Corte Costituzionale, sentenza 23 luglio 2021 n. 172
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), convertito, con modificazioni, in legge 28 novembre 2008, n. 186, nella parte in cui sostituisce il comma 1 e aggiunge il comma 1-bis all’art. 4 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 449, recante norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni), sollevata, in riferimento all’art. 107, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Genova.
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, lettera a), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, nella parte in cui sostituisce il comma 1 e aggiunge il comma 1-bis all’art. 4 del d.lgs. n. 273 del 1989, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97, secondo comma, Cost., dal Tribunale di Genova.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Prima di esaminare le questioni sollevate, appare utile una breve ricognizione del contesto normativo di riferimento.
La ricostruzione dei «momenti caratterizzanti le riforme della magistratura onoraria» è stata già compiutamente operata da questa Corte nella sentenza n. 41 del 2021 (punti 7, 8 e 9 del Considerato in diritto).
È sufficiente qui ricordare che, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, il legislatore ha modificato profondamente l’assetto degli uffici giudiziari di primo grado e, con il decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), ha abolito le preture e ne ha trasferito le competenze ai tribunali. In sostituzione del vice-pretore onorario, che affiancava il pretore, ha contestualmente introdotto, intervenendo sul regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), il giudice onorario di tribunale (GOT) e, negli uffici requirenti, il vice procuratore onorario (VPO) presso il tribunale, subentrato all’analoga figura già esistente presso la pretura circondariale.
Concepiti come organi giudiziari di transizione (art. 245 del d.lgs. n. 51 del 1998), GOT e VPO sono stati prorogati nell’incarico fino alla riforma della magistratura onoraria, attuata con il decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 (Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57), che ha previsto, per quel che qui in particolare rileva, un nuovo sistema di compenso, unico per tutti i magistrati onorari di primo grado (sia giudicanti che requirenti) e fondato sulla corresponsione di un’indennità onnicomprensiva annuale.
Tale nuovo criterio è destinato, però, a trovare applicazione solo a far data dal 16 agosto 2021 (art. 31, comma 1, del d.lgs. n. 116 del 2017), sicché fino ad allora continuano ad applicarsi gli attuali regimi indennitari, diversificati per ciascuna categoria di magistrati onorari.
Nel caso di specie viene in rilievo l’art. 4 del d.lgs. n. 273 del 1989, il quale, nella versione novellata dal d.l. n. 151 del 2008, come convertito, e applicabile ratione temporis al giudizio a quo, effettivamente distingue la posizione dei GOT da quella dei VPO.
Ai primi, infatti, il comma 1 riconosce un’indennità di euro 98 per le attività di udienza svolte nello stesso giorno, mentre il comma 1-bis prevede la spettanza di un’ulteriore indennità di pari importo «ove il complessivo impegno lavorativo per le attività di cui al comma 1 superi le cinque ore».
Ai VPO, invece, il comma 2 riconosce l’indennità giornaliera di euro 98 per l’espletamento di due tipi di attività, anche se svolte cumulativamente: la partecipazione ad una o più udienze in relazione alle quali è conferita la delega (lettera a); ogni altra attività, diversa dalla prima, purché delegabile a norma delle vigenti disposizioni di legge (lettera b). Il comma 2-bis, ancora, attribuisce il diritto a ricevere un’ulteriore indennità di pari importo «ove il complessivo impegno lavorativo necessario per lo svolgimento di una o più attività di cui al comma 2 superi le cinque ore giornaliere».
Ai fini del “raddoppio” dell’indennità, infine, il comma 2-ter dispone che la durata delle udienze è rilevata dai rispettivi verbali, mentre il tempo di permanenza in ufficio per l’espletamento, da parte dei soli VPO, delle attività delegabili diverse dalla partecipazione all’udienza è accertato dal procuratore della Repubblica.
4.– Occorre, in via preliminare, delimitare il thema decidendum.
Le obiezioni avanzate dal giudice a quo s’incentrano sulla prospettata violazione del principio di eguaglianza. Il rimettente, in particolare, ritiene la normativa censurata in contrasto con l’art. 3 Cost. (e, a seguire, con gli artt. 107, terzo comma, e 97, secondo comma, Cost.), nella parte in cui non prevede che anche i GOT possano essere compensati per l’impegno lavorativo profuso al di fuori dell’udienza, in attività comunque a quest’ultima accessorie.
La parte costituita introduce un ulteriore profilo di censura, prospettando la violazione anche dell’art. 36 Cost.
Richiamando, a tale proposito, giurisprudenza sovranazionale (Corte di giustizia dell’Unione europea, seconda sezione, sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX), evidenzia come quest’ultima avrebbe ritenuto che la figura del giudice onorario possa – a determinate condizioni – essere ricondotta alla nozione di «lavoratore a tempo determinato», ciò che consentirebbe l’evocazione, anche nel presente giudizio, del parametro di cui all’art. 36 Cost., «per verificare se il compenso erogato sia giusto ed equo».
