<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Fatto tipico offensivo: accanto al principio di materialità (alla stregua del quale è punito un fatto, non un’intenzione) ed al principio di legalità (dovendosi trattare di un fatto additato come inadempimento penalmente rilevante dalla legge), si colloca il principio di offensività, onde un fatto tipico è punibile solo se lede o pone in pericolo un interesse costituzionalmente rilevante alla stregua di un canone di effettività. Accade spesso che ciò sia astrattamente concepibile (offensività astratta), ma concretamente disatteso (inoffensività concreta), e su questa sottile linea si colloca l’angusto confine tra il giudizio affidato in via accentrata alla Corte costituzionale e quello, diffuso, appannaggio del giudice di merito penale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Nel <strong>diritto romano</strong> il principio di offensività non ha – come è ovvio – una esplicita sistematizzazione di carattere <strong>dogmatico</strong>. Non mancano tuttavia ipotesi nelle quali affiora la <strong>peculiare inoffensività</strong> della condotta, come tale non punita: nella <strong><em>Lex Iulia de adulteriis coercendis</em></strong>, del 18 a.C., viene incriminato sia lo <strong><em>stuprum</em></strong> (unione sessuale con fanciulli, con vergini o con vedove di <strong>onorevole condizione sociale</strong>: per quelle di condizione sociale non onorevole lo <strong><em>stuprum</em></strong> era dunque <strong>inoffensivo</strong>) che l’<strong><em>adulterium</em></strong> (unione sessuale con donne unite con altri uomini da <em>iustae nuptiae</em>). Per quanto più in specie riguarda l’<em>adulterium</em>, la pena veniva inflitta sia all’uomo che alla donna, ma riguardava il solo caso in cui <strong>adultera fosse la donna</strong>, potendone discendere <strong>figli illegittimi</strong>, mentre veniva considerato inoffensivo l’adulterio <strong>dell’uomo</strong> unito da <em>iustae nuptiae</em> con altre donne.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">La codificazione liberale Zanardelli non si occupa in modo diretto del principio di offensività e tuttavia ne coglie <em>in nuce</em> la portata sistematica e garantista laddove punisce, in sede di tentativo, i soli atti esecutivi del delitto, e non anche quelli meramente preparatori (art.61).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nel codice penale Rocco il principio di offensività trova un riconoscimento palese (seppure non esplicito) soprattutto nelle norme sul tentativo inidoneo (art.56) e sul reato impossibile (art.49), oltre che sull’accordo finalizzato a commettere un reato poi non commesso e sulla istigazione non accolta (art.115).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto (di “<em>fatto commesso</em>” parla l’art.25, comma 2, Cost.) penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie inoffensive di interessi (costituzionalmente) tutelati. Un ruolo parimenti importante svolgono gli articoli 13 e 21 per motivazioni più specifiche ed articolate sulle quali si rinvia <em>ultra</em>..</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1983</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 settembre esce il decreto legge n. 463, che – in tema di omesso versamento di contributi previdenziali e rilevanza penale della condotta – non prevede specifiche soglie di punibilità, così assumendo punibili anche condotte sostanzialmente inoffensive.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1986</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.62 che, in tema di detenzione di armi ed esplosivi, vara una pronuncia interpretativa di rigetto che salva la norma censurata: secondo il giudice rimettente la norma (articolo 2 della legge 895.67) andrebbe dichiarata incostituzionale perché, nel sanzionare la detenzione di esplosivo, non integra tuttavia il quantitativo minimo idoneo ad integrare il reato, in tal modo violando anche il principio di eguaglianza laddove impedisce al giudice la corretta dosimetria della pena in ragione della gravità dei singoli fatti penalmente rilevanti. Per la Corte si tratta di un problema di natura interpretativa che va risolto dal giudice del merito sulla scorta del principio di offensività: è il giudice del merito a dover rileggere in modo sostanzialistico la fattispecie incriminatrice da applicare, muovendo dal sistema generale e dalla norma particolare da applicare al fine di individuare quale sia il bene protetto dalla fattispecie penale tipica e, con esso, la soglia minima di esplosivo superata la quale si entra nel penalmente rilevante.</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.269 che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art.5, comma 1, della legge 1278 del 1930 laddove incrimina chiunque con manifesti, circolari, guide e con qualsiasi mezzo di pubblicità eccita l’emigrazione dei cittadini: all’art.35, comma 4, la Costituzione garantisce la libertà di emigrazione, sicché la norma penale, nella sostanza, non ha un interesse giuridico da tutelare (e dunque – anche se la Corte non lo afferma espressamente - appare indirettamente lesiva del principio di offensività).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 maggio viene pubblicata la sentenza della Corte costituzionale n. 189 che dichiara costituzionalmente illegittimi gli articoli 1 e 3 della legge n.1085 del 1929 laddove puniscono chi esponga bandiere di Stati esteri senza la preventiva autorizzazione dell’autorità politica locale: la Corte fa riferimento all’art.3 della Costituzione ma, nel corpo della pronuncia, afferma che il fatto tipico (l'esposizione non autorizzata in pubblico di bandiere estere) difetta “<em>d'ogni significatività ed offensività</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 ottobre viene varato il D.P.R. n.309 in tema di sostanze stupefacenti, il cui art.73 sanziona – tra le altre condotte - in particolare la coltivazione di piantine dalle quali possono essere estratte, per l’appunto, sostanze stupefacenti: una fattispecie che sarà molto importante proprio in tema di affermazione del principio di offensività. Per quanto riguarda la detenzione di stupefacenti, la disciplina distingue tra la detenzione di un quantitativo superiore alla dose media giornaliera, penalmente sanzionato, e quella di un quantitativo pari o inferiore, sanzionata solo a livello amministrativo. Lo spartiacque è dato dal dato oggettivo della quantità di sostanza stupefacente detenuta. La norma di cui all’art.73 darà adito ad un ampio dibattito proprio in tema di offensività per quanto concerne l’ampio novero delle condotte punibili in essa esplicitate ed assunte lesive del bene giuridico tutelato dalla norma penale prescindendo tuttavia dal concreto superamento della soglia drogante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.333 in tema di detenzione di sostanze stupefacenti, con la quale vengono rigettate (per infondatezza) le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 72-quater della legge 22 dicembre 1975 n. 685, come modificata dalla legge 26 giugno 1990 n. 162 (corrispondenti rispettivamente agli artt. 73, 75 e 78 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope), sollevate in relazione agli artt. 3, 25, 27 e 32 della Costituzione. Ancora una volta, per la Corte si tratta di un problema di natura interpretativa che va risolto dal giudice del merito sulla scorta del principio di offensività: è il giudice del merito a dover rileggere in modo sostanzialistico la fattispecie incriminatrice da applicare, muovendo dal sistema generale e dalla norma particolare da applicare al fine di individuare quale sia il bene protetto dalla fattispecie penale tipica e, con esso, la soglia minima di sostanza stupefacente superata la quale si entra nel penalmente rilevante. Pur non intaccando la discrezionalità del legislatore in materia, la Corte nondimeno ritiene di dover affidare alla sensibilità del legislatore medesimo il compito essenziale di verificare sul concreto terreno applicativo, alla luce degli effetti provocati dal sistema normativo in questione, la bontà delle scelte di merito non sindacabili come tali dalla Corte e di individuare le linee di ogni possibile ed utile modifica migliorativa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 e 19 aprile si svolge una ampia consultazione referendaria che investe anche le norme del DPR 309.90 sulla detenzione di stupefacenti: l’esito, per quanto riguarda le droghe, è abrogativo, con spiccata propensione alla legalizzazione degli atti e delle condotte connesse agli stupefacenti e finalizzate non allo spaccio, ma all’uso personale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 giugno viene varato il DPR n.171 che, dando seguito all’esito della tornata referendaria del precedente aprile, abroga talune norme del Testo unico in materia di sostanze stupefacenti n.309.90: segnatamente, si tratta delle norme che puniscono il procacciamento e la detenzione per uso personale; non solo ricevere e detenere sostanza stupefacente per uso personale non è più reato, ma neppure procacciarsela e detenerla, purché sempre per uso personale: può essere applicata solo una sanzione amministrativa. Altrettanto vale per i fatti di importazione, acquisto o illecita detenzione, che comportano sanzione penale solo ove la sostanza stupefacente sia destinata a terzi (e non al proprio personale consumo). Il nuovo spartiacque è costituito dalla detenzione per uso personale, rispetto alla destinazione a terzi (spaccio). Resta invece penalmente rilevante in ogni caso la coltivazione di piante con principio attivo stupefacente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1995</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.360 che si occupa della questione di costituzionalità delle norme che prevedono in ogni caso la punizione per chi coltiva sostanze stupefacenti. Le censure del giudice rimettente si appuntano anche sulla concreta offensività delle condotte punite, e ciò in quanto la norma penale punisce in modo indipendente rispetto alla quantità di principio attivo contenuta nel singolo prodotto della coltivazione. Per la Corte nondimeno, ed ancora una volta, è il giudice di merito a dover valutare se – nel singolo caso concreto – la coltivazione è o meno idonea a vulnerare il bene giuridico tutelato dalla norma penale, con ciò individuando nel principio di offensività un canone interpretativo per il giudice del merito. Per la Corte non è peraltro irragionevole – con connessa violazione dell’art.3 Cost. – punire da un lato chi acquista e detiene droga solo se ciò è finalizzato allo spaccio a terzi, e punire invece in ogni caso chi coltiva sostanze stupefacenti: laddove vi sia contiguità tra condotta (mera detenzione) e consumo personale, il legislatore può ben essere meno rigoroso rispetto ad ipotesi, quali quella della coltivazione, dove tale contiguità appare meno evidente; ciò anche in ragione della circostanza onde è impossibile determinare <em>a priori</em> quanto sarà il prodotto stupefacente ricavabile dalla coltivazione, e ciò giustifica – sulla scorta di una evidente maggiore pericolosità della condotta - una connessa maggiore severità del trattamento sanzionatorio. Proprio la peculiare pericolosità della condotta di coltivazione consente alla Corte di affermare come in astratto il legislatore abbia rispettato il principio di offensività, avendo incriminato condotte che si palesano lesive o pericolose rispetto a beni giuridici meritevoli di tutela; discorso diverso va fatto per l’offensività in concreto, che è invece appannaggio – in termini di accertamento – del giudice penale del merito, dovendo questi optare per le ermeneusi che, nella singola fattispecie sottopostagli, siano più corerenti con la garanzia che il fatto da punire sia concretamente lesivo o pericoloso per il bene (interesse) protetto dalla norma penale. Ferma dunque la legittimità costituzionale in astratto delle norme che puniscono la coltivazione di sostanze stupefacenti a prescindere dalla relativa destinazione d’uso (personale o di spaccio), dovendosi presidiare il bene di rilevanza costituzionale della salute, è il giudice di merito – accertata la concreta quantità di sostanza stupefacente di volta in volta coltivata – a poter escludere la rilevanza penale del fatto per inoffensività (in concreto) dello stesso; una inoffensività che non va esclusa solo dalla acclarata destinazione della sostanza coltivata all’uso personale, dovendosi piuttosto accertare (stante proprio la necessità di tutelare il bene salute) se la coltivazione medesima coinvolga una quantità di sostanza stupefacente realmente non offensiva (anche) per chi la coltiva, non provocando una apprezzabile stato stupefacente. In sostanza, per la Corte costituzionale se la quantità di stupefacente coltivato è assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (salute <em>in primis</em>) dalla norma incriminatrice all’esito dell’accertamento in concreto operato dal giudice di merito, va esclusa la sanzione penale perché il fatto è inoffensivo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.519 che dichiara costituzionalmente illegittimo l’art.670, comma 1, c.p. laddove punisce la c.d. mendacità non invasiva: laddove la mendacità sia, per l’appunto, non invasiva – compendiando mere richieste di aiuto – essa non può assumersi lesiva dell’ordine pubblico, onde alla stregua del principio di ragionevolezza la relativa punizione deve intendersi incostituzionale. La Corte fonda dunque la declaratoria di incostituzionalità della norma sul principio di ragionevolezza, ma al <em>decisum </em>sembra piuttosto sotteso proprio il principio di offensività, palesandosi inesistente (o comunque non astrattamente ledibile) l’interesse giuridico tutelato dalla norma penale che, proprio come tale, si configura incostituzionale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio viene varata la legge costituzionale n.1 che istituisce la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 novembre la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali vara, in vista del nuovo testo di Costituzione (che non vedrà mai la luce per il fallimento dei lavori della Commissione stessa), la espressa previsione del principio di offensività, onde “<em>non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 giugno esce la sentenza delle SSUU n. 9973 che – nell’assumere configurabile il delitto di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 nella ipotesi di spaccio di stupefacenti anche se la sostanza stupefacente non superi la cosiddetta “<em>soglia drogante</em>” – affermano che la <em>ratio</em> ultima del ridetto articolo 73 è quella di tutelare la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico attraverso il contrasto alla circolazione della droga.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 giugno esce la sentenza del Tribunale militare di Torino n.504 che, facendo applicazione del principio di offensività, assolve (perché il fatto non sussiste) un militare accusato di aver ricettato una brioche: si è al cospetto di una condotta non offensiva, stante anche lo scarsissimo valore economico della <em>res</em> oggetto dell’azione criminosa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno esce la legge n.205 che reca delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario, ed il cui art.18 abroga, tra gli altri, l’art.670 del codice penale in tema di mendicità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 dicembre viene varato il decreto legislativo n.507 recante depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'articolo 1 della legge delega 25 giugno 1999, n. 205, il cui art.54 depenalizza, riducendolo ad illecito amministrativo, il reato contravvenzionale di cui all’art.688, comma 1, c.p., che punisce chi viene colto in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di manifesta ubriachezza. Da questo momento il comma 2, fino ad allora circostanza aggravante (il soggetto agente è stato già condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale), diviene ipotesi comune non aggravata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 luglio esce la sentenza della <strong>Corte costituzionale</strong> n.263 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 120 del codice penale militare di pace (c.d. violazione di consegna). Secondo la Corte, nel caso di specie, la norma penale censurata risponde al requisito, invocato dal remittente, della offensività in astratto, che va intesa come limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa in materia penale e che spetta alla Corte medesima rilevare (viene richiamata la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0360s-95.htm">sentenza n. 360 del 1995</a>). Una volta accertato che il bene giuridico protetto dall’art. 120 del codice penale militare di pace è la funzionalità e l’efficienza di servizi determinati, che il legislatore ha inteso garantire rendendone rigide e tassative le modalità di esecuzione da parte del militare comandato, non vi è ragione per la Corte di dubitare che la violazione della consegna (segnatamente, operare in abiti civili piuttosto che in divisa) sia di per sé suscettibile di ledere interessi di rilievo costituzionale riconducibili ai valori espressi dall’art. 52 della Costituzione. Tanto premesso in astratto, l’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è invece compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta per la Corte valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto. L’articolo 25 della Costituzione, quale risulta dalla lettura sistematica cui fa da sfondo l’insieme dei valori riconnessi alla dignità umana, postula infatti per la Corte un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale (vengono richiamate la <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0360s-95.htm">sentenza n. 360 del 1995</a>, nonché le sentenze <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1997/0247s-97.html">nn. 247 del 1997</a>; <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1992/0133s-92.html">133 del 1992</a>; <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1991/0333s-91.html">333 del 1991</a>, <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1991/0144s-91.html">144 del 1991</a>). Appurato allora il duplice operare del principio di offensività sia sul piano della previsione normativa sia su quello dell’applicazione giudiziale, e chiarite le ragioni per le quali esulano dai compiti della Corte le valutazioni del fatto sollecitate dall’ordinanza di rimessione, non rileva per la Corte medesima la questione se l’offensività in concreto apprezzabile dal giudice (del merito) sia dotata di autonomia concettuale o se essa non sia nient’altro che il riflesso della non sussumibilità di singoli casi sotto la previsione della norma penale a causa del necessario concorrere dell’offensività con gli altri elementi che tipizzano il reato (in sostanza non rileva se l’offensività sia da intendersi come autonomo predicato della fattispecie penale o se essa – priva di autonomia - sia piuttosto da rintracciarsi attraverso uno scandaglio di tutti gli altri elementi della fattispecie medesima).</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.519 che, scrutinando la conformità a Costituzione degli articoli 182 e 183 del codice penale militare di pace, salva le norme che incriminano l’attività sediziosa del militare, purché le si interpreti (sentenza interpretativa di rigetto) in modo conforme al principio di offensività.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.354 che dichiara incostituzionale l’art.688, comma 2, c.p. laddove punisce (ormai a titolo di reato base e non più di circostanza aggravante) chi – già condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale – sia colto in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico. Dal momento che non è più punibile in genere l’essere colti in stato di manifesta ubriachezza nei luoghi ridetti, la sanzione penale prevista è ormai esclusivamente avvinta alle qualità soggettive dell’autore della condotta: in sostanza rileva la sola qualità personale del soggetto, e non già le concrete modalità e circostanze che hanno presidiato ad un comportamento assunto penalmente rilevante, con palmare lesione del principio di offensività. Per la Corte la contravvenzione in parola finisce con l’assumere i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella relativa accezione astratta, costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio della Corte medesima (vengono richiamate le precedenti <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/2000/0263s-00.html">sentenze n. 263 del 2000</a> e <a href="http://www.giurcost.org/decisioni/1995/360s-95.html">n. 360 del 1995</a>). Tale limite, desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel relativo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 luglio esce la sentenza della sezione VI della Cassazione n. 31472, che abbraccia la tesi della coltivazione di sostanze stupefacenti come reato di pericolo astratto: anche poche piantine, o anche piantine con basso grado di tossicità, implicano coltivazione punibile, non potendosi neppure fare riferimento – per escludere la sanzione penale – al grado di maturazione della piantina: dal seme interrato alla raccolta, la coltivazione è penalmente proibita, potendo al più le ridette circostanze rilevare ai sensi dell’articolo 80 del TU 309.90, e dunque ai fini dell’applicazione dell’aggravante speciale della ingente quantità. Si tratta di un orientamento pretorio che contraddice le indicazioni della Corte costituzionale la quale, valutando le norme pertinenti compatibili con la Costituzione in termini di offensività astratta, ha invece richiesto al giudice del merito nel 1995 verifiche ermeneutiche caso per caso di compatibilità in concreto col detto principio. Si tratta di una presa di posizione che si scontra allora con altre pronunce tendenti ad escludere financo la tipicità della concreta condotta laddove sia coltivata una sola piantina di sostanza stupefacente (con conseguente opzione per la tesi che vede nella fattispecie un reato di pericolo concreto).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.150 che – sconfessando ancora la sentenza della Corte costituzionale del 1995 - ribadisce come la coltivazione di sostanze stupefacenti sia reato di pericolo astratto: anche poche piantine, o anche piantine con basso grado di tossicità, implicano coltivazione punibile, non potendosi neppure fare riferimento – per escludere la sanzione penale – al grado di maturazione della piantina: dal seme interrato alla raccolta, la coltivazione è penalmente proibita, potendo al più le ridette circostanze rilevare al fine dell’applicazione dell’articolo 80 del TU 309.90 (aggravante speciale della ingente quantità).</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 dicembre viene varato il decreto legge n. 272, che ritocca la disciplina in tema di sostanze stupefacenti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio viene varata la legge n.49 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.272.05.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 settembre esce la sentenza della sezione VI n.40712 che si occupa ancora del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, distinguendo la coltivazione di tipo organizzato ed imprenditoriale (c.d. coltivazione in senso tecnico agrario) dalla coltivazione puramente domestica: mentre la prima è connotata da elevato coefficiente organizzativo, che si desume dal tipo concreto di coltivazione riscontrato (in terreno o in vaso), dal tipo di semina e di governo della coltivazione, nonché dalla disponibilità di strutture, di attrezzi e di sostanze che fanno pensare, per l’appunto, ad una coltivazione di tipo imprenditoriale; la seconda sarebbe invece presuntivamente orientata al consumo personale dello stupefacente siccome coltivato in casa. Da questo punto di vista, la coltivazione domestica può essere assimilata alla detenzione per uso personale, andando esente da pena, mentre quella imprenditoriale e tecnico agraria si atteggia a concretamente offensiva e come tale soggetta a sanzione penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 luglio escono le sentenze gemelle delle SSUU n.28605 e 28606 in tema di coltivazione di piantine con sostanze stupefacenti. La Corte sconfessa l’orientamento inteso a distinguere tra coltivazione “<em>imprenditoriale</em>” e “<em>domestica</em>”, assumendo in ogni caso, sul piano astratto, penalmente rilevante la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti. Dopo aver richiamato la sentenza della Corte costituzionale del 1995, le SSUU affermano come non vi sia nessun dato letterale nella legge (anche dopo la riforma del 2005-2006) che autorizzi a discriminare tra i due tipi di coltivazione a fini di punibilità della condotta, dovendosi assumere la coltivazione in ogni caso reato, in disparte le caratteristiche della coltivazione e la quantità di principio attivo da essa ricavabile. E’ ben vero che il TU del 1990 prevede ipotesi di autorizzazione alla coltivazione per usi di ricerca o didattici, ma questo non implica che sia per ciò solo punibile la coltivazione non autorizzata, ma comunque su larga scala, con esclusione della sanzione penale per la coltivazione domestica: anche quest’ultima contribuisce infatti ad accrescere la quantità stupefacente esistente ed in circolazione, non potendosi dunque assimilare <em>tout court</em> alla detenzione di sostanza stupefacente per uso personale e meritando come tale sanzione penale (perché capace di vulnerare il bene salute). Anche la coltivazione ad uso personale va dunque punita, anche se – proprio sul crinale del principio di offensività – sarà il giudice di merito del singolo processo, di volta in volta, a poter accertare la inoffensività della condotta perché assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto dalla norma penale. Le SSUU appaiono tuttavia molto severe e rigorose sul punto della c.d. inoffensività in concreto: solo laddove la coltivazione non produca un effetto stupefacente in concreto rilevabile (non accrescendo dunque la quantità di sostanza stupefacente esistente ed in circolazione) può parlarsi di inoffensività, non dovendo essere leso né tampoco posto in pericolo, neppure in grado minimo, il bene tutelato dalla norma penale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.249 che si occupa dell’art.61, n.11..bis, del codice penale, laddove configura – in tema di immigrazione - la c.d. aggravante della clandestinità punendo più gravemente il fatto commesso da chi si trovi illegalmente sul territorio nazionale. Secondo la Corte si tratta di una disposizione incostituzionale, ponendosi in frizione tanto con l’art.3 della Costituzione, quanto con l’art.25, comma 2, della Carta (laddove parla di “<em>fatto commesso</em>”), riconducendo proprio a quest’ultima disposizione costituzionale il principio di offensività: un canone che rende inammissibile punire più gravemente un soggetto solo perché immigrato irregolare, come tale presunto più pericoloso, per qualsiasi violazione penalmente rilevante egli ponga in essere. Per la Corte si è al cospetto di una responsabilità penale d’autore che si pone del tutto fuori asse rispetto al principio di offensività: rispetto al fatto reato commesso, l’essere presente illegalmente sul territorio dello Stato è circostanza totalmente sganciata, onde – anche al fine di garantire il rispetto dei diritti inviolabili – un trattamento penale più severo deve assumersi incostituzionale perché legato alla sola qualità della persona.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.32 che dichiara la illegittimità costituzionale della disciplina sugli stupefacenti di cui al DPR 309.90 (articoli 73 e 75) come novellata dal decreto legge n.272.05.</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile viene varata la legge n.67 con la quale vengono conferite talune deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 139 che si occupa del reato di omesso versamento di contributi previdenziali, e segnatamente dell’art.2, comma 1.bis, del decreto legge 463.83, laddove non prevede soglie minime di punibilità e dunque collega la sanzione penale anche ad omissioni contributive di esiguo valore: secondo la Corte il principio di offensività della condotta penalmente rilevante ha rilevanza costituzionale (viene richiamato il precedente n.333 del 1991), e va rispettato dal legislatore anche laddove questo metta mano alla disciplina pertinente per deflazionare la giustizia penale (cosa che la Corte indirettamente sollecita). In ogni caso, il principio costituzionale di offensività ha rilevanza dal punto di vista interpretativo e, dunque, del concreto accertamento da parte del giudice del merito: il principio di necessaria offensività della condotta si atteggia infatti a canone ermeneutico, onde il giudice deve applicare la norma incriminatrice, avuto riguardo alla precipua ratio della medesima, solo laddove non si configuri concretamente la inidoneità lesiva dei beni giuridici (penalmente) tutelati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 marzo esce l’ordinanza della sezione I della Corte d’Appello di Brescia con la quale viene rimessa alla Corte costituzionale la questione in ordine alla offensività della coltivazione di sostanze stupefacenti allorché tale coltivazione sia finalizzata al consumo personale. La Corte richiama l’arresto delle SSUU n. 9973 del 1998 che – nell’assumere configurabile il delitto di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 nella ipotesi di spaccio di stupefacenti anche se la sostanza stupefacente non superi la cosiddetta “<em>soglia drogante</em>” – affermano come la ratio ultima del ridetto articoli 73 è quella di tutelare la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico attraverso il contrasto alla circolazione della droga: muovendo da questo principio, si ritrae il corollario che qualora la coltivazione sia finalizzata non allo spaccio, ma al consumo personale, i ridetti interessi non possono ritenersi vulnerati, dovendosi assumere scongiurato lo stesso evento che la norma vuole evitare, vale a dire la circolazione della droga.