con la precisazione che «<em>la questione si appunta sulla sola circostanza attenuante specificamente indicata, senza carattere di generalità</em>», perché in altri casi il divieto può trovare giustificazione.</p> <p style="text-align: justify;">Per effetto della norma impugnata, ove secondo la valutazione del giudice debba essere applicata la recidiva reiterata, le violazioni «<em>di lieve entità</em>» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000, devono essere invece punite con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.</p> <p style="text-align: justify;">Nell’attuale formulazione, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole.</p> <p style="text-align: justify;">L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, come nel caso regolato dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.</p> <p style="text-align: justify;">È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «<em>finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico</em>» (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «<em>Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica</em>», convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15) e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere sottolineato, il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «<em>valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la </em>quantitas delicti<em>, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono</em>» (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte «<em>soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale; alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.</p> <p style="text-align: justify;">La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata è resa evidente – prosegue la Corte - dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “<em>lieve entità</em>” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “<em>lieve entità</em>” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.</p> <p style="text-align: justify;">In altre parole, ove si potessero applicare i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. prima della modificazione operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, la pena da irrogare in un caso come quello in esame sarebbe, a seconda del tipo di recidiva, di un anno e sei mesi o di un anno e otto mesi, cioè di un anno per il reato attenuato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, aumentato, a seconda dei casi, di sei mesi o di otto mesi per la recidiva, mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determina un aumento di cinque anni.</p> <p style="text-align: justify;">Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano, d’altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di “<em>lieve entità</em>”, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di «<em>minima offensività penale</em>» (Cass. pen., sezioni unite, 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato.</p> <p style="text-align: justify;">Due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò «<em>determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale</em>» (sentenza n. 249 del 2010).</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva reiterata riflette – chiosa ancora la Corte - i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla relativa determinazione finale.</p> <p style="text-align: justify;">Se così non fosse, prosegue il Collegio, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “<em>neutralizzata</em>” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità.</p> <p style="text-align: justify;">È da aggiungere per la Corte che, come ha rilevato il rimettente, la norma censurata dà luogo anche a una violazione del principio di uguaglianza perché il recidivo reiterato, cui siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto “<em>non lieve</em>” da punire con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente più severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di “<em>lieve entità</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla considerazione che, come hanno ritenuto le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 giugno 2011, n. 34475), l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti «<em>costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’art. 73</em>», che forma oggetto della previsione dell’art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990, costituisce un reato diverso da quello oggetto del primo comma dello stesso articolo 74, relativo a un reato associativo analogo ma punito assai più gravemente perché concerne fatti di non “<em>lieve entità</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">È fondata per la Corte anche la censura formulata dal giudice <em>a quo</em> in relazione al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato dalla Corte con riferimento ad altra fattispecie, «<em>una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze</em>» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “<em>lieve entità</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «<em>una pena palesemente sproporzionata</em>» e, dunque, «<em>inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato</em>» (sentenza n. 68 del 2012).</p> <p style="text-align: justify;">Questa conclusione non può essere confutata per la Corte dal rilievo secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «<em>un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale</em>» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.</p> <p style="text-align: justify;">Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «<em>un costante “</em>principio di proporzione<em>” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra</em>» (sentenza n. 341 del 1994).</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto dichiararsi – conclude il Collegio - l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 luglio viene varato il decreto legge n.78, recante Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena, che attenua il rigore della disciplina introdotta nel 2005 in tema di recidiva c.d. reiterata, provvedendo ad una prima parziale eliminazione degli automatismi che impediscono o rendono più difficile l’accesso ai benefici penitenziari a categorie di condannati sulla base di presunzioni assolute di pericolosità, tra i quali, per l'appunto, i recidivi reiterati.</p> <p style="text-align: justify;">L'intervento più significativo si appalesa, in proposito, la soppressione della lettera c) dell’art. 656, comma 9, c.p.p., laddove prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione proprio per i recidivi reiterati di cui all’art. 99, co. 4, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Emblematica anche la novella <em>in mitius</em> per quanto concerne la disciplina dell’ordinamento penitenziario onde, proprio con riguardo al recidivo reiterato, viene soppresso il divieto di concessione della detenzione domiciliare tra i 3 e i 4 anni di pena (art. 47 ter, comma 1, legge ord. pen.) ed il divieto di accesso alla detenzione domiciliare infra-biennale (att. 47 ter, comma 1 bis, legge ord. pen.).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.105 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 3 della legge n. 251 del 2005 – principia la Corte - ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., e il giudice <em>a quo</em> prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 648, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Per effetto della norma impugnata, nei casi in cui, secondo la valutazione del giudice, debba riconoscersi rilevanza alla recidiva reiterata, le ricettazioni «<em>di particolare tenuità</em>», per le quali l’art. 648, secondo comma, cod. pen., prevede la pena della reclusione da quindici giorni a sei anni e la multa sino a 516 euro, devono invece essere punite con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da 516 a 10.329 euro.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte afferma di avere già rilevato (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>), l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento, iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base</em>», come nel caso regolato dall’art. 648, secondo comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «<em>finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico</em>», prevista dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 febbraio 1980, n. 15, e, «<em>in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «<em>valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la </em>quantitas delicti<em>, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1985/0038s-85.html">sentenza n. 38 del 1985</a>). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili dalla Corte «<em>soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0068s-12.html">sentenza n. 68 del 2012</a>), ma in ogni caso «<em>non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>); alterazione che come si vedrà, anticipa il Collegio, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.</p> <p style="text-align: justify;">Anche nel caso in esame, infatti, come in quello concernente l’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), le conseguenze del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen. sulla recidiva risultano manifestamente irragionevoli, per l’annullamento delle differenze tra le due diverse cornici edittali delineate dal primo e dal secondo comma dell’art. 648 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso in esame assume particolare rilievo non tanto la divaricazione tra i livelli massimi della pena detentiva prevista nei due comma, quanto, come ha rilevato la Corte rimettente, quella tra i livelli minimi, perché, per effetto della recidiva reiterata, il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di particolare tenuità (15 giorni di reclusione) viene moltiplicato per 48, determinando un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto per tale recidiva dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.</p> <p style="text-align: justify;">L’incongruità di questo risultato appare al Collegio evidente se si considerano i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., prima della modificazione (in genere diretta a favorire l’imputato) operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, quando l’aumento della recidiva veniva effettuato sulla pena prevista per la fattispecie attenuata. In un caso come quello in esame, infatti, la pena minima da irrogare sarebbe stata, a seconda del tipo di recidiva, di 22 giorni o di 25 giorni, vale a dire di 15 giorni per il reato attenuato previsto dall’art. 648, secondo comma, cod. pen., aumentato per la recidiva, a seconda dei casi, della metà o di due terzi (in base alla disposizione attualmente vigente, dato che prima era previsto un aumento minore), mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determina un aumento di un anno, 11 mesi e 15 giorni.</p> <p style="text-align: justify;">Le differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 cod. pen. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite nel minimo edittale, assicurato al fatto di «<em>particolare tenuità</em>» (la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di rilevanza criminosa assolutamente modesta, talvolta al limite della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza), «<em>esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">In altri termini due fatti, quelli previsti dal primo e dal secondo comma dell’art. 648 cod. pen., che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, determinando la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., «<em>che pone il fatto alla base della responsabilità penale</em>» (sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">n. 251 del 2012</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0249s-10.html">n. 249 del 2010</a>).</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva reiterata «<em>riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “</em>neutralizzata<em>” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, come ha rilevato la Corte rimettente, la norma censurata dà luogo ad una violazione del principio di uguaglianza, perché il recidivo reiterato autore di una ricettazione di normale o anche di rilevante gravità, da punire, in presenza delle attenuanti generiche, con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 648, primo comma, cod. pen., riceverebbe lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di «<em>particolare tenuità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">È fondata – soggiunge poi la Corte - anche la censura relativa al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 69, comma quarto, cod. pen., nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza una «<em>deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze</em>» (sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">n. 251 del 2012</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0183s-11.html">n. 183 del 2011</a>); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 648, secondo comma, cod. pen., impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di «<em>particolare tenuità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Come è stato già affermato dalla Corte (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>), «<em>la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “</em>un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale<em>” (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0249s-10.html">sentenza n. 249 del 2010</a>), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni</em>», e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 648 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Perciò deve concludersi per il Collegio che «<em>la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica un costante “</em>principio di proporzione<em>” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1994/0341s-94.html">sentenza n. 341 del 1994</a></em>)».</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto dichiararsi per la Corte l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Quello stesso giorno esce anche la sentenza della Corte costituzionale n.106, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 3 della legge n. 251 del 2005 – principia ancora una volta la Corte - ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla circostanza prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., e il giudice <em>a quo</em> prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., sulla recidiva reiterata.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale, che comporta una riduzione della pena base (reclusione da cinque a dieci anni) «<em>in misura non eccedente i due terzi</em>», sicché, come ha rilevato il giudice <em>a quo</em>, ove ritenuta sussistente, «<em>la pena (applicandosi l’attenuante nella massima estensione) può variare da un minimo di 1 anno e 8 mesi di reclusione a un massimo di 3 anni e 4 mesi</em>»; se però si applica la recidiva reiterata, i casi di violenza sessuale di minore gravità, per i quali l’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede la pena della reclusione da un anno e otto mesi a tre anni e quattro mesi, devono essere puniti con la reclusione da cinque a dieci anni.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già rilevato (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>), l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento, iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base</em>», come nel caso regolato dall’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «<em>finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico</em>», prevista dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 febbraio 1980, n. 15, e, «<em>in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «<em>valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la </em>quantitas delicti<em>, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1985/0038s-85.html">sentenza n. 38 del 1985</a>). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili dalla Corte «<em>soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0068s-12.html">sentenza n. 68 del 2012</a>), ma in ogni caso «<em>non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>); alterazione che come si vedrà, anticipa ancora una volta il Collegio emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già rilevato, la legge n. 66 del 1996, che ha riformato la disciplina dei delitti contro la libertà sessuale, ha realizzato una «<em>concentrazione nell’unico delitto di violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) delle fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti, rispettivamente previste negli artt. 519 e 521 del testo originario del codice penale</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2005/0325s-05.html">sentenza n. 325 del 2005</a>) e, nel descrivere la condotta del nuovo delitto di violenza sessuale, l’attuale art. 609-bis cod. pen. impiega, quale termine di riferimento dell’attività costrittiva, l’espressione «<em>atti sessuali</em>», che costituisce il fulcro della nuova fattispecie incriminatrice, volta a sintetizzare, mediante una formula particolarmente ampia, le nozioni di congiunzione carnale e di atti di libidine presenti nella precedente normativa.</p> <p style="text-align: justify;">Proprio l’introduzione dell’unitaria nozione di atto sessuale – la quale, pur continuando «<em>ad avere come punti di riferimento da un lato la congiunzione carnale e dall’altro gli atti di libidine,</em> […] <em>intende distaccarsi dalla fisicità e materialità della distinzione per apprestare una più comprensiva ed estesa tutela contro qualsiasi comportamento che costituisca una ingerenza nella piena autodeterminazione della sfera sessuale</em>» – ha fatto sorgere «<em>l’esigenza di introdurre una circostanza attenuante per i casi di minore gravità (art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.). Mediante una consistente diminuzione (in misura non eccedente i due terzi) della pena prevista per il delitto di violenza sessuale (fissata, nel minimo, in cinque anni di reclusione), risulta così possibile rendere la sanzione proporzionata nei casi in cui la sfera della libertà sessuale subisca una lesione di minima entità</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2005/0325s-05.html">sentenza n. 325 del 2005</a>).</p> <p style="text-align: justify;">La circostanza attenuante prevista dal terzo comma dell’art. 609-bis cod. pen. per i «<em>casi di minore gravità</em>» si pone, pertanto, «<em>quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2005/0325s-05.html">sentenza n. 325 del 2005</a>). Peraltro, rammenta il Collegio, la concorde giurisprudenza della Corte di cassazione considera l’attenuante in esame applicabile «<em>in tutte quelle fattispecie in cui avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale, personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave, ed implica la necessità di una valutazione globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, bensì estesa anche a quelle soggettive ed a tutti gli elementi menzionati nell’art. 133 cod. pen.»</em> (Cassazione, sezione quarta penale, 12 aprile 2013, n. 18662, nonché sezione terza penale, 13 novembre 2007, n. 45604 e 7 novembre 2006, n. 5002).</p> <p style="text-align: justify;">Ciò posto, la censura relativa al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) è per il Collegio da assumersi fondata.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 69, quarto comma, cod. pen., nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza «<em>una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze</em>» (sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">n. 251 del 2012</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0183s-11.html">n. 183 del 2011</a>); nel caso in esame, infatti, il divieto di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire appunto attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il caso di «<em>minore gravità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal terzo comma dell’art. 609-bis cod. pen., che viene annullata, attribuisce così alla risposta punitiva i connotati di «<em>una pena palesemente sproporzionata</em>» e, dunque, «<em>inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0068s-12.html">sentenza n. 68 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">È stato già affermato dalla Corte (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>) che «<em>la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “</em>un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale<em>” (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2010/0249s-10.html">sentenza n. 249 del 2010</a>), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni</em>», e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 609-bis cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva reiterata, infatti, «<em>riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo</em>». Sia nell’individuazione dell’attenuante dei casi di minore gravità, sia nella determinazione complessiva e finale della pena, insomma, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base non può essere «“neutralizzata<em>” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto con la finalità rieducativa della pena, che implica «<em>un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1994/0341s-94.html">sentenza n. 341 del 1994</a></em>)» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Questa conclusione peraltro, prosegue la Corte, è resa ancor più evidente dalla notevole divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per la fattispecie base, prevista dal primo comma dell’art. 609-bis cod. pen., e per quella circostanziata, prevista dal terzo comma del medesimo articolo: nei casi di minore gravità infatti la pena è diminuita «<em>in misura non eccedente i due terzi</em>», con la conseguenza che, in seguito al riconoscimento dell’attenuante speciale in questione, il massimo della pena edittale, come ha rilevato il giudice rimettente, è, «<em>in modo considerevole, inferiore al minimo della pena prevista per l’ipotesi di cui al comma 1 (anni 5</em>)».</p> <p style="text-align: justify;">Anche nel caso in esame quindi, come in quello oggetto della <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>, dal divieto di prevalenza sancito dalla norma censurata derivano delle conseguenze manifestamente irragionevoli sul piano sanzionatorio, assumendo particolare rilievo la divaricazione tra i livelli minimi, rispettivamente di cinque anni, per il primo comma dell’art. 609-bis cod. pen., e di un anno e otto mesi, per il terzo comma dello stesso articolo.</p> <p style="text-align: justify;">Così, per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante della minore gravità, l’imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.</p> <p style="text-align: justify;">L’incongruità di questo risultato appare evidente se si considerano i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., prima della modificazione (in genere diretta a favorire l’imputato) operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, quando l’aumento della recidiva veniva effettuato sulla pena prevista per la fattispecie attenuata. In un caso come quello in esame, infatti, la pena minima sarebbe stata, a seconda del tipo di recidiva, di due anni e sei mesi o di due anni, nove mesi e dieci giorni, vale a dire di un anno e otto mesi per il reato attenuato previsto dall’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., aumentata, a seconda dei casi, della metà o di due terzi per la recidiva, cioè, rispettivamente, di dieci mesi o di tredici mesi e dieci giorni.</p> <p style="text-align: justify;">Per contro il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, comporta l’applicazione della pena di cinque anni di reclusione, determinando un aumento di tre anni e due mesi.</p> <p style="text-align: justify;">Anche la censura relativa al principio di uguaglianza – prosegue la Corte - è fondata, perché, come ha rilevato la Corte rimettente, fatti anche di minima entità vengono, per effetto del divieto in questione, ad essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell’art. 609-bis cod. pen., per le ipotesi di violenza più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il medesimo bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalità, sia per il danno arrecato alla vittima.</p> <p style="text-align: justify;">Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla giurisprudenza costituzionale che, come si è visto, giustifica l’introduzione dell’attenuante dei casi di minore gravità «<em>quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2005/0325s-05.html">sentenza n. 325 del 2005</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto dichiararsi – conclude la Corte - l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 luglio esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.185 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente alle parole «<em>è obbligatorio e,</em>»; dichiara, ad un tempo, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Napoli.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 4 della legge n. 251 del 2005 – principia la Corte - ha sostituito l’art. 99 cod. pen., introducendo nel quinto comma un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che ricorre «<em>Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Nel ricostruire i lineamenti della recidiva dopo l’avvenuta sostituzione dell’art. 99 cod. pen., effettuata con l’art. 4 della legge n. 251 del 2005, la giurisprudenza costituzionale ha messo a fuoco l’istituto, individuando il relativo fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo, e ha prospettato la facoltatività di tutte le ipotesi di recidiva diverse da quella del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., e quindi anche la facoltatività della recidiva reiterata, prevista dal quarto comma (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 171 del 2009, n. 257, n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008).</p> <p style="text-align: justify;">In particolare è stato chiarito che nel caso di recidiva facoltativa l’aumento di pena può essere disposto «<em>solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo</em>» (ordinanza n. 409 del 2007; conformi, <em>ex plurimis</em>, ordinanze n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008).</p> <p style="text-align: justify;">L’orientamento prospettato dalla Corte è stato recepito dalla giurisprudenza di legittimità, che ha riconosciuto la natura facoltativa di tutte le ipotesi di recidiva, ad eccezione di quella rappresentata dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen., e ha ritenuto che quando la contestazione concerne una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen. è compito del giudice verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito è effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistenti fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante, significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero riscontro formale dei precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">All’esito di tale verifica si ritiene che al giudice sia consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738. In senso conforme, Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798).</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso della recidiva prevista dall’art. 99, quinto comma, cod. pen., chiosa il Collegio, questa verifica è preclusa; l’aumento della pena consegue automaticamente al mero riscontro formale della precedente condanna e dell’essere il nuovo reato compreso nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., senza che il giudice sia tenuto ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">La norma censurata, quindi, introduce un vero e proprio automatismo sanzionatorio, basato sul titolo del nuovo reato, e più precisamente sulla sua appartenenza al catalogo dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.. Ad avviso del giudice rimettente, è questo automatismo che, per la relativa irragionevolezza, si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, riprende il Collegio, l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità legislativa, il cui esercizio non può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, salvo che si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (<em>ex multis</em>: sentenze n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006).</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso di specie, il rigido automatismo sanzionatorio cui dà luogo la norma censurata – collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso – è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">L’obbligatorietà stabilita dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen. impone l’aumento della pena anche nell’ipotesi in cui esiste un solo precedente, lontano nel tempo, di poca gravità e assolutamente privo di significato ai fini della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">È da notare – prosegue la Corte - che «<em>la funzione del quinto comma è quella di prefigurare, in rapporto a ciascuna delle forme di recidiva facoltativa in precedenza disciplinate, altrettante ipotesi di recidiva obbligatoria</em>» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798).</p> <p style="text-align: justify;">Ciò significa che mentre nei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen. sono previste ipotesi di diversa gravità della recidiva, con il passaggio da quella semplice (primo comma) a quella aggravata (secondo comma), a quella pluriaggravata (terzo comma) e a quella reiterata (quarto comma), che possono avere un significato assai diverso ai fini della valutazione della colpevolezza e della pericolosità del reo, nel quinto comma tutte queste diverse ipotesi vengono irragionevolmente parificate in una previsione di obbligatorietà, che comporta un aumento di pena solo in ragione del titolo del reato che è stato commesso.</p> <p style="text-align: justify;">Ne deriva che il giudice nell’applicare la pena prevista per questo reato deve aumentarla, anche se l’aumento è privo di una reale giustificazione, oggettiva o soggettiva.</p> <p style="text-align: justify;">L’irragionevolezza della norma impugnata è ancor più manifesta – prosegue la Corte - se si considera che l’elenco dei delitti che comportano l’obbligatorietà, contenuto nell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., concerne reati eterogenei, collegati dal legislatore solo in funzione di esigenze processuali e in particolare del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi inidonei ad esprimere un comune dato significativo ai fini dell’applicazione della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">L’automatismo sanzionatorio introdotto dalla norma censurata non potrebbe giustificarsi neppure ritenendo che esso si fondi su una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la giurisprudenza costituzionale, «<em>le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’</em>id quod plerumque accidit». In particolare, «<em>l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “</em>agevole<em>” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa</em>» (<em>ex multis</em>, sentenze n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso di specie, la presunzione in questione, relativa alla colpevolezza e alla pericolosità del reo, sarebbe giustificata unicamente dall’appartenenza del nuovo episodio delittuoso al catalogo dei reati indicati dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., ma non potrebbe trovare fondamento in un dato di esperienza generalizzato.</p> <p style="text-align: justify;">Un dato del genere infatti non esiste, posto che per le ragioni indicate ben possono ipotizzarsi accadimenti reali contrari alla generalizzazione presunta.