Tale ultimo profilo è, tuttavia, inammissibile.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è infatti limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione (sentenza n. 109 del 2021), con esclusione della possibilità di ampliare il thema decidendum proposto dal rimettente (sentenza n. 119 del 2021), fino a ricomprendervi questioni formulate dalle parti che, tuttavia, egli non abbia ritenuto di accogliere (tra le più recenti, sentenza n. 49 del 2021). Non possono perciò essere presi in considerazione, oltre i limiti fissati nelle medesime ordinanze, ulteriori questioni o profili di legittimità costituzionale dedotti dalle parti, tanto se eccepiti ma non condivisi dal giudice a quo, quanto se diretti ad ampliare o modificare successivamente (come nella specie) il contenuto del provvedimento di rimessione (sentenze n. 35 del 2021, n. 186 e n. 165 del 2020).
Il giudice a quo – del resto – non pone affatto in discussione il carattere indennitario del compenso spettante ai magistrati onorari, né si interroga sulla natura del rapporto che lega questi ultimi all’amministrazione della giustizia (sicché questa Corte non è, nel presente giudizio, chiamata a prendere posizione su tali profili).
Egli, semplicemente, nell’operare un confronto “interno” alla magistratura onoraria, nega la possibilità di rinvenire una ragione idonea a giustificare una differenza di trattamento economico tra categorie di magistrati che reputa svolgere attività equivalenti ai fini del riconoscimento di un compenso.
5.– Ancora in via preliminare, vanno rigettate le eccezioni d’inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, per irrilevanza delle questioni.
Vero che il d.lgs. n. 116 del 2017 ha sostanzialmente livellato le differenze di compenso riconosciuto alle tre categorie di magistrati onorari operanti in primo grado (giudici di pace, GOT e VPO), essendone stato unificato non solo lo status giuridico, ma anche il regime economico.
Tuttavia, la circostanza, peraltro nota al rimettente, non incide sulla rilevanza delle questioni sollevate, perché tale aspetto della riforma, come si è anticipato, è destinato a trovare applicazione solo a partire dal 16 agosto 2021, laddove le pretese avanzate nel giudizio principale concernono crediti asseritamente maturati prima di tale data.
Neppure può essere accolta l’ulteriore eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la parte attrice non potrebbe ricavare nessuna utilità concreta dall’accoglimento delle questioni sollevate.
In disparte la diversa valutazione operata dal rimettente, con motivazione non implausibile, secondo cui, in forza dell’istruttoria espletata, sussisterebbe comunque «un margine di incremento possibile alla indennità riconosciuta», la giurisprudenza costituzionale ritiene che il presupposto della rilevanza non si identifichi nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (tra le ultime, sentenze n. 59 del 2021 e n. 254 del 2020): per l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, infatti, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo (circostanza, quest’ultima, incontestata nel caso di specie), senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa (sentenze n. 253, n. 174 e n. 170 del 2019).
6.– Sempre in via preliminare, va evidenziato che il rimettente ha esaminato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata nel senso prospettato dall’attrice nel giudizio a quo, scartandola, tuttavia, alla luce del tenore testuale delle disposizioni censurate. Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, è sufficiente che il giudice rimettente abbia esplorato la praticabilità di una interpretazione adeguatrice e l’abbia consapevolmente esclusa, perché la questione debba essere scrutinata nel merito (sentenze n. 89, n. 61 e n. 32 del 2021), poiché a quest’ultimo profilo, e non già all’ammissibilità, attiene l’apprezzamento sulla correttezza della scelta ermeneutica (sentenze n. 64, n. 59 e n. 17 del 2021).
La valutazione operata dal rimettente, peraltro, è da condividere: vero che il comma 1-bis dell’art. 4 del d.lgs. n. 273 del 1989 riconosce anche ai GOT un’ulteriore indennità di euro 98 ove il «complessivo impegno lavorativo» superi le cinque ore, ma la medesima disposizione specifica che tale impegno deve essere relativo alle «attività di cui al comma 1», che esplicitamente (e chiaramente) si riferisce alle sole attività di udienza. Invece, per i VPO il successivo comma 2 differenzia nettamente l’attività di «partecipazione ad una o più udienze in relazione alle quali è conferita la delega» (lettera a) da «ogni altra attività, diversa da quella di cui alla lettera a), delegabile a norma delle vigenti disposizioni di legge» (lettera b) e il comma 2-bis riconosce il diritto al compenso per entrambe.