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo esce il decreto legislativo n.28 che, in attuazione della delega conferita al Governo con legge n.67.14, introduce nel codice penale il nuovo art.131.bis in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, che intercetta il tema della necessaria offensività della condotta penalmente rilevante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 gennaio esce il decreto legislativo n.8 recante disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2, della legge delega 28 aprile 2014, n. 67, che depenalizza tra gli altri il reato di omissione contributiva (omesso versamento di contributi previdenziali) laddove l’importo omesso non superi una determinata soglia annua (10 mila euro).</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.109 che si occupa della coltivazione di sostanza stupefacente, con particolare riguardo all’ipotesi in cui tale coltivazione sia finalizzata al mero consumo personale, e non allo spaccio. La finalità personale – per la Corte – non può esimere dall’applicazione della sanzione penale (palesandosi offensiva in astratto), e tuttavia il singolo giudice del merito deve verificare in concreto se la condotta del soggetto agente è realmente offensiva, sia sulla scorta della disciplina del reato impossibile ex art.49 c.p., sia sulla scorta della stessa necessaria tipicità della fattispecie, onde il fatto è tipico solo se concretamente offensivo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.25057 alla cui stregua, in tema di coltivazione di stupefacenti, l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, e ciò in quanto "<em>coltivare</em>" è attività che si riferisce all'intero ciclo dell'organismo biologico.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 15 dicembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.53337 alla cui stregua, in tema di coltivazione di stupefacenti, l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, e ciò in quanto "<em>coltivare</em>" è attività che si riferisce all'intero ciclo dell'organismo biologico.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’ 8 marzo viene varata la legge n. 24 recante disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie (c.d. legge Gelli-Bianco) che disciplina, tra le altre cose, i profili di responsabilità colposa nell’attività medico-chirurgica. Sul crinale penale, rileva in particolare l’art. 6, che introduce nel codice penale una nuova fattispecie incriminatrice, rubricata all’art. 590 sexies: “<em>responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario</em>” ed il cui comma 1 stabilisce che se i fatti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose “<em>sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma</em>”; il quale ultimo (comma 2), a propria volta, prevede un’ipotesi di “<em>esclusione della punibilità</em>” (dalla configurazione dogmatica incerta, potendosi anche compendiare in un difetto di offensività in astratto della condotta) onde: “<em>qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto</em>” circostanza quest’ultima che richiama proprio il canone della offensività in concreto della condotta punibile. Viene anche abrogato l’art. 3, comma 1, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, da L. 8 novembre 2012, n. 189, meglio noto come “Decreto Balduzzi”, laddove esclude la penale responsabilità, per colpa lieve, dell’esercente la professione sanitaria, “<em>che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.23093, onde il furto di un cartello stradale arrugginito non configura un reato. Nel caso di specie, il cartello stradale oggetto di appropriazione era stato fatto oggetto di sostituzione, trattandosi dunque di <em>res derelicta</em>, avendo l'ente proprietario deliberato la dismissione dell'oggetto, sostituito con un altro, in quanto ormai arrugginito. Secondo la Corte, stante questa configurazione fattuale, oggettivamente accertata e di cui la motivazione della sentenza impugnata dà atto, occorre interrogarsi sulla compatibilità, nel caso di specie, della declaratoria di responsabilità per il reato di furto con il principio di offensività, quale canone che ha trovato espresso riconoscimento sia nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che in quella della Corte di cassazione medesima. Il giudice delle leggi ha infatti più volte affermato – prosegue la Corte - la rilevanza del principio di offensività e, pur non esprimendosi in ordine al relativo fondamento costituzionale, ha asserito che esso costituisce un canone ermeneutico di fondamentale importanza (vengono richiamate in tal senso, Corte cost. 19-26 marzo 1986, n. 62, Vo. De., in materia di armi ed esplosivi; Corte cost. 26 settembre -6 ottobre 1988 ,n. 957, Le., in tema di sottrazione di minorenni; Corte cost. 24-7-1995 n 360, Le. e Corte cost. 27-3-1992 n 133, Bizzarri, in materia di sostanze stupefacenti). L'applicazione di tale criterio interpretativo importa, secondo il giudice costituzionale, in primo luogo, l'individuazione del bene tutelato, argomentando "<em>dal sistema tutto e dalla norma particolare</em>" (così, letteralmente, Corte cost., 19-26 marzo 1986 n 62); e, in secondo luogo, la valutazione della effettiva lesività del fatto rispetto a tale bene (interesse) tutelato. In quest'ottica – prosegue ancora la Cassazione - la Corte costituzionale ha, più volte (Corte cost. n. 263 e n 519 del 2000; ord. n. 30 del 2007), additato al giudice la necessità di verificare la sussistenza non solo della formale tipicità del fatto ma anche della sua effettiva capacità di offendere il bene protetto. In questa prospettiva, si è affermato, in giurisprudenza, che il giudice di merito deve verificare se la condotta oggetto della contestazione risulti effettivamente e concretamente idonea a ledere o a porre in pericolo il bene giuridico tutelato, giacché, ove il comportamento posto in essere dall'agente risulti assolutamente inidoneo a porre a repentaglio il bene protetto, deve concludersi per l'inoffensività della condotta, con la conseguente applicazione della disciplina del reato impossibile (vengono richimate Cass., Sez. 4, n. 40819 del 21-10-2008; Cass. 2-5-2001, Pi.; Sez. 4, n. 37253 del 17-9-2002). Infine, la Corte richiama anche le Sezioni unite (Sez. U., 2- 4-1998, Kr.), che - pur esprimendosi nel senso onde integra il reato di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 la cessione a terzi di sostanza stupefacente contenente un principio attivo così modesto da escluderne l'efficacia drogante, in quanto i beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell'ordine pubblico, sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante - si sono tuttavia richiamate al principio, affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, ove la singola condotta sia assolutamente inidonea a porre in pericolo i beni giuridici tutelati, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, le indispensabili connotazioni di offensività di quest'ultima implicando infatti, di riflesso, la necessità che anche in concreto l'offensività sia ravvisabile, almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente. In difetto di ciò, la fattispecie verrebbe a refluire nella figura del reato impossibile.</p> <p style="text-align: justify;">Il 25 maggio esce la sentenza della IV sezione n.26276 che si occupa di una fattispecie in tema di guida in stato di ebbrezza (contravvenzione) e di particolare tenuità del fatto ex art.131.bis c.p., in un caso in cui il tasso alcolemico rilevato alla guida supera di poco la soglia che la legge prevede a fini di punibilità. La Corte rileva in premessa essere fuori discussione, per averlo chiarito le Sezioni Unite, che la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131.bis cod. pen. - in quanto applicabile in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma - ad ogni fattispecie criminosa, è configurabile anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo in astratto incompatibile con il giudizio di particolare tenuità la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo, richiamando sul punto la sentenza delle Sez. Un., n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj. Le stesse SS.UU Tushaj hanno chiarito – prosegue la Corte - che, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.30238 alla cui stregua, in materia di coltivazione di sostanze stupefacenti, <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=7%3d5XFV9%26E%3d0c%26r%3dTDY9X%26x%3dU5XBYB%26N%3dqNxI_1uWs_B5_vtbt_69_1uWs_A01P6.8mKrNxHnAmN2NmSr5.mM_1uWs_A0r86M_vtbt_690Y_vtbt_69IdDcIb8ZIc_vtbt_69dH_kBjLhBwI_wM4Ji9j7iG39.lMvF_vtbt_794Nq_LxOv6n_LUvY_Whgnk_r86Mp83NiK_1uWs_AZyMv_Gi7rOq5e4j_KZwT_Vm9q4rF_vtbt_6Y4Nq_6jGt4rAr_KZwT_Vmhij%26m%3d%26Cw%3dUBV0a">ai fini della valutazione dell'offensività della condotta non bisogna considerare la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma l'attitudine della pianta – anche per le modalità di coltivazione che la contraddistinguono – a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.36037 alla cui stregua la condotta di coltivazione non autorizzata di una pianta conforme al tipo botanico, la quale abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima, non è penalmente rilevante quando sia del tutto inidonea, in ragione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, a determinare sia un pericolo per la salute pubblica, sia la possibile diffusione della sostanza producibile.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 43849 che, nel pronunciarsi ancora una volta su di una fattispecie di coltivazione in casa di sostanza stupefacente, esclude il rilievo della c.d. minima offensività della condotta, affermando come <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=0%3dFYPYJ%26F%3dJf%263%3dUQaKU%268%3dXFYLbM%26O%3d1Q9J_Axht_L8_7ulw_G0_Axht_KCBQF.AxL2Q9IxDxOBQxT28.xN_Axht_KC39FP_7ulw_G0Jb_7ulw_G0SgOdSeJcSX_7ulw_G0VL1N2Sp_GtOxDD835_2K_r5B8_15_6F3C68_40yB3M2SxNt_AtF58_rI7A4NC8_3I7_M0I_B81PtO1I.1Q2F_Axht_LC0N6_P4OA0t_Ljze_Wwktk_7BBM5B9NxO_7ulw_GZDQ2_GxAxO6_Ofwi_Zs968xF_Axht_Kc0N6_0pG98xA7_Ofw8p5ti_Zshxn%26s%3d%26CB%3dYKZMd">l’illiceità penale della coltivazione di sostanze stupefacenti persista anche qualora questa sia destinata al solo uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, sussistendo in ogni caso, per l’appunto, un’offensività della condotta penalmente rilevante.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.48352 che rappresenta, in termini generali, come ai fini della declaratoria di non punibilità prevista dall’art.131 bis c.p. occorra distinguere la tenuità del danno - che, descrivendo le conseguenze di una condotta criminosa sul piano patrimoniale, si esaurisce in una specifica connotazione del fatto - dalla tenuità dell’offesa, che invece riguarda la tipicità del fatto nella relativa globalità.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 51597 che si pronuncia in tema di omesso versamento di ritenute limitato tuttavia solo ad una somma esigua (poche centinaia di Euro), assumendo che in questo caso la punibilità può essere esclusa per particolare tenuità del fatto. Per la Corte, più in specie, <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=3%3dAV7RE%26C%3d1Y%26x%3dS0SEa%26o%3dQAV3UH%26L%3dhJ4G_rqcq_31_2rSp_B7_rqcq_267Nw.4sIiJ4Fe7sLsJsQi1.sK_rqcq_26x6wI_2rSp_B71U_2rSp_B70ZJa0XFW9S_2rSp_B7OCoJsE_66rIkDeD4F_d9_20t5xLt5_w2_sEvF_p52_Go3r6_c5xKiDk0a_4s_6uHy_Ca_F5Ei2sCiJk_GuE_oJs526_eImCuIk.9tCv_IQsZ_TfK4D_sE5Ic5_2rSp_C5D5Q_EeM3CeJ46r_HatP_RFLtC_w6d95D_rqcq_34oDa9v_IQsZ1k2a_S6K4D_c1wGa9qE_rqcq_34N6G%264%3d%26sJ%3d2XHY2">la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità dal fatto può trovare applicazione anche in riferimento ai reati tributari per i quali sia prevista una soglia di punibilità, tenendo conto di tutte le peculiarità del caso concreto.</a></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione civile n.27434, che premette come. l’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria costituisca illecito disciplinare del magistrato, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. e, del <a href="http://www.lexitalia.it/n/1228">d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109</a>, allorché la condotta interferente sia idonea, almeno astrattamente, a mettere in pericolo la libertà di determinazione e la serenità di giudizio del magistrato destinatario, onde lo stesso configura un illecito cosiddetto di pericolo che non va inteso come pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale, ma come lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma. Le SSUU precisano nondimeno come in tema di illeciti disciplinari riguardanti i magistrati, la norma di cui all’art. 3 <em>bis</em> del <a href="http://www.lexitalia.it/n/1228">d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109</a>, aggiunta dall’art. 1 della <a href="http://www.lexitalia.it/n/1306">legge 24 ottobre 2006, n. 269</a>, (secondo cui “<em>l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza</em>“), introduca nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, onde la sussistenza dell’illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto, effettuato “<em>ex post</em>“, sicché - ai sensi dell’art. 3-<em>bis</em> del <a href="http://www.lexitalia.it/n/1228">d.lgs. n. 109 del 2006</a> - la condotta disciplinare irrilevante va identificata, una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica, in quella che non compromette l’immagine del magistrato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2030, alla cui stregua la coltivazione organizzata (a ciclo continuo) di cannabis nel seminterrato esclude di per sé la non punibilità per tenuità del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.12226 alla cui stregua, laddove sia stata accertata la coltivazione di piantine di cannabis, non può darsi rilievo né alla scarsa consistenza del principio attivo contenuto nelle piantine, né alla destinazione personale, rimanendo il fatto pienamente offensivo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 32170 secondo cui è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del reato di adescamento di minorenne previsto dall’art. 609 undecies, c.p. in relazione agli artt. 13, 25, 21, 27 Cost. perché, integrando un reato di pericolo concreto, volto a neutralizzare il rischio di commissione dei più gravi reati a sfondo sessuale lesivi del corretto sviluppo psicofisico del minore e della sua autodeterminazione, non contrasta con il principio di offensività; necessitando, ai fini della verifica del dolo specifico, del ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa dedursi il movente sessuale della condotta, non viola il principio di determinatezza della fattispecie penale; punendo, con una cornice edittale equa proporzionatamente inferiore rispetto a quella prevista per i reati fine, comportamenti idonei a mettere in pericolo un bene giuridico primario, meritevole di intensa tutela, è compatibile con il principio della rieducazione della pena.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 38868 che richiama il consolidato orientamento secondo cui la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti rientra <em>tout court</em> nell'ambito delle condotte di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in quanto i reati che puniscono le varie forme di detenzione di sostanze stupefacenti sono reati di pericolo astratto, sicché, laddove il fatto sia conforme alla fattispecie tipica, ricorre necessariamente l'astratta offensività della condotta. Tuttavia, ricorda la Corte, permane sempre la possibilità di verificare l'offensività in concreto della condotta che, nel caso della coltivazione, non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile, ovvero allorquando la sostanza sia conforme al "tipo", ma non abbia la qualità minima per svolgere la funzione di droga.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 49845 che conferma l’orientamento secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 50628 che fa proprio il granitico orientamento secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante, ai sensi del citato art. 73 d.P.R. n. 309/1990, qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando tale attività sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale; risulta irrilevante la distinzione tra coltivazione "in senso tecnico-agrario" ovvero" imprenditoriale" e coltivazione domestica", in quanto qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato dal dato essenziale e distintivo- rispetto alla detenzione- di contribuire ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente; tuttavia, ai fini della punibilità, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta riferita all'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile; tale ultima affermazione risulta evidentemente imposta, pur avendo la fattispecie criminosa natura di reato di pericolo presunto, dall'esigenza di verificare in concreto l'offensività specifica della singola condotta accertata, secondo i principi affermati dalla consolidata giurisprudenza costituzionale sul punto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 dicembre esce la sentenza della Vi sezione della Cassazione n. 56737 secondo la quale la legge n. 242 del 2016 (<em>norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell'impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione</em>) non ha comportato la ridefinizione dell'ambito di liceità delle diverse condotte di detenzione e cessione della marijuana e dell'hashish quali derivati dalle coltivazioni di cannabis sativa L. Pertanto, La cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, presenta natura di sostanza stupefacente sia per la previgente normativa che per l'attuale disciplina, costituita dall'art. 14 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in cui l'allegata Tabella II prevede solo l'indicazione della Cannabis, comprensiva di tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione, e riferibile a tutti i preparati che la contengano, rendendo così superfluo l'inserimento del principio attivo Delta-9-THC. L'introduzione della legge 2 dicembre 2016 n. 242 che, stabilendo la liceità della coltivazione della cannabis sativa L per finalità espresse e tassative, non prevede nel proprio ambito di applicazione quello della commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish) e - pertanto - non si estende alle condotte di detenzione e cessione di tali derivati che continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal d.P.R. n. 309/90, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 1° febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 5009 che, in tema di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. al reato di guida in stato di ebbrezza, ribadisce l’orientamento secondo cui la causa di non punibilità è configurabile - in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma - ad ogni fattispecie criminosa, e pertanto anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo, in astratto, incompatibile, con il giudizio di particolare tenuità, la presenza di soglie di punibilità all'interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo. Da ciò la Corte ne deduce che, la natura di reati autonomi delle diverse fattispecie dell'art. 186, co. 2 lett. b) e c) Cod. str., delimitate 'internamente' in virtù del grado alcolemico, implica che il giudizio di particolare tenuità va espresso considerando l'escursione di gravità interna alla singola fattispecie e non la complessiva scala di gravità definita dagli illeciti descritti da quelle disposizioni (e da quella di cui alla lettera a).</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">L’8 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10360 onde ai fini dell'integrazione del delitto di violenza privata è necessario che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della libertà di movimento o della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti che, pur costituendo violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali, si rivelino inidonei a limitarne la libertà di movimento, o ad influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 23787 che si pone nel solco dell’orientamento secondo cui ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato, essendo stata ad esempio esclusa la sussistenza del reato per la minima estensione della coltivazione e per il "conclamato uso personale" di quanto prodotto.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 141 che affronta la questione della legittimità delle norme incriminatrici in materia di prostituzione. Dopo un ampio excursus diacronico e comparato sui diversi sistemi legislativi in materia, la Corte rileva che nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede.</p> <p style="text-align: justify;">Al riguardo, occorre considerare che, in questa materia, la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento <em>ex post</em> affidato alla giurisdizione penale.</p> <p style="text-align: justify;">A ciò si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono – in ipotesi – per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo).</p> <p style="text-align: justify;">Riguardo, poi, alla concorrente finalità di tutela della dignità umana, è incontestabile che, nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma, Cost., il concetto di «dignità» vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore. È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente.</p> <p style="text-align: justify;">Valutazioni tutte, quelle dianzi indicate, che spiegano e giustificano, dunque, sul piano costituzionale, la scelta del legislatore italiano – per nulla isolata, come si è visto, nel panorama internazionale – di inibire, con le norme denunciate, la possibilità che l’esercizio della prostituzione formi oggetto di attività imprenditoriale.</p> <p style="text-align: justify;">Richiamando poi la propria costante giurisprudenza, la Corte afferma che l’individuazione dei fatti punibili, così come la determinazione della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla “meritevolezza” e al “bisogno di pena” – dunque, sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa – sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici. Le scelte legislative in materia sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio.</p> <p style="text-align: justify;">Tali affermazioni appaiono tanto più valide in rapporto a un fenomeno come quello della prostituzione, il quale, per quanto rilevato in apertura di discorso, si presta a un’ampia varietà di differenti valutazioni e strategie d’intervento.</p> <p style="text-align: justify;">Per quel che attiene, poi, più specificamente, alla limitazione della discrezionalità legislativa che deriva, comunque sia, dall’esigenza di rispetto del principio di offensività, la giurisprudenza della Corte è granitica nell’affermare come tale principio operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “in concreto”). Quanto al primo versante, il principio di offensività “in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva: prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto. In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in questione possa ritenersi rispettato, occorrerà “che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’<em>id quod plerumque accidit</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 luglio esce la sentenza della Sezioni Unite della Cassazione n. 30475 che interviene sulla rilevanza penale della coltivazione della cannabis all’indomani dell’entrata in vigore della L. 242 del 2016.</p> <p style="text-align: justify;">In primo luogo la Corte ricorda che, in base al T.U. stupefacenti, la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell'ambito dell'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup..</p> <p style="text-align: justify;">Detta fattispecie, infatti, incrimina, oltre alla coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l'estrazione, la raffinazione, la vendita, l'offerta o la messa in vendita, la cessione o la ricezione, a qualsiasi titolo, la distribuzione, il commercio, l'acquisto, l'esportazione, l'importazione, il trasporto, il fatto di procurare ad altri, l'invio, il passaggio o la spedizione in transito e la consegna per qualunque scopo o comunque l'illecita detenzione al di fuori dell'ipotesi dell'uso personale, delle sostanze stupefacenti di cui alla tabella II, dell'art. 14, T.U. stup.. E preme evidenziare che, rispetto al descritto piano repressivo delle attività illecite, il legislatore nell'anno 2014 ha espressamente previsto una sola «eccezione», riguardante la «canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'art. 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea» (art. 26, comma 2, T.U. stup.); proprio in tale ambito sostanziale si inscrive la seguente novella del 2016, volta a promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della canapa.</p> <p style="text-align: justify;">Osservano le Sezioni Unite che il sintagma contenuto nell'art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tratta «non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», delinea l'ambito dell'intervento normativo, che riguarda un settore dell'attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall'ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell'ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare. Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui all'art. 14, d.P.R. n. 309/1990 (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis) poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell'attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell'Unione europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup., pure a seguito delle recenti modifiche introdotte all'art. 26, comma 2, T.U. stup., dal ricordato decreto-legge n. 36 del 2014. Rafforza il convincimento rilevare che l'originaria versione dell'art. 1 limitava l'applicazione della legge alle coltivazioni con percentuale di tetraidrocannabinolo inferiore allo 0,3 per cento e che l'art. 5 prevedeva l'introduzione di una modifica espressa del richiamato art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. stup., con l'indicazione di un limite soglia di principio attivo, superiore allo 0,5 per cento: ma si tratta di previsioni che non si rinvengono nel testo della legge n. 242 del 2016, definitivamente approvato.</p> <p style="text-align: justify;">Dette considerazioni inducono di riflesso ad attribuire natura tassativa alle sette categorie di prodotti elencate dall'art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L.: tanto si afferma, atteso che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato. Rafforza il convincimento considerare che la stessa disposizione derogatoria, di cui all'art. 26, comma 2, cit., nel delimitare l'ambito applicativo della ricordata eccezione in cui si colloca l'intervento normativo del 2016, fa espresso riferimento alla finalità della coltivazione, che deve essere funzionale «esclusivamente» alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali, «diversi» da quelli relativi alla produzione di sostanze stupefacenti. Tanto chiarito, si richiama l'elenco dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione delle varietà di canapa di cui si tratta (cannabis sativa L.):</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;</li> <li>b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;</li> <li>c) materiale destinato alla pratica del sovescio;</li> <li>d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;</li> <li>e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;</li> <li>f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;</li> <li>g) coltivazioni destinate al florovivaismo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;">Rilevano le Sezioni Unite che merita condivisione l'orientamento giurisprudenziale che, muovendo dal rilievo che la legge 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per le finalità espresse e tassativamente indicate dalla novella, ha affermato che la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, cit.). Invero, la coltivazione di cannabis sativa L. ad uso agroalimentare, promossa dalla legge n. 242 del 2016, è stata utilmente definita sia mediante l'indicazione della varietà di canapa di cui si tratta, sia in considerazione dello specifico ambito funzionale dell'attività medesima, che non contempla l'estrazione e la commercializzazione di alcun derivato con funzione stupefacente o psicotropa. Pertanto, dalla coltivazione di cannabis sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dall'art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina.</p> <p style="text-align: justify;">Conclusivamente osservano le SU che non si rinviene alcun dato testuale, né alcuna indicazione di ordine sistematico, come chiarito, che possa giustificare la tesi - che pure è stata espressa - volta far rientrare le inflorescenze della canapa nell'ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all'art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all'art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione - foglie, inflorescenze, olio e resina - ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina.</p> <p style="text-align: justify;">A questo punto della trattazione le S.U. ricordano l'insegnamento giurisprudenziale che da tempo ha valorizzato il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti, oggetto di cessione. Le Sezioni Unite hanno rilevato che, rispetto al reato di cui all'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, non rileva il superamento della dose media giornaliera ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente (Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856). Successivamente, analizzando la specifica questione afferente alla eventuale inoffensività della cosiddetta coltivazione domestica di cannabis, le Sezioni Unite hanno affermato che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920). Si tratta di principi recentemente ribaditi dalla Corte Costituzionale, chiamata ad occuparsi della legittimità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, anche nel caso in cui la condotta sia funzionale all'uso personale delle sostanze ricavate (Corte cost., sent n. 109 del 2016). Il Giudice delle leggi, nel dichiarare non fondata la questione, ha ribadito la validità del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, operante anche sul piano concreto, nel momento in cui il giudice procede alla verifica della rilevanza penale di una determinata condotta.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta di coordinate interpretative di certo rilievo, nella materia in esame, posto che la cessione illecita riguarda inflorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di THC. Come sopra chiarito, secondo il vigente quadro normativo, l'offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., infatti, integrano la fattispecie incriminatrice ex art. 73, d.P.R. n. 309/1990. Ciò nondimeno, si impone l'effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all'attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talché occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 agosto esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 35436 che rimette alle Sezioni Unite il seguente quesito “<em>se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l'attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Ricorda il collegio come costituisca principio consolidato quello secondo il quale la coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti integra il reato di cui all'art. 28, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, a prescindere dalla finalità della condotta e dalla natura domestica o meno della coltivazione. Quel che conta, ai fini dell'integrazione del reato, è che la condotta rechi in sé un nucleo minimo di offensività, anche potenziale.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla declinazione del concetto di <em>"offensività in concreto", </em>però, la giurisprudenza si è divisa seguendo due diversi filoni interpretativi pur gemmati dalla comune premessa che la pianta sia quantomeno conforme al modello botanico vietato.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo un primo indirizzo, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, <em>non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato </em>che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo un diverso orientamento, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, <em>ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto </em>e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell'obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 19 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, n. 46595, che affronta la tematica delle misure di sicurezza e prevenzione, ovvero sulla applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ex art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159/2011, principio di tassatività, CEDU e prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. La corte afferma il seguente principio di diritto: la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico.La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: "Se, ed in quali limiti, la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile, in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli artt. 8 e 75 d. Igs. n. 159 del 2011”.</p> <p style="text-align: justify;">Sostiene la Corte che l'art. 75, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011 punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni l'inosservanza degli obblighi e prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno. Gli obblighi e le prescrizioni sono dettati dal tribunale che dispone la misura di prevenzione: l'art. 8, comma 2 del d. Igs. n. 159, infatti, prevede che «qualora il tribunale disponga l'applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all'art. 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare»; il comma 4 elenca le prescrizioni che il tribunale deve dettare «in ogni caso», tra cui quella «di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza» e quella «di non partecipare alle pubbliche riunioni». La rimessione alle Sezioni Unite è stata disposta per le questioni interpretative concernenti la seconda prescrizione, ma i due ricorrenti sono stati condannati anche per la violazione della prima, di cui si tratterà nella parte finale della presente sentenza. I commi 5 e 6 della norma permettono, inoltre, al tribunale di imporre altre prescrizioni al sorvegliato speciale: tutte quelle «che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale»; alcune di esse sono tipizzate dal legislatore. Il contenuto precettivo del reato di cui all'art. 75 cit., quindi, è costruito per relationem agli obblighi e alle prescrizioni previsti dall'art. 8 dello stesso decreto.</p> <p style="text-align: justify;">La norma in esame - che costituisce la integrale trasposizione della fattispecie originariamente prevista dall'art. 9, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 - è stata oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo; tali pronunce, peraltro, non hanno valutato soltanto la fattispecie penale in sé, ma il complesso normativo relativo alle misure di prevenzione: quindi, la selezione dei destinatari della misura di prevenzione, l'individuazione e la natura delle prescrizioni e degli obblighi che possono o devono essere dettati, la loro sanzionabilità penale in base alla fattispecie incriminatrice in esame. Anche il legislatore è intervenuto su tali tematiche. Si sono, quindi, limitate le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione cancellando quella dei «proclivi a delinquere» (Corte Cost., sent. n. 177 del 1980) e quella di coloro che dovevano ritenersi «abitualmente dediti a traffici delittuosi» (Corte Cost., sent. n. 24 del 2019); il legislatore del 2011 non ha riprodotto, tra le prescrizioni che devono essere dettate in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale, quelle «di non dare ragioni di sospetto» e «di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in casi di prostituzione», previste dall'art. 5, comma terzo, legge n. 1423 del 1956; le Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò hanno escluso, in via interpretativa, che la fattispecie penale punisca anche la violazione dell'obbligo del sorvegliato speciale di portare con sé ed esibire la carta di permanenza (art. 8, comma 7 D. Igs. n. 159 del 2011), qualificando la condotta come violazione dell'art. 650 cod. pen. (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019), nonché la violazione delle prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi"; con la sentenza n. 25 del 2019 la Corte Costituzionale è intervenuta su tali ultime prescrizioni, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, commi 1 e 2 d. Igs. n. 159 del 2011 nella parte in cui puniscono come contravvenzione o come delitto la loro inosservanza.</p> <p style="text-align: justify;">Le diverse pronunce hanno affrontato, innanzitutto, il tema della precisione delle norme e della possibilità per l'interessato di conoscere e individuare le condotte vietate e di prevedere le decisioni giudiziarie. La tematica, peraltro, viene in rilievo sotto due profili: l'individuazione delle categorie di soggetti che possono essere sottoposti alle misure di prevenzione e la descrizione degli obblighi e delle prescrizioni dettate al sottoposto alla misura di prevenzione, la cui violazione è sanzionata penalmente.Le due sentenze della Corte Costituzionale già ricordate hanno espunto le categorie dei «proclivi a delinquere» e di coloro «che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» proprio per la «radicale imprecisione» della descrizione normativa con la conseguente discrezionalità per gli operatori. In conseguenza dei due interventi, l'applicazione delle misure di prevenzione dovrebbe essere ormai limitata a persone effettivamente pericolose nonché in grado di prevedere, in conseguenza delle loro condotte, una decisione in questo senso. Il secondo profilo interessa in questa sede. La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò ha distinto tra le prescrizioni generiche e le prescrizioni specifiche, negando un reale contenuto precettivo delle prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi", in quanto indeterminate e imprecise e non indicanti alcun comportamento specifico da osservare.</p> <p style="text-align: justify;">Una seconda tematica affrontata è quella del rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità. Anche se le misure di prevenzione vengono applicate a soggetti effettivamente pericolosi, non tutte le violazioni delle prescrizioni dettate dal Tribunale possono essere penalmente sanzionate: le Sezioni Unite, Sinigaglia hanno evidenziato che, per essere penalmente sanzionate, le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni devono consistere in condotte «eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno»; non è possibile, cioè, «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a soggetto qualitativamente pericoloso»: piuttosto, devono essere puniti soltanto quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità, quelle inosservanze che determinano un "annullamento" di fatto della misura. Sulla base di tali considerazioni, unite all'interpretazione testuale delle norme, è stato affermato che il mancato porto della carta di permanenza non integra il reato di cui all'art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, ma la contravvenzione di cui all'art. 650 cod. pen.</p> <p style="text-align: justify;">Una terza problematica - contigua, ma non coincidente con la precedente - si interroga sulla legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelare altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Proprio con riferimento al divieto di partecipare alle pubbliche riunioni, la Corte EDU, De Tommaso ha espresso preoccupazione per il fatto «che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l'assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice». Come osserva incidentalmente l'ordinanza di rimessione, il precetto viene criticato per la eccessiva ampiezza del divieto piuttosto che in rapporto al deficit di conoscibilità: mentre, quanto agli obblighi di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte EDU censura la norma che li prevede perché «non formulata in modo sufficientemente dettagliato e [perché] non chiarisce con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate ad una persona», la «preoccupazione» espressa dalla Corte EDU con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni riguarda soprattutto l'assolutezza della compressione della relativa libertà. Non vi è dubbio che il riferimento finale alla «restrizione [...] lasciata interamente alla discrezione del giudice» sembra evocare anche il vizio della incertezza del contenuto della prescrizione: si tratta, tuttavia, di un accenno non del tutto chiaro, tenuto conto, da una parte, che il tribunale che applica la misura di prevenzione non ha discrezionalità nel graduare la restrizione della libertà di partecipare alle riunioni pubbliche (che «deve in ogni caso prescrivere» ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011), dall'altra che - salva la tematica dell'interpretazione della nozione di "pubbliche riunioni" - la prescrizione, per essere concretamente applicabile, non necessita di ulteriori specificazioni (come, invece, avviene, ad esempio, per la prescrizione «di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una determinata ora», per la quale occorre la specificazione dell'orario nel decreto).</p> <p style="text-align: justify;">La Corte Costituzionale è ripetutamente intervenuta sul complesso della normativa, come già anticipato, valutandola alla luce delle tre tematiche appena enucleate. Con la sentenza n. 27 del 1959, la Corte risolse in senso affermativo il quesito relativo alla compatibilità delle due prescrizioni in esame con il dettato costituzionale, pur in presenza di limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione, affermando che esse trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. La Corte osservò che l'art. 13 della Costituzione riconosce la possibilità di restrizioni alla libertà personale, così come gli articoli 16 e 17 ammettono limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno e consentono il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. La Corte escluse che la riserva di legge prevista dalla Costituzione desse luogo ad una «potestà illimitata del legislatore ordinario» e, in qualche modo, delimitò la portata della pronuncia sotto due profili: la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all'esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione. Affrontando il quesito «se [...] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», la Corte riconobbe un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare è, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive».</p> <p style="text-align: justify;">Le due sentenze emesse a seguito della pronuncia della Corte EDU, De Tommaso hanno permesso alla Corte Costituzionale di riassumere e precisare i principi fin qui riportati. In particolare, le due pronunce hanno affrontato il tema della tassatività e della precisione delle fattispecie di pericolosità generica (sentenza n. 24 del 2019) e della legittimità della sanzione penale per la violazione delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» (sent. n. 25 del 2019). Con riferimento alla prima questione, la Corte ha ritenuto che, al di fuori della materia penale, l'esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto può essere soddisfatta anche sulla base dell'interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall'uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, risultando essenziale che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l'applicazione della misura stessa. Quanto, invece, alla legittimità della sanzione penale per le violazioni delle prescrizioni generiche, la Corte, dando atto del giudizio negativo della Corte EDU, ha ritenuto necessario completare l'adeguamento della normativa alla CEDU operato, in via interpretativa, dalle Sezioni Unite, Paternò, osservando che l'esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati «è comunque soddisfatta alle prescrizioni specifiche che l'art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno».</p> <p style="text-align: justify;">È già stato ricordato il contenuto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. La prima rimarcava l'importanza dei principi di offensività e di proporzionalità per l'interpretazione delle norme che in questa sede rilevano: richiamando «i severi presidi costituzionali costituiti dagli artt. 13 e 25 della Carta Costituzionale» ed osservando che, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, «le prescrizioni imposte al sorvegliato hanno la funzione di garantire la effettività della tutela preventiva, allo scopo di scongiurare (o, almeno, limitare) la commissione di futuri reati», la sentenza affermava che la sanzione penale nei confronti del sorvegliato che non si conformi alle direttive può riguardare solo «condotte "eloquenti", in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano o connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella sostanziale vanificazione di cui fa parola la sentenza Da Silva» (richiamando un passaggio incidentale della sentenza Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985, De Silva, Rv. 170592). Veniva richiamata anche la sentenza della Corte EDU, Labita c. Italia per confermare «la necessità di una stretta correlazione tra misura restrittiva - repressiva e scopo perseguito». La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò riprendeva queste considerazioni, sottolineando che la sentenza SU, Sinigaglia supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di "vanificazione" della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le "inottemperanze" del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità. Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un "annullamento" di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell'interesse dell'autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell'ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella relativa applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato.</p> <p style="text-align: justify;">Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale fin qui riassunto, è possibile rispondere alla questione di diritto sollevata con l'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite. L'orientamento espresso dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini non può essere accolto. La ricognizione della normativa che fa riferimento alle "pubbliche riunioni", svolta al fine di evidenziare la mancanza di una definizione univoca della nozione, non appare convincente sotto diversi profili. Di per sé, il fatto che un concetto assuma significati differenti (o parzialmente differenti) in diversi settori della normativa non costituisce una anomalia inaccettabile e si riscontra frequentemente; appare, quindi, improprio accostare normative differenti e rivolte a destinatari diversi. In ogni caso, la sentenza non verifica la possibilità di individuare una definizione di "pubblica riunione" che possa essere valida per tutte le norme evidenziate: se il problema è la conoscibilità della norma da parte del destinatario, occorre verificare se le diverse nozioni di "pubblica riunione" costituiscano o meno degli insiemi che presentano un'intersezione comune a tutti; in altre parole, era necessario accertare se esiste una nozione di "pubblica riunione" - ovviamente più ristretta - che tutte le norme contengono, espressamente o meno. Se tale nozione esiste, è possibile ritenere che i destinatari della prescrizione siano in grado di conoscerne il contenuto; non possano, cioè, avere dubbi sul fatto che in una situazione corrispondente a quella nozione ristretta essi stiano sicuramente partecipando ad una "pubblica riunione".</p> <p style="text-align: justify;">Questa nozione ristretta e comune a tutte le norme menzionate esiste: è la riunione non occasionale di più persone in luogo pubblico. Ripercorrendo l'analisi delle norme menzionate dalla sentenza citata, si può rilevare, quanto all'art. 266, comma 3, cod. pen., che l'ipotesi di istigazione commessa in luogo pubblico e alla presenza di più persone è espressamente contemplata dal n. 2; quanto all'art. 18 T.U.L.P.S., che la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1958, dichiarando illegittima la norma nella parte in cui impone il preavviso della riunione al questione anche per le riunioni non tenute in luogo pubblico, ha limitato l'obbligo solo a quelle tenute in luogo pubblico; quanto all'art. 4 legge 18 aprile 1975, n. 110, che il divieto di portare armi si applica certamente anche alle riunioni in luogo pubblico. Contrariamente a quanto sostiene la sentenza Sez. 1, Pellegrini, quindi, esiste una soluzione interpretativa che rende determinato il contenuto della norma incriminatrice, elimina l'eccessiva discrezionalità del giudice penale nell'applicazione della norma e permette la conoscibilità del precetto, così orientando il comportamento dei destinatari. 14. Inoltre la sentenza, per sopperire al vizio di indeterminatezza, adotta una "interpretazione convenzionalmente orientata" con la quale sostanzialmente disapplica la previsione normativa senza sollevare una questione di legittimità costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, la disapplicazione di una disposizione di legge interna da parte del giudice, perché ritenuta non conforme alle previsioni della CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, è illegittima, perché in contrasto con la stessa Costituzione. Alle norme della Convenzione EDU deve, invece, assegnarsi il rango di «fonti interposte», destinate ad integrare il parametro di cui all'art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al legislatore di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi. Pertanto, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, non possa essere risolto in via interpretativa, va esclusa la possibilità di applicare direttamente la norma convenzionale interposta «obliterando il contrario disposto di una norma interna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, non mass. sul punto; Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, non mass. sul punto; Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 25328901, non mass. sul punto): in questo caso, dovrà essere sollevato l'incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell'indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell'interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell'ordinamento costituzionale italiano. Non si può dimenticare che la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato la legittimità della norma in questione; con la sentenza n. 126 del 1983, anche con riferimento alla possibile violazione del principio di legalità, ritenendo la prescrizione espressa in termini tassativi. Del resto, come già osservato al par. 6, la censura mossa dalla Corte EDU, De Tommaso in ordine alla prescrizione in esame era di natura differente rispetto a quelle formulate per le prescrizioni di "vivere onestamente" e "rispettare le leggi".</p> <p style="text-align: justify;">In effetti, la prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni non può essere equiparata all'obbligo di portare la carta di permanenza e alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, oggetto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Nel primo caso la decisione delle Sezioni Unite era basata sul dato formale della mancata inclusione dell'obbligo nelle prescrizioni, sul fatto che la previsione di legge è rivolta principalmente all'autorità che deve compilare e consegnare la carta di permanenza al soggetto e solo dopo al sottoposto e, ancora, sull'estraneità di quell'obbligo alla ratio della misura di prevenzione di sottoporre a sorveglianza particolare il soggetto al fine di prevenire la consumazione di reati. Le Sezioni Unite, Paternò, invece, avevano escluso che gli obblighi di vivere onestamente e rispettare le leggi potessero considerarsi vere e proprie prescrizioni, aventi reale contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici, ma contenendo un mero ammonimento "morale" che, per di più, vale per ogni consociato: la norma, in definitiva, non individua condotte socialmente dannose che devono essere evitate né prescrive quelle socialmente utili che devono essere perseguite. Invece il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non grava su tutti gli associati; al contrario, la Costituzione tutela il contrario diritto di riunirsi, anche in luoghi aperti al pubblico. All'esistenza di un diritto corrisponde la possibilità di formulare un divieto, perché la condotta può essere delimitata oggettivamente, il concetto di "riunione" presupponendo una realtà fisica, concreta; in sostanza, si tratta di una prescrizione specifica e non generica. Per di più, la prescrizione è strettamente connessa alla finalità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, poiché la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficoltosa proprio la sorveglianza del sottoposto alla misura di prevenzione, che deve essere rafforzata soprattutto se si tratta di misura accompagnata dall'obbligo o divieto di soggiorno; quindi rende più facile e meno controllabile la consumazione di reati oppure l'incontro con soggetti pregiudicati o sottoposti a misure.</p> <p style="text-align: justify;">Per quanto appena osservato, la soluzione interpretativa adottata rende superflua la soluzione proposta da Sez. 1, Sassano di una verifica obbligatoria da parte del giudice penale della concreta offensività della violazione della prescrizione. In effetti, si tratta di soluzione che appare forzata e non necessaria. A ben vedere, in conseguenza della riduzione del numero delle prescrizioni obbligatorie penalmente sanzionate ad opera del legislatore, dell'interpretazione delle Sezioni Unite Sinigaglia e Paternò e dell'intervento della Corte Costituzionale, l'art. 8, comma 4 d. Igs. 159 del 2011 ne prevede cinque (di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso, di non associarsi ai pregiudicati o sottoposti a misure, di rimanere la notte in casa, di non detenere e portare armi e di non partecipare a pubbliche riunioni), tutte significative rispetto alla finalità perseguita dal legislatore di consentire una sorveglianza sul soggetto pericoloso al fine di evitare la commissione di reati. Appare ragionevole, quindi, la sanzione penale delle violazioni di quelle prescrizioni che il legislatore indica, appunto, come sintomo della pericolosità del soggetto e finalizzata ad annullare la sorveglianza speciale disposta dal tribunale.</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, viene affermato il seguente principio di diritto: La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico».</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 dicembre esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 che ribadisce le argomentazioni di cui alla precedente sentenza n. 141 dello stesso anno.</p> <p style="text-align: justify;">Le fattispecie criminose in discussione – anche nella parte in cui risultano riferibili alla prostituzione volontariamente esercitata – sono state ritenute compatibili con il principio di offensività, inteso come precetto che impone al legislatore di limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”): precetto che non esclude il ricorso al modello del reato di pericolo, anche presunto, a condizione che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto non risulti irrazionale o arbitraria.</p> <p style="text-align: justify;">Di là dalle oscillazioni della giurisprudenza in ordine all’individuazione del bene protetto dalle norme penali della legge n. 75 del 1958, le previsioni punitive in discorso sono apparse rispettose dei canoni dianzi indicati, ove riguardate «nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta».</p> <p style="text-align: justify;">Anche nell’attuale momento storico, infatti, «quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali»: fattori non solo di ordine economico, ma legati anche a situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali (sentenza n. 141 del 2019).</p> <p style="text-align: justify;">In questa materia, d’altra parte, «la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico […] e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento <em>ex post</em> affidato alla giurisdizione penale». A ciò si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. «Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo)» (sentenza n. 141 del 2019).</p> <p style="text-align: justify;">In tale prospettiva, l’incriminazione delle cosiddette “condotte parallele” alla prostituzione, senza rappresentare una soluzione costituzionalmente imposta (potendo il legislatore fronteggiare anche in altro modo i pericoli insiti nel fenomeno considerato), rientra, però, «nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastanti con la Costituzione».