</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, l’art. 99, quinto comma, cod. pen., nel prevedere che nei casi di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., la recidiva è obbligatoria, contrasta con il principio di ragionevolezza e parifica nel trattamento obbligatorio situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell’art. 3 Cost.</p> <p style="text-align: justify;">La previsione di un obbligatorio aumento di pena legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun «<em>accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – “</em>sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo<em>” (sentenza n. 192 del 2007</em>)» (sentenza n. 183 del 2011), viola anche l’art. 27, terzo comma, Cost., che implica «<em>“un costante ‘</em>principio di proporzione’<em> tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 341 del 1994</em>)» (sentenza n. 251 del 2012). La preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto dichiararsi – conclude la Corte - l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «<em>è obbligatorio e</em>,».</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.74 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 – principia la Corte - prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale, che comporta una diminuzione delle pene previste dai commi da 1 a 6 del medesimo articolo «<em>dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti</em>». Quando però questa attenuante concorre con l’aggravante della recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., la diminuzione è impedita dalla norma impugnata dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già rilevato, l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>; in seguito, sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2014/0106s-14.html">n. 106</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2014/0105s-14.html">n. 105 del 2014</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Rispetto a questo tipo di circostanze «<em>il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della “</em>finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico<em>” (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante “</em>Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica<em>”, convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15), e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0251s-12.html">sentenza n. 251 del 2012</a>; in seguito, sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2014/0106s-14.html">n. 106</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2014/0105s-14.html">n. 105 del 2014</a>).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di deroghe rientranti nell’ambito delle scelte riservate al legislatore, che la Corte ha ritenuto sindacabili «<em>soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (<a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2012/0068s-12.html">sentenza n. 68 del 2012</a>), ed è sotto questo aspetto che va considerata la questione in esame.</p> <p style="text-align: justify;">La circostanza prevista dall’art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 è espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena, il ravvedimento post-delittuoso del reo, rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati in materia di stupefacenti.</p> <p style="text-align: justify;">Quando nei confronti dell’imputato viene riconosciuta la recidiva reiterata però la norma censurata impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i relativi effetti e così ne frustra in modo manifestamente irragionevole la <em>ratio</em>, perché fa venire meno quell’incentivo sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l’attività collaborativa.</p> <p style="text-align: justify;">Va inoltre considerato che tra i criteri da cui in genere può desumersi la capacità a delinquere del reo, e dei quali il giudice deve tener conto, oltre che nella determinazione della pena, anche nella comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti, vi è la condotta del reo contemporanea o susseguente al reato (art. 133, secondo comma, numero 2, cod. pen.), la cui rilevanza nel caso in oggetto verrebbe totalmente disconosciuta dalla norma impugnata.</p> <p style="text-align: justify;">È anche sotto questo aspetto – chiosa ancora la Corte - che la scelta normativa di escludere, nell’ipotesi prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., il potere del giudice di diminuire la pena «<em>per chi</em> [dopo aver commesso un reato in materia di sostanze stupefacenti] <em>si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori</em>» si pone in manifesto contrasto con il principio di ragionevolezza.</p> <p style="text-align: justify;">Si attribuisce, infatti, una rilevanza insuperabile alla precedente attività delittuosa del reo – quale sintomo della sua maggiore capacità a delinquere – rispetto alla condotta di collaborazione successiva alla commissione del reato, benché quest’ultima possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale capacità criminale del reo e della sua complessiva personalità.</p> <p style="text-align: justify;">È vero – prosegue il Collegio - che l’attenuante di cui all’art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 non richiede la spontaneità della condotta collaborativa e non comporta necessariamente una resipiscenza, perché può essere il frutto di un mero calcolo, ma è altrettanto vero che si tratta in ogni caso di una condotta significativa, anche perché comporta il distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale nel quale la relativa attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte ha già avuto occasione di rilevare nella <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0183s-11.html">sentenza n. 183 del 2011</a> – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato – la rigida presunzione di capacità a delinquere desunta dall’esistenza di una recidiva reiterata «<em>è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali</em>», rendendo privo di ogni razionale giustificazione l’effetto preclusivo riconosciuto alla recidiva reiterata.</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto dichiararsi – conclude il Collegio - l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., la censura relativa all’art. 27 Cost. dovendo assumersi assorbita.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.31669 che affronta la questione di diritto se il limite (minimo) di aumento di pena non inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave, di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen., nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, stesso codice, operi anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 81 cod. pen. – principia la Corte - stabilisce al quarto comma, aggiunto dall'art. 5, comma 1, legge 5 dicembre 2005, n. 251: «<em>Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Come rilevato nell'ordinanza di rimessione, prosegue la Corte, la giurisprudenza di legittimità non è pervenuta ad un'univoca interpretazione della disposizione appena richiamata, rinvenendosi due contrapposti indirizzi: uno, maggioritario, secondo cui la recidiva deve ritenersi applicata anche in caso di ritenuta equivalenza della stessa alle attenuanti, operando, così, il limite minimo per l'aumento indicato dall'art. 81, quarto comma, cod. pen.; l'altro, minoritario, che ritiene invece il giudizio di equivalenza produttivo di un sostanziale annullamento dell'efficacia della recidiva, la quale non potrebbe, quindi, ritenersi applicata, con la conseguenza che l'aumento per la continuazione non deve sottostare a detto limite.</p> <p style="text-align: justify;">Entrambe le soluzioni prendono in considerazione quanto evidenziato in una precedente pronuncia delle Sezioni Unite (n. 35738 del 27/05/2010, Celibe, Rv. 247839), i cui contenuti meritano di essere richiamati.</p> <p style="text-align: justify;">Escludendo che il testo dell'art. 99 cod. pen., come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, abbia sostanzialmente ripristinato il regime di obbligatorietà della recidiva preesistente alla riforma del 1974 e condividendo l'analisi della disposizione operata dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, la sentenza ridetta ha ribadito – chiosa la Corte - che la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell'art. 99 cod. pen. opera quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa.</p> <p style="text-align: justify;">Nel senso che è consentito al giudice di escluderla motivatamente e considerarla <em>tamquam non esset</em> ai fini sanzionatori, all'esito di una verifica in concreto sulla reiterazione dell'illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, da effettuare tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">Rileva ancora la richiamata sentenza che, se tale valutazione ha esito negativo, il giudice, escludendo la recidiva, la ritiene non rilevante e non la applica, non considerandola ai fini della determinazione della pena, né, tanto meno, nel giudizio di comparazione di cui all'art. 69 cod. pen. Diversamente, nel caso in cui la recidiva venga apprezzata come indicativa di maggior colpevolezza e pericolosità, essa produce tutti i relativi effetti, ivi compresi quelli di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">In tali ipotesi, infatti, essa, oltre che "<em>accertata</em>" nei presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), è anche "<em>ritenuta</em>" dal giudice ed "<em>applicata</em>", determinando l'effetto tipico di aggravamento della pena, anche nel caso in cui svolga semplicemente la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante.</p> <p style="text-align: justify;">In una successiva pronuncia (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664), le Sezioni Unite – ricorda il Collegio - hanno posto in evidenza la natura della recidiva quale circostanza pertinente al reato, che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo <em>status</em> e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all'epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale, respingendo, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata, la possibilità di qualsiasi automatismo, inteso come instaurazione presuntiva di una relazione qualificata tra <em>status</em> della persona e reato commesso, e privilegiando, invece, una valutazione discrezionale cui è correlato uno specifico obbligo motivazionale.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò posto, riprende la Corte, vanno esaminati i contenuti delle pronunce che hanno formulato le contrapposte opzioni ermeneutiche, causa del contrasto che le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere.</p> <p style="text-align: justify;">Prendendo in considerazione la questione dell'operatività del limite minimo di aumento per il concorso formale o la continuazione in caso di recidiva reiterata ritenuta equivalente alle attenuanti riconosciute dal giudice, una prima pronuncia (Sez. 5, n. 9636 del 24/01/2011, Ortoleva, Rv. 249513) ha ritenuto tale limite non applicabile nel caso in cui il giudice non abbia considerato la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale, ed in relazione ad essi l'abbia esclusa e, pertanto, non "<em>applicata</em>", ritenendo sussistente tale situazione nel caso esaminato, ove il Tribunale aveva riconosciuto all'imputato l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., ritenuta equivalente alle contestate aggravanti, tra cui la recidiva specifica reiterata, che la Corte considerava, quindi, apprezzata come sostanzialmente non incidente in concreto sull'entità della pena (in senso conforme, cfr. Sez. 5, n. 22980 del 27/01/2015, Parada, Rv. 263985; Sez. 5, n. 43040 del 20/06/2015, Martucci, Rv. 264824).</p> <p style="text-align: justify;">A tale decisione si contrapponeva altra pronuncia (Sez. 6, n. 25082 del 13/06/2011, Levacovich, Rv. 250434) nella quale si riteneva di dover pervenire a conclusioni diametralmente opposte, rilevandosi che, ad eccezione dei casi in cui la recidiva sia stata esclusa, in quanto non sintomatica di una più accentuata colpevolezza e pericolosità dell'imputato, venendo così espunta dal regime sanzionatorio applicabile, essa conservi inalterati, nelle altre ipotesi, i relativi effetti ulteriori, ivi compreso quello di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Tale evenienza, in presenza di un giudizio di bilanciamento, si verificherebbe tanto nel caso di ritenuta equivalenza quanto in quello di subvalenza rispetto alle attenuanti riconosciute, poiché, verificandosi dette ipotesi, la recidiva risulterebbe "<em>ritenuta</em>" ed "<em>applicata</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Pervenendo ad identiche conclusioni successive pronunce si ponevano sulla scia della decisione appena richiamata, con argomentazioni del tutto sovrapponibili (Sez. 3, n. 431 del 28/09/2011, dep. 2012, Guerreschi, Rv. 251883; Sez. 6, n. 49766 del 21/11/2012, Khelifa, Rv. 254032; Sez. 5, n. 48768 del 07/06/2013, Caziuc, Rv. 258669; Sez. F, n. 53573 del 11/09/2014, Procaccio, Rv. 261887; Sez. 4, n. 36247 del 28/05/2015, Zerbino, Rv. 264402; Sez. 3, n. 19496 del 24/09/2015, dep. 2016, Carambia; Sez. 5, n. 18253 del 07/01/2016, Hicham).</p> <p style="text-align: justify;">Richiamati i contrapposti orientamenti giurisprudenziali che hanno dato origine al contrasto, pare opportuno al Collegio ricordare come l'art. 81, quarto comma, cod. pen. sia stato scrutinato anche sotto il profilo della relativa conformità al dettato costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">La Quinta Sezione, analizzando l'eccezione di incostituzionalità della richiamata disposizione, sollevata con riferimento all'art. 3 Cost., l'ha ritenuta manifestamente infondata in considerazione del fatto che l'aumento di pena è giustificato dalla sostanziale diversità delle situazioni regolate, in quanto il legislatore ha facoltà di comminare le pene con aumenti differenziati in misura precostituita in ragione della minore o maggiore proclività a delinquere del reo "<em>recidivo reiterato</em>", ed essendo detto aumento del tutto ragionevole, oltre che conforme al principio dell'emenda di cui all'art. 27 Cost., dal momento che una pena non commisurata adeguatamente al valore dell'illecito, identificato anche in base alla propensione a delinquere che il reo esprime, sarebbe frustranea rispetto alla rieducazione del condannato (Sez. 5, n. 30630 del 09/04/2008, Nikolic, Rv. 240445, richiamata da Sez. 2, n. 18092 del 12/04/2016, Lovreglio, non mass.).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte costituzionale, con ordinanza n. 193 del 2008, ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 81, quarto comma, cod. pen., osservando che l'art. 81, quarto comma, cod. pen. presuppone una positiva valutazione da parte del giudice circa la concreta idoneità della recidiva reiterata ad aggravare la pena per i reati in continuazione o in concorso formale, come emerge dal tenore letterale della norma («<em>soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva</em>») e che «<em>risulterebbe, del resto, affatto illogico che una circostanza, priva di effetti ai fini della determinazione della pena per i singoli reati contestati all'imputato (ove non indicativa, in tesi, di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), possa produrre un sostanziale aggravamento della risposta punitiva in sede di applicazione di istituti - quali il concorso formale di reati e la continuazione - volti all'opposto fine di mitigare la pena rispetto alle regole generali sul cumulo materiale</em>». Analoghe conclusioni venivano tratte in una successiva pronuncia (Corte cost., ord. n. 171 del 2009).</p> <p style="text-align: justify;">Dato atto del panorama giurisprudenziale relativo al tema trattato, va rilevato in primo luogo per il Collegio come sia del tutto pacifico che, con la riforma del 2005, il legislatore abbia inteso intervenire con maggior rigore nei confronti del recidivo, discostandosi quindi dai diversi criteri che avevano ispirato il precedente intervento modificativo ad opera del d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, prevedendo, in linea generale, più consistenti aumenti di pena ed altri effetti decisamente sfavorevoli, lasciando al giudice un ambito di azione più limitato nella graduazione della pena, come è appunto avvenuto con il limite imposto dall'art. 81, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Va anche ribadito per le SSUU che la questione del limite di aumento minimo per la continuazione in caso di recidiva reiterata si pone solamente nel caso in cui la recidiva venga ritenuta dal giudice ed utilizzata nel giudizio di bilanciamento, non rilevando il diverso caso in cui la recidiva sia stata, invece, esclusa, come chiaramente precisato nella sentenza Sez. U, Calibé.</p> <p style="text-align: justify;">Si pone a questo punto il problema della individuazione della corretta accezione del verbo "<em>applicare</em>" utilizzato dall'art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando, quindi, quando la recidiva possa dirsi "<em>applicata</em>" dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">A tale proposito, sembra decisamente preferibile per il Collegio la soluzione adottata dalla più volte citata sentenza Calibè la quale, peraltro, richiama altra pronuncia delle Sezioni Unite (n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856). La sentenza Grassi, prendendo in esame una vicenda concernente l'applicabilità dell'indulto di cui al d.P.R. n. 394 del 1990, ha considerato il significato di "<em>utilizzazione funzionale</em>" che va riconosciuto al verbo "<em>applicare</em>", il quale, con riferimento ad una norma, è tale se «<em>concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Con specifico riferimento alla circostanza aggravante si osserva che la stessa è riconosciuta ed applicata non soltanto quando è produttiva del relativo effetto tipico di aumento dell'entità della pena, ma anche quando, in applicazione dell'art. 69 cod. pen., si determinino altri effetti, quali la neutralizzazione di una circostanza attenuante concorrente.</p> <p style="text-align: justify;">Le considerazioni svolte nelle due precedenti decisioni delle Sezioni Unite vanno qui per il Collegio ribadite, osservando come le stesse si attaglino maggiormente alla specificità della recidiva, la quale richiede, da parte del giudice, un accertamento complesso e articolato, inerente la maggiore colpevolezza e l'aumentata capacità a delinquere, che solo se negativo esclude ogni conseguenza e che, invece, permane e sopravvive comunque alla valutazione comparativa operata nel giudizio di bilanciamento, perché, quando questo avviene, la recidiva è stata già riconosciuta ed applicata, essendole stata attribuita quell'oggettiva consistenza che consente il confronto con le attenuanti concorrenti: attività successiva, questa, rimessa alla discrezionalità del giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Dunque, all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva si è già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i relativi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l'aumento di pena.</p> <p style="text-align: justify;">Va osservato ancora per le SSUU che anche in altre occasioni in cui la giurisprudenza di legittimità ha affrontato questioni comunque riferite alla recidiva, si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. E così, in tema di prescrizione, si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/09/2015, Palombella, Rv. 264483; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013 Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).</p> <p style="text-align: justify;">Ci si riferisce, inoltre, in simili casi, alla sostanziale "<em>applicazione</em>" della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il relativo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la relativa funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (v., ad 7 es., Sez. 2, n. 2731 del 02/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729 in tema di prescrizione; Sez. 1, n. 8038 del 18/01/2011, Santoro, Rv. 249843; Sez. 1, n. 43019 del 14/10/2008, Buccini, Rv. 241831; Sez. 1, n. 29508 del 14/07/2006, Maggiore, Rv. 234867 in tema di divieto di sospensione dell'esecuzione di pene detentive brevi; Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, dep. 2012, Cecere, Rv. 253883; Sez. 1, n. 27846 del 13/07/2006, Vicino, Rv. 234717, in materia di detenzione domiciliare).</p> <p style="text-align: justify;">Neppure può dirsi che tale ragionamento si ponga in contraddizione con il principio del <em>favor rei</em>, dal momento che il giudice può tanto escludere radicalmente la recidiva, quanto ritenerla sussistente e confrontarla con le circostanze concorrenti, con esiti diversi circa la dosimetria della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, deve conseguentemente rispondersi al quesito posto affermando il principio di diritto onde il limite di aumento di pena non inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave, di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, stesso codice, opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.205 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 – principia la Corte - prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale, che comporta una riduzione della pena base fino al terzo, nel caso in cui i fatti previsti negli artt. 216 (bancarotta fraudolenta), 217 (bancarotta semplice) e 218 (ricorso abusivo al credito) «<em>hanno cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Quando però questa attenuante concorre con l’aggravante della recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., la diminuzione è impedita dalla norma censurata dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già rilevato, l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base</em>» (sentenza n. 251 del 2012; in seguito, sentenze n. 106 e n. 105 del 2014, n. 74 del 2016).</p> <p style="text-align: justify;">Rispetto a questo tipo di circostanze, «<em>il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della “</em>finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico<em>” (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante “</em>Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica<em>”, convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15), e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata</em>» (sentenza n. 251 del 2012; in seguito, sentenze n. 106 e n. 105 del 2014, n. 74 del 2016).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta – precisa la Corte - di deroghe rientranti nell’ambito delle scelte riservate al legislatore, che la Corte stessa ha ritenuto sindacabili «<em>soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (sentenza n. 68 del 2012), ed è sotto questo aspetto che vanno considerate le questioni sollevate.</p> <p style="text-align: justify;">Anche nel caso in esame – come in quello concernente l’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e in quello relativo all’art. 648, secondo comma, cod. pen., rispettivamente decisi dalle sentenze di questa Corte n. 251 del 2012 e n. 105 del 2014 – il divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 sulla recidiva reiterata conduce per il Collegio a conseguenze sanzionatorie manifestamente irragionevoli.</p> <p style="text-align: justify;">Come è stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza attenuante prevista dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 è una circostanza speciale, di natura oggettiva e ad effetto speciale, perché prevede una diminuzione «<em>fino al terzo</em>» della pena in concreto comminata, e non in misura non eccedente un terzo, come le circostanze ad effetto comune, secondo quanto disposto dall’art. 65 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">La disposizione, insomma, «<em>allude non all’entità della pena da sottrarre a quella altrimenti individuata, ma, direttamente, al risultato dello scomputo, cioè alla pena finale, che, dunque, può essere portata, appunto, fino al terzo di sé stessa (cioè fino al terzo di quella individuata prima del calcolo della incidenza dell’attenuante speciale</em>)» (Corte di cassazione, sezione quinta, 23 febbraio 2015, n. 15976; nello stesso senso, sezione quinta, 17 febbraio 2005, n. 10391).</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso in questione – prosegue il Collegio - è evidente la notevole divaricazione tra le cornici edittali stabilite dal legislatore per le fattispecie base previste dagli artt. 216, 217 e 218 del r.d. n. 267 del 1942 e quelle stabilite per le rispettive ipotesi attenuate a norma dell’art. 219, terzo comma.</p> <p style="text-align: justify;">Infatti la pena edittale per la bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (art. 216, primo comma, numeri 1 e 2, del r.d. n. 267 del 1942), che va da tre a dieci anni di reclusione, per effetto dell’attenuante potrebbe essere ridotta nel minimo fino a un anno, e nel massimo fino a tre anni e quattro mesi di reclusione. Nella stessa proporzione potrebbero ovviamente essere ridotte le pene previste per gli altri reati ai quali è applicabile la circostanza.</p> <p style="text-align: justify;">Le differenti comminatorie edittali delle fattispecie criminose di base e delle rispettive ipotesi attenuate ex art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 si collegano a diverse caratteristiche oggettive sul piano dell’offensività.</p> <p style="text-align: justify;">Il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite, assicurato ai fatti di bancarotta che hanno determinato un danno patrimoniale di particolare tenuità, «<em>esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato</em>» (sentenza n. 251 del 2012).</p> <p style="text-align: justify;">In altri termini due fatti, quello di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta che ha cagionato, alla massa dei creditori, un danno patrimoniale di speciale tenuità, che lo stesso assetto legislativo riconosce diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, determinando la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., «“<em>che pone il fatto alla base della responsabilità penale” (sentenze n. 251 del 2012 e n. 249 del 2010)»</em> (sentenza n. 105 del 2014).</p> <p style="text-align: justify;">Come è stato già rilevato dalla Corte, «<em>la recidiva reiterata “</em>riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità<em>” (sentenza n. 251 del 2012</em>)» (sentenza n. 105 del 2014).</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, come ha esattamente rilevato la Corte rimettente nel caso di specie, rispetto a una bancarotta fraudolenta che abbia cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, «<em>per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante in questione, l’imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Insomma la norma censurata si pone per la Corte in contrasto, sia con l’art. 3, sia con l’art. 25, secondo comma, Cost., perché determina l’applicazione irragionevole della stessa pena a fatti di bancarotta oggettivamente diversi e in modo non rispettoso del principio di offensività.</p> <p style="text-align: justify;">È fondata anche – per il Collegio - la censura relativa alla violazione del principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 69, quarto comma, cod. pen., infatti, «<em>nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza “</em>una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze<em>” (sentenze n. 251 del 2012 e n. 183 del 2011</em>)» (sentenze n. 106 e n. 105 del 2014).</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per la bancarotta fraudolenta con «<em>un danno patrimoniale di speciale tenuità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già affermato, «<em>la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “</em>un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale<em>” (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni</em>» (sentenze n. 251 del 2012, n. 106 e n. 105 del 2014).</p> <p style="text-align: justify;">Questo scrutinio nel caso in esame rivela per la Corte il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942. Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «<em>un costante “</em>principio di proporzione<em>” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra</em>» (sentenza n. 341 del 1994).</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto dichiararsi per il Collegio l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.20808, Schettino, alla cui stregua la valorizzazione dei precedenti penali dell'imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso dunque, per la Corte la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato.</p> <p style="text-align: justify;">Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite, risultando scandito attraverso proposizioni subordinate apparentemente di pari rilevanza, richiede per la Corte un preliminare chiarimento. Nonostante si rimarchi che la recidiva è "<em>solo implicitamente riconosciuta</em>" e si ponga l'enfasi sulla mancata esplicazione dell'effetto diretto di essa, il denunciato contrasto non attiene agli effetti connessi al mancato aumento di pena, che pure sarebbe imposto da una recidiva riconosciuta, e neppure all'ammissibilità di una motivazione implicita quale giustificazione del riconoscimento della recidiva o alla derivabilità dell'effetto estintivo da una recidiva implicitamente riconosciuta.</p> <p style="text-align: justify;">L'analisi delle motivazioni che hanno animato il contrasto interpretativo evidenzia che la controversia verte sulla ammissibilità di un riconoscimento della recidiva che pretenda di emergere dalla mera evocazione dei precedenti penali come ragione del diniego delle attenuanti generiche. Quindi sulla rilevanza che legittimamente può assumere il giudizio di (dis) valore che, incentrato sui precedenti penali dell'imputato, è elaborato con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche.</p> <p style="text-align: justify;">Ne è dimostrazione per la Corte il fatto che non si pone in discussione la necessità che, per poter incidere sui termini di prescrizione, la recidiva debba essere ritenuta, ma si argomenta in ordine ai segni che ne attestano l'avvenuto riconoscimento, rintracciandoli nell'aver tenuto conto dei precedenti penali per escludere la concessione delle attenuanti generiche, giungendo poi a derubricare in mero errore il mancato aumento della pena (cfr. Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862).</p> <p style="text-align: justify;">In termini chiari si sostiene che «<em>nella fattispecie, la recidiva non solo era stata contestata ma era stata anche positivamente ed esplicitamente accertata e il giudice del merito aveva solamente ritenuto, discrezionalnnente, di non infliggere alcun aumento di pena a tale titolo, peraltro valorizzando specificamente i precedenti penali dell'imputato per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche</em>» (Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678).