7.– Tra le censure sollevate dal rimettente, deve essere dichiarata inammissibile, per palese inconferenza del parametro, quella prospettata in riferimento all’art. 107, terzo comma, Cost.
Sin dalla sentenza n. 123 del 1970, questa Corte ha chiarito che «il terzo comma dell’art. 107 non ha altro significato se non quello, chiaramente risultante dalla dizione letterale della disposizione […] e sistematicamente argomentabile altresì dalla collocazione di essa nel contesto di un articolo rivolto in tutte le sue parti a disciplinare lo status dei magistrati dell’ordine giudiziario, che consiste nell’escludere – con particolare riguardo ai magistrati giudicanti – rapporti di subordinazione gerarchica nell’esercizio della funzione giurisdizionale».
L’assunto è stato confermato e precisato dalle pronunce successive, in cui si legge che «l’Assemblea Costituente ebbe anzitutto di mira lo stato giuridico dei magistrati, nell’ambito del quale essa intendeva precludere le diversità di gradi […]: con il dichiarato scopo […] d’imporre la soppressione dei “gradi gerarchici” della magistratura», sicché «da quel precetto va ricavato pur sempre il divieto di qualsiasi tipo di arbitraria categorizzazione dei magistrati stessi, non sorretta da alcuna ragione di ordine funzionale» (sentenza n. 86 del 1982; successivamente, in termini simili, ordinanze n. 523 del 1995 e n. 275 del 1994).
Il tema del trattamento economico dei magistrati, dunque, non interseca affatto l’ambito di applicazione della disposizione costituzionale in parola (sentenza n. 133 del 1985), volta a vietare che tra i magistrati si stabiliscano rapporti di supremazia gerarchica (sentenze n. 310 del 1992 e n. 18 del 1989).
8.– Passando al merito delle residue questioni sollevate, esse si rivelano non fondate.
9.– Quanto alla prospettata violazione dell’art. 3 Cost., secondo un costante orientamento di questa Corte, la violazione del principio di uguaglianza sussiste solo qualora situazioni identiche, o comunque omogenee, siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso. Essa invece non si verifica quando alla diversità di disciplina corrispondono situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 165 e n. 127 del 2020).
Ciò premesso, risulta errato il presupposto ermeneutico – appunto quello della omogeneità delle situazioni messe a raffronto – dal quale muove il rimettente.
Come si desume dall’evoluzione normativa che ha interessato la materia, infatti, la differente disciplina del compenso dettata per le due figure di magistrato onorario è giustificata proprio dalla diversità delle funzioni a ciascuna di esse, nel tempo, attribuite.
L’art. 43-bis ordin. giud. – introdotto contestualmente all’istituzione della figura dei GOT e poi abrogato dalla riforma della magistratura onoraria di cui al d.lgs. n. 116 del 2017 – prevedeva che i GOT non potessero tenere udienza se non nei casi di impedimento o di mancanza dei giudici ordinari, sicché, come evidenziato dalla sentenza n. 41 del 2021, attribuiva ai GOT un ruolo di mera supplenza.
A partire dai primi anni di questo secolo, tuttavia, per fronteggiare un arretrato di dimensioni crescenti, l’impiego della magistratura onoraria giudicante, attraverso modelli di “affiancamento” dei GOT alla magistratura togata, è stato esteso (in forza di determinazioni del Consiglio superiore della magistratura) fino a consentire anche l’assegnazione a questi ultimi di ruoli “autonomi”. Come risulta dalla risoluzione del CSM del 25 gennaio 2012 (Risoluzione sui moduli organizzativi dell’attività dei giudici onorari in tribunale), tuttavia, le stesse determinazioni consiliari hanno sempre raccomandato di non assegnar loro «lavoro giudiziario» (secondo la dizione della norma di ordinamento giudiziario) che prescindesse dalla celebrazione delle udienze.
Analoga era la condizione originaria dei VPO, il cui impiego, allo stesso modo, appariva in sostanza calibrato sulla sola partecipazione alle udienze.
L’art. 72 ordin. giud. (anch’esso successivamente abrogato dal d.lgs. n. 116 del 2017) disponeva, infatti, che il procuratore della Repubblica potesse delegare nominativamente l’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, relativamente a procedimenti dei quali la legge attribuiva la cognizione al tribunale in composizione monocratica, per una serie di attività, legate alla partecipazione all’udienza dibattimentale (lettera a) o di convalida dell’arresto nel giudizio direttissimo (lettera b), nonché in vari tipi di altri procedimenti camerali (lettera d) e nei procedimenti civili (lettera e).
Come per i GOT, si trattava, dunque, di funzioni essenzialmente legate alla partecipazione a un’udienza, dibattimentale o camerale, con l’unica (marginale) eccezione costituita dalla possibilità di delegare i VPO anche per la richiesta di emissione del decreto penale di condanna (lettera c).