</p> <p style="text-align: justify;">Resta ferma, in ogni caso, con riguardo alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività nella sua proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva (sentenza n. 141 del 2019).</p> <p style="text-align: justify;">Le precedenti considerazioni, secondo la Corte, risultano estensibili anche alla fattispecie della tolleranza abituale dell’esercizio della prostituzione.</p> <p style="text-align: justify;">A mente dell’art. 3, primo comma, numero 3), della legge n. 75 del 1958, risponde di tale reato «chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si dànno alla prostituzione».</p> <p style="text-align: justify;">La previsione punitiva si colloca specificamente nell’ambito della terna di figure criminose poste a presidio del divieto di esercizio delle case di prostituzione. Il numero 1) dell’art. 3 punisce la costituzione di case di prostituzione; il numero 2), la cessione di un locale a tale scopo; il numero 3) il consentire, per acquiescenza abituale dell’esercente, che la prostituzione si svolga all’interno di un pubblico esercizio.</p> <p style="text-align: justify;">La norma incriminatrice censurata costituisce, pertanto, anch’essa espressione della strategia d’intervento, dianzi indicata, che ispira la legge n. 75 del 1958: strategia alla quale è globalmente riferibile la valutazione già operata da questa Corte, in punto di esclusione del contrasto con il principio di offensività.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2020</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 4666 che dichiara inammissibile un ricorso facendo richiamo al principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite il 19 dicembre 2019, di cui si attendevano le motivazioni, in base al quale “<em>Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 aprile esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12348 chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito “<em>Se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l'attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Deve premettersi che la Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza del principio di offensività in astratto, quale canone che dovrebbe orientare il legislatore nella selezione delle fattispecie incriminatrici, ha sempre ritenuto che l'individuazione delle condotte punibili, come pure la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, rientrino nella discrezionalità legislativa, ed ha adottato una linea di self-restraint, per cui la mancanza di offensività è ritenuta censurabile solo nella misura in cui le scelte normative confliggano in modo manifesto con il canone della ragionevolezza; in tale quadro, spetta al giudice comune la valutazione sulla sussistenza dell'offensività in concreto.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, con la sentenza n. 62 del 1986, nel dichiarare non fondata una questione relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi (art. 2 della legge 2 ottobre 1967, n. 895), la Corte afferma che «<em>la configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione della congruenza fra reati e conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, pertanto, all'incensurabile discrezionalità del legislatore ordinario, con l'unico limite della manifesta irragionevolezza</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Specifica, inoltre, che il principio di offensività deve «<em>reggere ogni interpretazione di norme penali</em>», spettando al giudice, «<em>dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene od i beni tutelati attraverso l'incriminazione d'una determinata fattispecie tipica, determinare, in concreto, ciò [...] che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni in discussione, è fuori del penalmente rilevante</em>». Con la decisione n. 354 del 2002, si dichiara costituzionalmente illegittima la contravvenzione di cui all'art. 688, secondo comma, cod. pen., a norma del quale - dopo la depenalizzazione della fattispecie di cui al primo comma ad opera dell'art. 54 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 - era punito «<em>chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza, se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l'incolumità individuale</em>». Anche in questo caso, la Corte argomenta la sua decisione utilizzando il paradigma della ragionevolezza, ritenendo incompatibile con il principio di offensività una fattispecie in cui il carico di lesività risultava correlato a condizioni e qualità individuali e, in particolare, al vissuto giudiziario dell'autore. Al principio dell'offensività in concreto risulta ispirata anche la sentenza n. 139 del 2014, con cui la Corte esclude l'incostituzionalità della mancanza di una soglia minima di punibilità per il reato di omesso versamento di contributi previdenziali (secondo la formulazione all'epoca vigente dell'art. 2, comma 1 -bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638), con riferimento ad un caso nel quale, pur essendo integrate la materialità oggettiva e la tipicità del fatto, appariva al giudice remittente l'eccessività della sanzione penale in rapporto ai pochi euro di contribuzione omessa. Anche in tale decisione, la Corte ribadisce come il problema non trovi soluzione nel sindacato della scelta normativa, bensì nella valutazione dell'offensività in concreto che spetta comunque al giudice di merito operare.</p> <p style="text-align: justify;">Ma è la più recente sentenza n. 109 del 2016, che richiamando la precedente giurisprudenza della stessa Corte (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000), ricorda come il principio di offensività operi su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività "in astratto"). Dall'altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest'ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività "in concreto"). Quanto al primo versante, il principio di offensività "in astratto" non implica che l'unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno, perché rientra nella discrezionalità del legislatore l'opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986), ammesso a condizione «<em>che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit</em>» (sentenza n. 225 del 2008).</p> <p style="text-align: justify;">Il principio dell'offensività in concreto trova una sua specifica declinazione nella materia degli stupefacenti, a partire dalla sentenza n. 443 del 1994, con cui la Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 72, 73 e 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, come modificati dal d.P.R. n. 171 del 1993 (che aveva recepito l'esito di precedente referendum abrogativo, sopprimendo il riferimento al concetto di "dose media giornaliera" quale parametro fisso e inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all'uso personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludono l'illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale proprio. Il giudice delle leggi stigmatizza l'omessa verifica della possibilità di un'esegesi adeguatrice delle norme impugnate, da parte del giudice rimettente, il quale si sarebbe dovuto porre il problema se, proprio alla luce del riferito ius superveniens, la parziale depenalizzazione della condotta di chi "comunque detiene" fosse estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica al fine di destinare il prodotto alle esigenze di consumo personali, così da potersi ritenere sottratta, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell'illiceità penale.</p> <p style="text-align: justify;">Non avendo la giurisprudenza uniformemente aderito a questa linea interpretativa, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, è stata in seguito riproposta in relazione ai parametri di cui agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost. Con la sentenza n. 360 del 1995, la Corte costituzionale ritiene l'infondatezza della questione, alla luce del diritto vivente, evidenziando l'insussistenza della denunciata disparità di trattamento, in ragione della non assimilabilità della condotta delittuosa di coltivazione, prevista dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis. Si osserva, in proposito, che la detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, pur se illecita, l'ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale (proprio perché incidente in misura pregnante sulla sola salute dell'assuntore); laddove, al contrario, nel caso della coltivazione, l'assenza di un nesso di immediatezza con l'uso personale giustifica una soluzione più severa, rientrando nella discrezionalità legislativa anche la propensione a disincentivare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. In altri termini, la scelta della non criminalizzazione dell'assunzione - che rappresenta una costante della disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigidità - implica necessariamente anche la non rilevanza penale di comportamenti che ne sono l'immediato antecedente, quali di norma la detenzione, spesso l'acquisto, talvolta l'importazione. E la linea di confine di queste condotte, che si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata - secondo la Corte - dalle categorie, dapprima dalla modica quantità, poi dalla dose media giornaliera, infine dall'uso personale; tutte direttamente riferibili, però, al nucleo centrale del consumo. Inoltre, la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni comparate: nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della sua destinazione; invece, nel caso della coltivazione, tale dato non è apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicché la correlata valutazione della destinazione ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risulta maggiormente ipotetica e meno affidabile. Ciò determina una maggiore pericolosità della condotta stessa, perché l'attività di coltivazione è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato.</p> <p style="text-align: justify;">E deve sottolinearsi come la Corte costituzionale evidenzi, nella medesima decisione, che l'illiceità penale della coltivazione, anche se univocamente destinata all'uso personale, resiste anche alla verifica condotta, ex artt. 25 e 27 Cost., alla stregua del principio di offensività, nella sua dimensione di limite costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario. Così intesa, la categoria dell'inoffensività implica, infatti, la ricognizione dell'astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione, la coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti mantiene la sua connotazione di reato di pericolo, in quanto idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e, quindi, di creare in potenza maggiori occasioni di spaccio.</p> <p style="text-align: justify;">Come già rilevato in precedenti decisioni (n. 133 del 1992, n. 333 del 1991, n. 62 del 1986), la Corte ribadisce, dunque, la compatibilità con il principio di offensività della configurazione di reati di pericolo presunto; così che, con riguardo al reato di coltivazione di stupefacenti, non appare irragionevole o arbitraria la valutazione prognostica, sottesa alla previsione incriminatrice, di potenziale aggressione al bene giuridico protetto. Diverso profilo, tuttavia, è quello dell'offensività in concreto della condotta, la cui verifica è devoluta al giudice di merito e la cui eventuale mancanza va ricondotta alla figura del reato impossibile, ex art. 49 cod. pen. Quanto all'identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione, la Corte costituzionale precisa, infine, che si tratta di una questione meramente interpretativa, anch'essa rimessa al giudice ordinario, pur incidendo sulla linea di confine del penalmente rilevante.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla stessa linea si colloca, ad anni di distanza, la già richiamata sentenza n. 109 del 2016, con cui, alla luce dei parametri degli artt. 3, 13, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., la Corte costituzionale ribadisce l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale, articolata in relazione all'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui esclude, secondo il diritto vivente, che tra le condotte di reato suscettibili di sola sanzione amministrativa perché finalizzate all'uso esclusivamente personale dello stupefacente possa rientrare quella di coltivazione. Ancora una volta, la Corte ritiene legittima la strategia complessiva del legislatore, che ha dettato condizioni e limiti di operatività del regime differenziato, negando rilievo sia alla finalità dell'uso personale, sia alle condotte con essa logicamente incompatibili, perché implicanti la "circolazione" della droga («vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo»), sia a quelle apparentemente "neutre - («coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina») che hanno, tuttavia, l'attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, che ne agevolano indirettamente la diffusione, e per tale motivo più insidiose. Si ribadisce anche che «<em>compete al giudice verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all'agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze 24 aprile-10 luglio 2008, n. 28605 e n. 28606). Risultato, questo, conseguibile sia - secondo l'impostazione della sentenza n. 360 del 1995 - facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49 del codice penale); sia - secondo altra prospettiva - tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio</em>». La pronuncia affronta anche la questione dell'irragionevolezza, prospettata dal giudice rimettente, per disparità di trattamento, fra: la condotta di chi detenga per uso personale sostanza stupefacente estratta da piante che egli stesso abbia coltivato - condotta che sarebbe inquadrabile nella formula «comunque detiene», presente nella norma censurata, così da essere sanzionata, in tesi, solo in via amministrativa -; e la condotta di coltivazione in atto, programmata per uso sempre personale, e perseguita, alla stregua del "diritto vivente" ai sensi dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. La Corte individua il vulnus di una tale prospettazione nella sua inesatta premessa: e cioè nell'idea che la detenzione per uso personale dello stupefacente "autoprodotto" renda non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale assorbito dal successivo illecito amministrativo. Al contrario - si afferma - tale assorbimento non si verifica nel senso indicato dal rimettente, perché a rimanere assorbito è, semmai, l'illecito amministrativo.</p> <p style="text-align: justify;">Infatti, la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l'ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.</p> <p style="text-align: justify;">Tra i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale - e, in particolare, dalle sentenze n. 360 del 1995 e 109 del 2016 - si inserisce la giurisprudenza di legittimità, i cui contrastanti orientamenti prendono le mosse dalla sentenza delle Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 - 239921.</p> <p style="text-align: justify;">Richiamandosi alla precedente giurisprudenza costituzionale, le Sezioni Unite del 2008 ritengono non condivisibile l'orientamento secondo cui la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti - che non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, e ciò per l'assenza di alcuni presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti, e che, pertanto, rimane nell'ambito concettuale della cosiddetta coltivazione domestica - ricade nella nozione, di genere e di chiusura, della "detenzione", sicché occorre verificare se, nella concreta vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale del prodotto. Le Sezioni Unite affermano, al contrario, che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. A tale affermazione aggiungono che, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.</p> <p style="text-align: justify;">Il primo dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui la coltivazione non può essere sottratta all'area della repressione penale quale che sia la finalità di impiego del prodotto, si fonda, in primo luogo, su un argomento di carattere testuale, ovvero sulla circostanza che, anche dopo le modifiche introdotte per effetto della legge 21 febbraio 2006, n. 49, l'attività di coltivazione non risulta richiamata né dall'art. 73, comma 1-bis, del d.P.R. n. 309 del 1990, né dal successivo art. 75, comma 1, tra quelle sanzionate solo in ambito amministrativo. Ciò confermerebbe la volontà del legislatore di mantenerne comunque la rilevanza penale, non trovando alcun fondamento normativo la distinzione tra coltivazione "tecnico-agraria" e coltivazione "domestica", da taluni sostenuta per affermare che quest'ultima sia piuttosto riconducibile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale. Al riguardo, la Corte precisa che, se è vero che l'art. 27 del d.P.R. n. 309 del 1990, ai fini dell'autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle "particelle catastali" e alla "superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione", e che i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle "coltivazioni autorizzate" e le eccedenze di produzione "sulle quantità consentite" - elementi potenzialmente evocativi di una coltivazione non limitata all'ambito domestico - è pur vero che si tratta di prescrizioni riferite ai requisiti necessari per conseguire l'autorizzazione alla coltivazione. E ciò - per la Corte - non significa che, ove difettino le relative condizioni quali, ad esempio, la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti e le attività di coltivazione non siano di conseguenza suscettibili di essere neanche in astratto autorizzate, esse possano essere considerate lecite.</p> <p style="text-align: justify;">Sempre in relazione alla ritenuta irrilevanza del carattere "domestico" ai fini di escludere la punibilità della coltivazione, la Corte richiama, in secondo luogo, un argomento di carattere naturalistico, basato sulla distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, che trova conferma nel fatto che, anche qualora intrapresa con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti. In terzo luogo, la sentenza fa perno sulla peculiare dimensione di offensività della coltivazione - già ampiamente evidenziata dalla Corte costituzionale con le pronunce sopra richiamate – sia perché tra coltivazione e consumo personale difetta un nesso di immediatezza, così che restano ipotetiche e comunque scarsamente affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all'uso personale piuttosto che alla cessione a terzi; sia perché non è stimabile a priori, con sufficiente grado di precisione, la potenzialità produttiva di una piantagione, ciò che comporta il rischio di dilatazione del fenomeno, degenerativo ed antisociale, delle tossicomanie.</p> <p style="text-align: justify;">Sempre sulla scia della giurisprudenza costituzionale, la ricostruzione del reato di coltivazione come strumento di anticipazione della tutela, ovvero in termini di pericolo presunto, trova temperamento - nella stessa pronuncia – in una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo, nel senso che spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta come idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. Al riguardo, le Sezioni Unite ribadiscono la duplice valenza, oggettiva e soggettiva del principio di offensività. In ossequio, dunque, al principio di offensività così inteso, la Corte spiega che al giudice spetta accertare se la condotta contestata ed accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, atteso che inoffensiva è la condotta che non leda o ponga in pericolo il bene tutelato nemmeno in grado minimo, al riguardo essendo irrilevante il grado dell'offesa; sicché l'offensività della condotta di coltivazione deve essere esclusa soltanto se la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un «effetto stupefacente in concreto rilevabile. Quanto all'oggettività giuridica, la sentenza Di Salvia, la individua nella salute collettiva, ma anche, in parziale continuità con le Sez. U., n. 9973 del 21/09/1998, Kremi, nella sicurezza e nell'ordine pubblico, rispetto ai quali l'implementazione della provvista di droga costituisce causa di turbativa, nonché nella salvaguardia delle giovani generazioni.</p> <p style="text-align: justify;">All'orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2008 si contrappone, nello stesso anno, una pronuncia che riconduce l'offensività dell'illecito di coltivazione alla capacità, effettiva ed attuale, della sostanza ricavabile a determinare un effetto drogante, ossia a produrre nell'assuntore alterazioni di natura psico-fisica. Si tratta di una ricostruzione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice in termini più riduttivi, ancorata alla tutela della salute (dei consumatori attuali e potenziali), il cui fondamento si rinviene negli artt. 2 e 32 Cost. In particolare, la decisione esprime un'opinione fortemente critica nei confronti della più risalente Sez. U Kremi - in parte recepita dalle Sez. U Di Salvia - sul rilievo che il bene della salute, come parametro di selezione qualitativa della meritevolezza della pena, non dovrebbe essere affiancato da altri beni-interessi strumentali alla sua tutela perché, proiettando l'attitudine offensiva della condotta su tali strumentali interessi, capaci di apprestare una tutela mediata al bene costituzionalmente protetto, quali la lotta al mercato della droga o la tutela delle giovani generazioni, o su valori, quali la sicurezza, l'ordine pubblico ed il normale sviluppo delle giovani generazioni, anch'essi visti come serventi rispetto alla tutela di questi beni, scolora il concetto stesso di offensività. Di qui l'esigenza che la condotta tipica del reato di coltivazione illecita abbia come oggetto sostanze aventi il duplice requisito formale, della iscrizione nelle tabelle, e sostanziale, dell'efficacia stupefacente o psicotropa, la quale è coessenziale alla offensività del fatto. La conclusione che se ne trae è l'irrilevanza penale della condotta di coltivazione qualora il ciclo di maturazione delle piante, pur conforme al tipo botanico, non sia tale da produrre, al momento dell'accertamento, un principio attivo dotato di efficacia drogante, a prescindere da una sua futura eventuale produzione.</p> <p style="text-align: justify;">Negli ultimi anni la giurisprudenza si è ancora divisa sulla declinazione del concetto di "offensività in concreto", essenzialmente intorno ai due differenti filoni interpretativi richiamati nell'ordinanza di rimessione, che condividono il solo ovvio presupposto della conformità al tipo botanico vietato della pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti.</p> <p style="text-align: justify;">Il primo degli indirizzi in questione ritiene irrilevante la verifica dell'efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture con riferimento all'atto dell'accertamento della polizia giudiziaria e si incentra sull'attitudine della pianta, conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalità che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all'esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente o psicotropo, sulla base, dunque, di un giudizio predittivo.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la ricostruzione operata nell'ordinanza di rimessione, all'indirizzo sopra descritto se ne contrappone un altro, che non ritiene sufficiente la verifica della conformità della pianta coltivata al tipo botanico proibito e della capacità della sostanza, ricavata o ricavabile, a produrre un effetto drogante, ma richiede un quid pluris, rappresentato dal concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono le Sezioni Unite che l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di coltivazione di piante stupefacenti evidenzi alcuni punti fermi e alcuni profili problematici. Dalla disamina degli indirizzi giurisprudenziali sopra riportati emerge, in particolare, la mancanza di una netta linea di discrimine fra le pronunce che fanno riferimento alla potenziale idoneità della coltivazione a incrementare il mercato degli stupefacenti e quelle che non vi fanno riferimento, che giungono, in alcuni casi, a esiti pratici sovrapponibili. E ciò, per l'oggettiva ambiguità dello stesso concetto di incremento del mercato, legata sia alla sua intrinseca vaghezza, sia alle difficoltà di accertamento dovute al suo carattere clandestino, in relazione al quale vi è una sostanziale impossibilità di avere a disposizione dati certi e verificabili; considerazioni critiche che valgono anche per l'analogo concetto di "saturazione del mercato" che, a suo tempo, era stato proposto dalla giurisprudenza con riferimento alla circostanza aggravante dell'ingente quantità di cui all'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990.</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono quindi le Sezioni Unite che sia necessario, nella sostanza, la definizione di paradigmi ricostruttivi che possano valere in relazione alla coltivazione "domestica", di entità oggettivamente modesta.</p> <p style="text-align: justify;">Così delineato l'oggetto della questione, viene richiamata e ribadita - quale punto di partenza di ogni riflessione - la distinzione tra le categorie della tipicità e dell'offensività del reato e, nell'ambito di quest'ultima, tra offensività in astratto e offensività in concreto.</p> <p style="text-align: justify;">È da ricondurre al piano della tipicità, intesa come riconducibilità della fattispecie concreta al "tipo" disciplinato dalla fattispecie astratta, il duplice requisito della conformità della pianta al tipo botanico vietato e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Tale requisito è correttamente ritenuto imprescindibile, ai fini della configurabilità del reato, da tutti gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati: perché vi sia una coltivazione penalmente rilevante è necessario, non solo che la stessa abbia per oggetto una pianta che sia in concreto idonea a produrre sostanze vietate, ma anche che siano utilizzate, a tal fine, strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate.</p> <p style="text-align: justify;">Altro profilo attinente alla tipicità del fatto è quello dell'ambito di applicazione della tutela penale, in relazione al quale una parte della giurisprudenza di legittimità richiamata opera una distinzione tra "coltivazione imprenditoriale" e "coltivazione domestica"; distinzione che a volte viene ricondotta all'ambito dell'offensività.</p> <p style="text-align: justify;">Come visto, la giurisprudenza costituzionale fa salva la repressione penale della coltivazione sotto il profilo della tipicità, lasciando al giudice comune il compito di individuare in concreto l'ambito e i limiti dell'applicazione della fattispecie e consentendogli, dunque, un'interpretazione più o meno restrittiva del concetto di coltivazione. Se, infatti, la sentenza n. 443 del 1994 sembra prendere posizione a favore di una rimodulazione dell'ambito del penalmente rilevante, da parte del legislatore o dell'interprete, dando spazio alla possibile equiparazione tra la coltivazione ad uso personale e la detenzione ad uso personale, la sentenza n. 360 del 1995 e la giurisprudenza successiva valorizzano la peculiarità della condotta di coltivazione, ponendo l'accento sulla piena legittimità costituzionale della ricostruzione della fattispecie in termini di pericolo presunto e ritenendo l'identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione, come una questione meramente interpretativa, la quale, pur incidendo sulla linea di confine del penalmente rilevante, deve essere rimessa al giudice ordinario. In questo ambito, si inserisce la richiamata sentenza Di Salvia, la quale, in un'ottica di accentuata preoccupazione per il problema della tossicodipendenza, opta per l'affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono le Sezioni Unite che tale affermazione, pur condivisa da gran parte della giurisprudenza di legittimità, debba essere rivista.</p> <p style="text-align: justify;">L'equiparazione operata dalla sentenza del 2008 tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica trae il suo fondamento nella riconosciuta autonomia concettuale della condotta di coltivazione rispetto alla condotta di detenzione, che trova ampia conferma nella richiamata giurisprudenza costituzionale. Si tratta di un inquadramento che viene in questa sede confermato, in quanto corretto sul piano letterale e sistematico. Esso si basa, innanzitutto, sul dato normativo dell'art. 28, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale equipara la coltivazione delle piante vietate indicate nel precedente art. 26 alla fabbricazione illecita di sostanze stupefacenti. Tale previsione è doppiata da quella dell'art. 73, comma 1, dello stesso d.P.R., che punisce espressamente la coltivazione di sostanze stupefacenti distinguendola dalla detenzione, di cui al successivo comma 1-bis, punita nei limiti in cui lo stupefacente appaia destinato ad uso non esclusivamente personale; limitazione non prevista per la coltivazione.