</p> <p style="text-align: justify;">In modo speculare Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017, S., Rv. 271714 ha affermato che «<em>... mai può ritenersi che, attraverso il diniego delle circostanze attenuanti per effetto della esistenza dei precedenti penali, la recidiva può dirsi implicitamente riconosciuta dal giudice così rilevando, come circostanza aggravante speciale, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione</em> ...», così escludendo che, in assenza di una qualche argomentazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell'imputato ai fini del giudizio di pericolosità, valorizzati solo per negare le attenuanti generiche, e in assenza di un aumento di pena per la recidiva, potesse ritenersi che il giudice avesse ritenuto di riconoscere l'aggravante in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Dal canto suo, prosegue ancora la Corte, Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382 ha ritenuto che l'assenza di un aumento di pena riconducibile alla recidiva, pur contestata, sta ad indicare che questa non è stata ritenuta; e che la considerazione dei precedenti penali nel giudizio di diniego delle attenuanti generiche non contraddice tale conclusione per la diversità dei piani di valutazione, l'uno ancorato allo specifico fatto di reato per l'apprezzamento della capacità criminale dell'autore, l'altro ad un giudizio prognostico sulla probabilità di commissione di nuovi reati (integralmente adesiva Sez. 6, n. 16109 del 31/3/2016, Capacci; la non riducibilità <em>ad unum</em> dei giudizi è rimarcata anche da Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460).</p> <p style="text-align: justify;">Univocamente militanti per la medesima impostazione Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012, Nigro, Rv. 251776; Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015 - dep. 2016, Cosentino, Rv. 266459; Sez. 2, n. 46297 del 13/7/2016, D'Onofrio).</p> <p style="text-align: justify;">Si può quindi ribadire – precisano le SSUU- che le diverse tesi si confrontano sulla possibilità di ritenere riconosciuta la recidiva per il fatto che il giudice ha tenuto conto dei precedenti penali dell'imputato per negare le attenuanti generiche, valendo ciò come implicita affermazione di sussistenza dei costrutti della circostanza aggravante; risultando consequenziale la inserzione del mancato aumento della pena nella categoria dell'errore o invece del coerente corollario.</p> <p style="text-align: justify;">Così definito il tema del contrasto giurisprudenziale, occorre innanzitutto svolgere per la Corte qualche considerazione sul rilievo che deve riconoscersi alla contestazione della recidiva. Infatti, in talune decisioni, invero non delle più recenti, il rilievo accordato alla contestazione condiziona le conclusioni cui si perviene. Accade quando si afferma che la recidiva contestata e non esclusa deve ritenersi sussistente e quindi produttiva di effetto (ad esempio, quello ostativo di cui all'art. 172, settimo comma cod. pen.: Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).</p> <p style="text-align: justify;">E' la medesima posizione – rammenta la Corte - espressa dal Procuratore Generale nell'odierna requisitoria, quando ha inteso rimarcare l'intangibilità di un giudicato formatosi per effetto di una contestazione non contraddetta dalla decisione di primo grado.</p> <p style="text-align: justify;">Prescindendo in questa sede dalla relazione corrente tra contestazione della recidiva e diritto di difesa dell'imputato, occorre porre a fuoco la circostanza che l'attribuzione di una valenza decisiva alla contestazione, tale da far ritenere consolidato il relativo avallo da parte del giudice solo che questi non abbia preso esplicitamente una posizione negatoria, mette radici nella temperie normativa e culturale che attribuiva alla recidiva il valore di <em>status</em> personale - '<em>indicato'</em> dal certificato del casellario giudiziale e non bisognevole della mediazione valutativa del giudice -, dal quale conseguiva con automatismo indefettibile l'aumento della pena (salvo le ipotesi di cui all'art. 100 cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">In ragione di tale presupposto si poteva affermare, ad esempio, che non è violato il divieto della <em>reformatio in peius</em> quando il giudice di appello, in mancanza del gravame del Pubblico Ministero, si limiti a rettificare la motivazione e non già il dispositivo della sentenza di primo grado, rilevando l'omesso calcolo della recidiva contestata e mai esclusa (cfr. Sez. 5, n. 1095 del 07/07/1967, Minale, Rv. 105546); o che i precedenti penali costituiscono un elemento cui necessariamente consegue un aumento di pena a titolo di recidiva (cfr. Sez. 2, n. 15 del 12/01/1968, Pedrini, Rv. 107812).</p> <p style="text-align: justify;">Sul piano degli oneri motivazionali l'impostazione si traduceva nel riconoscimento della necessità che il giudice motivasse le proprie determinazioni sul trattamento sanzionatorio solo in caso di recidiva facoltativa ex art. 100 cod. pen. (abrogato dal dl. 11 aprile 1974, n. 99); e neppure in ogni caso ma solo quando avesse ritenuto di escludere l'aumento della pena (<em>ex multis</em>, Sez. 4, n. 1841 del 15/11/1968 - dep. 1969, Boncini, Rv. 110319).</p> <p style="text-align: justify;">Con la novella del 1974 la recidiva divenne facoltativa in ogni sua specie; tuttavia la giurisprudenza di legittimità elaborò posizioni non coincidenti quanto al campo di esercizio del potere discrezionale connesso al carattere facoltativo della circostanza. Secondo l'orientamento prevalente (contrastato ad esempio da Sez. 5, n. 79 del 21/08/1975 - dep. 1976, Di Giorgio, Rv. 131754; Sez. 1, n. 4975 del 13/01/1976, Tosto, Rv. 136903; Sez. 1, n. 6127 del 31/01/1979, Lorrai, Rv. 142451), la nuova disciplina dava facoltà al giudice non di escludere la recidiva, bensì di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire (Sez. 2, n. 10248 del 12/04/1983, Querzola, Rv. 161468; Sez. 3, n. 435 del 29/09/1978 - dep. 1979, Vinciguerra, Rv. 140816; Sez. U, n. 9148 del 17/04/1996, Zucca, Rv. 205543, in motivazione).</p> <p style="text-align: justify;">Ragion per cui, si osservava, «<em>il primo problema che il giudice deve porsi non è, quindi, di esclusione o meno della recidiva, bensì - ferma questa restando - di scelta circa l'opportunità o meno di aumentare la pena. Egli, infatti, non è più vincolato all'opinione preventiva ed astratta della maggiore capacità a delinquere e pericolosità del reo espresse dalla ricaduta nel reato, ma è tenuto a stabilire volta per volta se effettivamente la recidiva sia espressione d'insensibilità etica e di pericolosità e giustifichi, perciò, la maggiore punizione del reo; o se invece, per l'occasionalità della ricaduta, per i motivi che la determinarono, per il lungo intervallo di tempo tra il precedente reato ed il nuovo, per la diversità di indole delle varie manifestazioni delinquenziali, per la condotta in genere tenuta dal reo, quella insensibilità e quella pericolosità non siano riscontrabili</em>» (Sez. 6, n. 3874 del 05/09/1974 - dep. 1975, Mele, Rv. 130148).</p> <p style="text-align: justify;">Ancora in tempi più recenti si è affermato che «... <em>la nuova disciplina della recidiva, di cui alla legge 7 giugno 1974, n. 220, ha sancito soltanto la facoltatività dell'aumento di pena e non anche degli altri effetti penali connessi alla recidiva</em> (...). <em>Pertanto, è </em>ius receptum<em> che il giudice è vincolato ad applicare la recidiva, una volta accertato che sia stata correttamente contestata. Mentre, la discrezionalità riguarda solo la scelta di aumento o meno di pena, fermo restando che, in ogni caso, la recidiva ha gli altri effetti penali per essa stabiliti dalla legge. Effetti che vanno dal divieto di misure previste dal diritto sostanziale a quelle previste dall'ordinamento giudiziario - quali la sospensione condizionale della pena, l'oblazione speciale, la liberazione condizionale, la riabilitazione, la prescrizione - e, infine, a quelle processuali, quale quella della preclusione della richiesta di pena ex art. 444 cod. proc. pen., comma 1 bis. Altrettanto è diritto vivente che la recidiva rileva agli effetti penali solo in quanto sia stata ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo essere stata regolarmente contestata, attesa la sua natura di "aggravante</em>"» (Sez. 6, n. 18302 del 27/02/2007, Ben Hadhria, Rv. 236426).</p> <p style="text-align: justify;">Corollario di un simile orientamento era che una volta contestata la recidiva, ove non motivatamente esclusa, non poteva considerarsi indice di un giudizio di insussistenza della stessa il mancato aumento della pena. Se ne può dedurre che un consistente filone giurisprudenziale ha per lungo tempo inteso la recidiva come uno <em>status</em> personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l'ha ritenuta obbligatoria quanto all'<em>an</em>, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell'effetto diretto (ma non in quelli indiretti).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta, tuttavia, di un orientamento ormai abbandonato, poiché la riforma della recidiva recata dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha oggettivamente fatto da volano ad un'evoluzione della disciplina verso tutt'altra direzione. Evoluzione che prende le mosse dalla sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale (che dichiarò inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), tra le cui righe può leggersi anche il rimprovero mosso ai giudici remittenti, per aver interpretato l'art. 99, quarto comma, cod. pen., e quindi il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti concorrenti con la recidiva qualificata, muovendo da un riflesso antico, quello che conduceva a ritenere obbligato il riconoscimento della recidiva (reiterata, ma non solo) ove presenti pertinenti precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte costituzionale sollecitò quindi i giudici a valutare la diversa interpretazione emersa all'indomani della riforma, la quale segnalava come in forza del nuovo regime la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen., ogni altra specie risultando ancora esito di un giudizio discrezionale.</p> <p style="text-align: justify;">I successivi interventi sono stati ricalcati su questa prima pronuncia (Corte cost. n. 198 e n. 409 del 2007; n. 33, n. 90, n. 91, n. 193 e n. 257 del 2008; n. 171 del 2009), motrice del convergente indirizzo del giudice di legittimità, infine prevalso su quello di segno opposto, emerso anche a fronte della nuova disciplina.</p> <p style="text-align: justify;">Nel 2010 le Sezioni Unite qualificarono la recidiva come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, ribadirono che essa va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, perché ciò è imposto dal principio del contraddittorio, ma rimarcarono che essa può non essere ritenuta configurabile dal giudice (a meno che non si tratti dell'ipotesi di recidiva reiterata prevista dall'art. 99, comma quinto, cod. pen.: previsione attinta dalla successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza n. 185/2015).</p> <p style="text-align: justify;">Nell'occasione le Sezioni Unite puntualizzarono che al giudice sta di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del relativo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all'eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (così Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839).</p> <p style="text-align: justify;">Con un successivo intervento il massimo organo di nomofilachia descrisse definitivamente la totalità dello spazio coperto dall'onere motivazionale, puntualizzando che esso ricorre sia nell'ipotesi che la recidiva venga riconosciuta, sia nel caso che essa venga esclusa. Per Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, Marcianò, Rv. 251690, «<em>sul giudice del merito incombe uno specifico dovere di motivazione sia quando ritiene sia quando esclude la rilevanza della recidiva</em>», risultando tale dovere insito nei principi affermati nella sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale e in quella n. 35738/2010 delle Sezioni Unite.</p> <p style="text-align: justify;">Uno specifico riferimento all'esigenza che il giudice offra comunque una adeguata motivazione a supporto della propria valutazione discrezionale si rinviene anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 e nella più recente pronuncia Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016 Filosofi, Rv. 267044, là dove si precisa che proprio a tale tipo di valutazione discrezionale si correla uno specifico obbligo motivazionale del giudice.</p> <p style="text-align: justify;">L'orientamento così espresso ha trovato piena adesione anche nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, proprio sulla considerazione per cui l'applicazione dell'aumento di pena per effetto della recidiva contestata attiene all'esercizio di un potere discrezionale del giudice che deve essere motivato (tra le altre, Sez. 6, n. 14550 del 15/03/2011, Bouzid Omar, Rv. 250039; Sez. Fer., n. 35526 del 19/08/2013, De Silvio, Rv. 25671; Sez. 6, n. 16244 del 27/2/2013, Nicotra, Rv. 256183; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014 - dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464; Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016 - dep. 2017, Del Chicca, Rv. 270419; e già in precedenza Sez. 2, n. 19557 del 19/03/2008, Buccheri, Rv. 240404; Sez. 5, n. 46452 del 21/10/2008, Tegzesiu, Rv. 242601; Sez. 4, n. 21523 del 23/04/2009, Pinna, Rv. 244010; Sez. 6, n. 42363 del 25/09/2009, Dommarco, Rv. 244855).</p> <p style="text-align: justify;">Sicché, il superamento di ogni dubbio interpretativo circa il carattere e gli esatti termini della facoltatività della recidiva sortita dalla riforma del 2005, conseguito in virtù dei ripetuti interventi della Corte costituzionale e dei consonanti arresti delle Sezioni Unite, consente di affermare che nel vigente quadro normativo la recidiva è sempre facoltativa, che tale facoltatività investe il piano del relativo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l'aggravante sia ritenuta o esclusa, salvo riemergere allorquando essi devono essere modulati.</p> <p style="text-align: justify;">Correlativamente, il giudice di merito, proprio perché investito di un potere discrezionale, ha l'obbligo di spiegare la propria scelta fornendo adeguata motivazione in ordine ai due profili evidenziati di una "<em>maggiore pericolosità del reo</em>" e di una "<em>più accentuata colpevolezza per il fatto</em>", secondo la precisazione operata da S.U. Calibè; e, come già accennato, egli è chiamato a rendere motivazione in ordine non già all'<em>an</em> dell'effetto diretto, che consegue indefettibile in caso di riconoscimento della circostanza, ma in ordine alla relativa entità, ovvero alla misura dell'aumento di pena e infine in ordine alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, quando non soggetta a vincolo normativo.</p> <p style="text-align: justify;">La lezione che deve trarsi da quanto sin qui esposto è per le SSUU che la contestazione della recidiva, onere dell'organo dell'accusa che intenda farne oggetto di decisione giurisdizionale, non consolida alcunché, dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice. La facoltatività della recidiva - ma l'utilizzo di una locuzione <em>'tradizionale'</em> non deve far credere che si compia un giudizio ontologicamente differente da quello che attiene alle altre circostanze del reato - si traduce in un obbligo motivazionale che ove inadempiuto apre all'ipotesi di una violazione di legge o di un vizio di motivazione.</p> <p style="text-align: justify;">Di certo, per la Corte l'avvenuta contestazione non può prendere il posto di una statuizione mancante.</p> <p style="text-align: justify;">E' utile ai fini che occupano rimarcare – proseguono le SSUU - quale sia la funzione assolta nel vigente sistema dalla facoltatività della recidiva. Essa si inscrive nel processo di conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena, tra le quali assume preminenza la finalità rieducativa, che implica «<em>un costante "</em>principio di proporzione<em>" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra</em>» (Corte cost. n. 341/1994).</p> <p style="text-align: justify;">Tale finalità viene puntualmente evocata nelle decisioni del Giudice delle leggi che hanno colto profili di illegittimità costituzionale nella disciplina in tema di recidiva. Con la sentenza n. 183 del 2011, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 62-bis cod. pen. come modificato dalla legge "<em>ex Cirielli</em>" nella parte in cui non consentiva la concessione delle attenuanti generiche al recidivo reiterato, autore di delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett, a), cod. proc. pen., puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, in considerazione della condotta susseguente al reato, si è affermato che siffatta preclusione si pone in insanabile contrasto con i principi fissati dagli artt. 3 e 27, terzo comma Cost., sancendo una presunzione del tutto irragionevole e discriminatoria, nonché contraria alla fondamentale finalità rieducativa della pena, in quanto ciecamente livellatrice delle diverse situazioni personali e dei diversi indici di risocializzazione inerenti i singoli condannati.</p> <p style="text-align: justify;">Anche in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale per violazione del principio di proporzionalità della pena ex art. 27, terzo comma, Cost., del quarto comma dell'art. 69 cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza dell'attenuante prevista (all'epoca) dal comma 5 del citato art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in materia di stupefacenti (sent. n. 251 del 2012 C. Cost.); della dichiarazione di illegittimità costituzionale dello stesso quarto comma dell'art. 69 cod. pen. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza di cui all'art. 648, secondo comma, cod. pen. (sent. 105 del 2014) e del divieto di prevalenza dell'attenuante di cui all'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. sulla recidiva reiterata (sent. n. 106 del 2014); della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'automatismo relativo all'attenuante della collaborazione nell'ambito dei procedimenti per fatti di narcotraffico (sentenza n. 74 del 2016), i motivi di incostituzionalità sono stati individuati dalla Corte nel contrasto della presunzione assoluta di cui all'art. 69, quarto comma cod. pen., con i principi di uguaglianza e parità di trattamento, potendosi giungere a pene identiche per situazioni di rilevo penale diverso, con il principio della finalità rieducativa della pena, introducendosi un trattamento punitivo non individualizzato, nonché con il principio di proporzionalità ed offensività, precludendo al giudice di rapportare la risposta sanzionatoria alla specifica gravità del fatto concreto.</p> <p style="text-align: justify;">Di particolare interesse sotto il profilo in considerazione, chiosano ancora le SSUU, è la sentenza n. 185 del 2015. I giudici costituzionali, nel dichiarare l'illegittimità del comma 5 dell'art.99 cod. pen. limitatamente alle parole "<em>è obbligatorio e</em>", con riferimento ai principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., e ai principi di proporzionalità e finalità rieducativa della pena, sanciti dall'art. 27 Cost. hanno sottolineato come il rigido automatismo sanzionatorio cui dava luogo la norma censurata collegando l'automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso, fosse del tutto privo di ragionevolezza, perché «<em>inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Quanto alla finalità rieducativa della pena, i giudici della Consulta, richiamando le prime pronunce sul tema (sent. n. 192 del 2007 e n. 183 del 2011) hanno affermato che la previsione di un obbligatorio aumento di pena, legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso - in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 cod. pen. - sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo, viola anche l'art. 27, terzo comma, Cost., che implica "<em>un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra</em>" (sentenze n. 341 del 1994 e n. 251 del 2012).</p> <p style="text-align: justify;">Da ultimo, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 219, terzo comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen., la Corte costituzionale ha esplicitato la relazione che corre tra la necessità di individualizzazione della pena in funzione della rieducazione del condannato e il principio di offensività del fatto, in sostanza escludendo che i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (sent. n. 205/2017).</p> <p style="text-align: justify;">Se ne può inferire che un uso non adeguatamente sorvegliato della recidiva minaccia la funzione rieducativa della pena proprio per il rischio di eccedere la pena proporzionata; per questo la motivazione deve restituire la valutazione che il giudice ha compiuto, in termini che comunichino il difficile e peculiare itinerario percorso, attraverso l'evidenziazione tanto degli elementi assunti ad indicatori quanto del traguardo dell'accertamento.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue una volta di più, per le SSUU, la assoluta centralità della motivazione. La formulazione del quesito impone di chiarire che certamente può trattarsi anche di motivazione implicita.</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza di legittimità e la dottrina non dubitano, in generale, della legittimità del ricorso alla motivazione implicita, che si configura non già come idealtipo strutturalmente diverso e <em>'scalare'</em>, fronteggiante quello della motivazione <em>'esplicita'</em>, ma piuttosto come una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un'argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda.</p> <p style="text-align: justify;">Come è stato acutamente osservato, nella motivazione implicita manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo. Sicché, per definizione, ove ricorre una motivazione implicita non può mai parlarsi di omessa motivazione; semmai può emergere un vizio di motivazione. Solo ove manchi il menzionato nesso di conseguenzialità logica e giuridica si determina una violazione di legge per l'inesistenza della motivazione (cfr. Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080).</p> <p style="text-align: justify;">Il ricorso da parte del giudice alla motivazione implicita trova riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga "<em>una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto</em>" su cui è fondata (art. 544, primo comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc. pen.). La stessa previsione della regola della redazione della sentenza <em>'subito'</em> dopo la pertinente deliberazione depone per la legittimità del ricorso a modalità di argomentazione funzionali al rispetto della regola della subitaneità.</p> <p style="text-align: justify;">La motivazione implicita è altresì compatibile con il diritto ad un equo processo, come previsto dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo la interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (cfr. Corte Edu, Quarta Sezione, 24.07.2015, Chipani ed altri c. Italia, nella quale si è ritenuto violato l'art. 6 della Convenzione per non essere stata resa motivazione del rigetto della questione pregiudiziale posta dai ricorrenti, ma solo per uno dei due profili segnalati, l'altro essendo stato oggetto di motivazione implicita).</p> <p style="text-align: justify;">In ragione dell'ammissibilità della motivazione implicita si ritiene che non sia censurabile in sede di legittimità una sentenza per il relativo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Caniello, Rv. 256340).</p> <p style="text-align: justify;">Con specifico riferimento agli istituti che più da presso vengono in considerazione in questa sede, giova rammentare per il Collegio l'insegnamento secondo il quale, in caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione può implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell'ambito di una valutazione generalmente negativa (Sez. 6, n. 14556 del 25/03/2011, Belluso, Rv. 249731).</p> <p style="text-align: justify;">Con precipuo riguardo alla recidiva, si afferma che il giudice può adempiere all'onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del relativo autore, che sono alla base dell'aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all'art. 99 cod. pen. (così, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130); che l'esclusione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente ove si sia in concreto apprezzata l'insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore (Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 - dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; così anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341).</p> <p style="text-align: justify;">L'esame della giurisprudenza di legittimità rende quindi evidente che non è in dubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita; e che un simile principio trova riconoscimento pure con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva. Ma va rimarcato che anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalità argomentativa deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre allora verificare – chiosa a questo punto la Corte - se il menzionato nesso di consequenzialità ricorre tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità chiarisce che ai fini dell'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62- bis cod. pen., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen.; fermo restando che non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento (Sez. 2, n. 2285 del 11/10/2004 - dep. 2005, Alba, Rv. 230691; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una interpretazione che, attraverso l'argomento <em>a contrario</em>, ha un preciso ancoraggio nel secondo comma dell'art. 62-bis cod. pen. Poiché la disposizione esclude che nei casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a) cod. proc. pen., ove puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, assumano rilevanza i criteri previsti dall'art. 133, primo comma, n. 3 e secondo comma (ma, a seguito di Corte costituzionale, sent. del 10.6.2011, n. 183, può tenersi conto della condotta del reo susseguente al reato), fuori da tali casi valgono tutti i criteri di cui all'art. 133 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò non di meno, la propria prevalente giurisprudenza, rammenta la Corte, (consonante con parte della dottrina), ritiene che le attenuanti generiche abbiano la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena.</p> <p style="text-align: justify;">Esse, quindi, presuppongono l'esistenza di elementi <em>'positivi'</em>, intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall'applicazione dell'art. 133 cod. pen. Come è stato precisato, la ragion d'essere della previsione normativa recata dall'art. 62 -bis cod. pen. è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile.</p> <p style="text-align: justify;">Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694). Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (in tali termini già Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241 e più di recente Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 271315; Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694).</p> <p style="text-align: justify;">La conciliazione tra affermazioni apparentemente così diverse – prosegue la Corte - si coglie sul piano applicativo, il quale conferma quel carattere pressoché onnicomprensivo dell'art.133 cod. pen. da sempre segnalato dalla dottrina. Nel medesimo orizzonte si registra il ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell'art. 133 cod. pen.; ma anche la cura nel filtrare eventuali spinte irrazionalistiche attraverso l'ancoraggio ai parametri legali della dosimetria sanzionatoria.</p> <p style="text-align: justify;">Orbene, prosegue il Collegio, i precedenti penali dei quali fa menzione l'art. 133 cod. pen. non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva. A solo titolo esemplificativo si può considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva (Sez. 5, n. 2655 del 16/10/2015 - dep. 2016, Halilovic, Rv. 265709); quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell'art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002 ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell'entrata in vigore della legge n. 251/2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all'ammissione all'oblazione di cui all'art. 162-bis cod. pen. (Sez. 3, n. 29238 del 17/02/2017, Cavallero, Rv. 270147, in motivazione, ove si rammenta che quella gravità va apprezzata alla luce degli indici di cui all'art. 133 cod. pen.); le condanne per le quali si è prodotta l'estinzione di ogni effetto penale determinata dall'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva (Sez. 3, n. 39550 del 04/07/2017, Mauri, Rv. 271342).</p> <p style="text-align: justify;">Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell'apprezzamento del comportamento pregresso dell'imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell'art.133 cod. pen. (cfr. Sez. 6, n. 16250 del 12/03/2013, Schirinzi, Rv. 256186), l'estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva, sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269042).</p> <p style="text-align: justify;">E' poi da rammentare, prosegue il Collegio, che l'art. 133, secondo comma, n. 2, cod. pen. considera anche i precedenti giudiziari, certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Quel che ulteriormente rileva in questa sede è per le SSUU che, ancorandosi le attenuanti generiche a specifici elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena quale risultante dall'applicazione dell'art. 133 cod. pen., quegli elementi possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo (<em>ex multis</em>, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).</p> <p style="text-align: justify;">Si vede bene, quindi, che allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell'attenuazione della pena prevista dall'art. 62 -bis cod. pen., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi.</p> <p style="text-align: justify;">Quando il fattore in parola è costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce quindi un espediente retorico che esalta l'assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati.</p> <p style="text-align: justify;">Del tutto diverso – precisa a questo punto la Corte - il giudizio in materia di recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">In primo luogo ben più limitato è il senso della locuzione <em>'precedenti penali'</em> valevole per essa. Costituiscono precedenti penali valutabili ai fini della recidiva unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all'oggetto, al tempo, al numero.</p> <p style="text-align: justify;">Ricorrono poi ulteriori esclusioni già elencate dalla Corte <em>supra</em>; in concreto, quindi, ben può accadere che i giudizi - quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva - non abbiano una base fattuale coincidente. In caso diverso, quando la evocazione dei precedenti penali non si riduca alla già rammentata operazione retorica, l'uso del medesimo elemento, sia per escludere le attenuanti generiche che per ritenere la recidiva, dà luogo ad operazioni non sovrapponibili.</p> <p style="text-align: justify;">La dottrina è incline a cogliere una diversità prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l'art. 133 e l'art. 99 cod. pen.. Mentre la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalità del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi può vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravità del reato, la seconda assume il precedente penale per l'accertamento della consapevolezza del disvalore dell'azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso.</p> <p style="text-align: justify;">Ha rilievo, quindi, la conoscenza e la conoscibilità della precedente condanna, dovendosi valutare la possibilità per il reo di trarre dal precedente vissuto giudiziario le motivazioni per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente (per una esemplificazione di tale giudizio Sez. 3, n. 30029 del 20.12.2017, dep. 2018, Scarano; Sez. 4, n. 25564 del 09.05.2017, Pansera).</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza di legittimità dal canto suo, prosegue la Corte, ammette la polivalenza degli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen. (cfr. Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rechichi, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013 - dep. 2014, Debbiche Helmi, Rv. 258011).</p> <p style="text-align: justify;">Risulta poi evidente che il giudizio che riconosce la recidiva considera il precedente non come fattore ostativo bensì come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato. La irriducibilità della recidiva alla titolarità di precedenti penali è tra le premesse fondamentali della rammentata giurisprudenza costituzionale formatasi nel tempo successivo all'entrata in vigore della legge n. 251/2005; essa importa la necessità che il giudice ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l'esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di nozioni ormai acquisite al diritto vivente ma che meritano per il Collegio di essere ribadite, per la pratica difficoltà di farne corretta applicazione. Ed invero, la complessità del giudizio è stata più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità. Le Sezioni Unite Calibè hanno rimarcato l'obbligo del giudice di svolgere una verifica in concreto sulla reiterazione dell'illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">Nel ribadire il rifiuto di una recidiva intesa come <em>status</em> formale del soggetto le Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 hanno nuovamente rimarcato che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi, verificando non solo l'esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche procedendo al riscontro sostanziale della "<em>più accentuata colpevolezza</em>", per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all'ammonimento derivante dalla precedente condanna, e della "<em>maggior pericolosità</em>", intesa come indice della relativa inclinazione a delinquere; sicché la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo "<em>status</em>" e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all'epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale (nel medesimo senso anche Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044).</p> <p style="text-align: justify;">La complessità del giudizio è ulteriormente accentuata dal duplice fondamento della recidiva. Se la maggiore colpevolezza per il fatto impegna a rintracciare i segni del processo motivazionale sottostante il nuovo reato e a verificarne i nessi con il pregresso giudiziario del reo, per la maggiore pericolosità sociale si pongono in primo luogo problemi ricostruttivi, derivanti dalla contrarietà ai principi costituzionali di un'accezione che la faccia coincidere con una mera qualità della persona del reo e lasci prevalere esigenze di neutralizzazione.</p> <p style="text-align: justify;">Pur così delimitato il campo delle possibili interpretazioni, la maggiore pericolosità può essere ricercata in connessione con il reato commesso (faticando a distinguersi, allora, dalla capacità a delinquere), oppure intesa come sinonimo di minore sensibilità al processo di rieducazione. In effetti, gran parte degli effetti indiretti della recidiva vengono considerati espressione di una valutazione legislativa ispirata dalla ritenuta maggiore pericolosità sociale. Il fattore di crisi è rappresentato dalla concentrazione in un solo giudizio, quello del giudice della cognizione, di valutazioni che guardano in direzioni diverse: la pena proporzionata alla gravità del fatto, la efficacia del concreto trattamento in una prospettiva special-preventiva. Le soluzioni non sono nella disponibilità della giurisdizione ordinaria.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia a questa compete di tener presente, perché tal è il dato normativo, la circostanza che dalla recidiva conseguono tanto effetti diretti che effetti indiretti; in ciò una forte caratterizzazione di questa particolare circostanza del reato. Dalla quale devono trarsi le conseguenze che si esporranno più avanti.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto complesso il compito che incombe sul giudice chiamato ad accertare la fondatezza della contestazione della recidiva, una volta superata la vetusta concezione dello <em>status</em> - specie quando si consideri con realismo la struttura del processo penale - non sono ammissibili motivazioni di puro stile, che non espongano i dati fattuali presi in considerazione, i criteri utilizzati per valutarli, un coerente giudizio circa la maggiore rimproverabilità del reo per non essersi fatto motivare dalle precedenti condanne, come pure avrebbe dovuto fare.</p> <p style="text-align: justify;">Né può essere dimenticata la rilevantissima incidenza che la recidiva assume sul piano sanzionatorio e non solo. La consapevolezza di tali rigorosi effetti e del concorso della recidiva medesima nella necessaria opera di individualizzazione della pena deve responsabilizzare il giudice ed indurlo al massimo scrupolo nell'accertamento degli indici del presupposto sostanziale, sulla scorta di quanto le parti, assolvendo ai rispettivi oneri probatori, conferiscono al giudizio.</p> <p style="text-align: justify;">Nell'accertamento della fondatezza della contestazione della recidiva il giudice deve essere consapevole della necessità di sorvegliare che non si determini una indebita valorizzazione delle qualità della persona del reo. L'ormai consueto richiamo all'accertamento della maggiore colpevolezza per il fatto e della maggiore pericolosità sociale del reo non può banalizzare il giudizio e far dimenticare che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, esse non possono mai condurre a determinare una misura della pena che ecceda quella proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Come ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 205/2017 – chiosano le SSUU - «<em>la recidiva reiterata "</em>riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell'offensività della fattispecie base potrebbe risultare "neutralizzata" da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità" <em>(sentenza n. 251 del 2012</em>)».</p> <p style="text-align: justify;">La parziale diversità della nozione di <em>'precedente penale</em>'; l'insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non può ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue per le SSUU che non è fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena; va quindi respinta la diversa affermazione contenuta in Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678; Sez. 5, n. 38287 del 6/4/2016, Politi, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945. Ben diversamente, deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisce indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non è stata riconosciuta.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre soffermarsi brevemente – prosegue il Collegio - su quest'ulteriore aspetto della questione proposta dalla Sezione remittente, che investe il piano della relazione tra il riconoscimento della recidiva e i pertinenti effetti.</p> <p style="text-align: justify;">Le stesse Sezioni Unite hanno già statuito che all'esito dell'accertamento al quale dà via la contestazione della recidiva il giudice può negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione. Mentre, ove la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi.</p> <p style="text-align: justify;">Si dovranno, allora, trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Nel fissare tale insegnamento – precisa il Collegio - le Sezioni Unite Calibè precisarono che in tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che "<em>accertata</em>" nei relativi presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), "<em>ritenuta</em>" dal giudice ed "<em>applicata</em>", determinando essa l'effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, abbandonò definitivamente la tesi della "<em>facoltatività bifasica</em>" della recidiva, per la quale è consentito al giudice di elidere l'effetto primario dell'aggravamento della pena mentre sono obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.</p> <p style="text-align: justify;">Anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, considerando il tema dalla prospettiva del computo dei termini prescrizionali del reato, si è affermato che, mentre prima della sentenza di merito la più severa disciplina dei tempi di estinzione (art. 157, secondo comma, cod. pen.) opera sulla base della mera contestazione della recidiva, da considerare circostanza aggravante ad effetto speciale (cfr. Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502), una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell'imputato e il fatto a lui addebitato, la circostanza perde il relativo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 dell'08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158).</p> <p style="text-align: justify;">Con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, le Sezioni unite hanno esaminato la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo "<em>applicare</em>" utilizzato dall'art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando quando la recidiva possa dirsi "<em>applicata</em>" dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Richiamando quanto già messo in evidenza da altra e più risalente pronuncia delle stesse Sezioni unite, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il proprio effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la pertinente funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.</p> <p style="text-align: justify;">Ad avviso delle Sezioni Unite, all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i propri effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l'aumento di pena.</p> <p style="text-align: justify;">Le ragioni fondanti la conclusione raggiunta vengono altresì individuate dalle Sezioni Unite nella elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi anche in relazione ai rapporti tra recidiva ed altri istituti, là dove si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Così proprio in tema di prescrizione, dove si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/09/2015, Palombella, Rv. 264483; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013 Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).</p> <p style="text-align: justify;">Si parla in simili casi di sostanziale "<em>applicazione"</em> della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplichi il relativo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (Sez. 2, n. 2731 del 02/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729 in tema di prescrizione; Sez. 1, n. 8038 del 18/01/2011, Santoro, Rv. 249843; Sez. 1, n. 43019 del 14/10/2008, Buccini, Rv. 241831; Sez. 1, n. 29508 del 14/07/2006, Maggiore, Rv. 234867 in tema di divieto di sospensione dell'esecuzione di pene detentive brevi; Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, Cecere, Rv. 253883; Sez. 1, n. 27846 del 13/07/2006, Vicino, Rv. 234717, in materia di detenzione domiciliare).</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite ritengono a questo punto che la laboriosa evoluzione della riflessione giurisprudenziale in tema di recidiva abbia condotto ad acquisire che si tratta di una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei relativi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quelli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore (tra i quali gli effetti indiretti).</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto la recidiva risulta oggetto di un giudizio di riconoscimento, che mette radici nell'accertamento del presupposto formale e nella valutazione della relazione tra "<em>precedente</em>" e nuovo reato; a tale giudizio consegue <em>ex se</em> l'esplicazione di ogni effetto, diretto ed indiretto, che ad essa riconduce l'ordinamento, senza necessità di concettualizzare un particolare momento applicativo, così come non si dubita che una volta riconosciuta ad esempio una qualsiasi aggravante comune (ex art. 61 cod. pen.), questa produca i relativi effetti senza necessità di menzionarne l'applicazione come di una particolare operazione.</p> <p style="text-align: justify;">E' pur vero che nella trama del codice penale si rivengono due disposizioni nelle quali si legge di recidiva applicata (art. 81, quarto comma, e 603-ter); ma si tratta di terminologia che intende alludere al fatto che il reo sia stato riconosciuto come recidivo, come attestano le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite n. 31669/2016.</p> <p style="text-align: justify;">Per stretta attinenza, merita di essere esplicitato che risulta corretta l'interpretazione che prevalentemente si dà dell'art. 444, co. 1 -bis cod. proc. pen., ove menziona coloro che sono stati <em>'dichiarati'</em> recidivi; si tratta di una locuzione che risente dell'accostamento nella disposizione dei recidivi ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, per i quali effettivamente è disciplinata la dichiarazione dello stato, e che non può essere intesa come dimostrazione della necessità di una <em>'dichiarazione di recidiva'</em>, altra rispetto al riconoscimento della circostanza.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò precisato, va ritenuta erronea l'affermazione secondo la quale la recidiva risulta <em>'applicata'</em> «<em>tenendone conto per escludere la concessione delle attenuanti generiche</em>» (così Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298). Risulta palese che, non avendo il legislatore attribuito alla recidiva anche l'effetto di interdire il riconoscimento delle attenuanti generiche, non può ipotizzarsi una relativa applicazione che in ciò consista.</p> <p style="text-align: justify;">L'assenza di una qualche relazione tra i due giudizi emerge anche dalla giurisprudenza che esclude vi sia contraddizione tra il riconoscimento della recidiva e quello contestuale delle attenuanti generiche; o tra il giudizio che escluda l'una e quello che escluda anche le altre (cfr. Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460); o, ancora, tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato dai precedenti penali dell'imputato, ed il contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva (Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009 - dep. 2010, Marotta, Rv. 246045).</p> <p style="text-align: justify;">Il discorso sin qui condotto conduce a prendere in considerazione Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856, secondo cui «<em>una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso. Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica - pur se indiretta - esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica. Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga - ai sensi dell'art. 69 c.p. - un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all'attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell'afflittività sanzionatoria l'aggravante risulta tamquam non esset</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Questa decisione – chiosa la Corte - ha lasciato tuttavia irrisolto il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all'art. 69 cod. pen., sia valutata subvalente.</p> <p style="text-align: justify;">Nella giurisprudenza più recente emerge un'oggettiva incertezza, giacché all'interpretazione per la quale, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi "<em>applicata</em>" la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti (Sez. 7, n. 15681 del 13/12/2016 - dep. 2017, Esposito, Rv. 269669; Sez. 4, n. 8079 del 22/11/2016 - dep. 2017, D'Uva, Rv. 269129), si oppone un diverso orientamento, per il quale la recidiva contestata all'imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (Sez. 2, n. 53133 del 04/11/2016, Chen, Rv. 269139, che richiama proprio la sentenza n. 17/1991; Sez. 5, n. 48891 del 20/09/2018, Donatacci, Rv. 274601, per le quali non è da ritenere applicata l'aggravante quando, ancorché riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all'eventuale riconosciuta attenuante).</p> <p style="text-align: justify;">Ad avviso del Collegio, la disciplina della prescrizione offre un nitido punto di ancoraggio per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l'abbia vista subvalente; l'art. 157, terzo comma cod. pen. esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all'art. 69 cod. pen. ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">E poiché l'art. 161 cod. pen. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall'art. 157 cod. pen., resta confermato che anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.</p> <p style="text-align: justify;">Ma la questione ha portata più generale; è emersa anche in tema di reato continuato, giacché si è affermato che il limite minimo per l'aumento stabilito dalla legge nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata non opera quando il giudice abbia considerato la stessa subvalente alle riconosciute attenuanti, in quanto, in tale ipotesi, la recidiva, pur considerata nel giudizio di bilanciamento, non ha però di fatto potuto paralizzare il loro effetto tipico di riduzione della pena (Sez. 6, n. 27784 del 05/04/2017, Abbinante, Rv. 270398).</p> <p style="text-align: justify;">Essa potrebbe ipotizzarsi anche in tema di cd. patteggiamento allargato, ove risulta sinora affrontato solo il caso di recidiva ritenuta equivalente alle concorrenti attenuanti, risolto sostenendo che ai fini della preclusione al patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, è sufficiente che la recidiva, contestata ai sensi dell'art. 99, quarto comma, cod. pen., sia stata riconosciuta dal giudice, anche se in concreto non applicata per effetto del giudizio di equivalenza con circostanze attenuanti (cfr. Sez. 6, n. 23052 del 04/04/2017, Nahi, Rv. 270489).</p> <p style="text-align: justify;">Con la già citata Sez. 6, n. 27784/2017, chiosa a questo punto il Collegio, si è ritenuto che la soluzione adottata sia imposta dal principio del <em>favor rei</em>, stante la prospettabilità di plausibili interpretazioni tra loro discordanti.</p> <p style="text-align: justify;">Alle Sezioni Unite appare prioritario muovere dalla considerazione che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all'origine delle regole poste dall'art. 69 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Come puntualizzato dalla stessa sentenza Filosofi, «<em>... all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva si è già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario</em>». Ciò vale anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l'attenuante, risultando subvalente all'esito del giudizio di comparazione. L'art. 69 cod. pen., dal canto suo, chiaramente indica che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente - che in quanto fatto compiuto non può più essere negato - ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia, prosegue il Collegio, come si è già considerato, la recidiva si caratterizza, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell'escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori, decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo. Nell'attuale quadro normativo la recidiva costituisce circostanza del reato; ma permane una relativa specificità funzionale, per il fatto che è produttiva dei cosiddetti effetti indiretti.</p> <p style="text-align: justify;">Se ne censiscono alcuni ancora sul piano della commisurazione della pena; si allude alla previsione del limite minimo dell'aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione, ai sensi dell'art. 81, quarto comma cod. pen. Altri investono le sorti della punibilità; si è già rammentato l'aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l'incidenza sul termine massimo. Come si è già fatta menzione dell'incidenza sul tempo che determina l'estinzione della pena (art. 172, settimo comma, cod. pen.) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179, secondo comma, cod. pen.). Vanno ancora rammentate le preclusioni in tema di amnistia (art. 151, quinto comma cod. pen.), di indulto (art. 174, terzo comma, cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">Anche nella fase esecutiva si registrano previsioni derogatorie al regime ordinario che rinvengono nella riconosciuta recidiva il proprio fondamento. Si rammentano qui: l'entità del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall'art. 30-ter ord. pen., elevata per i recidivi ex art. 99, quarto comma cod. pen.; la non concedibilità oltre una volta dell'affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall'articolo 47, della detenzione domiciliare e della semilibertà al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma cod. pen., ex art. 58-quater, comma 7-bis, ord. pen (nel testo scaturito da Corte cost. sent. n. 291/2010).</p> <p style="text-align: justify;">In modo del tutto peculiare, quindi, quando è in gioco la recidiva, specie se qualificata, la funzione rieducatrice della pena risulta debitrice non tanto, e comunque non solo, della variazione quantitativa della sanzione, quanto anche dell'avvenuto riconoscimento della sussistenza della recidiva. Orbene, il concreto farsi della risposta punitiva non può essere tenuto in non cale, per il vincolo costituzionale a definire un trattamento sanzionatorio realmente idoneo a conseguire l'obiettivo della rieducazione del reo.</p> <p style="text-align: justify;">Ancorché la modulazione del trattamento sanzionatorio secondo l'evoluzione del percorso di rieducazione del condannato sia affidato agli organi della esecuzione penale, il giudice della cognizione non può ignorare che la propria statuizione costituisce il primo fattore di un complessivo programma tendente alla rieducazione del condannato; programma che si snoda in modo più rilevante nella fase dell'esecuzione della pena, ma che si forma sulle direttrici identificate dal giudice del merito.</p> <p style="text-align: justify;">Decisivo è allora considerare – prosegue la Corte - che, quando il giudice di merito valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, egli esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che, quando la recidiva sia stata ritenuta subvalente, fuori dai casi in cui la rilevanza di tale giudizio sia espressamente esclusa dal legislatore, come non si produce l'effetto diretto sulla pena così non si producono gli effetti indiretti della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Su simile caposaldo si è attesta la pertinente giurisprudenza di legittimità, limitando il significato di <em>'applicazione</em>' della recidiva ai casi in cui questa abbia impedito l'attenuazione della pena derivante da concorrenti attenuanti (cfr. Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, Cecere, Rv. 253883, in tema di divieto di detenzione domiciliare nei confronti dei recidivi reiterati, venuto meno a seguito della modifica dell'art. 47-ter, comma 1-bis, ord. pen., operata dall'art. 2, comma 1, lett. b), n. 1, del D.L. 1 luglio 2013 n. 78, convertito nella legge 9 agosto 2013 n. 94; Sez. 1, n. 27814 del 22/06/2006, Stacchetti, Rv. 234433, per la quale se con la condanna posta in esecuzione la recidiva reiterata è stata dichiarata subvalente rispetto alle circostanze attenuanti, l'art. 58-quater, comma 7-bis, ord. pen., introdotto con legge n. 251 del 2005, non è di ostacolo alla concessione della semilibertà, perché la recidiva può ritenersi "<em>applicata</em>", a norma del menzionato art. 58-quater ord. pen., se realizza l'effetto tipico di aggravamento della pena e quindi se nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. le circostanze attenuanti non sono state dichiarate prevalenti; così anche Sez. 1, n. 33923 del 22/09/2006, Steiner, Rv. 235191).</p> <p style="text-align: justify;">Va dunque ribadito per le SSUU che, ove il giudizio di bilanciamento di cui all'art. 69 cod. pen. si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen..</p> <p style="text-align: justify;">Peraltro, proprio previsioni di tal fatta pongono in luce i diversi effetti derivanti da un giudizio che riconosce la recidiva ma la valuta subvalente e una statuizione che nega la ricorrenza della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Risulta sufficientemente evidente alla Corte, all'esito dell'itinerario sinora tracciato, come sia fondato su premesse non condivisibili l'orientamento secondo il quale la valorizzazione dei "<em>precedenti penali</em>" che sia stata operata per il diniego delle attenuanti generiche è indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva, risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva. Esso non coglie la profonda diversità che caratterizza l'uno e l'altro istituto, con le conseguenti difformità impresse ai giudizi che li concernono.</p> <p style="text-align: justify;">Depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti "<em>precedenti penali</em>", che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all'assenza di una reale indagine al riguardo.</p> <p style="text-align: justify;">Qualifica del tutto arbitrariamente come errore il mancato aumento della pena, facendo emergere con asettica noncuranza quel che costituirebbe, ove fosse effettiva, una patente violazione di legge. Apre ad effetti <em>in malam partem</em> sulla base di una mera interpretazione della decisione di merito.</p> <p style="text-align: justify;">Può quindi essere formulato per la Corte il principio di diritto onde la valorizzazione dei precedenti penali dell'imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2020</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.73 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen</p> <p style="text-align: justify;">La disposizione censurata, principia la Corte, nella versione attualmente in vigore, è – come è noto – il frutto di una duplice stratificazione normativa rispetto al testo originario del codice penale.</p> <p style="text-align: justify;">Nella versione del 1930, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. sottraeva <em>tout court</em> alle regole sul bilanciamento enunciate nei commi precedenti le «<em>circostanze inerenti alla persona del colpevole</em>» e «<em>qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato</em>». L’art. 70, secondo comma, cod. pen. disponeva poi – e tuttora dispone – che per «<em>circostanze inerenti alla persona del colpevole</em>» si intendono quelle riguardanti l’imputabilità e la recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il legislatore intendeva, in tal modo, assicurare che il giudice fosse in ogni caso tenuto ad applicare separatamente le diminuzioni (o gli aggravamenti) di pena correlati alla capacità di intendere e di volere, tra i quali la diminuzione di cui all’art. 89 cod. pen. in questa sede in discussione, così come gli aggravamenti di pena dipendenti dalla recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. fu modificato una prima volta a mezzo del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che estese il meccanismo del bilanciamento disciplinato nei commi precedenti a tutte le circostanze, comprese quelle inerenti alla persona del colpevole: conferendo così al giudice il potere di applicare, o non applicare, i relativi aumenti o diminuzioni di pena, in presenza di circostanze di segno contrario, ritenute equivalenti o prevalenti.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, la legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) modificò nuovamente la disposizione, introducendo il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante, inclusa la diminuente del vizio parziale di mente, nell’ipotesi – tra l’altro – di recidiva reiterata; precludendo così in modo assoluto al giudice di applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena.</p> <p style="text-align: justify;">Come meglio si dirà più innanzi, chiarisce da subito la Corte, il testo risultante dalla legge n. 251 del 2005 è stato già oggetto di numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, che hanno restaurato il potere discrezionale del giudice di ritenere prevalenti, rispetto alla recidiva reiterata, varie circostanze attenuanti nominativamente individuate. Le odierne questioni di legittimità costituzionale mirano a ripristinare tale potere discrezionale anche con riferimento alla circostanza attenuante del vizio parziale di mente.</p> <p style="text-align: justify;">Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio, non avendo in particolare il rimettente chiarito se gli imputati avessero avuto «<em>piena capacità di recepire il messaggio specialpreventivo</em>» derivante dalle precedenti condanne, e dunque se fosse giustificata nei loro confronti l’applicazione della recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">L’eccezione per la Corte non è fondata.</p> <p style="text-align: justify;">È ben vero che l’applicazione della recidiva, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, in tanto si giustifica in quanto il nuovo delitto, commesso da chi sia già stato condannato per precedenti delitti non colposi, sia in concreto espressivo non solo di una maggiore pericolosità criminale, ma anche di un maggior grado di colpevolezza, legato alla maggiore rimproverabilità della decisione di violare la legge penale nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne (sentenza n. 192 del 2007 e poi, <em>ex plurimis</em>, sentenza n. 185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738, nonché, <em>inter alia</em>, sezione sesta penale, sentenza 28 giugno-5 agosto 2016, n. 34670); maggiore rimproverabilità che non può essere presunta in via generale sulla base del solo fatto delle precedenti condanne, dovendo – ad esempio – essere esclusa allorché il nuovo delitto sia stato commesso dopo un lungo lasso di tempo dal precedente, o allorché abbia caratteristiche affatto diverse.</p> <p style="text-align: justify;">Ed è ben vero, altresì, che la stessa Corte, con la sentenza n. 120 del 2017 e poi con l’ordinanza n. 145 del 2018, ha ritenuto irrilevanti questioni analoghe a quella ora all’esame, non avendo i giudici rimettenti, in quelle occasioni, chiarito le ragioni per le quali avevano ritenuto applicabile la recidiva, sotto il profilo specifico della maggiore colpevolezza rivelata dalla decisione di commettere il delitto, nonostante il contestuale riconoscimento della presenza nel reo di gravi patologie o disturbi della personalità, che necessariamente anch’essi incidevano – ma in direzione opposta rispetto alla ritenuta recidiva – sul grado della sua colpevolezza.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia, in questo caso il giudice <em>a quo</em> motiva ampiamente sulle ragioni per le quali, a relativo avviso, gli imputati non potevano non essere consapevoli dell’ammonimento rappresentato dalle numerose condanne pronunciate nei loro confronti, talune delle quali in epoca molto recente, per reati omogenei a quello per il quale sono ora rinviati a giudizio; ciò che dimostrerebbe la loro peculiare (e specialmente riprovevole) insensibilità nei confronti della legge penale, e assieme giustificherebbe l’applicazione nei loro confronti dell’aggravante di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">L’applicazione della recidiva – sempre ad avviso del rimettente – non contrasterebbe peraltro con il contestuale riconoscimento in loro favore di un vizio parziale di mente tale da scemare grandemente in loro la capacità di intendere e di volere, e tale in particolare da ridurre la loro capacità di orientare la condotta secondo criteri di «<em>appropriatezza e di opportunità</em>», oltre che di «<em>pesatura del rischio</em>». Le due valutazioni si collocherebbero, in effetti, su piani differenti, non risultando comunque mutualmente escludentisi. Dopodiché il giudice potrebbe e dovrebbe comunque “<em>pesare</em>” entrambi questi dati ai fini della valutazione della gravità del reato, e della conseguente determinazione di un trattamento sanzionatorio effettivamente proporzionato e calibrato sulla personalità dei suoi autori.