</p> <p style="text-align: justify;">Anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, e i successivi interventi normativi sul sistema, il legislatore persiste, dunque, nell'intenzione di equiparare la coltivazione non autorizzata alla produzione o fabbricazione non autorizzate (in tal senso, anche il comma 3 dell'art. 73), per le quali l'eventuale destinazione ad uso personale non assume efficacia scriminante.</p> <p style="text-align: justify;">Il sistema è completato dal successivo art. 75 dello stesso d.P.R., che qualifica quali illeciti amministrativi, escludendoli dall'ambito di applicazione del diritto penale, l'importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione di stupefacenti ad uso personale, senza estendere tale esclusione alla coltivazione, produzione o fabbricazione. Ne consegue che la coltivazione non può essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perché una tale interpretazione, oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralità di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute.</p> <p style="text-align: justify;">Ferma restando la sua autonomia concettuale, la nozione giuridica di coltivazione deve, però, essere circoscritta, per dare spazio alla distinzione tra coltivazione "tecnico-agraria" e coltivazione "domestica", seppure nell'ambito di una ricostruzione sistematica parzialmente diversa rispetto a quella proposta dalla giurisprudenza che ha valorizzato tale distinzione. Non può essere, in particolare, condivisa, sul punto, l'affermazione, secondo cui la coltivazione domestica è riconducibile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale. Tale affermazione si basa, infatti, sul presupposto della commistione fra il concetto di coltivazione il concetto di detenzione, che deve essere esclusa sulla base delle considerazioni appena svolte. L'irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve, in altri termini, essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest'ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un'interpretazione restrittiva della fattispecie penale, che si giustifica tanto più per la sua natura di reato di pericolo presunto, nell'ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela.</p> <p style="text-align: justify;">Deve essere dato rilievo, a tal fine, all'art. 27 del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale, ai fini dell'autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle "particelle catastali" e alla "superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione", mentre i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle "coltivazioni autorizzate" e le eccedenze di produzione "sulle quantità consentite"; elementi evocativi di una coltivazione "tecnico-agraria", di apprezzabili dimensioni e realizzata per finalità commerciali, non limitata, dunque, all'ambito domestico. D'altra parte, la stessa sentenza Di Salvia, nel sottolineare la distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, afferma che la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti; ma tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti. La prevedibilità della potenziale produttività è, quindi, uno dei parametri che permettono di distinguere fra la coltivazione penalmente rilevante, dotata di una produttività non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione, e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima. Si tratta, però, di un parametro che, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell'attività nell'ambito del mercato degli stupefacenti, l'oggettiva destinazione di quanto prodotto all'uso personale esclusivo del coltivatore.</p> <p style="text-align: justify;">A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale.</p> <p style="text-align: justify;">Venendo al versante dell'offensività dell'attività di coltivazione, vanno ribadite e rafforzate le conclusioni cui è giunta la più volte richiamata sentenza Di Salvia, riprendendo affermazioni della Corte costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Ritengono, infatti, le Sezioni Unite che l'esclusione della punibilità delle attività di coltivazione domestica, che opera sul piano della tipicità, renda a fortiori condivisibili le considerazioni svolte dalla giurisprudenza maggioritaria circa la più spiccata pericolosità della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte elencate nell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 - ovvero, quelle diverse dalla fabbricazione e dalla produzione - perché l'attività di coltivazione è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili. E ciò, a tacere del fatto che, a differenza delle altre condotte "produttive", l'attività colturale ha la peculiarità di non richiedere neppure la disponibilità di "materie prime" soggette a rigido controllo, ma normalmente solo di semi. È, dunque, ampiamente giustificato l'esercizio della discrezionalità legislativa nella strutturazione della fattispecie penale, nel senso dell'anticipazione della tutela fino al pericolo presunto, in quanto corrisponde alla normalità della pratica agricola la conseguenza dell'incremento della provvista esistente di stupefacente, idoneo ad attentare al bene della salute collettiva e dei singoli, creando in potenza maggiori occasioni di spaccio. In altri termini, deve essere ritenuta pienamente conforme con il principio di ragionevolezza la valutazione prognostica di potenziale aggressione al bene giuridico protetto, sottesa all'incriminazione della coltivazione, con la sola esclusione di quella domestica, alle condizioni sopra richiamate.</p> <p style="text-align: justify;">La riconosciuta anticipazione di tutela consente anche di risolvere la questione se l'oggettività giuridica del reato debba essere individuata solo nella salute individuale o collettiva o anche: nella sicurezza, nell'ordine pubblico, nella salvaguardia delle giovani generazioni, nell'impedimento dell'incremento del mercato degli stupefacenti. L'utilizzazione dello schema del reato di pericolo presunto rende superfluo, infatti, il richiamo a concetti come la sicurezza, l'ordine pubblico o il mercato clandestino, che, con riferimento alla fattispecie in esame, appaiono declinati in forma eccessivamente generica perché privi di un collegamento sufficientemente diretto con quello della salute, il quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell'art. 32, che lo qualifica addirittura come diritto soggettivo. Del pari, nessuna autonomia semantica può essere riconosciuta alla "salvaguardia delle giovani generazioni"; locuzione che, per evitare impropri sconfinamenti nel terreno dell'etica, deve intendersi ricompresa nel più generale concetto di salute, non potendo che essere interpretata come "salvaguardia della salute delle giovani generazioni". Al fine di individuare l'oggetto giuridico della tutela, è sufficiente, dunque, riferirsi alla salute, individuale e collettiva, proprio perché la particolare pregnanza di tale valore costituzionale consente che la sua protezione sia anticipata ad un momento precedente a quello dell'effettiva lesione.</p> <p style="text-align: justify;">La ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti, in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell'offensività "in concreto", quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato. Ne consegue che il reato non potrà essere ritenuto sussistente qualora si verifichi ex post che la coltivazione ha effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Dunque, la verifica dell'offensività in concreto deve essere diversificata a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell'accertamento, nel senso che, qualora il ciclo delle piante sia completato, l'accertamento dovrà avere per oggetto l'esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante. Invece, con riferimento a fasi pregresse di coltivazione, la previsione specifica della punibilità della coltivazione in quanto tale non consente di ritenere che si tratti di attività sostanzialmente libera fino a quando non si abbia la certezza dell'effettivo sviluppo del principio attivo. Al contrario, per l'ampia dizione della legge, rileva penalmente la coltivazione a qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo. In conclusione, potranno rilevare, al fine di escludere la punibilità: a) un'attuale inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale; b) un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all'uso quale droga.</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite sottolineano che questa soluzione ha il duplice merito di rispettare l'autonomia concettuale della coltivazione rispetto alla detenzione (nel senso che può ontologicamente aversi coltivazione senza detenzione, cioè senza produzione in atto di sostanza stupefacente), e di venire incontro all'esigenza, che appartiene alla sfera della logica ancor prima che a quella della politica criminale, di evitare che l'effettiva sussistenza del reato dipenda dal dato, puramente contingente, rappresentato dal momento dell'accertamento. Diversamente opinando, del resto, potrebbero essere ritenute penalmente irrilevanti coltivazioni industriali, anche di larghe dimensioni e potenzialmente molto produttive, per il solo fatto di trovarsi in un arretrato stadio di sviluppo.</p> <p style="text-align: justify;">Sul piano dell'offensività, deve dunque concludersi che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente. E per coltivazione dovrà intendersi l'attività svolta dall'agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto.</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, le Sezioni Unite ritengono che la soluzione da dare alla questione sollevata con l'ordinanza di rimessione debba basarsi sull'affermazione della mancanza di tipicità - qualora ricorrano tutte le condizioni sopra specificate - della condotta di coltivazione domestica destinata all'autoconsumo; condotta in relazione alla quale non potrà trovare applicazione l'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, perché tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione, neanche a quella penalmente rilevante. Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell'art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale.</p> <p style="text-align: justify;">In presenza di una coltivazione penalmente rilevante, invece, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovrà essere ritenuta assorbita nella coltivazione, secondo le indicazioni già fornite in tal senso da Corte cost. n. 109 del 2016, per cui la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l'ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.</p> <p style="text-align: justify;">Vi è, dunque, una graduazione della risposta punitiva rispetto all'attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni: a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo – alle condizioni sopra elencate - per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all'esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990; c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l'art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: "<em>Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore</em>".</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 13178 chiamate a rispondere al quesito “<em>se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l'altrui libertà di concorrenza</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">Sull'ambito di applicazione del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza previsto dall'art. 513-bis cod. pen., e in particolare sulla interpretazione della nozione di "atti di concorrenza", che costituisce l'asse attorno al quale ruota l'intera fattispecie incriminatrice, si registrano tre diversi orientamenti giurisprudenziali.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo un primo indirizzo interpretativo il dato testuale della fattispecie prevista dall'art. 513-bis cod. pen. ricomprende solo i comportamenti competitivi tipici che si prestino ad essere realizzati con mezzi vessatori, ossia con violenza o minaccia nei confronti di altri soggetti economici tendenzialmente operanti nello stesso settore.</p> <p style="text-align: justify;">Pur non limitata alle condotte poste in essere da appartenenti ad associazioni criminali, la norma incriminatrice viene ritenuta inapplicabile agli atti di violenza o minaccia non sostanziatisi in condotte illecite tipicamente concorrenziali, quand'anche la finalità perseguita dall'agente si identifichi con la limitazione della libertà di concorrenza. Vi rientrano, pertanto, solo comportamenti quali, ad es., il boicottaggio, lo storno di dipendenti ed il rifiuto di contrattare.</p> <p style="text-align: justify;">Entro tale prospettiva, dunque, il reato non è riferibile anche a colui che nell'esercizio di un'attività imprenditoriale compie atti intimidatori al fine di contrastare o scoraggiare l'altrui libera concorrenza, atteso che la disposizione in questione, introdotta dall'art. 8 della legge 13 settembre 1982, n. 646, mira a reprimere la concorrenza illecita che si concretizza in forme di intimidazione tipiche della criminalità organizzata, a sua volta orientata a controllare, con metodi violenti o mafiosi, le attività commerciali, industriali e più genericamente produttive.</p> <p style="text-align: justify;">Coerente con tale ricostruzione è l'affermazione secondo cui le condotte commesse con atti di violenza e minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza costituisce solo la mira teleologica dell'agente devono propriamente ricondursi ad altre fattispecie di reato (come, ad es., il delitto di cui all'art. 629 cod. pen.),La norma in esame, di contro, mira a sanzionare solo la commissione di atti di concorrenza che si pongono "oltre i limiti legali", inibendo la normale dinamica imprenditoriale con una conseguente turbativa del libero mercato, in un "clima di intimidazione e con metodi violenti".</p> <p style="text-align: justify;">Secondo tale orientamento non può accogliersi, in altri termini, l'interpretazione che tende a ritenere integrato il tipo di reato nel caso di violenza o minaccia finalisticamente connotata dall'intenzione di scoraggiare l'altrui concorrenza (così incidendo sull'elemento soggettivo della fattispecie), poiché questa opzione ermeneutica non può essere considerata conforme al dato testuale e pone, al contempo, inevitabili problemi di violazione del principio di tassatività, a fronte di un enunciato normativo la cui formulazione intende invece isolare, dalla generalità degli atti violenti, gli specifici atti di concorrenza, pur commessi con quella particolare modalità.</p> <p style="text-align: justify;">Un diverso orientamento giurisprudenziale interpreta la norma descritta nell'art. 513-bis cit. in senso ampio, non limitato alle indicazioni desumibili dalle pertinenti disposizioni del codice civile, come se la condotta s'incentrasse sulla violenza o minaccia posta in essere con il dolo specifico di inibire la concorrenza.</p> <p style="text-align: justify;">Nel richiamare la ratio giustificativa della previsione della fattispecie incriminatrice, siffatto indirizzo interpretativo mira a tutelare nella sua massima potenzialità espansiva il contenuto del bene protetto, evidenziando come l'ambito di applicazione non possa ritenersi limitato al campo della criminalità organizzata, poiché ciò che rileva non è tanto la commissione di tipici atti di concorrenza, quanto la realizzazione di una serie di attività violente e minacciose, che proprio per le loro caratteristiche di fatto configurano una concorrenza illecita e tendono a controllare le attività commerciali, o comunque a condizionarne il libero esercizio. Si sottolinea, in tal senso, che il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l'ambito di applicabilità della norma (restringendolo alle sole operazioni di criminalità organizzata), ma solo caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo tale impostazione, posto che il bene giuridico tutelato consiste non solo nel buon funzionamento dell'intero sistema economico, ma anche nella libertà della persona di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva, l'atto di concorrenza illecita ex art. 513-bis cit. è configurabile in qualsiasi comportamento violento o intimidatorio che sia idoneo ad impedire al concorrente di avvalersi della sua libertà d'impresa.</p> <p style="text-align: justify;">Siffatta linea interpretativa, dunque, si esprime in senso favorevole ad un'applicazione quanto più generalizzata della norma, proiettata non solo al di fuori del contesto proprio della criminalità organizzata, ma anche verso una prospettiva di tutela nei confronti di eventuali atti di concorrenza sleale "atipici", e comunque non limitati all'area di incidenza della disciplina civilistica della concorrenza sleale emergente dagli artt. 2595 ss. cod. civ..</p> <p style="text-align: justify;">Si tende, all'interno di tale impostazione ricostruttiva, a valorizzare il concetto di "atti impeditivi" della concorrenza, quale connotazione della condotta che tiene conto del contesto nel quale normalmente, anche se non necessariamente, maturano i comportamenti oggetto della previsione normativa, così accogliendo la volontà del legislatore di sanzionare quelle condotte poste in essere in ambienti o settori caratterizzati dalla presenza esplicita di associazioni a delinquere di stampo mafioso ovvero dalla contiguità ad esse dei soggetti attivi, seppur esercenti un'attività di natura imprenditoriale.</p> <p style="text-align: justify;">Pur non potendosi qualificare propriamente come "atto di concorrenza" un banale litigio tra venditori ambulanti, si ritiene comunque necessario accedere ad un "significato ampio" di tale nozione, in modo da includervi sia quelle condotte dirette a distruggere direttamente l'attività del concorrente, sia quelle finalizzate ad evitare che possa essere esercitato un atto di concorrenza lecita (come, ad esempio, il ribasso dei prezzi), così da sanzionare tutti quegli atti volti a rimuovere le condizioni che rendono possibile la stessa capacità di autodeterminazione dei soggetti economici.</p> <p style="text-align: justify;">Dalla linea ermeneutica tracciata dal secondo orientamento ha preso le mosse, progressivamente sedimentandosi nel tempo, un terzo indirizzo interpretativo, essenzialmente finalizzato a valorizzare le prospettive di una meno restrittiva e più completa definizione del concetto di "atti di concorrenza" attraverso il riferimento non solo alla ratio della norma incriminatrice, ma anche alla necessità di integrarne il precetto alla luce della normativa italiana ed europea in tema di tutela della concorrenza.</p> <p style="text-align: justify;">Nel tentativo di superare la contrapposizione fra i due orientamenti dianzi illustrati, la più recente elaborazione giurisprudenziale ha affermato che la condotta materiale del delitto previsto dall'art. 513-bis cod. pen. può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale previsti dall'art. 2598 cod. civ., fra i quali rientrano quelli diretti non solo a distruggere l'attività del concorrente, ma anche ad impedire che possa essere esercitato un atto di libera concorrenza, come quello della ricerca di acquisizione di nuove fette di mercato, precisando che tale disposizione del codice civile, da interpretarsi alla luce della normativa comunitaria e della legge 10 ottobre 1990, n. 287, prevede ai numeri 1) e 2) i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, mentre al n. 3) contiene una norma di chiusura secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai princìpi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda.</p> <p style="text-align: justify;">Si sottolinea che la condotta violenta o minacciosa deve essere valutata coerentemente con il su indicato quadro normativo, muovendo dall'assunto che il cercare di impedire l'attività di un imprenditore nella sua opera di promozione e proposizione sul mercato della propria attività commerciale o imprenditoriale costituisce un comportamento certamente contrario alla correttezza professionale, idoneo a danneggiare l'altrui azienda, perché "teso ad ostacolare la libera e lecita concorrenza della parte offesa, nell'acquisizione di una fetta di mercato del settore ove operano anche altre imprese".</p> <p style="text-align: justify;">Per le medesime ragioni si afferma che tale condotta deve al contempo ritenersi lesiva del principio della libera concorrenza intesa come concorrenza effettiva tra imprese che liberamente competono sul mercato, nella più ampia prospettiva risultante dall'analisi dell'intero quadro normativo comunitario, i cui principii, in considerazione della prevalenza riconosciuta sulle relative norme interne ex artt. 11 e 117 Cost., si impongono anche nell'interpretazione della disposizione di cui all'art. 2598 cod. civ.</p> <p style="text-align: justify;">Assumono in tal modo rilievo sia quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano "idonei a falsare il mercato" e a consentire l'acquisizione, in danno dell'imprenditore minacciato, di illegittime posizioni di vantaggio senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (come nel caso tipico dell'intimidazione esercitata da parte di un imprenditore nei confronti di un altro, rispetto a lavori appaltati ma rivendicati come propri), sia le condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, intese come "qualunque comportamento violento o minatorio" posto in essere nell'esercizio dell'attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante sul mercato non correlata alla capacità operativa dell'impresa, o comunque diretto ad alterare l'ordinario e libero rapportarsi degli operatori in una economia di mercato. A sostegno di tale ricostruzione ermeneutica si rimarca, in definitiva, il fatto che, sebbene il legislatore abbia svincolato la costruzione della fattispecie dalla necessità di una diretta connessione con il contesto specifico della criminalità organizzata, lo scopo della disposizione è quello di arginare la pericolosità di quelle condotte anticoncorrenziali comunque realizzate con comportamenti violenti o minatori.</p> <p style="text-align: justify;">L'origine del contrasto giurisprudenziale va ricercata nella ambiguità della formulazione del testo dell'art. 513-bis cod. pen., la cui introduzione risale alla legge 13 dicembre 1982, n. 646 (cd. Rognoni-La Torre), recante disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, per la volontà, dettata dall'urgenza della particolare temperie storico-politica in cui la figura criminosa ha trovato la sua genesi, di far fronte ad un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con l'esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza.</p> <p style="text-align: justify;">La volontà parlamentare, dunque, appariva orientata a contrastare e reprimere lo svolgimento di tutte quelle attività di impresa gestite, anche indirettamente, da associazioni di stampo mafioso, o comunque ad esse riferibili nel porre in essere condotte intimidatorie in danno di imprese operanti in settori affini o nella medesima realtà territoriale, con il palese obiettivo di acquisire indebite posizioni di preminenza.</p> <p style="text-align: justify;">L'espansione delle forme di compenetrazione fra organizzazioni criminali e settori dell'imprenditoria era infatti crescente, sicchè l'esigenza di una sua limitazione sembrava imprescindibile dall'apprestamento di nuovi e specifici strumenti di tutela attraverso la previsione di una fattispecie ad hoc, finalizzata a colmare la lacuna normativa esistente tra il delitto di estorsione e la contigua fattispecie di turbata libertà dell'industria o del commercio.</p> <p style="text-align: justify;">In tal senso, rispetto al delitto di cui all'art. 629 cod. pen. la dottrina ha osservato, da un lato, che l'offesa era in tal caso diretta sostanzialmente verso il patrimonio dei singoli (e, naturalmente, verso la persona), dall'altro lato che, ai fini della configurabilità del reato, restava comunque necessaria la prova dell'ingiusto profitto con l'altrui danno.</p> <p style="text-align: justify;">Per quel che attiene invece al rapporto con la contigua figura criminosa prevista dall'art. 513 cod. pen. si è posto in evidenza che, sebbene tale norma tutelasse la libertà dell'iniziativa economica nel settore delle attività produttive, il compimento di atti di violenza ivi previsto assumeva rilievo sul piano penale solo in quanto diretto, in modo esclusivo, verso le cose.</p> <p style="text-align: justify;">Ora, sebbene la proiezione storico-politica della norma introdotta con l'art. 513-bis rifletta l'intento, generalmente avvertito, di fronteggiare l'emergenza legata ad un contesto socio-economico caratterizzato dalla crescente incidenza di fenomeni criminali legati alle attività della cd. "mafia imprenditrice", è agevole rilevare come la struttura della fattispecie incriminatrice sia stata congegnata dal legislatore in maniera del tutto indipendente dal peculiare contesto in cui ha visto la luce, delineandone un ambito di applicazione generale, non limitato alle condotte tipiche della criminalità organizzata e privo di qualsiasi connotazione specializzante anche sotto il profilo soggettivo, in quanto la condotta può essere materialmente realizzata da "chiunque", sia pure nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o produttiva.</p> <p style="text-align: justify;">Alla luce di tale ricostruzione, dunque, ben si comprende il percorso evolutivo seguito dalla giurisprudenza, che ha gradualmente ampliato la portata applicativa della norma, inizialmente limitandone l'incidenza ai fini del contrasto di forme d'intimidazione mafiosa tese a scoraggiare la regolare dinamica dell'agire imprenditoriale, per poi escludere la necessaria realizzazione della condotta nel contesto delittuoso specifico della criminalità organizzata, sul rilievo che il riferimento ai comportamenti posti in essere in siffatti contesti criminali ha il solo fine di caratterizzare le condotte punibili tramite il ricorso ad un "significativo parallelismo" e non intende affatto dimensionare e circoscrivere l'ambito di applicazione della norma.</p> <p style="text-align: justify;">Nel testo dell'art. 513-bis, peraltro, la dichiarata volontà legislativa di reprimere i comportamenti mafiosi diretti ad impedire il libero svolgimento dell'attività imprenditoriale secondo le regole della concorrenza non ha trovato una fedele attuazione, poiché la descrizione del fatto tipico è stata seccamente incentrata sulla realizzazione di atti di concorrenza accompagnati da violenza o minaccia, senza alcun riferimento alla specificità di un determinato contesto criminale.</p> <p style="text-align: justify;">Sotto altro, ma connesso profilo, la scelta di collocare la disposizione tra i delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio (nel Capo II del Titolo VIII) ha di fatto allontanato l'area della oggettività giuridica della nuova figura di reato dal complesso delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dell'ordine pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">L'imprecisione della norma, del resto, è stata subito colta dalla dottrina, che nel criticarne la funzione prevalentemente "simbolica" ha posto in evidenza il problematico accostamento di elementi oggettivi di incerta ricomposizione interna ("atti di concorrenza", da un lato, "violenza o minaccia dall'altro"), rilevando come l'uso della violenza e della minaccia si ponga all'esterno dei limiti e delle caratteristiche proprie dell'atto concorrenziale in senso tecnico, con il logico corollario che l'attività volta a scoraggiare l'iniziativa imprenditoriale altrui attraverso l'impiego di tali metodi rischia di porsi al di là delle più note e scorrette forme di attività concorrenziale, esorbitando dal concetto classico di concorrenza sleale secondo la previsione dell'art. 2598 cod. civ..</p> <p style="text-align: justify;">In tal senso, il problema fondamentale posto dall'interpretazione della figura di reato in esame, priva di precedenti legislativi immediati, è stato prontamente individuato nella palese divergenza fra la ratio della previsione normativa e l'ambito di incidenza della sua tipicità, delineata dal legislatore in relazione ad una oggettività giuridica i cui tratti identificativi sono risultati sostanzialmente diversi da quelli inizialmente annunciati, con il conseguente disallineamento venutosi a determinare fra l’intentio legis, la formulazione lessicale del dettato normativo e la successiva opera di esegesi compiuta in sede dottrinale e giurisprudenziale.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò posto, e richiamato il complesso delle considerazioni dianzi svolte, deve rilevarsi come i primi due orientamenti giurisprudenziali muovano da impostazioni ricostruttive sensibilmente differenti, delineando percorsi argomentativi che in entrambi i casi giungono a soluzioni non condivisibili.</p> <p style="text-align: justify;">Il primo di essi intende conferire alla norma una maggiore determinatezza, tipizzando le condotte punibili attraverso il riferimento ad un parametro normativo preciso, ma estremamente delimitato nella sua potenzialità applicativa, là dove ne restringe l'incidenza ad isolate forme di comportamento competitivo, senza esplorare appieno la possibilità di un'interpretazione che si faccia carico di collocare la norma incriminatrice e il bene giuridico da essa tutelato all'interno di una visione complessiva dei presupposti della libertà di concorrenza nel sistema interno e nella sua più ampia dimensione euro-unitaria.</p> <p style="text-align: justify;">Per tali ragioni ne è stata criticata la ridotta efficacia delle capacità di tutela, che rischiano di subire un sensibile ridimensionamento rendendo la norma sostanzialmente inapplicabile se non in casi assai limitati.</p> <p style="text-align: justify;">Il secondo indirizzo ermeneutico, nel mostrare una maggiore sintonia con le finalità e le ragioni di politica criminale che hanno accompagnato l'introduzione della fattispecie in esame, ne offre una lettura decisamente ampliativa rispetto a quella accolta dal primo orientamento, valorizzando la sola prospettiva Ideologica dell'azione, sicchè il carattere concorrenziale dell'atto non è dato dalla sua natura materiale, ma dalla sua finalità.</p> <p style="text-align: justify;">Così ragionando, tuttavia, si finirebbe necessariamente per accogliere il risultato di una vera e propria equiparazione tra l'atto violento o minaccioso finalizzato ad inibire la concorrenza, non ravvisabile nel dato normativo, e l'atto di concorrenza commesso con violenza o minaccia, espressamente annoverato fra gli elementi costitutivi del reato.</p> <p style="text-align: justify;">I rischi di compressione del principio di tassatività e determinatezza della legge penale emergono, dunque, con particolare evidenza.</p> <p style="text-align: justify;">Siffatta interpretazione estensiva della nozione degli atti di concorrenza, inoltre, rischia, da un lato, di rafforzare del tutto impropriamente l'incidenza dell'elemento psicologico dei reato poiché, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell'esercizio dell'attività concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovrà comunque dirigersi verso il contrasto dell'altrui libertà di concorrenza; dall'altro lato, di imporre una rivisitazione del contenuto dell'oggettività giuridica, dal momento che la norma verrebbe a tutelare situazioni ed attività non riconducibili esclusivamente al libero autodeterminarsi dell'imprenditore nella sua attività d'impresa, oltrepassando l'esigenza di protezione della sfera dell'economia pubblica, dell'industria e del commercio, per indirizzarsi di fatto verso la difesa di esigenze proprie dell'ordine pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Prospettive di maggior interesse ai fini della corretta soluzione del quesito rimesso a questa Suprema Corte emergono, di contro, dalla valorizzazione delle implicazioni sottese alla soluzione di mediazione prospettata dal terzo dei richiamati orientamenti giurisprudenziali, là dove si propone di ridefinire la tipicità della fattispecie assegnando al compimento degli "atti di concorrenza" una rinnovata centralità nel quadro evolutivo della pertinente normativa di riferimento, sia interna che di origine e derivazione euro-unitaria, senza tralasciare l'importanza del richiamo alle ragioni e alle finalità di tutela che hanno storicamente determinato la genesi della norma descritta nell'art. 513-bis cod. pen..</p> <p style="text-align: justify;">Prospettiva, questa, che reca in sé importanti elementi di novità, la cui rilevanza deve essere esaminata ed approfondita all'interno di un contesto normativo profondamente mutato rispetto a quello che vide l'inserimento nel sistema codicistico della predetta fattispecie di reato: un contesto "multilivello", dunque più ampio e complesso, le cui numerose articolazioni forniscono oggi all'interprete parametri di riferimento utili per meglio inquadrare nel sistema le scelte di incriminazione a suo tempo operate dal legislatore.</p> <p style="text-align: justify;">Pur in assenza di un'esplicita menzione, si ritiene che il principio di libera concorrenza sia tutelato a livello costituzionale dall'art. 41, primo comma, Cost., il quale afferma che l'iniziativa economica privata è libera, sicchè ogni individuo è libero di esercitare un'attività economica, fatti salvi i limiti espressamente dettati nel secondo comma della richiamata disposizione. Tale principio è altresì tutelato, come più avanti meglio si vedrà, dalla legislazione europea e da quella ordinaria, che dettano al riguardo una serie di disposizioni volte a contrastare la formazione di monopoli privati e di coalizioni di imprese.</p> <p style="text-align: justify;">L'accelerazione del processo di integrazione europea determinatosi fin dall'inizio degli anni novanta e la crescente importanza e pervasività delle regole di concorrenza stabilite dall'Unione europea, cui spetta a titolo di competenza esclusiva la loro definizione secondo criteri immediatamente vincolanti per le politiche economiche degli Stati membri (ex art. 3, par. 1, lett. b), TFUE), unitamente alla netta scelta di campo espressa in favore di "un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza" (ex artt. 119 par. 1 e 120 TFUE, in relazione all'art. 3, par. 3, TUE), hanno sensibilmente inciso sulla portata del principio stabilito nell'art. 41, primo comma, Cost., imprimendogli connotazioni in parte nuove, che il legislatore ordinario da tempo si è fatto carico di recepire e filtrare nell'ordinamento interno (sin dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato), in linea con l'affermazione euro-unitaria della centralità della tutela della concorrenza nella prospettiva di "un'economia sociale di mercato fortemente competitiva" (art. 3, par. 3, TUE).</p> <p style="text-align: justify;">A tal riguardo rilevano, in particolare: a) l'art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sul riconoscimento della libertà d'impresa; b) i su citati artt. 3, par. 3 e 21, par. 2, lett. e), TUE; c) gli artt. 3, par. 1, lett. b), 32, lett. c), 34 ss., 101-109, 119, par. 1, 120 TFUE, che dettano le norme sostanziali in materia di tutela della concorrenza; d) il Protocollo n. 27 allegato ai Trattati, là dove si afferma che «il mercato interno ai sensi dell'articolo 3 del Trattato sull'Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata».</p> <p style="text-align: justify;">Nella libertà di concorrenza si è così progressivamente intravista una delle naturali espressioni della libertà di iniziativa economica privata, poi anche formalmente consacrata nella nuova disposizione di cui all'art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., introdotta nell'ordinamento a seguito della modifica operata dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.</p> <p style="text-align: justify;">In tal modo, la libertà di concorrenza si è imposta quale bene costituzionalmente rilevante, la cui tutela viene assegnata, nell'ambito della nuova ripartizione delle competenze fra i diversi livelli territoriali di governo, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, che deve esercitarla «nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».</p> <p style="text-align: justify;">Di tale nuova declinazione del rapporto fra la libertà dell'iniziativa economica privata e la tutela delle regole della concorrenza anche nella più ampia dimensione del mercato comunitario si colgono chiaramente i segni nella evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, ormai costante nell'affermare che la nozione di «concorrenza», di cui al secondo comma, lettera e), dell'art. 117 Cost., riflette quella operante in àmbito comunitario, sicchè essa comprende sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati (con la disciplina delle relative modalità di controllo, eventualmente anche sul piano sanzionatorio), sia le misure legislative di promozione, volte ad eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza "nel mercato"), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza "per il mercato").</p> <p style="text-align: justify;">In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza» vengono altresì perseguite finalità di ampliamento dell'area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi.</p> <p style="text-align: justify;">Pur nell'indubbia varietà di posizioni, la dottrina tende a ricostruire il portato del principio costituzionale riconoscendo che «la libertà di concorrenza è valore implicito nella libertà d'iniziativa in quanto libertà di tutti».</p> <p style="text-align: justify;">La libertà d'iniziativa economica privata può essere esercitata, dunque, erga omnes, come «eguale possibilità» di tutti i privati «di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore» e, quindi, «di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine». La richiamata disposizione afferma il valore della libertà dell'iniziativa privata senza limitarne l'operatività ai rapporti fra Stato e imprenditore, essendo la copertura costituzionale estesa sino a ricomprendervi anche il quadro delle relazioni reciproche tra imprenditori ed i rapporti fra questi ed i consumatori.</p> <p style="text-align: justify;">Se dal riconoscimento della libertà d'iniziativa economica deriva, quale naturale corollario, quello del principio di eguaglianza nei rapporti economici, è evidente che la repressione delle forme di concorrenza sleale s'innesta proprio su quest'ultimo versante del precetto costituzionale, offrendo una specifica tutela nei confronti di comportamenti posti in essere dall'imprenditore allo scopo di assicurarsi indebite posizioni di vantaggio che non ledono tanto (o soltanto) l'economia nazionale astrattamente considerata, ma sono idonei a ledere anche, e soprattutto, l'esercizio dell'altrui libertà di iniziativa economica.</p> <p style="text-align: justify;">Il riferimento, obbligato anche ai sensi dell'art. 11 Cost., al complesso delle disposizioni normative che fondano lo "statuto" europeo della concorrenza consente altresì di valorizzare, all'interno del perimetro tracciato dalla norma principio costituzionale scolpita nell'art. 41 cit., una serie di interessi emergenti ed implicitamente rilevanti ovvero nuove ed ulteriori declinazioni degli stessi, riconoscendosi ormai che, attraverso tale procedimento ermeneutico, il "metodo competitivo" si eleva "a decisione di sistema" e "guadagna la funzione di principio generale dell'ordinamento".</p> <p style="text-align: justify;">Si può, allora, concludere, come osservato dalla dottrina, che la leale concorrenza è un bene non solo «socialmente rilevante, suscettibile di assurgere ad oggetto di tutela penale», ma anche dotato di «indiscutibile rilievo costituzionale», in un'accezione sia di tipo estrinseco o negativo, sia, soprattutto, di tipo positivo, quale assenza di condizionamenti indebiti all'esercizio della relativa libertà.</p> <p style="text-align: justify;">Volgendo ora lo sguardo all'ordinamento europeo, è agevole rilevare come il favor per la tutela della libertà di concorrenza si manifesti, in particolare, nell'insieme di divieti posti dagli artt. 101 e 102 TFUE (e in precedenza stabiliti negli artt. 81 e 82 TCE).</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 101 TFUE afferma che sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese, e tutte le pratiche concorrenziali che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza nel mercato interno, elencando in un apposito catalogo una serie di specifici comportamenti (ad es., fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita, limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti, ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento, applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza, ecc.) ritenuti rilevanti al fine di incrementare il benessere dei consumatori e realizzare l'integrazione dei mercati nazionali tramite la creazione di un mercato unico.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 102 TFUE vieta, a sua volta, l'abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo e ne sanziona, in particolare, lo sfruttamento abusivo, non essendo di per sé incompatibile con il mercato la ricorrenza di una posizione dominante, ma l'uso scorretto che della stessa si faccia, per pregiudicare l'ordinario andamento del mercato. La finalità di tale disposizione, pertanto, è quella di arginare ogni tipo di pratica abusiva (un cui ampio catalogo vi figura, a titolo esemplificativo, nel secondo paragrafo) che non solo provochi un danno al consumatore, ma pregiudichi anche la sussistenza di una concorrenza effettiva tra le imprese.</p> <p style="text-align: justify;">I comportamenti tipici che possono dar luogo ad un abuso di posizione dominante sono individuati in termini del tutto corrispondenti a quelli che possono formare oggetto delle intese vietate ai sensi dell'art. 101 cit..</p> <p style="text-align: justify;">Le richiamate disposizioni del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea producono effetti diretti nei rapporti tra i singoli ed attribuiscono agli interessati diritti che possono essere direttamente invocati dinanzi ai giudici nazionali.</p> <p style="text-align: justify;">V'è inoltre da considerare che, nel proclamare in linea generale il principio della libertà d'impresa conformemente al diritto dell'Unione europea e alle legislazioni e prassi nazionali, l'art. 16 CDFUE contiene uno specifico criterio di coordinamento con l'intera normativa euro-unitaria. La previsione di tale criterio non involge soltanto le naturali esigenze di raccordo con le condizioni ed i limiti previsti dalle norme contenute nei Trattati, poiché si afferma espressamente nella richiamata disposizione che la libertà d'impresa deve essere esercitata "conformemente al diritto dell'Unione", così includendovi, dunque, le regole di diritto derivato che governano in maniera specifica e dettagliata i meccanismi di funzionamento della concorrenza (ad es., il Regolamento CE n. 1/2003 del 16 dicembre 2002 del Consiglio, concernente l'applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, e il Regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio, del 20 gennaio 2004, relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese).</p> <p style="text-align: justify;">Del tutto conformi alle regole stabilite dalla disciplina europea della concorrenza risultano le disposizioni contenute nell'ordinamento interno, ed in particolare nella legge 12 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, i cui artt. 2 e 3 dettano analoghe previsioni in tema di intese restrittive della libertà di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese, volte a preservare il regime concorrenziale del mercato a livello nazionale ed a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che incidono esclusivamente sul mercato italiano.</p> <p style="text-align: justify;">Non solo le situazioni vietate sono individuate assumendo quale modello di riferimento il contenuto delle corrispondenti disposizioni dell'ordinamento euro-unitario, ma nella richiamata legge di recepimento (ex art. 1, comma 4) figura espressamente enunciato il criterio secondo cui le regole interne vanno interpretate in base ai principi dell'ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza.</p> <p style="text-align: justify;">Identici, dunque, devono ritenersi i comportamenti pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato posti sotto controllo dalla normativa europea e da quella nazionale, con la relativa esigenza di una regola di riparto che il legislatore ha introdotto riconoscendo alla prima una posizione preminente e sovraordinata anche sotto il profilo della residualità della disciplina interna, in quanto applicabile alle pratiche anticoncorrenziali che abbiano un rilievo esclusivamente locale e non incidano sulla concorrenza nel mercato comunitario.</p> <p style="text-align: justify;">Nel sistema italiano, come in quello di altri Paesi, è altresì vietato l'abuso dello stato di dipendenza economica nel quale si trovi un'impresa, cliente o fornitrice, rispetto ad una o più altre imprese anche in posizione non dominante sul mercato ex art. 9, comma 1, della legge 18 giugno 1998, n. 192, secondo cui «si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subìto l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti».</p> <p style="text-align: justify;">Nell'art. 9, comma 2, legge cit. si prevede che «l'abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto», così individuando in forma esemplificativa una serie di comportamenti tipici dei rapporti verticali fra imprese, che in parte coincidono con quelli che danno vita alla fattispecie di abuso di posizione dominante.</p> <p style="text-align: justify;">In una più ampia prospettiva di analisi, inoltre, si collocano le previsioni della legge 11 novembre 2011, n. 180, recante "Norme per la tutela della libertà d'impresa. Statuto delle imprese", che ha inteso definire (art. 1, comma 1) «lo statuto delle imprese e dell'imprenditore al fine di assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d'impresa, e di garantire la libertà di iniziativa economica privata in conformità agli articoli 35 e 41 della Costituzione».</p> <p style="text-align: justify;">Lo statuto, in particolare, mira «a favorire la competitività del sistema produttivo nazionale nel contesto europeo e internazionale" [ex art. 1, comma 5, lett. g)], prevedendo, al fine di raggiungere tali obiettivi, l'adozione di iniziative (ad es. l'integrazione degli statuti delle associazioni di imprese con un codice etico) volte a favorire «il rifiuto di ogni rapporto con organizzazioni criminali o mafiose e con soggetti che fanno ricorso a comportamenti contrari alla legge, al fine di contrastare e ridurre le forme di controllo delle imprese e dei loro collaboratori che alterano di fatto la libera concorrenza» (art. 3, comma 4).</p> <p style="text-align: justify;">Il principio cardine della legislazione europea in tema di regole della concorrenza, pienamente recepito, come si è osservato, anche nell'ordinamento interno, è quello secondo cui la libertà di iniziativa economica e la competizione fra le imprese non possono tradursi in atti e comportamenti pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato.</p> <p style="text-align: justify;">Il fatto che il legislatore tuteli la libertà di concorrenza delle imprese non significa, però, che ne giustifichi qualsiasi arbitrio, poiché nel tentativo, legittimo, di allargare la propria quota di mercato esse potrebbero far ricorso a strumenti "sleali", in contrasto con l'obbligo di comportarsi in conformità "ai principi della correttezza professionale" (art. 2598, comma 3, cod. civ.).</p> <p style="text-align: justify;">Il riconoscimento legislativo della libertà di iniziativa economica privata e della conseguente libertà di concorrenza costituisce un presupposto necessario, ma non sufficiente, per la instaurazione di un regime di mercato oggettivamente caratterizzato da un sufficiente grado di effettiva competizione concorrenziale: è dunque necessaria la previsione di modelli e tecniche di regolamentazione che impediscano sul piano giuridico, in relazione a diversi ed egualmente meritevoli profili di tutela, il determinarsi di situazioni di monopolio e quasi-monopolio, ovvero comportamenti illeciti che di fatto alterino o, addirittura, stravolgano il regolare funzionamento del mercato.</p> <p style="text-align: justify;">Nella ricerca di tale problematico punto di equilibrio il legislatore nazionale non solo consente limitazioni legali della concorrenza per fini di "utilità sociale" (art. 41, terzo comma, Cost.), ovvero limitazioni di tipo negoziale subordinandone al contempo la validità al rispetto di ben determinate condizioni (art. 2596 cod. civ.), ma mira, soprattutto, ad assicurarne l'ordinato e corretto svolgimento attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale (artt. 2598-2601 cod. civ.), così recependo nell'ordinamento interno la corrispondente normativa dettata dall'art. 10-bis della Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della libertà industriale del 1883, riveduta a L'Aja nel 1925, di cui al Regio decreto legge 10 gennaio 1926, n. 169, convertito con modificazioni nella legge 29 dicembre 1927, n. 2701, che a sua volta fa riferimento agli "usi onesti in materia industriale e commerciale".</p> <p style="text-align: justify;">Atti, questi, che, diversamente dalla disciplina generale dell'illecito civile, vengono repressi e sanzionati dall'ordinamento anche se compiuti senza dolo o colpa (art. 2600, comma 1, cod. civ.) ed anche se non hanno ancora arrecato un danno al concorrente, dovendosi ritenere sufficiente, perchè scattino le specifiche sanzioni dell'inibitoria e della rimozione degli effetti prodotti (art. 2599 cod. civ.), che "l'atto sia idoneo a danneggiare l'altrui azienda" (art. 2598, comma 1, n. 3, cod. civ.), fatto salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell'elemento psicologico (dolo o colpa) e di un danno patrimoniale attuale (art. 2600 cod. civ.).</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 2598 cit., in particolare, classifica gli atti di concorrenza sleale individuando, in primo luogo, due vaste aree di fattispecie tipiche nel n. 1 (gli atti idonei a determinare confusione con i prodotti o con l'attività di un concorrente) e nel n. 2 (gli atti di denigrazione, idonei a determinare il discredito sui prodotti o sull'attività di un concorrente, e l'appropriazione di pregi dei prodotti o dell'impresa altrui), mentre nel successivo n. 3 enuncia una regola generale di chiusura secondo cui costituisce atto di concorrenza sleale il fatto di avvalersi, direttamente o indirettamente, di "ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda".</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta, nell'ultima delle ipotesi citate, di qualsiasi atto che risulti, da un lato, contrario ai canoni di etica professionale generalmente accettati e seguiti nel mondo degli affari ovvero nello specifico settore cui appartengono le attività imprenditoriali in rapporto concorrenziale, dall'altro lato, idoneo a recare danno all'altrui azienda.</p> <p style="text-align: justify;">Il legislatore, dunque, impernia la valutazione sulla base di due criteri fondamentali di qualificazione (la contrarietà ai principii della correttezza professionale e l'idoneità a danneggiare l'altrui azienda) che se, per un verso, devono guidare il giudice nel delicato compito di adeguare l'apprezzamento del caso concreto alla coscienza sociale di un determinato momento storico, per altro verso tendono ad operare come paradigmi di riferimento sul piano ermeneutico non solo in relazione all'individuazione degli atti cd. non tipizzati (previsti nel n. 3), ma anche per la qualificazione degli atti di concorrenza sleale espressamente indicati nell'art. 2598, n. 1 e n. 2, cit..</p> <p style="text-align: justify;">Il giudizio sui canoni di correttezza professionale, in tal modo, non esaurisce l'intero arco dell'attività di qualificazione dell'illecito concorrenziale, il cui retto svolgimento poggia altresì sul criterio, parimenti rilevante, della idoneità dell'atto a recare danno all'altrui attività imprenditoriale: idoneità intesa dalla dottrina quale capacità offensiva "specifica", e di regola più intensa, rispetto a quella connaturata a "qualsiasi" atto di concorrenza, poiché finalizzata a sottrarre uno spazio di mercato occupato o gestito dall'impresa concorrente.</p> <p style="text-align: justify;">Al residuale modello di riferimento delineato dall'art. 2598 n. 3 cit. la dottrina e la giurisprudenza hanno ricondotto un'ampia varietà di comportamenti illeciti, come ad es. il boicottaggio economico, la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti (cd. dumping), lo storno dei dipendenti, la cd. concorrenza "parassitaria" (quando attuata con accorgimenti e forme tali da evitare la piena confondibilità delle attività, a sua volta riconducibile alla fattispecie tipica degli atti di confusione), la pubblicità menzognera (quando sia specificamente diretta a screditare i prodotti di un altro imprenditore e non inquadrabile nella fattispecie tipica dell'appropriazione di pregi), l'acquisizione o l'utilizzazione in forme scorrette di informazioni commerciali o industriali e la violazione di norme pubblicistiche - penali, fiscali, amministrative ed oggi, finanche, euro-unitarie qualora il comportamento dia luogo ad una alterazione delle condizioni di concorrenza che incida sulle condizioni di mercato, risolvendosi in profitto dell'autore della violazione e in danno di uno o più concorrenti.</p> <p style="text-align: justify;">Determinata, o comunque determinabile, deve pertanto ritenersi la categoria degli atti di concorrenza sleale, per la cui valutazione occorre tener conto degli interessi collettivi concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti di cui all'art. 41 della Costituzione, finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualità strutturale di luogo della libertà di iniziativa economica per tutti i suoi partecipi, ovvero per chiunque pretenda di esercitare tale iniziativa.</p> <p style="text-align: justify;">Entro tale prospettiva si è affermato, in particolare, che l'aggancio ad un parametro snello adeguabile ai mutamenti del costume del mercato impone all'interprete di stabilire se un comportamento, ancorché non previsto dai nn. 1 e 2, e ferme restando le eccezioni delle privative, realizzi attualmente o potenzialmente la stessa dannosità anticoncorrenziale. Ne discende, in definitiva, che la concorrenza libera viene lesa ogni qual volta l'equilibrio delle condizioni del mercato sia compromesso, laddove il carattere residuale della previsione contenuta nell'art. 2598 n. 3 cod. civ. consente di evitare che l'obiettivo anticoncorrenziale venga raggiunto con comportamenti che presentano lo stesso disvalore di quelli come tali considerati dal legislatore storico. Consegue la necessità di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. Non rientrando siffatte ipotesi dentro una fattispecie astratta a sé stante.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla base delle considerazioni dianzi esposte è evidente che, in assenza di una definizione, anche penalistica, del concetto giuridico di "concorrenza", l'interpretazione del sintagma "atti di concorrenza", centrale nella struttura della fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 513-bis cod. pen., deve necessariamente procedere alla luce della pertinente normativa euro-unitaria ed interna che disciplina i presupposti e le regole di funzionamento della libertà di concorrenza.</p> <p style="text-align: justify;">Seguendo tale impostazione ricostruttiva, la tipicità della fattispecie va inquadrata alla luce sia del superiore divieto di ordine costituzionale posto dall'art. 41, secondo comma, Cost., secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale riconducibile alla libera estrinsecazione dell'iniziativa economica privata non può svolgersi "in modo da recare danno" ad una serie di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come i diritti di libertà, sicurezza e dignità umana), sia dell'esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex art. 2595 cod. civ.) per lo svolgimento della libera concorrenza, che sono quelli specificamente risultanti, come si è visto, dal raccordo fra i diversi livelli della normativa euro-unitaria e delle disposizioni contenute nel codice civile e nella successiva legislazione speciale (in primo luogo, nella legge n. 287 del 1990).</p> <p style="text-align: justify;">Nella medesima prospettiva indicata dalla Corte costituzionale nelle richiamate decisioni in ordine ai criteri di interpretazione della nozione di «concorrenza» di cui all'art. 117, secondo comma, Cost. si è mossa l'elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione nel settore civile, secondo cui, già nel regime giuridico anteriore all'entrata in vigore del Regolamento comunitario n. 1 del 2003 - il quale, sostituendo il precedente Regolamento n. 4 del 1962, ha introdotto una maggiore integrazione tra gli ordinamenti nazionali in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti a violazione della normativa "antitrust" – era consentito al giudice nazionale, alla luce degli artt. 85, 86, 89 e 90 del Trattato dell'Unione europea e della legge 10 ottobre 1990, n. 287, interpretare ed applicare le norme sulla concorrenza sleale - in particolare l'art. 2598 cod. civ. - assumendo come valore di riferimento la tutela della concorrenza.