</p> <p style="text-align: justify;">Operazione, quest’ultima, che sarebbe però irragionevolmente preclusa dal divieto di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente, contenuto nella disposizione censurata; con conseguente rilevanza delle questioni di legittimità formulate.</p> <p style="text-align: justify;">Così sinteticamente riassunta, la linea argomentativa del giudice <em>a quo</em> in punto di rilevanza appare alla Corte senz’altro plausibile, al di là della condivisibilità o meno, sul piano teorico, della (notoriamente controversa) ricostruzione dell’imputabilità come mero presupposto del giudizio di colpevolezza, ovvero come elemento costitutivo di tale categoria dogmatica.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò basta al Collegio per ritenere ammissibili le questioni prospettate (<em>ex multis</em>, sentenza n. 250 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">Nel merito, le questioni sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., che devono essere esaminate congiuntamente, sono per il Collegio fondate.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte rammenta di avere già più volte affermato che deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via generale dall’art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, risultando sindacabili soltanto ove «<em>trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (sentenza n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019), non potendo però giungere in alcun caso «<em>a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale</em>» (sentenza n. 251 del 2012).</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tali criteri, la Corte ha già dichiarato in varie occasioni l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti particolarmente significative ai fini della determinazione della gravità concreta del reato. Nella maggior parte dei casi, come correttamente evidenzia il rimettente, si è trattato di circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della relativa dimensione offensiva: così la «<em>lieve entità</em>» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012), i casi di «<em>particolare tenuità</em>» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014), i casi di «<em>minore gravità</em>» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014), il «<em>danno patrimoniale di speciale tenuità</em>» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017).</p> <p style="text-align: justify;">Nella sola sentenza n. 74 del 2016, la dichiarazione di illegittimità ha invece colpito il divieto di prevalenza di una circostanza – l’essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori – che mira invece a premiare l’imputato per la propria condotta <em>post delictum</em>; circostanza che è stata comunque ritenuta «<em>significativa, anche perché comporta il distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale nel quale la sua attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Le questioni ora sottoposte alla propria attenzione, rammenta la Corte, concernono una circostanza attenuante espressiva non già – sul piano oggettivo – di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte <em>post delictum</em>, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore; ridotta rimproverabilità che deriva, qui, dal relativo minore grado di discernimento circa il disvalore della propria condotta e dalla relativa minore capacità di controllo dei propri impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono (e che devono essere tali, per espressa indicazione legislativa, da «<em>scemare grandemente</em>» la relativa capacità di intendere e di volere: art. 89 cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">Ora, il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, da tempo affermato dalla Corte sulla base di una lettura congiunta degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (a partire almeno dalla sentenza n. 343 del 1993; in senso conforme, <em>ex multis</em>, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 236 del 2016), esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">E il <em>quantum</em> di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile.</p> <p style="text-align: justify;">Tra tali fattori si colloca, in posizione eminente, proprio la presenza di patologie o disturbi significativi della personalità (così come definiti da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163), come quelli che la scienza medico-forense stima idonei a diminuire, pur senza escluderla totalmente, la capacità di intendere e di volere dell’autore del reato. In tali ipotesi, l’autore può sì essere punito per aver commesso un reato che avrebbe pur sempre potuto – secondo la valutazione dell’ordinamento – evitare, attraverso un maggiore sforzo della volontà; ma al tempo stesso merita una punizione meno severa rispetto a quella applicabile nei confronti di chi si sia determinato a compiere una condotta identica, in condizioni di normalità psichica.</p> <p style="text-align: justify;">Il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, «<em>in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “</em>individualizzata<em>”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “</em>personalità<em>” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost</em>.» (sentenza n. 222 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">La disciplina censurata in questa sede vieta in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente la circostanza attenuante del vizio parziale di mente in presenza dello specifico indicatore di maggiore colpevolezza (e maggiore pericolosità) del reo rappresentato dalla recidiva reiterata; laddove tale maggiore colpevolezza si fonda, a propria volta, sull’assunto secondo cui normalmente merita un maggiore rimprovero chi non rinuncia alla commissione di nuovi reati, pur essendo già stato destinatario di un ammonimento individualizzato sul proprio dovere di rispettare la legge penale, indirizzatogli con le precedenti condanne.</p> <p style="text-align: justify;">Nonostante il carattere facoltativo dell’aggravante, un tale inderogabile divieto di prevalenza non può essere ritenuto compatibile con l’esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva – con le parole della sentenza n. 251 del 2012 – di precisi «<em>equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale</em>». Tale divieto, infatti, non consente al giudice di stabilire, nei confronti del semi-infermo di mente, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato di pari gravità oggettiva, ma commesso da una persona che abbia agito in condizioni di normalità psichica, e pertanto pienamente capace – al momento del fatto – di rispondere all’ammonimento lanciato dall’ordinamento, rinunciando alla commissione del reato.</p> <p style="text-align: justify;">E ciò anche laddove il giudice – come nel caso del giudizio <em>a quo</em> – ritenga che le patologie o i disturbi riscontrati nel reo abbiano inciso a tal punto sulla relativa personalità, da rendergli assai più difficile la decisione di astenersi dalla commissione di nuovi reati, nonostante l’ammonimento lanciatogli con le precedenti condanne.</p> <p style="text-align: justify;">Il divieto in esame d’altra parte comporta una indebita parificazione sotto il profilo sanzionatorio di fatti di disvalore essenzialmente diverso, in ragione del diverso grado di rimproverabilità soggettiva che li connota: con un risultato che la giurisprudenza della Corte ha da tempi ormai risalenti considerato di per sé contrario all’art. 3 Cost. (sentenza n. 26 del 1979), prima ancora che alla finalità rieducativa e all’esigenza di “<em>personalizzazione</em>” della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Non osta a tale conclusione, per il Collegio, la natura di circostanza a effetto comune dell’attenuante di cui all’art. 89 cod. pen., che determina – ai sensi dell’art. 65 cod. pen. – la diminuzione fino a un terzo della pena che dovrebbe essere altrimenti inflitta. A prescindere dalla considerazione che l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base – ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno –, va infatti ribadito che la circostanza attenuante in parola mira ad adeguare il <em>quantum</em> del trattamento sanzionatorio alla significativa riduzione della rimproverabilità soggettiva dell’agente, ed è pertanto riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “<em>costituzionalmente orientato</em>”, così come ricostruito dalla giurisprudenza della stessa Corte: giurisprudenza che – dalla sentenza n. 364 del 1988 in poi – individua nella rimproverabilità soggettiva un presupposto essenziale dell’<em>an</em> dell’imputazione del fatto al relativo autore, e conseguentemente dell’applicazione della pena nei suoi confronti.</p> <p style="text-align: justify;">La conclusione appena raggiunta non comporta il sacrificio delle esigenze di tutela della collettività contro l’accentuata pericolosità sociale espressa dal recidivo reiterato.</p> <p style="text-align: justify;">Se infatti è indubbio che il <em>quantum</em> della pena debba adeguatamente riflettere il grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente, cionondimeno il diritto vigente consente, nei confronti di chi sia stato condannato a una pena diminuita in ragione della relativa infermità psichica, l’applicazione di una misura di sicurezza, da individuarsi secondo i criteri oggi indicati dall’art. 3-ter, comma 4, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9.</p> <p style="text-align: justify;">La misura di sicurezza, non avendo alcun connotato “<em>punitivo</em>”, non è subordinata alla rimproverabilità soggettiva del pertinente destinatario, bensì alla relativa persistente pericolosità sociale, che deve peraltro, ai sensi dell’art. 679 del codice di procedura penale, essere oggetto di vaglio caso per caso da parte del magistrato di sorveglianza una volta che la pena sia stata scontata (sentenze n. 1102 del 1988 e n. 249 del 1983). D’altra parte, la misura di sicurezza dovrebbe auspicabilmente essere conformata in modo da assicurare, assieme, un efficace contenimento della pericolosità sociale del condannato e adeguati trattamenti delle patologie o disturbi di cui è affetto (secondo il medesimo principio espresso dalla sentenza n. 253 del 2003, in relazione al soggetto totalmente infermo di mente), nonché fattivo sostegno rispetto alla finalità del relativo «<em>riadattamento alla vita sociale</em>» – obiettivo quest’ultimo che, come recentemente rammentato dalla sentenza n. 24 del 2020, il legislatore espressamente ascrive alla libertà vigilata (art. 228, quarto comma, cod. pen.), ma che riflette un principio certamente estensibile, nell’attuale quadro costituzionale, alla generalità delle misure di sicurezza.</p> <p style="text-align: justify;">Una razionale sinergia tra pene e misure di sicurezza – purtroppo solo in minima parte realizzata nella prassi, chiosa emblematicamente la Corte – potrebbe così consentire un’adeguata prevenzione del rischio di commissione di nuovi reati da parte del condannato affetto da vizio parziale di mente, senza indebite forzature della fisionomia costituzionale della pena, intesa come reazione proporzionata dell’ordinamento a un fatto di reato (oggettivamente) offensivo e (soggettivamente) rimproverabile al suo autore.</p> <p style="text-align: justify;">Resta dunque assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 32 Cost.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.37063, alla cui stregua va assunta preclusa l’applicazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata (art. 99, comma 4, c.p.) nel caso in cui in un precedente processo non sia mai stata applicata la recidiva (semplice, aggravata o pluriaggravata).</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio si occupa del problema se, ai fini dell’applicazione della recidiva reiterata, occorra accertare che la recidiva sia stata in precedenza ritenuta ovvero sia sufficiente riscontrare nel certificato penale la presenza di due precedenti condanne per delitto. In particolare, la Corte affronta la questione se l’omessa pregressa applicazione (od anche contestazione) della circostanza consenta, o meno, di ritenere, comunque, l’imputato quale un ‘<em>recidivo’</em> che abbia commesso un altro delitto non colposo, come richiesto dall’art. 99, comma 4, c.p..</p> <p style="text-align: justify;">Per il Collegio, configurandosi la recidiva, anche reiterata, quale circostanza aggravante, inerente alla persona del colpevole (art. 70, comma 2, c.p.), alla stregua di quanto insegnato dal diritto vivente (SS.UU., 5 ottobre 2010, n. 35738, Calibè; SS.UU., 24 maggio 2011, n. 20798, Indelicato; SS.UU., 21 luglio 2016, n. 31669, Filosofi; SS.UU., 15maggio 2019, n. 20808, Schettino), l’applicazione della stessa è subordinata all’assolvimento da parte del giudice di merito di un onere motivazionale non solo in ordine all’esercizio del proprio potere discrezionale sull’applicazione o meno della recidiva medesima nel caso concreto, ma anche circa il corretto adempimento degli oneri di accertamento in ordine al riconoscimento dell’aggravante nei precedenti processi.</p> <p style="text-align: justify;">Il giudice infatti, chiosa la Corte, già in sede di verifica sulla correttezza della contestazione della recidiva, deve valutare se la precedente condanna a delitto non colposo sia effettivamente rilevante, ai fini della recidiva medesima, ovvero, per contro, debba trovare applicazione il disposto dell’art. 106, comma 2, c.p., che preclude di considerare, a tali fini, le condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena che estingua anche gli effetti penali, come in caso di riabilitazione o di esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali o di declaratoria di estinzione del reato conseguente al decorso dei termini e al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 445 c.p.p.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò analogamente a quanto accade nell’ipotesi, prevista dall’art. 81, comma 4, c.p., di reati in concorso formale o in continuazione commessi da un soggetto recidivo reiterato, in cui il giudice, che deve operare l’aumento (minimo) non inferiore ad un terzo della pena prevista per il reato più grave, è tenuto a verificare, fermo restando il limite dell’art. 81, comma 3, c.p., se in un precedente processo sia stata ritenuta ed applicata la recidiva ex art. 99, comma 4, c.p..</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio, sullo specifico versante della recidiva reiterata, ribadisce l’insieme di principi affermati dal diritto vivente - con le sentenze SS.UU., n. 35738/2010, Calibè; SS.UU., n. 20798/2011, Indelicato; SS.UU., n. 31669/2016, Filosofi; SS.UU., n. 20808/2019, Schettino - dai quali è possibile desumere che il ridetto istituto, siccome ridisegnato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, si configura come circostanza aggravante fondata, non già sui due soli requisiti dell’avvenuta pronuncia di una precedente sentenza condanna per un delitto non colposo e della successiva condanna per altro delitto non colposo, bensì anche su di un <em>quis pluris</em> di maggiore colpevolezza e/o pericolosità, che spetta al giudice verificare nel caso concreto, attraverso quel vaglio discrezionale che gli viene espressamente riconosciuto dall’art. 99, comma 1, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Proprio muovendo da tali premesse interpretative, si è andato formando – chiosa il Collegio - un orientamento, ancora del tutto minoritario nella giurisprudenza di legittimità, incline a riconoscere una valenza “<em>costitutiva</em>” dell’accertamento giudiziale della recidiva, posto che, solo a seguito di esito positivo della verifica discrezionale operata dal giudice, è possibile qualificare come “<em>recidivo</em>” il soggetto concretamente giudicato; si è chiarito, richiamando la sentenza SS.UU. Calibè, come la formula lessicale utilizzata nel disposto di cui l’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., secondo cui sono esclusi dal patteggiamento “<em>allargato</em>”“<em>coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, del codice penale</em>”, non possa essere interpretata nel senso che indichi la necessità di una pregressa ‘<em>dichiarazione’</em> giudiziale della recidiva, atteso che “<em>la circostanza aggravante, invero, può solo essere ‘ritenuta’ ed ‘applicata’per i reati in relazione ai quali è contestata, ed in questo modo deve essere intesa detta espressione</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">E’ stato dunque affermato che, ai fini della configurabilità della recidiva reiterata, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che le precedenti condanne siano divenute irrevocabili, in quanto l’autore del nuovo crimine deve essere in condizione di conoscere tutte le conseguenze penali che ne derivano e, quindi, anche quelle derivanti dal proprio “<em>status</em>” di recidivo reiterato (Sez. III, 21 dicembre 2018, n.57983;Sez. VI, 11 aprile2014, n. 16149; Sez. II, 10 ottobre 2013, n. 41806).</p> <p style="text-align: justify;">Di contrario avviso è, invece, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità espressosi nel senso onde il giudice della cognizione, a differenza di quello della esecuzione, può accertare i presupposti della recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma 4, c.p. anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice (Sez. II, 16 maggio 2019, n. 21451; Sez. V, 13 novembre 2014, n. 47072; Sez. II, 18 maggio 2010, n. 18701; Sez. V, 5 novembre 2008, n. 41288).</p> <p style="text-align: justify;">Ciò a partire dall’indicazione secondo la quale: “<em>La circostanza che il terzo comma dell’art. 99 c.p. </em>[rectius comma 4, N.d.R.]<em> nel prevedere l’aumento di pena per effetto della recidiva reiterata, faccia riferimento al recidivo che commette un altro reato, non suffraga la tesi secondo cui in tanto la recidiva reiterata può essere contestata in quanto in precedenza sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice. Infatti, dalla lettura della norma emerge evidente che il termine </em>‘recidivo’<em> è stato usato dal legislatore per comodità di esposizione, per non ripetere la definizione contenuta nel primo comma dello stesso articolo e non già per indicare una qualità del soggetto giudizialmente affermata</em>” (Sez. III, 25 giugno 1993, n. 6424; conf. Sez. I, 30 maggio 2003, n. 24023).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2021</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 29 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.3585 che si occupa della recidiva aggravata qualificata in rapporto alle circostanze aggravanti ad effetto speciale, in relazione ad una fattispecie in cui il soggetto attivo è accusato di appropriazione indebita aggravata.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale, siccome contenuto nell'art. 649-bis, cod. pen., ai fini della procedibilità d'ufficio, per i delitti menzionati nello stesso articolo, comprende anche la recidiva qualificata - aggravata, pluriaggravata e reiterata - di cui all'art. 99, secondo, terzo e quarto comma cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite è, principia il Collegio, in effetti così riassumibile: se il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale, contenuto nell'art. 649-bis cod. pen. ai fini della procedibilità d'ufficio per taluni reati contro il patrimonio, vada inteso come riguardante anche la recidiva qualificata di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell'art. 99 dello stesso codice.</p> <p style="text-align: justify;">Il d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 – chiosa la Corte - ha in proposito tradotto in regole operative le direttive fissate dalla legge delega n. 103 del 2017, ponendo mano al comparto dei reati a tutela della persona e del patrimonio previsti dal codice penale, per introdurre il nuovo regime di procedibilità a querela in luogo di quello officioso previgente.</p> <p style="text-align: justify;">Accanto alla sfera dei reati contro la persona attinta dalla riforma (artt. 2-6 d.lgs. cit.), la tecnica di selezione delle fattispecie perseguibili a querela nell'ambito dei reati contro il patrimonio ha riguardato i delitti di truffa (art. 640 cod. pen.), di frode informatica (art. 640-ter cod. pen.) e, per quello che più interessa, la fattispecie di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.), rispetto alla quale resta ferma la procedibilità a querela anche in quelle situazioni che, in passato, determinavano la procedibilità d'ufficio, quali la realizzazione del delitto su cose possedute a titolo di deposito necessario (art. 646, secondo comma, cod. pen.) ovvero con abuso di autorità o di relazioni domestiche o, ancora, con abuso di relazioni di ufficio, di prestazioni d'opera, di coabitazione o di ospitalità (art. 61, primo comma, n. 11, cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">L'area della procedibilità a querela subisce, però, una rilevante limitazione in presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale.</p> <p style="text-align: justify;">I nuovi artt. 623-ter e 649-bis cod. pen., introdotti, rispettivamente, dagli artt. 7 e 11 del decreto legislativo sopra indicato, dispongono la procedibilità <em>ex officio</em> in presenza appunto di circostanze aggravanti ad effetto speciale. Nella Relazione illustrativa del decreto legislativo n. 36 del 2018 si legge che l'ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela è teso a migliorare l'efficienza del sistema penale e «<em>costituisce un punto di equilibrio e di mediazione fra due opposte esigenze: da un lato, quella di evitare che si determinino meccanismi repressivi automatici in ordine a fatti che non rivestono particolare gravità, tali da ostacolare il buon governo dell'azione penale in riferimento a quelli seriamente offensivi; dall'altro quello di fare emergere e valorizzare l'interesse privato alla punizione del colpevole in un ambito di penalità connotato dall'offesa a beni strettamente individuali. </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In tale ultimo caso, il ricorso alla procedibilità a querela dipende principalmente dalla necessità di condizionare la repressone penale di un fatto, astrattamente offensivo, alla valutazione in concreto della sua gravità da parte della persona offesa. In questi casi, la procedibilità a querela funziona come indicatore della concreta intollerabilità di singoli episodi conformi alla fattispecie incriminatrice</em>».</p> <p style="text-align: justify;">La Relazione aggiunge che, ampliando l'area della procedibilità a querela, si può ottenere anche l'effetto aggiuntivo, «<em>parimenti importante in una logica di riduzione dei carichi processuali, di favorire meccanismi conciliativi, che spesso si concludono proprio nelle fasi preliminari del giudizio, quando si avverte più impellente l'esigenza di evitare l'aggravio e il pericolo del processo, prima ancora che della condanna</em>».</p> <p style="text-align: justify;">In relazione a reati che già prevedono la procedibilità a querela nelle ipotesi base, il legislatore – proseguono le SSUU - ha provveduto a ridurre il novero delle circostanze aggravanti alla cui ricorrenza è collegato l'effetto della procedibilità d'ufficio (ad esempio art.612 cod. pen.). Il medesimo obiettivo di riduzione dei presupposti della procedibilità d'ufficio è stato perseguito per i reati contro il patrimonio: truffa (art. 640 cod. pen.) e frode informatica (art. 640-ter cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">Quanto al contenuto specifico dei singoli articoli, di particolare importanza, ai fini che qui interessano, è l'art. 10, che estende il regime della procedibilità a querela anche alle ipotesi aggravate del reato di appropriazione indebita, relative al fatto commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione o di ospitalità.</p> <p style="text-align: justify;">In tali ipotesi – prosegue la Corte - assumono rilevanza interessi e relazioni di carattere strettamente personale per le quali la perseguibilità della relativa offesa non può che essere rimessa a una iniziativa del soggetto privato.</p> <p style="text-align: justify;">L'articolo 11 prevede la conservazione della procedibilità d'ufficio nei casi in cui ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale «<em>tra cui, la finalità di terrorismo e di eversione di cui all'articolo 1 decreto-legge n. 625 del 1979, di mafia di cui all'articolo 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 o di discriminazione razziale, etnica e religiosa di cui all'articolo 3 del decreto-legge n. 122 del 1993</em>» (cfr. in tal senso la Relazione illustrativa)</p> <p style="text-align: justify;">L'ordinanza di rimessione – riprende a questo punto il Collegio - nel relativo sviluppo argomentativo mostra di condividere l'assunto da cui muove il ricorso. L'appropriazione qualificata da aggravante ad effetto speciale è perseguibile d'ufficio. La recidiva qualificata, prevista nelle ipotesi di cui ai comma secondo, terzo e quarto dell'art. 99 cod. pen. è una circostanza aggravante ad effetto speciale, in quanto comporta un aumento della pena superiore ad un terzo (art. 63, terzo comma, cod. pen.), come peraltro espressamente affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 20798 del 24.2.2011, Indelicato.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio rimettente rileva, però, che nella giurisprudenza di legittimità formatasi dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 36 del 2018 la questione proposta non risulta essere stata risolta con una motivazione che si sia fatta carico di affrontare tutti i nodi problematici della questione e che dal panorama delle pronunce di legittimità possono evincersi due differenti linee interpretative, che scaturiscono da diverse concezioni in ordine alla natura giuridica della recidiva ed ai peculiari meccanismi accertativi e valutativi ad essa sottesi.</p> <p style="text-align: justify;">Un primo filone giurisprudenziale trova espressione in una pronuncia delle Sezioni unite (Sez. U, n. 3152 del 31/01/1997, Paolini, cit.) che ha affermato il principio secondo il quale la recidiva non è compresa nelle circostanze aggravanti che rendono il reato di truffa perseguibile d'ufficio, perché, inerendo esclusivamente alla persona del colpevole, non incide sul fatto-reato.</p> <p style="text-align: justify;">L'ordito motivazionale che sorregge l'enunciazione di tale principio di diritto muove dalla modifica dell'art. 640 cod. pen., introdotta dall'art. 98 della legge 24 novembre 1981 n. 689, che aveva aggiunto il seguente comma: «<em>Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un'altra circostanza aggravante</em>». Sin dalle prime applicazioni del suddetto comma, la giurisprudenza di legittimità aveva assunto due opposti orientamenti in ordine alla inclusione della recidiva fra le circostanze aggravanti indicate nella nuova disposizione.</p> <p style="text-align: justify;">Il problema, come indicato nella citata sentenza Paolini, era quello di qualificare o meno la recidiva, al fine della perseguibilità di ufficio del reato di truffa, quale "<em>circostanza aggravante</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Sul punto Sez. U. Paolini rilevano che il codice penale si occupa della recidiva non nella parte che riguarda il reato, ma in quella che si riferisce al reo e, precisamente, nel Capo secondo del Titolo quarto del Libro primo, dedicato anche alla abitualità e alla professionalità nel reato, ossia a quelle condizioni personali alle quali più si avvicina la condizione del recidivo. Il che, ad avviso delle Sez. U, è coerente con il rilievo che, «<em>la recidiva qualifica il soggetto, ma resta del tutto estranea alla fattispecie legale, comunque circostanziata, del reato. </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Essa, infatti, a differenza di altre condizioni personali che incidono sulla tipicità del reato (ad esempio: la qualifica di pubblico ufficiale per i reati di concussione, abuso innominato di ufficio, ecc.), incide esclusivamente sulla quantità della pena da infliggere in concreto, alla stessa stregua delle condizioni economiche previste dall'art. 133-bis cod. pen</em>.».</p> <p style="text-align: justify;">Della diversità della recidiva rispetto alle altre circostanze, comuni e speciali, si annota nella predetta sentenza, è stato ben consapevole il legislatore del 1930, che ha escluso la recidiva dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. in base alla considerazione (cfr. Relazione al progetto definitivo del codice penale) che le circostanze inerenti alla persona del colpevole, ossia l'imputabilità e la recidiva, «<em>escono, per così dire, fuori dal quadro della equivalenza o della prevalenza, essendo del tutto eterogenee rispetto alle altre circostanze comuni e speciali</em>» e che «<em>le regole sulla prevalenza e sulla equivalenza sono applicabili soltanto in quanto si rimanga nel campo delle vere e proprie circostanze che modificano esclusivamente la quantità del reato, rappresentandone una accidentalità, una modalità, una causalità</em>».</p> <p style="text-align: justify;">E coerentemente, anche in tema di concorso di persone nel reato, il legislatore ha riservato alle circostanze inerenti alla persona del colpevole una valutazione diversa rispetto alle altre circostanze soggettive (art. 118 cod. pen. nel testo <em>ratione temporis</em> vigente).</p> <p style="text-align: justify;">Secondo le Sez. U Paolini, la riforma del 1974 non ha smentito il fondamento della originaria distinzione operata dal legislatore, avendo semplicemente eliminato l'evidente antinomia tra il fine del giudizio di bilanciamento, rivolto all'individualizzazione del trattamento punitivo tenendo anche conto «<em>della particolare personalità del reo considerata sotto ogni aspetto sintomatico</em>», e la rigida limitazione di tale giudizio ad una valutazione complessiva del disvalore materiale del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tali considerazioni la sentenza giunge alla conclusione che la recidiva «<em>è una "</em>circostanza aggravante<em>" sui generis, che ha rilevanza solo quando sia presa in considerazione la misura della pena, mentre non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato, al quale resta estranea</em>».</p> <p style="text-align: justify;">La sentenza percorre anche un ulteriore e convergente itinerario argomentativo, individuando la <em>ratio</em> della perseguibilità a querela del reato di truffa nei suoi sottostanti aspetti civilistici, che divengono recessivi rispetto agli interessi pubblicistici nel caso in cui ricorra una circostanza aggravante.</p> <p style="text-align: justify;">Osserva che le ragioni della procedibilità a querela del reato di truffa, introdotta dall'art. 98 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sono state puntualmente evidenziate dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 294 del 1987, nella quale si è sottolineato che la legge n. 689 del 1981 non soltanto ha tenuto conto della non rilevante gravità degli illeciti per i quali si è introdotto il regime della perseguibilità a querela, ma ha dato rilievo decisivo alla finalità di conseguire, anche per questa via, una significativa deflazione dei carichi giudiziali, ritenuta necessaria per l'effettiva funzionalità della giustizia penale.</p> <p style="text-align: justify;">A tale esigenza si affianca, come si legge nella Relazione di accompagnamento alla legge, quella «<em>di evitare che l'azione penale venga iniziata o proseguita, senza o addirittura contro la volontà di coloro che per essere i titolari degli interessi meritevoli di maggiore protezione sono abilitati a chiedere l'intervento del giudice penale</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Proprio in tale prospettiva, Sez. U Paolini evidenzia che il legislatore ha, comunque, voluto escludere dalla punibilità a querela anzitutto il reato di truffa aggravato ai sensi del capoverso dell'art. 640 e, cioè, il caso in cui il fatto assuma la tipicità descritta dalla norma stessa, equiparandovi poi, in seconda battuta, anche le altre circostanze aggravanti.