</p> <p style="text-align: justify;">A fondamento di tale affermazione la Corte ha osservato che «la dimensione giuridica della concorrenza ha assunto nel nostro sistema la funzione di "valore di riferimento", giacché gli artt. 85 ed 86 del Trattato hanno imposto limiti nuovi, mirati a proteggere la struttura concorrenziale del mercato anche indipendentemente dall'atteggiamento del soggetto leso. Da ciò il rilievo giuridico qualitativo dei presupposti, apparentemente solo quantitativi, dell'applicazione di tale novità giuridica, quali il "mercato rilevante", ed il "pregiudizio agli scambi dei Paesi aderenti al Trattato"».</p> <p style="text-align: justify;">Il mercato si identifica infatti nella nozione introdotta dal Trattato europeo, con quello concorrenziale, sicchè il bene giuridico da tutelare è quello della competitività. Ne consegue che già prima del nuovo testo dell'art. 117 Cost., e dunque nel vigore del Trattato e quindi ancora a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 287 del 1990, si può dire certa nel nostro sistema giurisprudenziale la necessità di leggere la disciplina del codice civile parallelamente a quella del Trattato, ovvero considerandone parte integrante la logica antitrust.</p> <p style="text-align: justify;">Nella medesima direzione si muove l'impostazione ricostruttiva parallelamente delineata dalla Cassazione nell'individuazione degli elementi costitutivi della condotta delittuosa tipizzata nell'art. 513-bis cit., là dove, nel sottolinearne la connotazione di norma non meramente sanzionatoria della disciplina civilistica, ha richiamato l'esigenza di fare riferimento sia alla normativa di matrice euro-unitaria, sia alla legislazione interna che vi ha dato attuazione (in primo luogo con la menzionata legge n. 287 del 1990), accogliendo l'intero ambito applicativo delle disposizioni racchiuse nell'art. 2598 cod. civ. (ivi compresa, pertanto, quella di cui al n. 3) non come un corpus estraneo e separato dalla suddetta normativa, ma con essa strettamente compenetrato e da interpretare, dunque, alla stregua dei principii da essa desumibili.</p> <p style="text-align: justify;">Occorre esplorarne, dunque, la potenzialità delle correlative implicazioni esegetiche ai fini della precisa delimitazione del contenuto precettivo della fattispecie e della corretta soluzione del richiamato contrasto.</p> <p style="text-align: justify;">La condotta descritta dalla norma incriminatrice si inserisce all'interno di un'attività imprenditoriale e poggia essenzialmente sulla qualità materiale degli atti che vi danno corpo, ossia sulla loro qualificazione in senso concorrenziale e non sulla loro direzione teleologica.</p> <p style="text-align: justify;">La scelta del legislatore penale di impiegare nella descrizione degli elementi tipici della condotta la locuzione "atti di concorrenza" al plurale, anziché al singolare, non deve ritenersi casuale, poiché se, di certo, deve ammettersi la possibilità di un atto di concorrenza isolato ed istantaneo, nella gran parte dei casi ricorre, normalmente, un'attività continuata di concorrenza e poiché nel giudizio di concorrenza sleale non va isolatamente preso ciascun atto, che può anche essere lecito, ma va compiuto un apprezzamento complessivo dei fatti, ai fini della loro valutazione rispetto ai principi della correttezza professionale, la combinazione di essi può essere rivelatrice della manovra ordinata ai danni del concorrente, in quanto quegli atti, nella loro coordinazione, mettano capo all'attuazione di un mezzo sleale.</p> <p style="text-align: justify;">L'analisi della struttura della fattispecie di reato modellata dalla norma in esame ne suggerisce, in primo luogo, la riconduzione all'interno di una dialettica concorrenziale, postulando, attraverso il riferimento lessicale al compimento di atti di concorrenza "nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva", sia la qualità di imprenditore in capo al soggetto che, direttamente o indirettamente, pone in essere la condotta, sia l'esistenza di un rapporto di competizione economica nei confronti del soggetto che ne subisce le conseguenze.</p> <p style="text-align: justify;">Il soggetto attivo e quello passivo del rapporto di concorrenza devono tendenzialmente offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o, comunque, bisogni complementari o affini, tenendo conto, però, del fatto che il rapporto di concorrenza si instaura anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi (ad es.: produttore-rivenditore o grossistadettagliante), coinvolgendo tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Quale che sia, infatti„ l'anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui all'art. 2598 cit..</p> <p style="text-align: justify;">Se, dunque, è vero che l'operatività della norma descritta nell'art. 513-bis si estende verso qualsiasi attività economicamente orientata alla predisposizione ed offerta di prodotti o servizi su un certo mercato, è parimenti vero che la delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non va intesa in senso meramente formale, in quanto non occorre la qualità di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l'espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva, a prescindere dai requisiti di professionalità ed organizzazione tipici della figura civilistica dell'imprenditore e fatte salve, in base ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato, le ipotesi di compartecipazione criminosa nella realizzazione della condotta punibile, qualora vengano dimostrati la conoscenza da parte dell'extraneus della qualità di intraneus del soggetto agente ed il contributo del primo alla commissione del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Analogamente non si ritiene necessario, sotto altro ma connesso profilo, che gli atti di concorrenza illecita siano diretti nei confronti dell'imprenditore concorrente, non essendo tale caratteristica espressamente richiesta dalla norma a fronte di condotte che ben possono coinvolgere anche persone diverse da quello.</p> <p style="text-align: justify;">Finanche in relazione alla disciplina civilistica della concorrenza sleale si ritiene, del resto, che l'imprenditore possa rispondere sia per gli atti da lui direttamente compiuti, sia per quelli posti in essere da altri soggetti (ausiliari autonomi e subordinati, concessionari, imprese controllate ecc.) nel suo interesse e dietro sua istigazione o specifico incarico, espressamente prevedendo la norma di cui all'art. 2598, n. 3, cit. che l'atto di concorrenza sleale può essere compiuto anche "indirettamente".</p> <p style="text-align: justify;">Una specifica valenza selettiva ai fini della individuazione della condotta punibile deve assegnarsi, inoltre, ai contenuto e alle finalità del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in esame, che ha introdotto nel codice penale un reato plurioffensivo orientato non solo verso la tutela di un più ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, ma anche alla protezione di un diverso interesse, da intendersi quale bene strumentale, più direttamente inerente ad una esigenza di garanzia della sfera soggettiva della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva.</p> <p style="text-align: justify;">La volontà del soggetto passivo della condotta di illecita concorrenza con minaccia o violenza non opera infatti liberamente, in quanto viene condizionata, rispettivamente, dalla prospettazione di un male ingiusto ovvero dalla costrizione fisica a determinarsi nel senso impostogli dall'agente.</p> <p style="text-align: justify;">In materia di concorrenza, come dianzi osservato, il sistema è ispirato al concetto che la libera competizione nel campo industriale, commerciale e produttivo, purchè esercitata con l'osservanza di determinate regole, è, sotto vari aspetti, utile e vantaggiosa nell'interesse generale. L'art. 2595 cod. civ., infatti, lungi dal vietare la concorrenza, dispone in linea generale che essa deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell'economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge.</p> <p style="text-align: justify;">Qual che ne sia la dimensione, dunque, lo svolgimento delle attività descritte dalla norma incriminatrice deve rispettare ben precisi canoni di correttezza nell'ambito dei rapporti di coesistenza sul mercato fra imprenditori concorrenti: canoni il cui diverso grado di inosservanza è progressivamente sanzionato nell'ordinamento civile e in quello penale.</p> <p style="text-align: justify;">La dialettica del rapporto concorrenziale entro cui può fisiologicamente dispiegarsi il libero esercizio dell'attività d'impresa delinea, unitamente ai contenuti del bene protetto, il contesto giuridico entro cui si inserisce, e come tale va ricostruita, la tipicità di una condotta oggettivamente distorsiva degli ordinari meccanismi di competizione economica: condotta che, in quanto illecitamente connotata dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, assume rilievo penale integrando la fattispecie incriminatrice senza che si renda necessaria la reale intimidazione del soggetto passivo ovvero una effettiva alterazione degli equilibri di mercato.</p> <p style="text-align: justify;">L'intima connessione che la norma incriminatrice richiede fra gli atti di esercizio della libertà di concorrenza all'interno di un rapporto di competizione economica - anche solo potenziale - e le specifiche note modali rappresentate dall'utilizzo della violenza o della minaccia costituisce un fattore distorsivo delle regole di svolgimento di quella che dovrebbe essere, di contro, una paritaria contesa commerciale, sino a varcare il limite dell'atto di concorrenza anche nel suo stigma di "slealtà", innestando sull'atto di esercizio di una libertà - e con un grado d'intensità variabile a seconda dei casi - l'illecita componente oggettiva della contestuale compressione, quando non addirittura della negazione, della corrispondente, e parimenti tutelata, possibilità di autodeterminazione del concorrente nello svolgimento delle diverse attività produttive richiamate nella predetta disposizione.</p> <p style="text-align: justify;">Attorno alle componenti oggettive della violenza e della minaccia, che non vi figurano come elementi finalisticamente orientati, bensì come elementi costitutivi della condotta, concorrendo a delinearne la tipicità attraverso una previsione in forma alternativa del suo aspetto modale, ruota dunque la sfera di offensività dell'intera fattispecie.</p> <p style="text-align: justify;">Per tale ragione il legislatore fa riferimento, anche nella rubrica della norma in esame, ad una condotta di illecita concorrenza, ossia ad un atto di concorrenza non semplicemente sleale, ma necessariamente caratterizzato dalla peculiare natura dei mezzi adoperati, che a loro volta ne accompagnano la realizzazione e ne giustificano, al contempo, il giudizio di meritevolezza della tutela penale: la violenza o la minaccia, all'interno di un rapporto di concorrenzialità legato allo svolgimento di un'attività d'impresa in competizione, anche solo potenziale, con l'omologa attività di uno o più soggetti egualmente interessati ad esercitarla in uno spazio di mercato dove le condizioni della libertà di concorrenza siano rispettate e ne garantiscano la possibilità di una lecita attuazione.</p> <p style="text-align: justify;">La libertà di concorrenza, infatti, non si traduce solo nella libertà di svolgere la propria attività d'impresa in competizione con una pluralità di soggetti operanti sul mercato, ma anche nella libertà da illecite interferenze e condizionamenti che ne contrastino od ostacolino l'esercizio, alterando la dimensione concorrenziale di uno spazio produttivo che i protagonisti 'utilizzano anche in favore della collettività, e dove quella libertà non solo viene generalmente regolata e promossa, ma deve anche lecitamente attuarsi.</p> <p style="text-align: justify;">Entro tale prospettiva, dunque, assumono rilievo penale, alla luce della richiamata normativa interna ed euro-unitaria, quei comportamenti competitivi, posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell'esercizio dell'altrui libertà di concorrenza, che si prestino ad essere realizzati in forme violente o minatorie, sì da favorire o consentire l'illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva.</p> <p style="text-align: justify;">Le illecite forme di esercizio della concorrenza incriminate dalla richiamata disposizione minacciano di rimuovere le precondizioni necessarie all'esplicarsi della stessa libertà di funzionamento del mercato, incidendo al contempo sulla libertà delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento delle attività produttive.</p> <p style="text-align: justify;">E' dunque il libero svolgimento delle iniziative economiche ad essere tutelato, attraverso la sanzione di comportamenti costrittivi o induttivi che possono orientarsi anche sulla libertà di iniziativa delle persone, non più solo sulle cose, come nella condotta contemplata dalla contigua previsione dell'art. 513 cod. pen., che di contro richiede, in alternativa all'uso della violenza, il ricorso a mezzi fraudolenti con il fine di cagionare, in entrambi i casi, l'impedimento o il turbamento dell'esercizio di un'attività industriale o commerciale.</p> <p style="text-align: justify;">L'idoneità a recare un pregiudizio all'impresa concorrente, contrastandone od ostacolandone la libertà di autodeterminazione, connota la fattispecie dell'art. 513-bis nella sua materialità, poiché costituisce un elemento oggettivo della condotta, a sua volta accompagnata dalla coscienza e volontà di compiere un atto di concorrenza inficiato dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, ossia di determinare una situazione di concorrenzialità illecita che rischia obiettivamente di alterare o compromettere l'ordine giuridico del mercato.</p> <p style="text-align: justify;">Sotto altro profilo, infine, gli elementi che concorrono a descrivere la tipicità del reato di illecita concorrenza impediscono di ritenerne assorbita la condotta nella più grave fattispecie della estorsione (consumata o tentata) in base al criterio di specialità. I due reati, rientranti in una diversa collocazione sistematica, offendono beni giuridici diversi, incidendo nel secondo caso sul patrimonio del soggetto passivo, con la previsione dell'elemento di fattispecie relativo all'ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno, senza tradursi in una violenta manipolazione dei meccanismi di funzionamento dell'attività economica concorrente.</p> <p style="text-align: justify;">Ne discende, altresì, che il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia non può essere assorbito nel delitto di estorsione, trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ove ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i delitti, si ha il concorso formale degli stessi.</p> <p style="text-align: justify;">In conclusione, viene enunciato il seguente principio di diritto: «<em>ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 513-bis cod. pen. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell'impresa concorrente</em>».</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 24990 sul seguente quesito di diritto: "se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all'art. 62 c.p., n. 4, sia applicabile ai reati in materia di stupefacenti, e, in caso affermativo, se sia compatibile con l'autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5".</p> <p style="text-align: justify;">La questione compone di due nuclei problematici, collegati tra loro.</p> <p style="text-align: justify;">Il primo aspetto del problema attiene alla applicabilità della circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all'art. 62 c.p., n. 4, ai reati in materia di stupefacenti. Il secondo, ed eventualmente consequenziale, profilo della questione riguarda la compatibilità dell'attenuante in esame con l'autonoma fattispecie "di lieve entità", prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5".</p> <p style="text-align: justify;">Secondo l'orientamento più risalente, la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all'art. 62 c.p., n. 4, non sarebbe applicabile ai reati in materia di stupefacenti, nè sarebbe compatibile con la fattispecie prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5.</p> <p style="text-align: justify;">Con riferimento al primo dei profili indicati, la Corte di cassazione era pervenuta alla soluzione negativa sulla base di considerazioni, rimaste peraltro isolate, secondo le quali, nonostante il generico riferimento operato dall'art. 62 c.p., n. 4, ai "delitti determinati da motivi di lucro", l'evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità deve sempre essere riferito a fatti di reato offensivi del patrimonio, nei quali non rientrano i reati in materia di sostanze stupefacenti, che sono invece "lesivi dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla sicurezza ed all'ordine pubblico, alla salvaguardia del sociale".</p> <p style="text-align: justify;">Altre decisioni si inscrivono nell'indirizzo negativo seguendo un differente percorso argomentativo. Pur ammettendo l'astratta riferibilità dell'art. 62 c.p., n. 4, anche a reati diversi da quelli contro il patrimonio ma determinati da motivi di lucro, esse escludono l'applicabilità dell'attenuante ai reati in materia di stupefacenti per l'impossibilità di configurare un evento dannoso di speciale tenuità là dove i beni tutelati abbiano rango costituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla premessa che, a seguito della riforma operata dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, per la configurabilità dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, devono concorrere i due elementi dell'aver agito per conseguire, o l'aver comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità e dell'essere l'evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità, quelle decisioni sostengono che nei reati in materia di stupefacenti l'evento non potrebbe essere in alcun caso qualificato in termini di "speciale tenuità", sia perchè le condotte contemplate e sanzionate dal Testo Unico sugli stupefacenti sono lesive dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla salvaguardia del sociale, alla sicurezza dell'ordine pubblico, di fronte ai quali resterebbe del tutto irrilevante la ridotta valenza del lucro conseguito, sia perchè occorre tener conto non dei soli danni immediati, ma anche di quelli non immediati, pur sempre ricollegabili all'uso delle sostanze stupefacenti.</p> <p style="text-align: justify;">Con riferimento al secondo profilo della questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite, plurime pronunce hanno poi, più particolarmente, affermato l'incompatibilità della circostanza attenuante comune in esame con l'autonoma fattispecie di reato prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5. Secondo tali decisioni, al ricorrere della speciale tenuità del lucro, perseguito o effettivamente conseguito, e dell'evento dannoso o pericoloso, si verificherebbe sempre la coincidenza dei presupposti fattuali dell'attenuante con quelli che determinano il riconoscimento della fattispecie di "lieve entità" di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, sicchè la concessione dell'attenuante determìnerebbe una duplice valutazione degli stessi elementi e una conseguente, indebita duplicazione dei benefici sanzionatori.</p> <p style="text-align: justify;">All'orientamento esposto se ne contrappone un altro che, invece, ammette l'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, ai reati in materia di stupefacenti e, in particolare, ai fatti "di lieve entità" di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5.</p> <p style="text-align: justify;">L'orientamento positivo ha in primo luogo chiarito che, a seguito delle modifiche recate dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, al testo dell'art. 62 c.p., n. 4., l'attenuante in esame è configurabile per ogni tipo di delitto purchè commesso per motivi di lucro, a prescindere dalla natura dell'offesa prodotta e dal bene protetto dalla norma incriminatrice. Ritenere ex lege presuntivamente esclusa tale attenuante per alcune categorie di fattispecie criminose, quali quelle riguardanti le sostanze stupefacenti, considerandola circoscritta ai soli reati offensivi del patrimonio, sarebbe contrario al chiaro tenore letterale della nuova disposizione ed avrebbe di fatto vanificato la portata della modifica normativa. Inoltre, ha affermato che l'introduzione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, imponeva una rimeditazione delle decisioni della Corte di legittimità affermative di una assiomatica esclusione dei reati in materia di stupefacenti dal possibile novero dei reati connotati da un evento di "speciale" tenuità", posto che proprio con la nuova previsione lo stesso legislatore aveva ritenuto possibile qualificare in termini di "lieve entità" anche i reati in tema di stupefacenti.</p> <p style="text-align: justify;">La decisione, pronunciata allorchè la lieve entità dei fatti di cui al testè citato comma 5 costituiva un'attenuante speciale rispetto ai reati previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ha affermato altresì la compatibilità di detta attenuante con quella di cui all'art. 62 c.p., n. 4, posto che la prima si riferisce all'azione e all'oggetto materiale del reato, globalmente e unitariamente vagliati, mentre la seconda attiene unicamente al lucro e all'evento dannoso o pericoloso che siano connotati da speciale tenuità.</p> <p style="text-align: justify;">Lo stesso orientamento ha evidenziato che l'attenuante comune ex art. 62 c.p., n. 4, era stata ritenuta compatibile con le attenuanti speciali da "particolare tenuità del fatto" di cui all'art. 648 c.p., comma 2, e 323-bis c.p. - relative, al pari della diminuente prevista al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, a reati non annoverabili tra quelli posti a tutela del patrimonio.</p> <p style="text-align: justify;">Ha poi sottolineato che quelle attenuanti speciali si riferiscono al fatto di reato nella sua globalità - e quindi ai tradizionali elementi della condotta, dell'elemento psicologico e dell'evento, complessivamente considerati - mentre la prima attiene unicamente agli elementi del lucro e del danno, ciascuno dei quali deve essere connotato da speciale tenuità.</p> <p style="text-align: justify;">I principi affermati in merito alla generale compatibilità tra l'attenuante ex art. 62 c.p., n. 4 e i delitti in materia di stupefacenti sono stati ripresi da una successiva sentenza che, agli argomenti già spesi a supporto della tesi affermativa, affianca nuove argomentazioni desunte dal mutato quadro normativo di riferimento.</p> <p style="text-align: justify;">Viene in primo luogo contestata l'argomentazione, posta a base dell'opposto indirizzo interpretativo, secondo cui in caso di violazione della disciplina penale degli stupefacenti sarebbe impossibile il verificarsi di un evento dannoso o pericoloso "tenue". Questo enunciato, "predicato in maniera tanto assoluta quanto apodittica", sarebbe infatti "normativamente contraddetto dal chiaro disposto del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, il quale riconosce espressamente la possibilità che un fatto punibile ai sensi del citato art. 73 sia caratterizzato da minima offensività dei beni protetti, pure certamente primari e costituzionalmente garantiti".</p> <p style="text-align: justify;">Sicchè il contrario indirizzo giurisprudenziale si porrebbe in contrasto non solo col chiaro tenore letterale dell'art. 62 c.p., n. 4, seconda parte, il quale prevede l'applicabilità dell'attenuante in questione a tutti i delitti determinati da motivi di lucro, ma anche col citato art. 73, comma 5.</p> <p style="text-align: justify;">Si osserva poi che l'assoluta impossibilità di un evento dannoso o pericoloso di lieve entità per i reati in materia di stupefacenti si rivela vieppiù insostenibile a seguito dell'introduzione della generale causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p..</p> <p style="text-align: justify;">Posto infatti che la pena edittale prevista per l'ipotesi lieve di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, rientra nei limiti di cui all'art. 131-bis, comma 1 e che gli elementi oggettivi di esclusione della particolare tenuità dell'offesa sono specificamente (e tassativamente) descritti nel comma 2 della medesima disposizione senza che tra essi figuri un qualsivoglia riferimento alla "categoria" dei delitti in tema di stupefacenti, deve ritenersi che la causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., possa applicarsi alle condotte rientranti nella fattispecie di lieve entità.</p> <p style="text-align: justify;">Sicchè anche per tale via risulta confermata la possibilità che i delitti in materia di stupefacenti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, siano caratterizzati da minima offensività, tale da determinare alternativamente, previa scrupolosa verifica degli elementi indicati nelle norme testè citate, la qualificazione del fatto in termini di lieve entità D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, ovvero la sua non punibilità ex art. 131 bis c.p..</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, nell'attuale assetto normativo, totalmente differente da quello in cui iniziò ad affermarsi la tesi negativa, i delitti in materia di stupefacenti di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, non solo possono essere caratterizzati da minima offensività, tale da determinare la qualificazione del fatto in termini di lieve entità ex art. 73, comma 5, ma potrebbero risultare addirittura non punibili in ragione della particolare tenuità del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Nè, secondo l’orientamento in esame, può essere condiviso l'argomento secondo il quale il riconoscimento dell'attenuante del lucro di speciale tenuità prevista all'art. 62 c.p., n. 4, seconda parte, comporterebbe, in caso di condanna per il delitto di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, un'ingiustificata duplicazione di benefici sanzionatori.</p> <p style="text-align: justify;">La trasformazione dell'attenuante speciale prevista dal testo originario del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in autonoma fattispecie di reato, operata dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche dalla L. n. 10 del 2014, fa sì che a tale autonoma fattispecie delittuosa corrisponda ora una specifica cornice edittale. Deve pertanto escludersi che l'attenuante comune in esame, destinata ad incidere sull'ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, possa determinare un'indebita duplicazione di benefici sanzionatori.</p> <p style="text-align: justify;">E ciò è tanto più vero in quanto quell'attenuante richiede per la sua applicazione l'esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell'offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al "fatto lieve" di cui all'art. 73, comma 5. Elemento consistente nell'essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell'avere l'agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità.</p> <p style="text-align: justify;">Tale prospettiva ermeneutica fonda la proposta soluzione positiva principalmente sulla trasformazione dell'attenuante speciale prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in fattispecie autonoma di reato. La presenza nell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, dell'elemento specializzante relativo alla "speciale tenuità" del lucro e del danno, diviene pertanto argomento secondario e rafforzativo di quello principale.</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite ritengono condivisibile la soluzione prospettata dall'indirizzo giurisprudenziale più recente, secondo il quale la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all'art. 62 c.p., n. 4 è applicabile ai reati in materia di stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato anch'esso da speciale tenuità, ed è compatibile con l'autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.</p> <p style="text-align: justify;">Sull'applicabilità dell'attenuante in esame anche ai reati in materia di stupefacenti convergono dati testuali, teleologici e sistematici.</p> <p style="text-align: justify;">Prima dell'entrata in vigore della L. 7 febbraio 1990, n. 19, l'attenuante comune di cui all'art. 62 c.p., n. 4, era prevista nel caso di speciale tenuità del danno cagionato alla persona offesa ed era applicabile solo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio.</p> <p style="text-align: justify;">La novella testè citata ha aggiunto nella medesima disposizione un'ulteriore diminuente, applicabile a tutti i delitti determinati da motivi di lucro alla duplice condizione che sia il lucro perseguito od effettivamente conseguito dal reo, sia l'evento dannoso o pericoloso siano caratterizzati da speciale tenuità.</p> <p style="text-align: justify;">La Relazione illustrativa del disegno di legge dal quale origina il descritto intervento normativo, presentato dal Ministro della Giustizia alla Camera dei Deputati il 19 ottobre 1987 e rubricato "Modifiche in tema di circostanze attenuanti, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti", espressamente riporta la nuova attenuante alla opportunità, per motivi di equità, di riformulare l'art. 62 c.p., n. 4, in modo simmetrico all'art. 61 c.p., n. 7, che già prevedeva l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non solo per i reati contro il patrimonio, ma anche per quelli determinati da motivi di lucro.