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>La rimarcata equiparazione</em>», afferma la sentenza Paolini, «<em>deve fare ritenere che il legislatore abbia voluto includere solo le circostanze che, come quelle previste dal capoverso dell'art. 640, incidono sulla quantità del fatto</em>», ritenendo, per contro, «<em>indifferente la misura della pena</em>» derivante dall'applicazione delle circostanze stesse.</p> <p style="text-align: justify;">A queste considerazioni logico-giuridiche, ritenute decisive, Sez. U Paolini ne aggiunge altre, tutte conducenti alla medesima conclusione. Non si riscontrano precedenti ipotesi di perseguibilità d'ufficio per effetto della sola aggravante della recidiva. Sarebbe contraddittorio ritenere che il legislatore abbia voluto attribuire tale effetto alla recidiva nel momento stesso in cui ha ampliato il campo della procedibilità dell'azione penale a querela della persona offesa proprio in relazione al reato di truffa «<em>che, nella forma semplice, il legislatore ha voluto escludere dalla punibilità d'ufficio in considerazione dei suoi aspetti civilistici, i quali non vengono certo alterati dalle condizioni personali del reo</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Il principio della estensione della querela a tutti i concorrenti, affermato dall'art. 123 cod. pen., «<em>postula che il reato debba essere individuato sulla base della sua astratta struttura oggettiva, sia in relazione agli elementi costitutivi sia in relazione a quelli accidentali, con nessuno dei quali può identificarsi la condizione personale di recidivo di un singolo compartecipe</em>». Infine, sarebbe assurdo sottrarre la perseguibilità penale al potere dispositivo della persona offesa in base ad una mera presunzione di maggiore capacità a delinquere del recidivo, la quale può essere esclusa, in concreto, dal giudice del dibattimento.</p> <p style="text-align: justify;">Il principio affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata – prosegue il Collegio - è stato espressamente richiamato e condiviso da altre e più recenti pronunce di seguito indicate, che, ad eccezione della prima di esse, sono successive alle rilevanti modifiche in tema di recidiva apportate dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 e a due decisioni delle Sezioni unite (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè; Sez. U, n. 20798 del 24/2/2011, Indelicato).</p> <p style="text-align: justify;">La Seconda Sezione penale, con la sentenza n. 1876 del 19/11/1999, dep. 2000, Aliberto, nel ribadire l'orientamento espresso da Sez. U Paolini, ha affermato che la recidiva è un'aggravante che inerisce esclusivamente alla persona autrice del fatto e non può comunicarsi agli altri compartecipi, poiché non incide sul fatto- reato, sulla sua natura e sulla sua gravità oggettiva. Pertanto, non assume rilievo ai fini del regime di procedibilità.</p> <p style="text-align: justify;">Una seconda e più recente pronuncia (Sez. 2, n. 26029 del 10/06/2014, Folgori), nel fare proprio il principio di diritto espresso dalle Sez. U Paolini, osserva che la ratio del particolare regime di procedibilità prescelto dal legislatore per il delitto di truffa deve essere ricercata anche nella rilevanza degli aspetti civilistici sottesi a tale reato, i quali, però, in presenza di circostanze aggravanti, non possono prevalere sugli interessi pubblicistici. In tale contesto ha aggiunto che la truffa è un reato che ha valenza meramente intersoggettiva, lesivo di un interesse prevalentemente privato.</p> <p style="text-align: justify;">Da qui la logica della avulsione di una aggravante <em>sui generis</em>, come la recidiva, dal novero di quelle per le quali si giustificherebbe il regime di procedibilità <em>ex officio</em>. La decisione argomenta che tale approdo interpretativo è da «<em>condividere e ribadire anche alla luce delle più recenti disposizioni dettate dalla legge n. 251 del 2005 le quali hanno acuito i connotati "</em>personalistici della recidiva<em>", rendendone ancor più peculiare il relativo regime</em>».</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva - si legge nella citata sentenza - è una «<em>circostanza senz'altro "</em>speciale<em>" rispetto a quelle che "</em>ordinariamente<em>" sono chiamate a qualificare in termini di maggior disvalore il fatto-reato</em>». D'altra parte, si aggiunge, «<em>il carattere ordinariamente "facoltativo" della recidiva che continua a contraddistinguere la recidiva</em> (...) <em>e che impone al giudice di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore e di escludere l'aumento di pena, con adeguata motivazione sul punto, ove non ritenga che dal nuovo delitto possa desumersi una maggiore capacità delinquenziale, induce a concludere nel senso che una siffatta "</em>circostanza<em>" mal si presti a "</em>giustificare<em>" (sul piano non soltanto logico ma anche sistematico) la trasformazione della procedibilità in quella officiosa</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Questa interpretazione – prosegue il Collegio - è stata seguita da altre pronunce (Sez. 2, n. 29529 del 01/07/2015, Di Stefano; Sez. 2, n. 2990 del 01/10/2015, dep. 2016, Saltari; Sez. 2, n. 18311 del 28/01/2016, Dicembre; Sez. 2, n. 38396 del 29/04/2016, Meocci; Sez. 7, n. 42880 del 26/09/2016, Battaglia; Sez. 2, n. 1907 del 20/12/2016, dep. 2017, Camozzi; Sez. 2, n. 47068 del 21/09/2017, Mininni).</p> <p style="text-align: justify;">Principi analoghi sono stati espressi da due pronunce relative al regime di procedibilità del delitto di cui all'art. 612 cod. pen. (Sez. 5, n. 30453 del 01/04/2019, Cabello, n.m. e Sez. 6, n. 35880 dell'11/07/2019, Della Rocca, n.m.) commesso da soggetti ai quali era stata contestata ed applicata la recidiva qualificata.</p> <p style="text-align: justify;">Tali decisioni, preso atto della nuova procedibilità a querela anche per il reato di minaccia grave, hanno ritenuto che la contestazione della recidiva qualificata non precluda l'applicabilità della nuova disciplina in tema di procedibilità del suddetto reato.</p> <p style="text-align: justify;">Pur nell'assenza di decisioni che abbiano specificamente sviluppato argomentazioni a sostegno della contrapposta tesi favorevole alla incidenza della recidiva qualificata sulla procedibilità d'ufficio dei reati interessati dalla riforma introdotta dal d.lgs. n. 36 del 2018, precisa la Corte, la genesi di un diverso orientamento può (comunque) trarsi da due decisioni che, in presenza della contestazione della recidiva qualificata, ritenuta sussistente dal giudice, hanno ritenuto che tale circostanze aggravante ad effetto speciale determina la procedibilità d'ufficio del reato di appropriazione indebita (Sez. 7, ord. n. 11440 del 24/09/2019, dep. 2020, Grillo, n.m.) e di truffa (Sez. 2, n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave).</p> <p style="text-align: justify;">L'orientamento contrario all'incidenza della recidiva sulla procedibilità d'ufficio si fonda sulla natura giuridica della recidiva intesa come aggravante "<em>speciale</em>" che non incide sulla gravità del fatto-reato a differenza di quelle che, "<em>ordinariamente</em>", sono chiamate a qualificarlo in termini di maggior disvalore.</p> <p style="text-align: justify;">Deve, però. rilevarsi che una ricostruzione sensibilmente differente della natura giuridica della recidiva è stata oggetto di particolare valutazione da parte di altre e più recenti decisioni delle Sezioni Unite della Corte dalle quali possono trarsi indicazioni utili anche sullo specifico versante della pertinente rilevanza sulla procedibilità del reato.</p> <p style="text-align: justify;">In linea con l'interpretazione elaborata dalla giurisprudenza costituzionale, la natura di circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole ed il carattere discrezionale della recidiva, anche qualificata, sono stati ribaditi con chiarezza dalla giurisprudenza di legittimità, tanto che può ritenersi ormai consolidato l'orientamento secondo il quale non può ritenersi conforme ai principi fondamentali in tema di ragionevolezza, proporzione e funzione rieducativa della pena enunciati dalla Costituzione una concezione della recidiva quale <em>status</em> soggettivo desumibile dal certificato penale che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.</p> <p style="text-align: justify;">Nel 2010 le Sezioni Unite hanno precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell'art. 99 cod. pen., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del relativo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all'eventuale occasionalità della ricaduta e ad ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali.</p> <p style="text-align: justify;">E hanno ritenuto che solo qualora la recidiva venga apprezzata come indice di maggiore colpevolezza e pericolosità essa produce tutti i suoi effetti. In tali ipotesi, infatti, essa, oltre che "<em>accertata</em>" nei presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), è anche "<em>ritenuta</em>" dal giudice ed "<em>applicata</em>" (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè).</p> <p style="text-align: justify;">Una successiva decisione delle Sezioni unite (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato) – rammenta ancora il Collegio - ha ricondotto la recidiva qualificata alla categoria delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, atteso che le ipotesi previste ai commi secondo, terzo e quarto dell'art. 99 cod. pen. comportano un aumento della pena superiore ad un terzo.</p> <p style="text-align: justify;">Ha, inoltre, confutato la concezione dell'istituto come <em>status</em> formale del soggetto, in base al rilievo che la recidiva produce effetti unicamente ove il giudice non solo verifichi l'esistenza del presupposto formale desumibile dai precedenti penali, ma proceda anche al riscontro sostanziale della "<em>più accentuata colpevolezza" </em>e della<em> "maggiore pericolosità</em>".</p> <p style="text-align: justify;">La citata sentenza muove dalla premessa che le circostanze costituiscono lo strumento giuridico attraverso il quale il legislatore provvede ad adeguare la risposta sanzionatoria alla variabile gravità di fatti criminosi già tipici, correlata alla sussistenza di ulteriori elementi, predeterminati in via generale ed astratta attraverso la previsione legale delle singole e molteplici situazioni circostanziali.</p> <p style="text-align: justify;">Richiama, quindi, la partizione fra circostanze soggettive ed oggettive e quella fra circostanze definite, caratterizzate dalla descrizione legislativa della situazione circostanziante, e circostanze indefinite che, in assenza di tale compiuta indicazione, affidano al giudice la concreta valutazione degli elementi rilevanti ai fini della variazione della pena (cfr., ad esempio, l'art. 62-bis cod. pen.), nonché l'ulteriore distinzione fra circostanze discrezionali ed obbligatorie, le quali ultime, a fronte della realizzazione della fattispecie circostanziata, comportano inevitabilmente la variazione di pena.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, sotto il profilo degli effetti applicativi, menziona la classificazione, delineata dall'art. 63 cod. pen., tra circostanze che comportano una variazione della pena stabilita per il reato di tipo frazionario, in misura non superiore a un terzo, e circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di "<em>specie diversa</em>" (v. art. 17 cod. pen.) da quella ordinaria del reato o "<em>ad effetto speciale</em>", intendendosi con tale ultima definizione quelle che comportano un aumento o una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo.</p> <p style="text-align: justify;">La sentenza non disconosce che l'istituto della recidiva è connotato da una marcata ambivalenza, desumibile dalla stessa sistematica del codice penale, ma, nel ripercorrere la complessa ed articolata elaborazione giurisprudenziale maturata dopo l'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, afferma che non è conforme ai principi generali di un moderno diritto penale, espressivo dei valori costituzionali, una concezione della recidiva quale <em>status</em> soggettivo correlato al solo e semplice dato formale della ricaduta nel reato dopo una previa condanna passata in giudicato, che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.</p> <p style="text-align: justify;">Evidenzia che la recidiva, al pari di altri elementi la cui natura circostanziale non è posta in discussione, «<em>esplica un'efficacia extraedittale</em>», permettendo di fissare la sanzione finale oltre i limiti propri della comminatoria edittale, e, al contempo, «<em>assolve alla funzione di commisurazione della pena</em>», adeguando la sanzione al fatto, considerato sia nel relativo, obiettivo disvalore, sia nella relazione qualificata con il pertinente autore.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base di tali rilievi giunge alla conclusione che la recidiva è una circostanza pertinente al reato «<em>che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all'epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Supera, pertanto, definitivamente l'orientamento interpretativo espresso dalle Sezioni Unite Paolini che, pronunziandosi in tema di procedibilità d'ufficio del delitto di truffa, avevano qualificato la recidiva come circostanza aggravante <em>sui generis</em>, osservando che la stessa connota il soggetto, ma resta del tutto estranea alla fattispecie, comunque circostanziata, del reato, e «<em>non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato</em>», assumendo rilevanza «<em>solo quando sia presa in considerazione la misura della pena</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Secondo Sez. U Indelicato l'orientamento fatto proprio dalla precedente decisione del 1987, «<em>dilatando il richiamo alla personalità dell'agente oltre i limiti di immediata e diretta rilevanza per la valutazione dello specifico episodio, mal si concilia con un diritto penale del fatto, rispettoso del principio di colpevolezza fondato sulla valutazione della condotta posta in essere dal soggetto nella sua correlazione con l'autore di essa. Il giudizio sulla recidiva non riguarda l'astratta pericolosità del soggetto o un suo status personale svincolato dal fatto reato. Il riconoscimento e l'applicazione della recidiva quale circostanza aggravante postulano, piuttosto, la valutazione della gravità dell'illecito commisurata alla maggiore attitudine a delinquere manifestata dal soggetto agente, idonea ad incidere sulla risposta punitiva - sia in termini retributivi che in termini di prevenzione speciale - quale aspetto della colpevolezza e della capacità di realizzazione di nuovi reati, soltanto nell'ambito di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente</em>» espressivo di una maggiore colpevolezza e di una maggiore pericolosità dell'autore del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Chiarita la natura della recidiva quale circostanza aggravante, Sez. U Indelicato osservano che l'art. 69 cod. pen., nel regolare il concorso fra circostanze aggravanti ed attenuanti ai fini del trattamento sanzionatorio, annoverano chiaramente la recidiva tra le circostanze ai fini del giudizio di bilanciamento.</p> <p style="text-align: justify;">Tale approdo esegetico è stato condiviso da una successiva decisione delle Sezioni Unite la quale ha ribadito che la recidiva costituisce «<em>una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quegli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore</em>» (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino).</p> <p style="text-align: justify;">Anche la Corte costituzionale – prosegue il Collegio - più volte intervenuta, a seguito della novella del 2005, in relazione al nuovo regime della recidiva, nel ricostruire i principi sottesi all'istituto, ne ha individuato il fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo.</p> <p style="text-align: justify;">«<em>Conformemente ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l'aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo - in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 cod. pen. - sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo</em>» (sentenza n. 192 del 2007).</p> <p style="text-align: justify;">Tale orientamento ha trovato seguito in successive pronunce (ordinanze n. 409 del 2007, nonché n. 33, 90, 193 e 257 del 2008, e n. 171 del 2009) con le quali si è definitivamente esclusa la conformità ai principi costituzionali di una lettura dell'art. 99 cod. pen. basata su qualsiasi forma di automatismo tale da elidere la discrezionalità del giudice.</p> <p style="text-align: justify;">L'adesione alla concezione della recidiva quale circostanza aggravante comporta il riconoscimento che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerta i requisiti costitutivi e la dichiara, verificando non solo l'esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo da accertarsi discrezionalmente, con obbligo specifico di motivazione sia nel caso che venga riconosciuta sia nell'ipotesi che venga esclusa (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Marcianò, Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi).</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il relaativo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art.69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè).</p> <p style="text-align: justify;">Una norma può dirsi applicata «<em>se concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso</em>» Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, cit.).</p> <p style="text-align: justify;">In tale prospettiva, all'atto del giudizio di comparazione, l'applicazione della recidiva si è già verificata, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario (Sez. U. n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, cit.). La recidiva ha esplicato i relativi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali la recidiva avrebbe comportato l'aumento di pena (Sez. U., n. 17 del 18/06/1991, Grassi, cit.).</p> <p style="text-align: justify;">I principi enunciati da Sez. U Grassi, Calibé, Filosofi sono stati ulteriormente sviluppati da Sez. U n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, in relazione all'ipotesi di subvalenza della recidiva rispetto ad una o più circostanze attenuanti all'esito del giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">La citata decisione ribadisce che la recidiva costituisce una circostanza aggravante del reato che non differisce nei pertinenti meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quegli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore, tanto sul piano normativo che su quello logico.</p> <p style="text-align: justify;">Il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all'origine delle regole poste dall'art. 69 cod. pen. Quest'ultima disposizione indica chiaramente che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente - che in quanto fatto compiuto non può più essere negato - ma la paralisi del relativo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena (Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, cit.).</p> <p style="text-align: justify;">Le considerazioni sinora svolte – rappresenta a questo punto la Corte - consentono di giungere alle seguenti conclusioni.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 649-bis cod. pen., ai fini della procedibilità d'ufficio, attribuisce specifico rilievo alle "<em>circostanze aggravanti ad effetto speciale</em>." L'art. 12 preleggi, nel dettare le principali regole di interpretazione, dispone che nell'applicare la legge «<em>non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Costituisce, ormai, un vero e proprio diritto vivente l'affermazione che la recidiva costituisce una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei relativi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato e che la stessa, nella sua espressione "<em>qualificata</em>", è una circostanza aggravante ad effetto speciale.</p> <p style="text-align: justify;">La recidiva, ove ritenuta sussistente dal giudice, rientra, in quanto circostanza aggravante, nel giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti previsto dall'art. 69 cod. pen. Il giudizio di equivalenza o di subvalenza della recidiva rispetto alle circostanze attenuanti nell'ambito del giudizio di bilanciamento ai sensi dell'art. 69 cod. pen. non elide la sussistenza della recidiva stessa e gli effetti da essa prodotti ai fini del regime di procedibilità e non rende il reato perseguibile a querela di parte, ove questa sia prevista per l'ipotesi non circostanziata (Sez. 2, n. 37482 del 06/06/2019, Torre; Sez. 5, n. 14648 del 12/02/2019, Mercadante; Sez. 5, n. 10363 del 06/02/2019, Gennaro; Sez. 2, n. 24754 del 09/03/2015, Massarelli).</p> <p style="text-align: justify;">Rimane da verificare – chiosa ancora il Collegio - se la discrezionalità della valutazione giudiziale circa la sussistenza dei presupposti (sostanziali) della recidiva possa determinare ricadute negative sulla individuazione del regime di procedibilità e possa conciliarsi con le esigenze deflattive perseguite dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Una parte della dottrina, pur riconoscendo la natura circostanziale della recidiva, argomenta che essa non può incidere sul regime di procedibilità, dovendo le deroghe all'obbligatorietà dell'azione penale fondarsi su dati certi e di tempestiva riscontrabilità.</p> <p style="text-align: justify;">La concreta possibilità di verificare la sussistenza del fondamento reale dell'aggravante ex art. 99 cod. pen. solo in una fase avanzata del processo rischia di introdurre una sorta di procedibilità d'ufficio "<em>provvisoria</em>" e <em>sub iudice</em>, finendo inevitabilmente per affidare lo stesso esercizio dell'azione penale a criteri incerti e di natura sostanzialmente valutativo-prognostica.</p> <p style="text-align: justify;">A titolo esemplificativo si osserva che il pubblico ministero, prima di scegliere se dare avvio al procedimento, dovrebbe pronosticare se l'esistenza di precedenti penali, di cui non è sufficiente la mera formale ricorrenza, possa essere ritenuta, in sede giudiziale, indice di maggiore colpevolezza e di più accentuata pericolosità.</p> <p style="text-align: justify;">Tutto questo viene ritenuto incompatibile con il carattere di obbligatorietà dell'azione penale ex art. 112 Cost. E' stato altresì evidenziato che, qualora la valutazione giudiziale abbia esito negativo, il risultato non potrà che essere quello di dichiarare "<em>non doversi procedere</em>" per l'eventuale mancanza della querela, ma solo a processo pressoché ultimato, con frustrazione delle stesse finalità di deflazione dei carichi processuali che ha ispirato l'estensione dei casi di procedibilità a querela da parte del legislatore del 2017-2018, non dissimilmente da quello del 1981.</p> <p style="text-align: justify;">Altri Autori rilevano, poi, che un effetto potenzialmente pregiudizievole per l'autore del reato, qual è la procedibilità di ufficio rispetto alla perseguibilità a querela, «<em>non può farsi dipendere dalla previa contestazione</em>» - pur necessaria - «<em>del solo presupposto formale</em>» dato dalle (o dalla) precedenti condanne e che non appare plausibile che tale contestazione dia luogo ad una procedibilità d'ufficio provvisoria, suscettibile di lasciare eventualmente il passo, a giudizio del tutto (o pressoché) ultimato, ad una riemergente perseguibilità a querela.</p> <p style="text-align: justify;">Esiste una sostanziale incommensurabilità tra il giudizio discrezionale su cui si fonda l'accertamento della recidiva e quello - preventivo ed astratto, a carattere legale e non giudiziale - riguardante la gravità «<em>tipizzata</em>» del reato che deve fondare il regime di procedibilità.</p> <p style="text-align: justify;">Con riguardo alle sollevate perplessità merita ricordare per il Collegio che la Corte costituzionale ha più volte affermato, con specifico riguardo alla perseguibilità a querela costituente, nel nostro ordinamento, una deroga alla obbligatorietà dell'azione penale, come la scelta delle forme di procedibilità coinvolga la politica legislativa e debba, quindi, rimanere affidata a valutazioni discrezionali del legislatore, presupponendo bilanciamenti di interessi e opzioni di politica criminale spesso assai complessi, sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità (cfr., <em>ex plurimis</em>, ord. n. 324 del 2013; n. 91 del 2001; n. 354 del 1999; n. 204 del 1988; n. 294 del 1987; sent. n. 274 del 1997; n. 7 del 1987; n. 216 del 1974).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte costituzionale ha, inoltre, osservato che la scelta legislativa di escludere l'influenza del giudizio di comparazione tra le circostanze sul regime di procedibilità del reato, operata nell'ambito della disciplina generale che regola il regime di valutazione delle circostanze, non è da considerare arbitraria (ord. n. 354 del 1999).</p> <p style="text-align: justify;">La natura della recidiva quale circostanza del reato rende, inoltre, evidente che, in presenza della pertinente contestazione, il giudice, chiamato a valutarne la sussistenza, compie un giudizio ontologicamente identico a quello che effettua in rapporto ad altre circostanze del reato e, in quanto investito di un potere discrezionale, ha l'obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione.</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza di legittimità, sia pure con riguardo all'istituto della prescrizione, ha avuto modo di escludere potenziali aspetti di frizione fra la previsione di un regime differenziato per il soggetto recidivo ed i principi desumibili dalla Costituzione in considerazione del maggior allarme sociale provocato dal comportamento di chi, rendendosi autore di reiterate condotte criminose, mette maggiormente a rischio la sicurezza pubblica (Sez. 2, n. 31811 del 02/07/2015, Angileri; Sez. 5, n. 31064 del 02/11/2016, dep. 2017, Conte; Sez. 5, n. 57694 del 05/07/2017, Panza; Sez. F, n. 38806 del 27/07/2017, Mari).</p> <p style="text-align: justify;">All'obiezione che la necessaria certezza processuale verrebbe a dipendere da una provvisoria contestazione, su base meramente formale, della recidiva, destinata magari in seguito a venire meno in ragione della valutazione del giudice è possibile rispondere che la questione coinvolge non solo la recidiva, contestata dal pubblico ministero e successivamente ritenuta insussistente dal giudice, ma, allo stesso modo, qualsiasi altra aggravante che abbia incidenza sulla procedibilità.</p> <p style="text-align: justify;">Tali situazioni trovano una risposta fisiologica in sede processuale, ove l'art.129 cod. proc. pen., impone, in ogni stato e grado del procedimento, l'obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, fra le quali rientra anche la mancanza di una condizione di procedibilità.</p> <p style="text-align: justify;">In ordine alla ventilata frustrazione delle finalità deflattive non può che richiamarsi la Relazione illustrativa del d.lgs n. 36 del 2018, in cui viene affermato che l'articolo 11 prevede la conservazione della procedibilità d'ufficio per i reati contro il patrimonio oggetto dell'intervento normativo nei casi in cui ricorrano "<em>circostanze aggravanti ad effetto speciale</em>", categoria questa che ricomprende indubbiamente la recidiva qualificata.</p> <p style="text-align: justify;">L'obiezione che la rilevanza della recidiva qualificata ai fini della procedibilità del reato verrebbe ad incidere sulle posizioni dei coimputati, i quali si troverebbero ad essere assoggettati a un diverso regime di procedibilità per un fatto a loro totalmente estraneo, è del tutto superata alla luce della riformulazione dell'art. 118 cod. pen., secondo cui le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono.</p> <p style="text-align: justify;">Ne consegue che la perseguibilità d'ufficio opererebbe solo nei confronti dei coimputati recidivi, considerato che essa è una circostanza aggravante attinente alle condizioni e qualità personali del colpevole. Una disciplina diversificata della procedibilità rispetto a coimputati del medesimo reato non è peraltro estranea al sistema penale: si pensi, ad esempio, alle ipotesi disciplinate dall'art. 649, secondo comma, cod. pen. (perseguibilità del reato a querela nei confronti dei congiunti ivi indicati e d'ufficio nei confronti dei concorrenti estranei).</p> <p style="text-align: justify;">Può, quindi, affermarsi che il riconoscimento giudiziale, con specifica motivazione, della sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale quale la recidiva qualificata determina la procedibilità d'ufficio per i reati indicati nell'art. 649-bis cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Deve dunque per le SSUU enunciarsi il principio di diritto onde il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale contenuto nell'art. 649-bis, cod. pen., ai fini della procedibilità d'ufficio, per i delitti menzionati nello stesso articolo, comprende anche la recidiva qualificata - aggravata, pluriaggravata e reiterata - di cui all'art. 99, secondo, terzo e quarto comma cod. pen..</p> <p style="text-align: justify;">Venendo all'esame del ricorso, va rilevato per la Corte come lo stesso, sulla scorta delle superiori premesse, risulta fondato. Il Tribunale di Cosenza ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di X con riguardo al delitto di appropriazione indebita continuata aggravata dall'abuso di relazioni di prestazione di opera (art. 61 n. 11 cod. pen.), per essere il reato estinto per remissione di querela, senza considerare la contestazione della recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale che, qualora ritenuta sussistente, avrebbe determinato la procedibilità d'ufficio del reato, ai sensi dell'art. 649-bis cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Il Tribunale ha omesso, sul punto, qualsiasi motivazione. La sentenza in oggetto per le SSUU deve essere pertanto annullata con rinvio alla Corte d'appello di Catanzaro.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.55, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">In via preliminare, per la Corte deve rilevarsi che il rimettente ha plausibilmente motivato in ordine alle ragioni che rendono rilevanti le questioni di legittimità costituzionale sottoposte all’esame della Corte medesima.</p> <p style="text-align: justify;">In primo luogo, il rimettente ha mostrato di far proprio il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, secondo cui l’applicazione della recidiva, pur non obbligatoria, si giustifica in quanto il nuovo delitto, commesso da chi sia già stato condannato per precedenti delitti non colposi, sia espressivo in concreto del maggior grado di colpevolezza e pericolosità nonché di rimproverabilità della condotta tenuta nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne (sentenze n. 73 del 2020 e n. 192 del 2007; più di recente, <em>ex plurimis</em>, sentenza n. 185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738).</p> <p style="text-align: justify;">Nella fattispecie, il giudice <em>a quo</em> dà puntuale conto delle numerose condanne pronunciate nei confronti dell’imputato, alla luce delle quali reputa che la condotta contestatagli – concorso nel reato di furto degenerato in rapina impropria – mostri una maggiore pericolosità e colpevolezza dell’imputato, insensibile a tali precedenti condanne e, quindi, da un lato maggiormente rimproverabile e dall’altro più incline a commettere nuovi reati.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre il giudice rimettente – nella ricostruzione della responsabilità dell’imputato, quale concorrente cosiddetto anomalo ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. pen., per il reato «<em>diverso da quello voluto</em>» – tiene conto della giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in ordine a tale norma.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte rammenta di avere chiarito (sentenza n. 42 del 1965) che la responsabilità ai sensi dell’art. 116 cod. pen. richiede la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un «<em>coefficiente di colpevolezza</em>», poi ribadito dalla giurisprudenza di legittimità.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre cioè un nesso psicologico, che postula che il reato diverso o più grave commesso da altro concorrente possa rappresentarsi alla psiche del concorrente anomalo come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello concordato <em>(ex multis</em>, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 ottobre-7 novembre 2019, n. 45356; sezione quarta penale, sentenza 18 ottobre-2 novembre 2018, n. 49897; sezione seconda penale, sentenza 11 luglio-29 ottobre 2018, n. 49433; sezione prima penale, sentenza 11 settembre-5 ottobre 2018, n. 44579) o come possibile epilogo rispetto al fatto programmato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 10 giugno 2016-6 aprile 2017, n. 17502).</p> <p style="text-align: justify;">Al riguardo il rimettente ha puntualmente precisato che, nel caso di specie, sussistono sia il necessario rapporto di causa ad effetto tra il reato di furto inizialmente programmato e quello di rapina impropria, commesso successivamente in ragione dell’azione violenta posta in essere dall’altro correo, sia l’elemento soggettivo della colpa, poiché era prevedibile che il compartecipe potesse trascendere ad atti di violenza o minaccia nei confronti della parte lesa o di terzi, per assicurarsi il profitto del furto, o comunque guadagnare l’impunità (<em>ex plurimis</em>, Corte di cassazione, seconda sezione penale, sentenze: 3-29 ottobre 2018, n. 49443; 6-27 ottobre 2016, n. 45446; 18 giugno-26 luglio 2013, n. 32644).</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, il giudice rimettente, descrivendo in modo puntuale lo svolgersi della condotta criminosa, dimostra di aderire all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che postula l’accertamento in concreto, alla luce di tutti gli elementi del caso, della prevedibilità del fatto diverso da parte di altro concorrente (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze n. 17502 del 2017, già citata; 28 aprile-18 novembre 2016, n. 49165; 19 novembre 2013-28 febbraio 2014, n. 9770).</p> <p style="text-align: justify;">La motivazione del giudice <em>a quo</em> in punto di rilevanza è quindi senz’altro plausibile e ciò comporta l’ammissibilità delle questioni prospettate in riferimento al divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art.116, secondo comma, cod. pen. (<em>ex multis</em>, sentenze n. 73 del 2020 e n. 250 del 2018).</p> <p style="text-align: justify;">Nel merito, chiosa a questo punto la Corte, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., sollevate in via principale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sull’aggravante della recidiva reiterata (art. 99, quarto comma, cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">L’art. 116, primo comma, cod. pen. – come già ricordato – contempla l’ipotesi in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, prevedendo che quest’ultimo ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Però, ove il reato commesso risulti essere più grave di quello voluto, l’art. 116, secondo comma, cod. pen. stabilisce che la pena è diminuita.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di una circostanza attenuante ad effetto comune che, ai sensi dell’art. 65 cod. pen., comporta la diminuzione della pena in misura non eccedente il terzo.</p> <p style="text-align: justify;">Quando tale diminuente concorre con l’aggravante della recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., il giudizio di prevalenza e, quindi, la diminuzione della pena, è impedita dalla disposizione censurata, rimanendo possibile, a favore dell’imputato, solo il giudizio di equivalenza. Infatti la legge n. 251 del 2005 ha riformulato il quarto comma dell’art. 99 cod. pen., introducendo il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante, inclusa la diminuente del vizio parziale di mente, nell’ipotesi – tra l’altro – di recidiva reiterata, precludendo così in modo assoluto al giudice di applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena.</p> <p style="text-align: justify;">Tale norma, nel testo risultante dalla legge n. 251 del 2005, è stata oggetto di numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, che hanno restituito al giudice la possibilità di ritenere, nell’ambito dell’obbligatorio giudizio di bilanciamento delle circostanze eterogenee, la prevalenza, rispetto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata, di singole circostanze attenuanti, che sono state distintamente, di volta in volta, oggetto di verifica di costituzionalità.</p> <p style="text-align: justify;">In generale, la Corte rammenta di avere affermato che deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato dall’art. 69 cod. pen., sono sì costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, ma sempre che non «<em>trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio</em>» (sentenze n. 205 del 2017 e n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019), non potendo in alcun caso giungere «<em>a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale</em>» (sentenze n. 73 del 2020 e n. 251 del 2012).</p> <p style="text-align: justify;">Nella maggior parte dei casi, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale hanno riguardato «<em>circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva</em>» (sentenza n. 73 del 2020), in quanto riferite ad attenuanti a effetto speciale, tali essendo quelle che importano una diminuzione della pena superiore ad un terzo (art. 63, terzo comma, cod. pen.): così la «<em>lieve entità</em>» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012); la «<em>particolare tenuità</em>» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014); la «<em>minore gravità</em>» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014); il «<em>danno patrimoniale di speciale tenuità</em>» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017).</p> <p style="text-align: justify;">In un caso la dichiarazione di illegittimità ha avuto ad oggetto il divieto di prevalenza di una circostanza – l’essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori – diretta a premiare l’imputato per la propria condotta <em>post delictum</em> (sentenza n. 74 del 2016).</p> <p style="text-align: justify;">Più recentemente – rammenta ancora la Corte - l’esito di incostituzionalità ha riguardato la circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen., espressiva non già di una minore offensività del fatto, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità dell’autore, derivante dal minor grado di discernimento. In relazione a tale fattispecie la Corte ha affermato che il «<em>disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile</em>» (sentenza n. 73 del 2020).</p> <p style="text-align: justify;">Nella fattispecie ora all’esame, per la Corte il divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 116 cod. pen. si rivela in contrasto con i parametri evocati dal giudice rimettente, per una ragione ancora più stringente di quelle che hanno portato alle precedenti, sopra richiamate, dichiarazioni di illegittimità costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">La struttura della fattispecie prevista dall’art. 116 cod. pen. – norma introdotta dal codice penale del 1930 e ispirata a un rigore marcatamente accentuato nella repressione dei reati commessi con concorso di persone – è tutt’affatto particolare se confrontata con il principio generale della personalità della responsabilità penale, posto dall’art. 27, primo comma, Cost., e dalla conseguente preclusione di ogni forma di responsabilità oggettiva penale (<em>ex plurimis</em>, sentenza n. 364 del 1988).</p> <p style="text-align: justify;">Qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, rispondono tutte di quest’ultimo (art. 110 cod. pen.) perché da ciascuno “<em>voluto</em>” e quindi investito da dolo, pur con possibile diverso grado di intensità e di partecipazione causale sì da potersi distinguere tra chi ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato, ovvero diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo (nel qual caso la pena è aumentata: art. 112, primo comma, numero 2, cod. pen.) e chi invece abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato (ciò che comporta che la pena è diminuita: art. 114, primo comma, cod. pen.).</p> <p style="text-align: justify;">Invece l’art. 116, primo comma, cod. pen. prevede l’ipotesi in cui un concorrente risponde del reato «<em>diverso da quello voluto</em>» e quindi in realtà “<em>non voluto</em>”; non di meno ne risponde perché ha voluto il reato oggetto dell’accordo e il reato diverso da quello voluto è conseguenza della sua azione od omissione.</p> <p style="text-align: justify;">Se si considera la formulazione testuale della norma, il principio della personalità della responsabilità penale appare essere in sofferenza, quanto meno nella misura in cui tale disposizione richiede soltanto che l’evento del reato diverso sia conseguenza dell’azione od omissione del correo, ossia il solo nesso di causalità materiale.</p> <p style="text-align: justify;">Ma alla tenuta costituzionale della norma contribuiscono da una parte l’interpretazione adeguatrice, costituzionalmente orientata, accolta fin dalla citata sentenza n. 42 del 1965 e dalla sopra citata giurisprudenza di legittimità, e d’altra parte proprio l’attenuante prevista dal secondo comma dell’art. 116 cod. pen., che ha una funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio.</p> <p style="text-align: justify;">Infatti – prosegue il Collegio - si è già rilevato che, pur mancando il dolo (anzi dovendo escludersi che esso ricorra anche nella forma del dolo eventuale), è però «<em>necessaria, per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza anche di un elemento soggettivo</em>», ossia «<em>un coefficiente di partecipazione anche psichica</em>»: occorre, in altre parole, che «<em>il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza</em>» (sentenza n. 42 del 1965).</p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza di legittimità, sopra richiamata, ha, poi, chiarito che si tratta di prevedibilità in concreto, tenuto conto di tutte le peculiarità del caso di specie. Il correo è responsabile per il fatto-reato non voluto, perché avrebbe dovuto prevedere che l’attuazione dell’accordo delittuoso sarebbe potuta sfociare in un reato diverso; mentre – può aggiungersi – la previsione, da parte del correo, dell’evento diverso, con accettazione del rischio che si verifichi, ridonda in dolo eventuale e quindi in responsabilità piena, non diminuita dall’attenuante in esame (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 giugno-30 agosto 1995, n. 9273).</p> <p style="text-align: justify;">Ancorché il difetto di prevedibilità possa ascriversi a colpa, il trattamento sanzionatorio, però, è quello del reato doloso, tale essendo la prescrizione del primo comma dell’art. 116 cod. pen.; ossia lo stesso trattamento previsto per il correo che ha commesso – e voluto – il reato “<em>diverso</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">In ciò la norma esibisce tutto il proprio rigore sanzionatorio se solo la si compara ad un’altra fattispecie generale e per certi versi simile: quella dell’art. 83 cod. pen. Norma questa che, al di fuori dell’ipotesi del concorso, prevede che se l’«<em>evento</em> [è] <em>diverso da quello voluto</em>», l’agente è responsabile a titolo di colpa e quindi solo ove il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo.</p> <p style="text-align: justify;">Invece l’art. 116, primo comma, cod. pen. non opera questo <em>décalage</em> da reato doloso a reato colposo. Prevede al contrario la stessa responsabilità per il reato, diverso da quello voluto con l’accordo delittuoso, commesso da altro correo, parificando così a quest’ultimo la posizione del concorrente che non ha voluto il fatto-reato.</p> <p style="text-align: justify;">Ed è qui che come detto, chiosa la Corte, soccorre il secondo comma dell’art. 116 cod. pen. per operare la necessaria diversificazione quanto alla dosimetria della pena. Il trattamento sanzionatorio non può essere pienamente parificato quando il reato commesso sia più grave di quello voluto. In tal caso la pena per il correo che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività della diminuente prevista dalla norma. Anch’essa quindi concorre a sorreggere la tenuta costituzionale di questa eccezionale fattispecie di responsabilità penale, della quale peraltro già la sentenza n. 42 del 1965 auspicava una revisione e che è stata oggetto di varie iniziative di riforma, finora senza esito.</p> <p style="text-align: justify;">Questa finalità di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio nella fattispecie del concorso anomalo di cui all’art. 116 cod. pen. mostra il carattere tutt’affatto particolare della diminuente in esame, al di là dell’essere essa un’attenuante comune e non già ad effetto speciale.</p> <p style="text-align: justify;">La scelta del legislatore di sanzionare con la pena prevista per un delitto doloso il reo, al quale viene mosso un rimprovero di colpa, trova un bilanciamento proprio nella previsione di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., secondo cui la pena è diminuita.</p> <p style="text-align: justify;">Invece la norma censurata impedisce, in modo assoluto, al giudice di ritenere prevalente la diminuente in questione, in presenza della circostanza aggravante della recidiva reiterata, con ciò frustrando, irragionevolmente, gli effetti che l’attenuante mira ad attuare e compromettendone la necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio.</p> <p style="text-align: justify;">Il divieto inderogabile di prevalenza dell’attenuante in esame non risulta quindi per il Collegio compatibile con il principio costituzionale di determinazione di una pena proporzionata.</p> <p style="text-align: justify;">Infatti il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato «<em>esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). E il </em>quantum<em> di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile</em>» (sentenza n. 73 del 2020).</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, la sproporzione della pena rispetto alla rimproverabilità del fatto posto in essere, globalmente considerato, conseguente al divieto di prevalenza censurato, determina un trattamento sanzionatorio che impedisce alla pena di esplicare la propria funzione rieducativa con violazione dell’art. 27 Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, rincara il Collegio, il contrasto dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., con l’art. 3 Cost. viene in rilievo sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, in quanto il divieto censurato finisce per vanificare la funzione che la diminuente di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., tende ad assicurare, ossia sanzionare in modo diverso situazioni profondamente distinte sul piano dell’elemento soggettivo (quello del correo che pone in essere l’evento diverso e più grave e quello di chi vuole il reato meno grave senza prevedere, colpevolmente, che questo possa degenerare nel fatto più grave).</p> <p style="text-align: justify;">Deve pertanto, conclude la Corte, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, consegue che la questione del medesimo art. 69, quarto comma, cod. pen., sollevata, in via subordinata, resta assorbita.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Quello stesso 31 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.56 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole “<em>né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">La disposizione censurata – principia la Corte - stabilisce in via generale che la pena della reclusione – indipendentemente dalla relativa durata, complessiva o residua – «<em>può</em>» essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni di età.</p> <p style="text-align: justify;">Essa detta, dunque, una disciplina più favorevole per il condannato ultrasettantenne rispetto a quella fissata dal successivo comma 1, lettera d), dello stesso art. 47-ter ordin. penit., che consente parimenti l’espiazione della pena della reclusione nella forma della detenzione domiciliare al condannato che abbia compiuto i sessant’anni, alla duplice condizione – però – che si tratti di pena, anche residua, non superiore a quattro anni, e che il condannato sia «<em>inabile anche parzialmente</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Il venir meno di queste condizioni per il condannato ultrasettantenne trova agevole spiegazione in riferimento alla duplice <em>ratio</em> della misura prevista dal comma 01.</p> <p style="text-align: justify;">Da un lato, chiosa la Corte, come rilevato dalla dottrina, il legislatore presume qui la diminuzione della pericolosità sociale del condannato che abbia raggiunto i settant’anni, e la possibilità del relativo contenimento mediante l’obbligo di permanenza nel domicilio, accompagnato dalle prescrizioni del giudice e dai dovuti controlli.</p> <p style="text-align: justify;">Dall’altro, e forse soprattutto, il legislatore muove dall’ulteriore presunzione che il carico di sofferenza associato alla permanenza in carcere cresca con l’avanzare dell’età, e con il conseguente sempre maggiore bisogno, da parte del condannato, di cura e assistenza personalizzate, che difficilmente gli possono essere assicurate in un contesto intramurario, caratterizzato dalla forzata convivenza con un gran numero di altri detenuti di ogni età. Sicché la misura alternativa all’esame, più che all’obiettivo della rieducazione del condannato, appare qui ispirata al principio di umanità della pena, sancito peraltro dallo stesso art. 27, terzo comma, Cost.</p> <p style="text-align: justify;">Nella medesima logica si colloca d’altronde la parallela disposizione dettata, in materia di misure cautelari, dall’art. 275, comma 4, secondo periodo, del codice di procedura penale, a tenore del quale la custodia cautelare in carcere non può essere disposta, nei confronti di chi abbia compiuto settant’anni, salvo che sussistano «<em>esigenze cautelari di eccezionale rilevanza</em>»; imponendosi in ogni altro caso il ricorso alla misura meno gravosa degli arresti domiciliari, anche in presenza di esigenze cautelari che avrebbero consentito, nei confronti di una persona più giovane, il ricorso alla misura carceraria.</p> <p style="text-align: justify;">Così come accade in materia di custodia cautelare, riprende il Collegio, il <em>favor</em> espresso dal legislatore per l’esecuzione domiciliare della pena nei confronti dei condannati ultrasettantenni non è, peraltro, incondizionato.</p> <p style="text-align: justify;">Il comma 01 vieta, infatti, la concessione della misura a tre categorie di persone. Anzitutto, a chi sia stato condannato per uno tra i principali delitti contro la libertà sessuale, ovvero per uno dei delitti menzionati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. o dall’art. 4-bis ordin. penit.; in secondo luogo, a chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; e, infine, a chi sia stato condannato in passato con l’aggravante della recidiva di cui all’art. 99 del codice penale.</p> <p style="text-align: justify;">In presenza di una di tali cause ostative, il legislatore ritiene evidentemente che venga meno la prima delle presunzioni poc’anzi evidenziate: quella, cioè, di attenuata pericolosità del condannato. Nonostante l’età avanzata, la tipologia del reato commesso ovvero la peculiare storia criminale del reo dimostrerebbero – senza possibilità di prova contraria da parte del condannato – una relativa persistente pericolosità sociale non neutralizzabile con la mera detenzione domiciliare; ciò che renderebbe senza alternative l’esecuzione intramuraria.</p> <p style="text-align: justify;">Proprio sulla contro-presunzione assoluta di persistente pericolosità del condannato, derivante dalla mera applicazione nei relativi confronti dell’aggravante della recidiva, si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal giudice <em>a quo</em>.</p> <p style="text-align: justify;">In proposito, riprende la Corte, conviene subito rilevare che la disposizione censurata è l’unica, nell’intero <em>corpus</em> dell’ordinamento penitenziario, a far discendere conseguenze radicalmente preclusive di una misura alternativa a carico di chi sia stato condannato in passato con l’aggravante della recidiva, in una qualunque delle sue forme disciplinate dall’art. 99 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">In talune circoscritte ipotesi, l’ordinamento penitenziario prevede, a carico dei soli condannati ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., condizioni più gravose per l’accesso ai benefici penitenziari (art. 30-quater ordin. penit.), ovvero il divieto di concedere una seconda volta le misure alternative dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare (nelle sue diverse forme) e della semilibertà (art. 58-quater ordin. penit.).</p> <p style="text-align: justify;">Altre disposizioni – introdotte, come quella censurata, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), e che rendevano più gravose, a carico dei soli condannati ai quali fosse stata applicata la recidiva reiterata, le condizioni di accesso anche a talune misure alternative – sono state successivamente abrogate dal decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94 (è il caso del previgente comma 1.1 dell’art. 47-ter ordin. penit. e del previgente art. 50-bis ordin. penit.).</p> <p style="text-align: justify;">La menzionata disposizione di cui all’art. 58-quater ordin. penit. mostra – chiosa ancora la Corte - in modo particolarmente evidente l’anomalia del meccanismo preclusivo qui all’esame: mentre soltanto la recidiva reiterata osta a una seconda concessione di una misura alternativa (e dunque anche alla concessione di tutte le ipotesi di detenzione domiciliare diverse da quella in esame), qui già la recidiva semplice di cui all’art. 99, primo comma, cod. pen. osta in radice alla detenzione domiciliare; e ciò proprio nei confronti di una categoria di detenuti – quelli ultrasettantenni – rispetto ai quali la vita carceraria risulta, in via generale, particolarmente gravosa.</p> <p style="text-align: justify;">Si assume che il singolare automatismo preclusivo previsto <em>in parte qua</em> dalla disposizione censurata non riposerebbe, in realtà, su di una presunzione assoluta, ma si fonderebbe piuttosto su una valutazione individualizzata, compiuta dal giudice di cognizione nel momento in cui ha ritenuto la sussistenza della recidiva nella sentenza di condanna; valutazione che, secondo l’ormai costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità e della stessa Corte, presuppone tanto un giudizio di maggiore gravità del fatto di reato, connesso alla maggiore colpevolezza di chi decide di compiere la condotta criminosa nonostante l’ammonimento rappresentato dalla precedente condanna nei propri confronti, quanto un giudizio di maggiore pericolosità del condannato, dimostrata dalla sua accentuata propensione a violare la legge penale (<em>ex multis</em>, sentenze n. 73 del 2020 e n. 185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738).</p> <p style="text-align: justify;">Il fatto, dunque, che il giudice della cognizione abbia ritenuto applicabile la recidiva – quanto meno ai fini del relativo bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti ai sensi dell’art. 69 cod. pen. – sarebbe indicativo, secondo questa tesi, di una condizione di maggiore pericolosità del condannato giudizialmente accertata nel caso concreto, che il legislatore non irragionevolmente avrebbe valorizzato per negare a tale categoria di condannati l’accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte, tuttavia, si dichiara non persuasa da tale argomento.</p> <p style="text-align: justify;">La valutazione individualizzata sul <em>surplus</em> di pericolosità soggettiva – valutazione che, pure, il giudice di merito deve indubbiamente compiere allorché decide se ritenere o meno la sussistenza della recidiva contestata all’imputato – non è infatti né attuale, né specifica rispetto alla sussistenza delle ragioni che potrebbero deporre in favore della esecuzione della pena sub specie di detenzione domiciliare.</p> <p style="text-align: justify;">In effetti, la disposizione censurata condiziona l’accesso alla detenzione domiciliare al presupposto che il soggetto non sia «<em>mai</em>» stato condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 cod. pen., senza precisare – dunque – se l’aggravante debba essere stata applicata nella stessa sentenza di condanna attualmente in esecuzione, ovvero in altra sentenza già pronunciata nei relativi confronti in qualsiasi momento del passato.</p> <p style="text-align: justify;">Una tale sentenza potrebbe essere stata pronunciata in un passato assai remoto; e il giudice della condanna della pena attualmente in esecuzione ben potrebbe avere escluso l’applicazione della recidiva, proprio in considerazione del carattere risalente dei precedenti reati commessi dal condannato, e dunque della loro irrilevanza ai fini di quel giudizio di accentuata pericolosità e colpevolezza che condiziona la stessa applicabilità dell’aggravante.</p> <p style="text-align: justify;">Ma anche nell’ipotesi in cui sia proprio la sentenza in esecuzione ad avere applicato la recidiva, il giudizio di maggiore pericolosità sociale ad essa sotteso è formulato dal giudice della cognizione unicamente ai fini della determinazione del <em>quantum</em> di pena da infliggere al condannato, per effetto dell’applicazione degli inasprimenti di pena previsti dall’art. 99 cod. pen., ovvero del relativo bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti.</p> <p style="text-align: justify;">Da tale giudizio la disposizione censurata fa però discendere una conseguenza automatica in relazione alla differente questione – che rimane del tutto estranea all’orizzonte valutativo del giudice della cognizione – se il condannato debba essere ammesso a scontare la propria pena in regime di detenzione domiciliare anziché all’interno del carcere, alla luce di tutti i fattori normalmente considerati dal giudice di sorveglianza al quale il condannato richieda la misura alternativa in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Fattori, questi ultimi, tra i quali non potrebbero non essere considerati i cambiamenti avvenuti nella persona del reo, e l’eventuale percorso rieducativo in ipotesi già intrapreso, nel lungo periodo che normalmente separa il <em>tempus</em> della commissione del reato ritenuto aggravato dalla recidiva – <em>tempus</em> con riferimento al quale il giudice di cognizione aveva formulato la propria valutazione di accentuata pericolosità sociale del reo – e quello del passaggio in giudicato della relativa sentenza di condanna, nonché nell’eventuale periodo di esecuzione da lui scontato nel frattempo in carcere.</p> <p style="text-align: justify;">Come la Corte rammenta di avere già avuto modo di rilevare, «[m]<em>entre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali</em>» (sentenza n. 183 del 2011); radicale discontinuità di cui il giudice di sorveglianza deve essere in condizione di tenere conto, nella valutazione se l’esecuzione intramuraria sia comunque necessaria anche nei confronti di un condannato di età avanzata, o se gli scopi della pena possano essere soddisfatti anche mediante un trattamento meno afflittivo.</p> <p style="text-align: justify;">Né l’età avanzata del condannato, né la conseguente sofferenza addizionale connessa alla permanenza in carcere, spiegano d’altra parte alcun ruolo nel giudizio che sta alla base della decisione del giudice della cognizione se ritenere sussistente la circostanza aggravante della recidiva; mentre tali considerazioni svolgerebbero ovviamente un ruolo di primo piano nel bilanciamento che la magistratura di sorveglianza dovrebbe svolgere a fronte di un’istanza di detenzione domiciliare, ove il relativo esame non le fosse precluso dalla disposizione censurata.</p> <p style="text-align: justify;">L’individualizzazione del giudizio di pericolosità sociale del condannato, su cui si insiste, si rivela così soltanto apparente. La disposizione censurata, in realtà, fa discendere in modo automatico un effetto preclusivo della detenzione domiciliare da un giudizio svolto tempo prima dal giudice della cognizione, avente un oggetto affatto diverso da quello relativo alla concreta meritevolezza del condannato ad essere ammesso alla misura alternativa in parola, sulla base delle circostanze sussistenti al momento dell’esecuzione della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Da ciò discende l’intrinseca irragionevolezza della disposizione censurata, anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte che considera contrarie agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. le preclusioni assolute all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione (<em>ex plurimis</em>, sentenze n. 253 del 2019, n. 149 del 2018, n. 291 del 2010, n. 189 del 2010).</p> <p style="text-align: justify;">Tale conclusione non è smentita dalla recente sentenza n. 50 del 2020, che – in relazione alla peculiare ipotesi di detenzione domiciliare cosiddetta “<em>generica</em>” di cui all’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., fruibile da tutti coloro che debbano scontare non più di due anni, anche quale residuo di maggior pena – ha ritenuto legittima la preclusione all’accesso alla misura a carico dei condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis ordin penit., quando non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte ha infatti sottolineato come in tale ipotesi la preclusione trovi «<em>fondamento concomitante in elementi che discendono dalla necessaria valutazione giudiziale del caso concreto</em>», compiuta dalla stessa magistratura di sorveglianza in sede di esame dell’istanza del condannato, che deve per l’appunto essere stato ritenuto in concreto non meritevole di essere ammesso alla più favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale.</p> <p style="text-align: justify;">In quel caso la valutazione, posta in essere nella fase esecutiva della pena, è – dunque – attuale e contestualizzata rispetto alla possibile concessione di misure alternative, a differenza di quanto accade rispetto alla preclusione oggetto della disposizione all’esame nel presente giudizio.</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, per la Corte deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata limitatamente all’inciso «<em>né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale</em>», restando così assorbita la questione formulata in via subordinata dal rimettente.</p> <p style="text-align: justify;">Il venir meno di tale inciso comporta la riespansione degli ordinari poteri discrezionali della magistratura di sorveglianza, chiamata a valutare se il condannato sia meritevole di essere ammesso alla detenzione domiciliare (<em>ex multis</em>, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 febbraio-6 marzo 2012, n. 8712; sentenza 18 giugno-10 luglio 2008, n. 28555), tenuto conto anche della relativa, eventuale e residua pericolosità sociale, da apprezzarsi in concreto sulla base di tutte le circostanze risultanti al momento della decisione sull’istanza relativa.