</p> <p style="text-align: justify;">Nel proporre tale allineamento, il Governo segnalava che "peraltro, attribuendosi rilievo ai motivi del reato, non è parso congruo eccepire, come delimitazione oggettiva dell'operatività dell'attenuante, il parametro del danno patrimoniale di speciale tenuità arrecato alla persona offesa, che ne avrebbe contenuto la portata in margini eccessivamente ristretti e generalmente riferibili ai soli delitti che tutelano, esclusivamente o in via cumulativa, il patrimonio", e fosse invece opportuno "prevedere che il danno (o il pericolo) di speciale tenuità che viene in rilievo non è quello patrimoniale bensì quello criminale", sicchè, "così delineata, la diminuente viene a costituire un valido elemento a disposizione del giudice per una più equa correlazione della pena alla effettiva lesività della condotta criminosa".</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, per consentire la piena attuazione del principio di proporzionalità della pena, alla struttura dell'attenuante di nuovo conio - riferita tanto al perseguimento o all'effettivo conseguimento di un lucro di speciale tenuità che alla produzione di un danno criminale (e non solo patrimoniale) di pari intensità e grado - non si accompagna - a differenza di quella preesistente, relativa ai soli delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio - alcuna selezione di categorie di reati operata in via astratta in relazione al bene giuridico protetto e senza considerare le specifiche caratteristiche del caso concreto.</p> <p style="text-align: justify;">L'inquadramento sistematico della disposizione in esame offre ulteriori conferme all'analisi testuale e teleologica.</p> <p style="text-align: justify;">Che ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti - cagionando la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici di primaria importanza e costituzionalmente protetti, quali la salute della persona e la sicurezza pubblica - comporti necessariamente, per sua natura, un evento dannoso o pericoloso, diretto o mediato, di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità è, prim'ancora che affermazione indimostrata, un assunto smentito da plurimi indici normativi.</p> <p style="text-align: justify;">Viene in primo luogo in rilievo il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 il quale prevede che una condotta punibile ai sensi dello stesso articolo possa connotarsi quale fatto "di lieve entità". Infatti, ove la semplice individuazione del coacervo dei beni giuridici protetti dalle disposizioni penali in tema di stupefacenti fosse sufficiente, sempre e comunque, ad escludere la lieve entità dell'offesa in concreto ad essi arrecata nel caso di specie, quell'ipotesi delittuosa non sarebbe mai suscettibile di integrazione.</p> <p style="text-align: justify;">L'esistenza di quella fattispecie dimostra, al contrario - tanto sulla base della pertinente disciplina giuridica che della quotidiana esperienza giudiziaria - che anche per i delitti in materia di stupefacenti è senz'altro configurabile una lesione o messa in pericolo dei beni giuridici protetti caratterizzata da lieve entità.</p> <p style="text-align: justify;">Questa conclusione trova ulteriori riscontri sistematici nell'art. 131-bis c.p., che prevede la "non punibilità del fatto quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, comma 1, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale".</p> <p style="text-align: justify;">Infatti, l'istituto della non punibilità per particolare tenuità dell'offesa non connette alla mera individuazione del bene giuridico protetto alcun rilievo ai fini del giudizio sull'utilità e necessità della pena. Al contrario, il legislatore ha affidato la selezione delle fattispecie alle quali è applicabile quella causa di non punibilità alla considerazione della gravità del reato, desunta dalla pena edittale, e della non abitualità del comportamento; mentre nessuno degli altri indicatori idonei ad escludere la particolare tenuità dell'offesa elencati al comma 2 dello stesso art. 131-bis ha diretto e generale riguardo al tipo di bene giuridico protetto.</p> <p style="text-align: justify;">Ebbene, poichè la fattispecie delittuosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, rientra nei limiti di applicabilità dell'art. 131-bis c.p., appare evidente che il legislatore ha ritenuto la violazione di quel precetto penale suscettibile di produrre un'offesa ai beni giuridici tutelati qualificabile in termini di particolare tenuità, andando essa, in tal caso, esente da pena.</p> <p style="text-align: justify;">Conseguentemente, risulta smentito, sotto ulteriore e autonomo profilo, l'assunto - posto a base dell'orientamento che nega l'applicabilità ai reati in materia di stupefacenti dell'attenuante del lucro e dell'offesa di speciale tenuità di cui all'art. 62 c.p., n. 4, - secondo cui ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti comporti necessariamente un evento dannoso o pericoloso di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità.</p> <p style="text-align: justify;">L'irrilevanza dell'astratta valutazione del tipo di bene protetto ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto consente tuttavia ulteriori, e più generali, valutazioni.</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite hanno più volte richiamato la costituzionalizzazione del principio di offensività, operata attraverso la lettura integrata di diverse norme della legge fondamentale, ribadendo che l'interprete delle norme penali ha l'obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente, e apprezzabilmente, offensivi.</p> <p style="text-align: justify;">In tale prospettiva, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto, sicchè tipicità e offensività convergono sul piano ermeneutico, dovendosi considerare fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non effettivamente offensivi dell'interesse protetto.</p> <p style="text-align: justify;">Sulla scia di tali rilievi, le Sezioni Unite hanno altresì affermato che ai fini della configurabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità dell'offesa - pure per sua natura riferita a fatti certamente offensivi e perciò pienamente riconducibili alla fattispecie legale - non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica, ma è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore.</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, mentre l'esistenza nel caso concreto di un'effettiva, specifica offesa del bene giuridico protetto - qualunque esso sia - rappresenta condizione indefettibile per l'applicazione della fattispecie astratta, l'intensità e il grado di quell'offesa costituiscono il presupposto del giudizio di utilità e necessità della relativa pena, a prescindere dalla natura dell'interesse tutelato.</p> <p style="text-align: justify;">In entrambi i casi, dunque, seppure a fini diversi, assume decisivo rilievo la connotazione storica del fatto e l'accertamento, nel caso concreto, dell'esistenza, o meno, di un'apprezzabile offesa del bene giuridico protetto, che sia eventualmente caratterizzata da particolare tenuità.</p> <p style="text-align: justify;">Pertanto, non si dà tipologia di reato in cui sia inibita ontologicamente l'applicazione dell'istituto di cui al citato art. 131-bis.</p> <p style="text-align: justify;">Di più, il legislatore ha espressamente, e significativamente, disposto che tale istituto trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante (art. 131-bis c.p., comma 3). Dunque, anche in presenza di un danno di speciale tenuità, l'applicazione dell'art. 131-bis è pur sempre legata anche alla considerazione degli ulteriori indicatori a quello scopo rilevanti, afferenti alla condotta ed alla colpevolezza. E, per converso, quando ha voluto evitare che la graduazione del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all'entità della lesione sia travolta da elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge, il legislatore lo ha fatto esplicitamente: l'offesa non può essere ritenuta connotata da particolare tenuità quando la condotta ha cagionato, quale conseguenza non voluta, la morte o lesioni gravissime (art. 131-bis c.p., comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">Risulta così accolta in tutto e per tutto la concezione gradualistica del reato nitidamente scolpita nell'insegnamento della risalente, ma sempre autorevole dottrina secondo cui: nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere e nella individualità criminosa nella quale si estrinseca; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato perchè l'uomo deve essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni.</p> <p style="text-align: justify;">Da una parte, quindi, la tenuità del danno o del pericolo cagionati al bene giuridico protetto può - e deve - essere considerata - se, come nell'art. 62 c.p., n. 4, normativamente previsto - sia per attenuare la pena, che, eventualmente, ai sensi ed alle condizioni dell'art. 131-bis c.p., per escluderne la necessità. Dall'altra, la relativa verifica dovrà avere ad oggetto, in entrambi i casi, non già l'astratta considerazione della natura giuridica del bene protetto, bensì il grado di effettiva offensività del fatto nel caso concreto.</p> <p style="text-align: justify;">Trova così conferma, in termini rinnovati e più estesi, la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, a seguito della nuova formulazione dell'art. 62 c.p., n. 4, recata dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 2, la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità è applicabile ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, purchè la speciale tenuità riguardi congiuntamente l'entità del lucro (conseguendo o conseguito) e dell'evento dannoso o pericoloso.</p> <p style="text-align: justify;">Come l'offensività della condotta costituisce un presupposto generale per la rilevanza penale del fatto qualunque sia il reato ascritto all'imputato, così la circostanza attenuante in esame attraversa tutti i reati commessi a scopo di lucro. Sicchè, una volta verificato che il delitto è stato commesso a fini di lucro, il giudice di merito deve valutare, in concreto, la ricorrenza, o meno, della speciale tenuità riferita sia al lucro perseguito o conseguito dall'autore del reato, sia all'evento dannoso o pericoloso causato nel caso di specie.</p> <p style="text-align: justify;">Teorizzare in via generale la non applicabilità dell'attenuante a categorie di reati individuate in ragione dell'astratta riferibilità a un dato bene giuridico, affermando che, anche ad ipotizzare la speciale tenuità del lucro conseguibile dall'imputato, "non sarebbe comunque mai soddisfatta la seconda condizione prevista dall'art. 62 c.p., n. 4, e cioè la speciale tenuità del danno o del pericolo conseguente all'azione", comporta null'altro che la generalizzata esclusione - sempre e comunque - dell'applicabilità dell'attenuante in esame, sulla base di considerazioni sganciate dalla concreta connotazione storica del fatto e in contrasto con la rilevata finalità del legislatore di estendere l'applicabilità dell'attenuante a tutti i delitti determinati da motivi di lucro.</p> <p style="text-align: justify;">Potendo in concreto verificarsi che l'evento dannoso o pericoloso conseguente a un delitto commesso per motivi di lucro - indipendentemente dalla natura giuridica del bene protetto, e quindi anche, come del resto normativamente previsto, in materia di stupefacenti presenti una gradualità non necessariamente superiore alla soglia della "speciale tenuità", tanto da essere generalmente ipotizzabile, in disparte dell'oggetto giuridico tutelato, l'esenzione da pena conseguente, ex art. 131-bis c.p., alla particolare tenuità del fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Resta peraltro fermo, in ossequio al tenore letterale dell'art. 62 c.p., n. 4, che l'attenuante in parola è applicabile solo ai delitti, essendo essa incompatibile con le fattispecie di natura contravvenzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Viene data risposta affermativa anche al secondo quesito oggetto di contrasto, relativo alla compatibilità della circostanza attenuante in esame con l'autonoma fattispecie del fatto di lieve entità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.</p> <p style="text-align: justify;">Non può essere infatti condiviso l'argomento secondo il quale il riconoscimento dell'attenuante del lucro e dell'offesa di speciale tenuità prevista all'art. 62 c.p., n. 4, seconda parte, comporterebbe, in caso di condanna per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la duplice valutazione del medesimo elemento e, conseguentemente, un'ingiustificata duplicazione di benefici sanzionatori.</p> <p style="text-align: justify;">Inizialmente catalogato dalla giurisprudenza di legittimità come circostanza attenuante, l'istituto previsto dal testo originario del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è stato trasformato in autonoma fattispecie di reato dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10.</p> <p style="text-align: justify;">Tale novella rispondeva peraltro all'esigenza, da più parti segnalata, di riconoscere, a fronte del severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nel citato art. 73, diverse tipologie di condotte caratterizzate da specifiche e più adeguate previsioni edittali in funzione della loro ridotta offensività, nella consapevolezza del carattere variegato e mutevole del corrispondente fenomeno criminale e nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente al principio costituzionale di proporzionalità della pena, evitando automatismi decisori nell'adeguamento della pena al fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Tenuto conto del contesto normativo appena descritto, le Sezioni Unite ritengono in primo luogo fondato il rilievo - espresso nelle argomentazioni più recentemente portate a sostegno dell'orientamento giurisprudenziale che ammette la compatibilità dell'attenuante del lucro e dell'offesa di speciale tenuità coll'ipotesi delittuosa del fatto di lieve entità - secondo il quale la trasformazione dell'attenuante speciale originariamente prevista al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, in ipotesi di reato autonomo, come tale dotata di specifica cornice edittale, fa sì che l'attenuante comune in esame sia ormai destinata ad incidere sull'ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, sicchè in tal caso non si verifica, come paventato dall'opposto indirizzo interpretativo, alcun cumulo di benefici sanzionatori tra loro concorrenti.</p> <p style="text-align: justify;">Tale conclusione appare del resto perfettamente in linea con la ratio dell'operata trasformazione normativa, espressamente volta a dare consistenza ai principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza della pena in materia di stupefacenti, conformando il sistema penale di settore alla multiforme varietà delle relative condotte e del loro effettivo disvalore ed emancipando il giudice, in tale ambito, da rigidi meccanismi di determinazione del trattamento sanzionatorio.</p> <p style="text-align: justify;">L'accoglimento della opposta tesi, preclusiva dell'applicazione dell'attenuante, comporterebbe infatti un rigido limite nella modulazione della pena al fatto storico, e comporterebbe che, anche in presenza di un lucro e di un'offesa di speciale tenuità, l'imputato non possa beneficiare di un eventuale e specificamente motivato - giudizio di bilanciamento con le aggravanti che fossero state contestate in relazione alla fattispecie di cui al citato art. 73, comma 5.</p> <p style="text-align: justify;">A ciò deve aggiungersi che ove il legislatore ha voluto affermare l'incompatibilità di una specifica attenuante con la nuova fattispecie delittuosa lo ha fatto con espressa disposizione.</p> <p style="text-align: justify;">In sede di conversione del D.L. n. 146 del 2013, la L. n. 10 del 2014 ha infatti modificato l'art. 19, comma 5, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, stabilendo che la diminuente della minore età non opera per i delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ai fini della determinazione del limite di pena rilevante in ordine all'applicazione delle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere nei confronti degli imputati minorenni.</p> <p style="text-align: justify;">Al contrario, al momento della trasformazione dell'attenuante di cui all'art. 73, comma 5 in fattispecie autonoma di reato, non è stata espressamente esclusa la compatibilità con la nuova ipotesi delittuosa dell'attenuante comune di cui all'art. 62 c.p., n. 4, risultando anche per questa via confermata, in applicazione della regola ermeneutica condensata nel brocardo "ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit", la preclusione dell'interpretazione restrittiva.</p> <p style="text-align: justify;">Che il riconoscimento dell'attenuante del lucro e dell'offesa di speciale tenuità comporti, in caso di condanna per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la duplice valutazione del medesimo elemento costituisce del resto assunto smentito dalla diversità dei presupposti necessari per l'integrazione del fatto di lieve entità rispetto a quelli conformativi dell'attenuante comune in esame.</p> <p style="text-align: justify;">Infatti, mentre la valutazione della "lieve entità" del fatto ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è relativa alla condotta - avuto riguardo ai mezzi, alla modalità e alle circostanze dell'azione - e all'oggetto materiale del reato - in relazione alla qualità e quantità delle sostanze -, la verifica della "speciale tenuità" rilevante per il riconoscimento dell'attenuante di cui alla seconda parte dell'art. 62 c.p., n. 4, attiene ai motivi a delinquere (lucro perseguito), al profitto (lucro conseguito) e all'evento (dannoso o pericoloso) del reato.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta quindi, contrariamente all'asserzione posta a fondamento della tesi restrittiva, di valutazioni focalizzate su elementi tra loro ontologicamente distinti, ancorchè in astratto suscettibili di convergere nell'accertamento del complessivo disvalore del fatto storico.</p> <p style="text-align: justify;">Si tratta, inoltre, in ogni caso, di valutazioni di diversa natura e diverso grado: la prima, attinente alla "lieve entità del fatto", è unitaria e complessiva, non scandita da un ordine gerarchico degli elementi allo scopo rilevanti, per ciascuno dei quali è possibile un giudizio di parziale o totale compensazione; la seconda, relativa alla "speciale tenuità" del lucro e dell'offesa, indica due temi specifici e distinti, suscettibili di opposte conclusioni nel medesimo caso di specie e ancorati ad un parametro di maggiore intensità e pregnanza rispetto a quello rilevante per l'integrazione della fattispecie "lieve".</p> <p style="text-align: justify;">Sicchè, anche sotto questo profilo, trova conferma l'indirizzo interpretativo secondo cui l'attenuante "richiede per la sua applicazione l'esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell'offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al "fatto lieve" di cui all'art. 73, comma 5. Elemento consistente nell'essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell'avere l'agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità".</p> <p style="text-align: justify;">Esclusa l'incompatibilità logica e normativa tra la fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e l'attenuante del lucro/offesa di speciale tenuità, il riconoscimento di tale attenuante nel caso concreto resta tuttavia affidato ad una puntuale ed esaustiva verifica, della quale il giudice di merito deve offrire adeguata giustificazione, che dia consistenza sia all'entità del lucro perseguito o effettivamente conseguito dall'agente, che alla gravità dell'evento dannoso o pericoloso prodotto dalla condotta considerata.</p> <p style="text-align: justify;">Dovendosi tale ultimo elemento riferire alla nozione di evento in senso giuridico, esso è infatti idoneo a comprendere qualsiasi offesa penalmente rilevante, purchè essa, come concretamente accertata, si riveli di tale particolare modestia da risultare "proporzionata" alla tenuità del vantaggio patrimoniale che l'autore del fatto si proponeva di conseguire o ha in effetti conseguito.</p> <p style="text-align: justify;">Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: "La circostanza attenuante del lucro e dell'evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5".</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le caratteristiche che presidiano il c.d. principio di offensività?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>presuppone un <strong>bene giuridico</strong> o, meglio, un <strong>interesse giuridicamente rilevante tutelato</strong> dalla norma incriminatrice (c.d. <strong>oggetto giuridico del reato</strong>, differente dall’oggetto materiale);</li> <li>consiste nella <strong>messa in pericolo</strong> o nella <strong>lesione</strong> di tale interesse;</li> <li>implica che una mera <strong>condotta esistenziale</strong>, uno <strong>stile di vita</strong> o un <strong>semplice atteggiamento interiore</strong> non possono assumersi <strong><em>ex se</em> offensivi</strong> dell’interesse penalmente tutelato;</li> <li>vincola sia il <strong>legislatore</strong>, sul piano della nomopoiesi penale, sia il <strong>giudice</strong> sul crinale dell’interpretazione;</li> <li>non è previsto <strong>in modo esplicito</strong> come i principi di <strong>legalità</strong> e di <strong>irretroattività</strong>, ma si ricava in ogni caso dal sistema;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le norme costituzionali di riferimento in tema di offensività penale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’<strong>13</strong> della Costituzione: la condotta penalmente rilevante deve offendere un <strong>bene almeno equiordinato</strong> a quello, di valore assai elevato, della <strong>libertà personale</strong> che viene sovente conculcato in risposta a tale condotta penalmente illecita;</li> <li>l’<strong>21</strong> (e l’<strong>art.2</strong>) della Costituzione: se si punisce un <strong>mero comportamento inoffensivo</strong>, si finisce col <strong>conculcare la stessa libertà di manifestazione del pensiero</strong> e, con essa, la <strong>libertà di sviluppo della personalità </strong>del soggetto agente;</li> <li>l’<strong>25</strong> della Costituzione: la pena può svolgere la propria funzione di <strong>orientamento culturale</strong> solo laddove <strong>punisca “<em>fatti</em>” offensivi</strong> (il comma 2 parla appunto di punizione per un “<strong><em>fatto commesso</em></strong>”), e non già <strong>mere disobbedienze formali</strong>; inoltre, da un lato si è <strong>puniti</strong> (sanzione penale) e dall’altro si è sottoposti a <strong>misure di sicurezza</strong>, le pene atteggiandosi a <strong>repressive</strong> e le misure di sicurezza a <strong>preventive</strong>, circostanza che impone di punire solo laddove ci si trovi dinanzi ad un <strong>fatto offensivo da reprimere</strong>, e non già dinanzi a <strong>mere disobbedienze formali</strong> che al più potrebbero giustificare una misura di sicurezza;</li> <li>l’<strong>27</strong> della Costituzione: solo se la pena viene percepita come <strong>giusta</strong> in quanto reazione dello Stato ad un <strong>fatto offensivo</strong>, essa può realmente spiegare – seppure in via tendenziale – una <strong>funzione rieducativa</strong> del condannato ai sensi del relativo comma 3.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali beni deve avere dinanzi il legislatore che procede ad incriminare una condotta offensiva?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>solo il <strong>catalogo dei beni esplicitamente evincibili dalla Costituzione</strong>, dovendo essere controbilanciato il valore particolarmente pregnante del bene “<strong><em>libertà personale</em></strong>”, sovente conculcato dalla repressione penale (tesi recessiva);</li> <li>il catalogo di tutti i beni esplicitamente ma <strong>anche implicitamente evincibili</strong> dalla Costituzione, anche alla stregua dell’<strong>evoluzione storica</strong> e della <strong>coscienza sociale</strong>, rimanendo altrimenti fuori dal presidio della tutela penale <strong>i c.d. beni “<em>emergenti</em>”</strong> (tesi più accreditata);</li> <li>più in generale, tutti i beni (<em>rectius</em>, interessi) <strong>non incompatibili con la Costituzione</strong> (tesi più estensiva).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i due estremi rispetto ai quali trova collocazione il principio di offensività?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>una <strong>assetto politico di tipo democratico</strong>: in esso il diritto penale sanziona <strong>fatti tipici offensivi</strong>, nel contesto dei quali <strong>conta il fatto</strong> (e non l’intenzione: principio di <strong>materialità</strong>); il fatto <strong>deve essere tipico</strong> (principio di <strong>legalità</strong>); il fatto tipico <strong>deve essere offensivo</strong> (in quanto capace di vulnerare, in senso potenziale o attuale, <strong>un interesse a rilevanza giuridica</strong>: principio di <strong>offensività</strong>): in sostanza, senza offesa non vi è sanzione penale (<strong><em>nullum crimen sine iniuria</em></strong>);</li> <li>un <strong>regime totalitario</strong>: qui si tende a punire non già condotte lesive (potenzialmente o in atto) di interessi giuridicamente rilevanti, quanto piuttosto <strong>mere e formali disobbedienze normative</strong> che palesano una insofferenza rispetto all’ordine costituito.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, quali sono i due indirizzi giurisprudenziali che si sono affermati in tema di offensività / inoffensività della condotta?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>Indirizzo <strong>più rigoroso</strong>: se la coltivazione è <strong>idonea produrre la sostanza per il consumo</strong> essa è <strong>già da assumersi offensiva</strong>, e non bisogna porre attenzione alla <strong>quantità di principio attivo</strong> che appare ricavabile nell’immediatezza, quanto piuttosto <strong>la conformità della pianta al tipo botanico</strong> previsto e la relativa <strong>attitudine</strong> (anche per come è coltivata) a giungere a maturazione e a <strong>produrre sostanza stupefacente</strong>; è <strong>il tipo di pianta coltivata</strong> e l’<strong>attitudine di essa a produrre sostanza drogante</strong> che fa affiorare l’offensività della condotta, al di là della concreta quantità di principio attivo ricavabile in un dato momento; secondo questo indirizzo <strong>la tipicità coincide con l’offensività</strong> della condotta del soggetto agente;</li> <li>Indirizzo <strong>meno rigoroso</strong>: in alcuni casi la coltivazione è caratterizzata da <strong>inoffensività</strong>, laddove affiori che da essa <strong>si ritrarrà un aumento di disponibilità irrilevante</strong> e comunque <strong>non è prospettabile alcuna ulteriore diffusione</strong> della sostanza drogante. La condotta tipica si compendia nella <strong>coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico</strong> che, una volta matura, ha <strong>raggiunto la capacità drogante minima</strong>; non è detto che tale condotta tipica sia tuttavia <strong>anche in concreto offensiva</strong>, potendo rivelarsi del tutto inidonea all’uopo. Ciò si registra quando il giudice accerta il <strong>conclamato uso esclusivamente personale</strong>, e la <strong>entità minima della coltivazione,</strong> tale da escludere che la coltivazione stessa <strong>sia ampliabile</strong> o che comunque <strong>vi sia diffusione</strong> della sostanza drogante. In presenza di una capacità drogante, e tuttavia minima, la condotta <strong>è tipica ma inoffensiva</strong>, perché inidonea a ledere il bene giuridico penalmente tutelato.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come viene declinato il principio di offensività dalla giurisprudenza della Corte costituzionale?</strong></p> <ol> <li style="text-align: justify;">offensività <strong>in astratto</strong>: deve essere <strong>garantita dal legislatore</strong>, che normalmente ottempera a questo precetto configurando <strong>norme conformi alla Costituzione</strong>;</li> <li style="text-align: justify;">offensività <strong>in concreto</strong>: deve essere garantita <strong>in sede interpretativa dal giudice del merito</strong> che deve verificare se la fattispecie dipinta dal legislatore, <strong>astrattamente offensiva</strong>, lo sia <strong>anche in concreto</strong> perché lesiva dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice.</li> </ol>