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.25131, onde che rammenta come nel caso di specie la contestazione mossa all’imputato riguardi il delitto di ricettazione aggravato dalla recidiva specifica ed infraquinquennale. Le norme di riferimento sono correttamente individuate nell’imputazione nell’art. 648 c.p., quanto al titolo di reato, e nell’art. 99 c.p., comma 2, nn. 1) e 2), quanto alla recidiva.</p> <p style="text-align: justify;">Ai fini del calcolo del termine necessario a prescrivere, prosegue la Corte, rileva la recidiva, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, sotto un duplice profilo, "<em>incide</em>(ndo) <em>sia sul computo del termine-base di prescrizione ai sensi dell’art. 157 c.p., comma 2, sia sull’entità della proroga di suddetto termine in presenza di atti interruttivi, ai sensi dell’art. 161 c.p., comma 2</em>", posto che una diversa interpretazione rimetterebbe al giudice la scelta della rilevanza da attribuire alla recidiva qualificata caso per caso, contraddicendo il principio costituzionale di tassatività (in tal senso è costantemente orientata la giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio ritiene di prestare adesione, da ultimo espressa da Sez. 2, n. 57755 del 12/10/2018, Saetta, Rv. 274721-01, essendo rimasto isolato e comunque non condivisibile - alla stregua dell’insuperabile tenore letterale dell’art. 157 c.p., comma 2, e art. 161 c.p., comma 2, - il diverso avviso di Sez. 6, n. 47269 del 09/09/2015, Fallani, Rv. 26551801, propenso ad attribuire rilevanza alla recidiva, alternativamente, o solo ai sensi dell’art. 157 c.p., comma 2, o solo ai sensi dell’art. 161 c.p., comma 2, in nome dell’ossequio al principio del <em>ne bis in idem</em> sostanziale).</p> <p style="text-align: justify;">A fronte di ciò, tenuto presente che il massimo edittale per il delitto di ricettazione - che viene in linea di conto ai sensi dell’art. 157, comma 1, c.p. - è individuato dall’art. 648, comma 1, c.p. in anni otto di reclusione, l’aumento di pena per la recidiva è indicato nella metà dall’art. 99, comma 3, c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Nondimeno, prosegue il Collegio, in riferimento a detto aumento, conviene specificare che trattasi della misura massima, stante l’insegnamento della stessa Suprema Corte secondo cui, "<em>in tema di prescrizione, per determinare la durata del termine nel caso in cui sia stata contestata ed applicata la recidiva specifica bisogna fare riferimento all’aumento massimo di pena previsto dai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 99, con il limite, però, fissato dall’art. 99 c.p., comma 6</em>", (così da ultimo Sez. 5, n. 44099 del 24/09/2019, Graniello, Rv. 277607-01, in una fattispecie in cui l’aumento del termine di prescrizione per un soggetto recidivo specifico è stato individuato in anni due, per essere stato l’imputato condannato in precedenza ad una pena di anni due di reclusione).</p> <p style="text-align: justify;"> Una volta determinato, in tal modo, il termine "<em>ordinario</em>" di prescrizione, per calcolare quello conseguente ad interruzione, si applica l’art. 161 c.p., comma 2, secondo il quale in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere nei casi di cui all’art. 99 c.p., comma 2.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte dichiara a questo punto di non possedere elementi per stabilire il <em>quantum</em> di pena rilevante, agli effetti dell’art. 157 c.p., comma 2, in conseguenza della contestata recidiva, a mente della <em>regula iuris</em> ricordata da Sez. 5, n. 44099 del 2019.</p> <p style="text-align: justify;">Nondimeno, financo a voler considerare il termine minimo di prescrizione ai sensi del solo comma 1 dell’art. 157 c.p., esso sarebbe pari ad anni otto, aumentabile della metà, e quindi ad anni dodici, ex art. 99 c.p., comma 2, e art. 161 c.p., comma 2.</p> <p style="text-align: justify;">Poiché il delitto – conclude la Corte - è contestato in data anteriore e prossima al 5 ottobre 2009, assunto, in difetto di più precise indicazioni, il 5 ottobre 2009 come punto di riferimento, la data di prescrizione, nei termini minimi che si sono teste precisati, ossia - ripetesi - senza tener conto dell’aumento di pena ex art. 157 c.p., comma 2, sicuramente a tutt’oggi non è ancora maturata, venendo a maturazione non prima del 4 ottobre 2021, cui debbono in ogni caso aggiungersi i periodi di sospensione: sia quello, indicato in sentenza, di mesi undici e giorni quindici derivante da richiesta di rinvio per astensione del difensore, sia quelli previsti <em>ex lege</em> dalla legislazione straordinaria antipandemia da Covid-19.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dal punto di vista della storia moderna e contemporanea, quali problemi ha sollevato l’istituto della recidiva?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>entrato in vigore il Code Napoleon nel 1810, la teoria generale del diritto penale torna ad occuparsi della recidiva;</li> <li>essa viene concepita come una circostanza capace di fare da sfondo ad un inasprimento del trattamento sanzionatorio del reo;</li> <li>si tratta: c.1) secondo una prima tesi, di un istituto che va codificato e disciplinato in modo esplicito ed esaustivo; è la tesi che esce vittoriosa dal dibattito muovendo <em>in primis</em> dal presupposto onde il reato è un comportamento umano che, proprio perché tale, si declina in modo differente a seconda dello specifico “<em>uomo</em>” che di volta in volta lo commette e che dunque se ne assume la responsabilità; muovendo dal fatto che la prima sanzione (per la quale il reo è già stato condannato) si è rivelata insufficiente sul crinale della special-prevenzione, è corretto che il Legislatore preveda, da questo punto di vista, un più incisivo trattamento sanzionatorio al cospetto di una novella manifestazione di criminalità, non incidendosi peraltro in alcun modo sul trattamento sanzionatorio già determinato per il precedente reato oggetto di pregressa condanna; c.2) stando ad una seconda ed opposta opzione ermeneutica, alfine recessiva, di un istituto che andrebbe financo cancellato dall’orbe giuridico; chi “<em>ricade</em>” è, per questa tesi, vittima di un libero arbitrio tutt’affatto contingentato, commette crimini quasi per abitudine e dunque con minore consapevolezza delle proprie condotte antigiuridiche, onde – se non proprio espunta dall’ordinamento – la recidiva è meritevole al più di un aggravamento di natura meramente facoltativa, rimesso di volta in volta alla discrezionalità del giudice penale; peraltro, “<em>rinfacciare</em>” con effetti penali aggravatori un fatto (pregresso) per il quale il soggetto attivo sia già stato condannato (in sede di determinazione del trattamento sanzionatorio per il nuovo crimine) può implicare, secondo questa tesi, anche una forma di larvato <em>bis in idem</em>, e dunque di doppia punizione per un medesimo fatto (quello pregresso appunto, già in precedenza punito e capace <em>ex post</em> di ridondare in aggravamento sanzionatorio del “<em>nuovo fatto di ricaduta</em>”); muovendo da questi presupposti, la recidiva può al più rilevare in orbita scientifica “<em>sociale</em>”, non già giuridica, pena lo scadere in considerazioni di carattere vagamente moraleggiante, capaci di forgiare categorialmente dei criminali “<em>incorreggibili</em>” da punirsi in modo vieppiù grave per il passato criminale che si portano dietro.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in generale della recidiva?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>bisogna muovere, in ambito penalistico, da una situazione di già intervenuta condanna per un dato reato (c.d. reato “<em>fondante</em>”), ormai inoppugnabile;</li> <li>qualora il condannato con sentenza ormai passata in giudicato si faccia soggetto attivo di un altro reato (c.d. reato “<em>espressivo</em>”), scatta la “<em>ricaduta</em>” o “<em>recidiva</em>”;</li> <li>una situazione vagamente assimilabile alla “<em>ricaduta</em>” dopo una malattia, con approccio che tuttavia appare a molti approssimativo e non soddisfacente perché eccessivamente “<em>soggettivo</em>”, a fronte di un diritto penale che si impernia sul “<em>fatto</em>” oggettivo, e non già sul tipo di autore.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è la natura giuridica della recidiva?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>la recidiva ha una natura giuridica discussa, stante l’aggravio di pena che la contraddistingue;</li> <li>secondo una prima tesi, la sanzione già inflitta con la precedente condanna non è stata capace di distogliere il reo dal commettere ulteriori episodi criminosi, fatto che giustifica l’aggravamento recidivale; si è dunque al cospetto di una circostanza aggravante di natura evidentemente soggettiva, fondata sulla c.d. special-prevenzione; non è mancato chi tuttavia ha fatto notare da un lato come il codice penale vigente non richieda (più), per l’applicazione della recidiva, la completa espiazione della pena comminata per il precedente reato, e dall’altro – sul crinale sociologico – come non sia certa la riconducibilità della ricaduta criminosa alla c.d. insufficienza della pena “<em>pregressa</em>”;</li> <li>stando ad una seconda opzione ermeneutica, la recidiva esprime la maggiore pericolosità del soggetto attivo del nuovo reato, il quale palesa – violando ancora una volta la legge penale – di disprezzarla; per questo motivo si è al cospetto di un “<em>più grave</em>” nuovo reato, dopo quello per il quale il reo sia già stato condannato, e dunque di una più pervasiva “<em>imputabilità penale</em>”; per il contraltare di una più efficace difesa della convivenza civile, occorre dunque che lo Stato fronteggi la maggiore capacità a delinquere palesata dal già condannato che ricada in un reato; non manca tuttavia chi rileva come la recidiva da un lato non abbia a che fare con l’imputabilità tecnicamente intesa e, dall’altro come essa non abbia nessuna capacità di accrescere la gravità – obiettivamente considerata – del nuovo reato commesso;</li> <li>stando una terza tesi, occorre muovere dall’elemento soggettivo del reato, alla cui sfera sistematica la recidiva deve essere strettamente avvinta configurando, nella sostanza, una aggravante della colpevolezza e lasciando affiorare pertanto una maggiore rimproverabilità del nuovo fatto inadempimento reato, siccome commesso dal già in precedenza condannato; quest’ultimo merita dunque un trattamento criminale più gravoso, palesandosi maggiormente incline al crimine e, nella visione più oltranzista, atteggiandosi a vero e proprio “<em>tipo criminologico d’autore</em>”; si tratta di una presa di posizione che, nondimeno, contrasta con la visione “<em>oggettiva</em>” del reato siccome abbracciata dal nostrano sistema penale, nella lettura costituzionalmente orientata che ne fornisce la più autorevole e accreditata dottrina;</li> <li>ancora, per una quarta prospettiva la recidiva compendia una qualificazione giuridica soggettiva del soggetto agente, dovendo dunque il giudice penale accertarla quale autentico “<em>status</em>” soggettivo del reo, nella relativa veste di “<em>già condannato</em>”, dovendosi essa assumere come vera e propria “<em>situazione inerente alla persona</em>” del reo medesimo; si tratta di una presa di posizione che si avvicina molto all’opzione prediletta dalla giurisprudenza che, tende ad additarla quale circostanza aggravante “<em>soggettiva</em>” perché strettamente avvinta al comportamento del delinquente, quand’anche <em>sui generis</em>, in modo del resto conforme a quanto previsto dall’art.70 c.p., onde (comma 2) le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la imputabilità e, appunto, la recidiva; la natura circostanziale della recidiva pare peraltro confermata dal Legislatore che, con la legge ex Cirielli 251.05 (nella relativa versione antecedente a plurimi interventi della Corte costituzionale), limita la possibilità che sulla recidiva prevalgano diverse “<em>circostanze attenuanti</em>”, ponendo dunque <em>ratione materiae</em> un argine al c.d. bilanciamento tra circostanze eterogenee e con ciò implicitamente additando la stessa recidiva, nella sostanza, come “<em>circostanza aggravante</em>”.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le categorie di recidiva classificabili e quale percorso evolutivo le contraddistingue sul piano sincronico e diacronico?</strong></p> <ol style="text-align: justify;" start="2"> <li>dal punto di vista della classificazione “<em>sincronica</em>”, si distingue tra: a.1) recidiva semplice: c’è già stata la condanna, ormai in giudicato, per un reato X e il condannato commette un nuovo reato Y; a.2) recidiva aggravata, che a propria volta può essere: a.2.1) aggravata specifica: il nuovo reato commesso dal condannato è “<em>della stessa indole</em>” di quello già commesso e per il quale è stato in precedenza condannato, dovendosi intendere per tale, ex art.101 c.p., quello violativo di una medesima disposizione di legge o quello che, pur previsto in un testo normativo diverso rispetto a quello di cui al reato già oggetto di condanna, presenta rispetto ad esso, nel caso concreto, dei tratti fondamentali comuni per la natura dei fatti che lo costituiscono, ovvero dei motivi che lo hanno determinato; secondo l’orientamento pretorio tradizionale, l’accertamento della medesima indole criminosa è affidato alla valutazione discrezionale del giudice penale attraverso un giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità laddove adeguatamente motivato; in proposito, sempre stando alla giurisprudenza, l’omogeneità tra reati, giusta comunanza dei pertinenti caratteri fondamentali, può riscontrarsi quando si assomiglino le circostanze oggettive al cospetto delle quali essi sono stati realizzati dal soggetto agente, ovvero quando le condizioni di ambiente o di persona nelle quali sono state poste in essere le condotte criminose presentino aspetti tali da rendere evidente l’inclinazione del reo verso una identica tipologia criminosa, ovvero ancora quando le modalità esecutive, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell’altrui diritto rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa; a.2.2) aggravata infraquinquennale: il nuovo reato viene commesso dal soggetto attivo prima dei 5 anni dalla condanna per quello commesso in precedenza; a.2.3) aggravata c.d. “<em>vera</em>”: il nuovo reato viene commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, durante il tempo in cui il condannato si sottragga volontariamente all’esecuzione della pena stessa; a.3) recidiva reiterata: il soggetto agente commette un nuovo reato quando è già recidivo, dovendosi in questo caso distinguere ulterioremente i casi di: a.3.1) recidiva reiterata semplice; a.3.2) recidiva reiterata aggravata;</li> <li>dal punto di vista della classificazione “<em>diacronica</em>”, si distingue tra: b.1) fase in cui la recidiva è obbligatoria: si tratta della vigenza del codice penale originario, fino al 1974; il giudice penale applica la recidiva in modo automatico ed obbligatorio (il recidivo “<em>soggiace</em>” all’aumento di pena), salvi i casi eccezionali previsti dall’art.100 c.p.; si tratta di una recidiva a valenza altamente “<em>soggettiva</em>”, perpetua (applicabile a tutta la vita del soggetto agente “<em>ricaduto</em>”), generica (operativa al cospetto di qualsiasi nuovo reato), e – massime – obbligatoria, non potendo il giudice penale prescinderne in caso, per l’appunto, di “<em>ricaduta</em>” nel reato del soggetto attivo; 2) fase in cui la recidiva è facoltativa: si tratta della vigenza del codice penale novellato dalla legge 220.74, fino al 2005; con l’avvento della riforma del 1974, il soggetto attivo non più “<em>soggiace</em>” indefettibilmente all’aumento di pena recidiviale, ma piuttosto “<em>può essere sottoposto</em>” al ridetto aumento sanzionatorio, con conseguente sopravvenuta “<em>facoltatività</em>” dell’inasprimento di pena e contestuale abrogazione dell’art.100 c.p.; va rimarcato come, secondo la dottrina più accreditata, a divenire facoltativo è il solo, ridetto aggravamento sanzionatorio, ma non anche la declaratoria di recidiva ed il conseguente <em>status</em> ad altri effetti penali, che invece resta obbligatorio per il giudice penale; in costanza del nuovo regime dunque non è il legislatore, <em>ex ante</em> e una volta per tutte, ad aumentare la pena al recidivo in via astratta, ma è piuttosto il giudice, nel singolo caso concreto, a poter inasprire la pena prevista per il reato oggetto di “<em>ricaduta</em>”, potendo altresì bilanciare diversamente le circostanze del reato medesimo; si aggiunge a questo passaggio dall’”<em>obbligatorio astratto</em>” al “<em>facoltativo concreto</em>” una maggiore mitezza dell’aggravamento sanzionatorio ed un tetto massimo per gli aumenti di pena, onde in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato “<em>di ricaduta</em>”; b.3) fase in cui la recidiva è “<em>mista</em>”, facoltativa in alcuni casi e obbligatoria in altri: si tratta della vigenza del codice penale novellato dalla legge 251.05, c.d. “<em>ex Cirielli</em>”, dal 2005 in poi; la dottrina parla in proposito di un quanto meno parziale “<em>ritorno al passato</em>”, con una recidiva che si atteggia in parte a facoltativa ed in parte a (nuovamente) obbligatoria; da un lato affiora la perpetuità della recidiva, applicabile a “<em>ricadute</em>” consumate nell’intera vita residua del soggetto attivo, cui si giustappone dall’altro una genericità maggiormente affievolita, potendo applicarsi l’inasprimento sanzionatorio ai soli delitti “<em>non colposi</em>”, e non più ad ogni reato in quanto tale (e, dunque, anche colposo); è poi quello dell’obbligatorietà il crinale maggiormente innovato nel 2005, dacché, venendosi a configurare una sorta di doppio binario: b.3.1) la recidiva è facoltativa se semplice, aggravata ex art.99, comma 2, c.p. e (almeno secondo parte delle opinioni) reiterata ex art.99, comma 4, c.p., con aumento di pena in quest’ultimo caso comunque non inferiore ad 1/3; b.3.2) la recidiva è obbligatoria se la “<em>ricaduta</em>” riguarda una delle 8 gravi fattispecie criminose previste dall’art.407, comma 2, lettera a) del c.p.p.; previsione destinata tuttavia a cadere sotto la scure della Corte costituzionale nel 2015. Con la legge ex Cirielli viene poi modificato il regime di bilanciamento delle circostanze, vengono innalzati gli aumenti di pena per il recidivo, viene differenziato il regime di interruzione della prescrizione e, sul crinale esecutivo, vengono previste limitazioni quanto all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in particolare della “<em>rivisitazione</em>” della recidiva da parte della legge c.d. ex Cirielli del 2005?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>dolo e colpa: la recidiva si applica ormai ai soli delitti dolosi, perché non colposi, la colpa uscendo pertanto dal raggio di azione dell’aggravamento sanzionatorio, giustificato per il Legislatore solo se applicato a chi si ponga in consapevole e volontaria frizione con il precetto penale, commettendo un (nuovo) doloso fatto inadempimento reato; parte della dottrina critica tuttavia questa scelta, sottolineando come anche il delitto colposo abbia un proprio precipuo <em>ubi consistam</em> di gravità – massime sul versante della consapevole e volontaria violazione della norma cautelare che ne compendia la fattispecie tipica – tanto in ambito oggettivo che soggettivo (e, dunque, di pertinente rimproverabilità al reo “<em>ricaduto</em>”);</li> <li>inasprimento sanzionatorio: affiorano consistenti aumenti della pena in ambito “<em>facoltativo</em>”, per come di seguito articolantisi: b.1) recidiva semplice (art.99, comma 1, c.p.): si passa dall’incremento di 1/6 a quello di 1/3; b.2) recidiva aggravata (art.99, comma 2, c.p.): si passa dall’incremento fino a 1/3 all’incremento fino a ½; b.3) concorso di circostanze tra quelle previste dall’art.99 c.p.: aumento di pena sino alla metà nella fattispecie di cui al comma 3; aumento di pena della metà nella fattispecie di cui all’art.99, comma 4, prima ipotesi c.p.; aumento di pena di 2/3 nella fattispecie di cui all’art.99, comma 4, seconda ipotesi c.p.;</li> <li>l’iniziale doppio binario tra facoltatività e obbligatorietà: a fattispecie nelle quali ancora campeggia il “<em>può</em>”, con evidente facoltatività della recidiva, si affiancano tuttavia – post 2005 – altre nelle quali tale parola non figura più, come nel caso dei comma 3 e 4 dell’art.99, alla cui stregua qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l'aumento di pena “<em>è</em>” della metà e se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l'aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, “<em>è</em>” della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, “<em>è</em>” di due terzi; dinanzi a simili espressioni perentorie del legislatore, si agitano 2 opzioni ermeneutiche: c.1) si tratta di fattispecie di recidiva obbligatoria ed automatica, onde il giudice non può non aumentare la pena siccome <em>ex lege</em> direttamente divisato (tesi minoritaria); c.2) si tratta in ogni caso di fattispecie di recidiva facoltativa, nonostante l’infelice e perentoria espressione del Legislatore il quale ultimo del resto, se si è attenti al tenore letterale dell’intero art.99 c.p., dove ha inteso far riferimento alla obbligatorietà ed automaticità dell’aggravamento sanzionatorio, lo ha previsto esplicitamente, come nel caso del comma 5, onde - se si tratta di uno dei delitti indicati all'articolo 407, comma 2. lettera a), del c.p.p. - l'aumento della pena per la recidiva “<em>è obbligatorio</em>” e, nei casi indicati al secondo comma, “<em>non può essere inferiore ad un terzo</em>” della pena da infliggere per il nuovo delitto. Ad affiorare è, in ogni caso, il ridetto “<em>doppio binario</em>” tra fattispecie facoltative (la regola generale) e fattispecie obbligatoria (eccezionale e tassativa), quella appunto che richiama il codice di rito penale, conformemente ad uno schema che è criticato da chi osserva che il Legislatore ha così utilizzato una disposizione processuale per far discendere effetti sostanziali <em>in malam partem</em> a carico del reo recidivo laddove appunto, stando alla giurisprudenza dominante, il c.d. delitto “<em>espressivo</em>” (successivo) rientri tra quelli del catalogo di cui all’art.407, comma 2, lett.a), c.p.p.; la dottrina ha messo in evidenza come – subito dopo la riforma del 2005 - si assista ad una gradualità nel contesto letterale dell’art.99 c.p., onde se la fattispecie di cui al comma 1 è facoltativa <em>tout court</em>, quella di cui ai comma 3 e 4 presenta una facoltatività nell’<em>an</em> ed una obbligatorietà nel <em>quantum</em> e, infine, quella di cui al comma 5 si presenta obbligatoria <em>tout court</em>;</li> <li>la finale, integrale facoltatività della recidiva: con la sentenza 185.15 la Corte costituzionale ha reso facoltativa anche l’ipotesi, originariamente obbligatoria, di recidiva siccome prevista dall’art.99, comma 5, c.p., dichiarando tale disposizione incostituzionale limitatamente alle parole “<em>è obbligatorio e</em>” ed ottenendo proprio l’effetto di sottrarre definitivamente cittadinanza alla recidiva obbligatoria nel nostro sistema penale; per la Consulta si è difatti al cospetto di un autentico ed irragionevole “<em>automatismo sanzionatorio</em>” poggiante sul titolo del nuovo reato (c.d. espressivo), laddove esso appartenga al catalogo di cui all’art.407, comma 2, lettera a) del c.p.p.; proprio il ridetto automatismo finisce infatti con il neutralizzare altri elementi che il giudice potrebbe eventualmente desumere dalla natura dei precedenti reati (fondanti), dal relativo <em>tempus</em> di commissione, oltre che da tutti gli altri parametri che in genere ne fondano la discrezionalità sanzionatoria ancora prima di riconoscere nei precedenti penali, <em>ex se</em>, un indice di più accentuata colpevolezza, oltre che di maggiore pericolosità, del reo “<em>ricaduto</em>”; il giudice è costretto dunque ad aumentare la pena anche nell’ipotesi in cui vi sia un solo reato fondante, magari remoto, poco grave ed assolutamente privo di emblematicità al fine di compiutamente valutare la recidivanza del “<em>novello</em>” reo; una scelta irragionevole del legislatore, vieppiù ove si consideri – precisa la Corte – come il catalogo dei delitti di cui all’art.407, comma 2, lettera a) c.p.p., dai quali discende la ridetta obbligatorietà, comprende in sé fattispecie tutt’affatto eterogenee, che il codice di rito penale accorpa ivi solo in funzione di esigenze processuali (con peculiare riferimento al termine di durata massima delle indagini preliminari), senza che vi sia possibilità di ragionevolmente ancorare ad esse una sorta di minimo comune denominatore in termini di significanza criminosa, come tale specificamente orientata all’aggravamento sanzionatorio da applicarsi al recidivo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in particolare della recidiva “<em>reiterata</em>”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di una fattispecie di recidiva da intendersi ormai come “<em>facoltativa</em>”;</li> <li>dopo la riforma del 1974, il bilanciamento tra circostanze non opera proprio in presenza della recidiva “<em>reiterata</em>”, a differenza di quanto accade per le altre circostanze in genere e, in particolare, per altre circostanze inerenti alla persona del colpevole come l’imputabilità e la recidiva diversa dalla “<em>reiterata</em>” (art.69, comma 4, c.p.);</li> <li>tale divieto di prevalenza reca seco una preclusione per il giudice penale che – in presenza di una recidiva reiterata – può giungere ad un giudizio di equivalenza tra circostanze, ma giammai ad un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, circostanza che crea sospetti di incostituzionalità della norma;</li> <li>dopo una prima pronuncia della Corte costituzionale che salva la norma nel 2007, ed una seconda del 2012 che assume parzialmente incostituzionale l’art.99, comma 4, c.p. con riguardo al divieto di prevalenza della circostanza attenuante ex art.73, comma 5, c.p. (fatto di lieve entità in materia di stupefacenti), per contrasto con i principi di uguaglianza, offensività e proporzionalità della pena, si giunge alle pronunce gemelle 105 e 106 del 2014 con le quali la Consulta dichiara incostituzionale l’art.99, comma 4, c.p. anche dove esso non consente un adeguato bilanciamento della recidiva reiterata con la ricettazione di particolare tenuità (art.648, comma 2, c.p.) e con la violenza sessuale di minore gravità (art.609 bis, comma 3, c.p.); ancora, con la sentenza 74.16 l’incostituzionalità investe la non bilanciabilità con la circostanza “<em>premiale</em>”, sempre in materia di stupefacenti, di cui all’art.73, comma 7, del D.p.R. 309.90; con la successiva sentenza 205.17, medesima sorte tocca alla recidiva reiterata in rapporto alla circostanza attenuante di cui all’art.219, comma 3, della legge fallimentare; ancora, con la sentenza 73.20 la scure dell’incostituzionalità cade sulla recidiva reiterata laddove non bilanciabile con la circostanza attenuante di cui all’art.89 c.p. (vizio parziale di mente); da ultimo, con la sentenza 55.21, la non bilanciabilità della recidiva reiterata viene giudicata incostituzionale in rapporto alla circostanza attenuante di cui all’art.116, comma 2, c.p. (concorso anomalo);</li> <li>per quanto concerne i rapporti tra recidiva reiterata e art.81 c.p. in tema di concorso formale e reato continuato, con l’entrata in vigore della legge ex Cirielli del 2005 è stato introdotto nel codice penale una comma 4 al ridetto art.81 onde, in caso appunto in cui i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave siano stati commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la ridetta forma di recidiva, l’aumento della quantità di pena applicata dal giudice penale (la cui discrezionalità viene all’uopo specificamente limitata) non può comunque essere inferiore ad 1/ 3 della pena stabilita per il reato più grave, introducendosi dunque un limite minimo <em>contra reum</em>;</li> <li>in tema di c.d. attenuanti generiche, è stata ancora una volta la legge ex Cirielli del 2005 a novellare il codice penale, e segnatamente l’art.62 bis, onde non si tiene conto dei criteri di cui all'articolo 133, primo comma, numero 3), e secondo comma, nei casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni; una presa di posizione sulla quale si è tuttavia abbattuta la scure della Corte costituzionale nel 2011, con particolare riguardo alla possibilità di tenere conto della condotta del reo susseguente alla commissione del reato;</li> <li>per quanto concerne la prescrizione del reato, significativa la novellazione – ad opera della legge ex Cirielli del 2005 – dell’art.161 c.p., con ricadute dunque sul regime di interruzione del ridetto termine prescrizionale; stando all’art.161, comma 2, c.p., salvo che si proceda per i reati di cui all’art.51, comma 3 bis e 3 quater, del c.p.p., in nessun caso l’interruzione della prescrizione ridetta può comportare l’aumento di più di ¼ del tempo necessario a prescrivere, di ½ nei casi di cui all’art.99, comma 2, c.p., di 2/3 nel caso di cui all’art.99, comma 4, c.p. e del doppio nei casi di cui agli articoli 102, 103 e 105 c.p.; il termine massimo di prescrizione del reato risulta dunque consistentemente allungato, tra l’altro, proprio nel caso in cui venga contestata la c.d. recidiva reiterata;</li> <li>significativi anche gli interventi riconducibili sempre alla legge ex Cirielli del 2005 (art.7) per quanto riguarda l’accesso dei recidivi ai benefici penitenziari ed alle misure alternative alla detenzione, con particolare riguardo: h.1) alla limitazione del numero di benefici concretamente ottenibili; h.2) alla esclusione dai meccanismi previsti al fine di sospendere automaticamente l’esecuzione della pena prima dell’ingresso del condannato in carcere; h.3) ai più stringenti limiti in ordine all’accesso a forme di espiazione della pena extracerarie. Si tratta di prese di posizione comportanti automatismi aggravatori che vengono via via abbattute dalla Corte costituzionale, a partire dal 2006, e dallo stesso Legislatore nel 2013. Peraltro, la legge ex Cirielli parla in proposito – con guisa anodina – di c.d. recidiva “<em>applicata</em>”, dando la stura a contrasti interpretativi in ordine al significato da ascrivere a tale locuzione; più nel dettaglio, si contrappongono 2 distinti indirizzi ermeneutici: h.1) la recidiva è “<em>applicata</em>” quando viene “<em>contestata</em>” e “<em>valutata</em>”, quantunque venga poi (in concreto) neutralizzata dal giudizio di bilanciamento, e financo quando risulti circostanza “<em>subvalente</em>” rispetto alle aggravanti (orientamento maggioritario); h.1) la recidiva è “<em>applicata</em>” solo quando abbia prodotto il proprio effetto penale tipico, vale a dire un aumento di pena: stando a questo orientamento maggiormente garantista (ma recessivo) non è possibile sostituire, in guisa arbitraria, l’aggettivo “<em>applicata</em>” con il diverso aggettivo “<em>contestata</em>”; inoltre, la recidiva compendia una circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole che può essere rilevante solo se riconosciuta ed affermata in una sentenza di condanna, non atteggiandosi dunque a <em>status</em> del condannato inferibile dal pertinente certificato del casellario ovvero da altre informazioni che attengano alla relativa vita antecedente; dunque, al pari di quanto si verifica per qualsiasi altra circostanza aggravante, non basta a conferire giuridica consistenza alla recidiva la mera contestazione al soggetto attivo del reato, occorrendo piuttosto uno specifico riconoscimento giudiziale a mezzo sentenza di condanna.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>