Per questo motivo, l’art. 4 del d.lgs. n. 273 del 1989, vigente al momento della riforma del giudice unico di primo grado operata con il d.lgs. n. 51 del 1998, disponeva che sia ai GOT che ai VPO spettasse una indennità «per ogni udienza», con il limite di due indennità al giorno.
Successivamente, però, il catalogo delle attività delegabili ai VPO, in forza della clausola generale contenuta nell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 71 ordin. giud., si è arricchito, per effetto delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468).
L’art. 50 di tale ultimo decreto ha infatti previsto che le funzioni di pubblico ministero possono essere delegate ai VPO, oltre che nelle attività di udienza (come già davanti al tribunale in composizione monocratica), anche per altre specifiche incombenze indicate dagli artt. 15 e 25.
Si tratta di ulteriori attività che – come già era accaduto per la sola presentazione della richiesta di decreto penale di condanna innanzi al giudice per le indagini preliminari del tribunale – vengono espletate a prescindere dalla partecipazione a un’udienza, camerale o dibattimentale che sia: consistendo, ad esempio, nella formulazione dell’imputazione o nella redazione della richiesta di archiviazione, in attività d’indagine, eccetera.
Veniva, dunque, ampliato il ventaglio delle funzioni delegabili al VPO, differenziandosi così, in modo netto, la sua posizione rispetto a quella del GOT: mentre quest’ultimo avrebbe continuato ad esercitare funzioni esclusivamente legate alla celebrazione di un’udienza, al VPO veniva riconosciuta la possibilità di espletare attività anche indipendentemente dalla partecipazione ad essa.
Non essendo stato contestualmente modificato l’art. 4 del d.lgs. n. 273 del 1989, tuttavia, queste ultime attività non potevano essere remunerate, appunto perché diverse dalla partecipazione all’udienza, unico criterio normativo all’epoca contemplato per la corresponsione del compenso.
La situazione appariva fonte di difficoltà, testimoniate anche da varie circolari del Ministero della giustizia che, in via interpretativa, riconoscevano la spettanza dell’indennità ai VPO anche per lo svolgimento di attività delegate diverse da quella consistente nel sostenere la pubblica accusa in udienza.
Risultata però evidente la carenza di base legale a sostegno di simili letture, l’art. 3-bis del d.l. n. 151 del 2008 operava la modifica dell’art. 4 del d.lgs. n. 273 del 1989 nel senso oggi contestato dal rimettente: la norma censurata giungeva così a fornire copertura legislativa ad una prassi amministrativa, fondata, come si è detto, proprio sui compiti diversi – e più ampi rispetto alle attività di udienza – attribuiti ai soli VPO.
A differenza di quanto ritenuto dal giudice rimettente, inoltre, sia per i GOT che per i VPO l’art. 4 più volte citato continua a considerare non rilevanti, ai fini della corresponsione dell’indennità giornaliera, tutte le attività accessorie alla celebrazione dell’udienza (per il GOT) e alla partecipazione ad essa (per il VPO), se svolte al di fuori della durata dell’udienza stessa. Per entrambe le categorie di magistrato onorario, in altre parole, non dà diritto al compenso l’impegno speso in attività preliminari – in particolare, nello studio degli atti – o successive all’udienza, anche se a questa strettamente legate, quali la redazione delle sentenze o delle ordinanze riservate in udienza (per il GOT), o la selezione dei documenti da depositare alla successiva udienza e la comunicazione alla segreteria degli adempimenti successivi posti dal giudice a carico dell’ufficio di procura (per il VPO).
In definitiva, nessuna di queste attività accessorie all’udienza è mai stata compensata, né se svolta dal GOT, né se svolta dal VPO.
Dalla disamina del contesto normativo di riferimento, e in particolare dalla sua evoluzione, discende dunque pianamente la non fondatezza della questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.
Il giudice a quo, muovendo da un’erronea premessa interpretativa circa la disciplina riferita al compenso dei VPO, assunta a tertium comparationis, ha messo a confronto situazioni non comparabili, in quanto non omogenee (ordinanza n. 46 del 2020): come si è mostrato, la differenza di trattamento tra GOT e VPO, sotto il profilo dei criteri di determinazione dell’indennità, trova giustificazione nel più ampio ventaglio di funzioni attribuite al secondo, al quale possono essere delegate anche attività indipendenti dalla partecipazione a un’udienza.
Resta da osservare che tale giudizio di non fondatezza della questione, esclusivamente riferito al confronto “interno” alla disciplina dei compensi dei magistrati onorari (GOT e VPO), prescinde da ogni valutazione di merito su una disciplina che esclude – per entrambe le figure di magistrati onorari qui considerate – la remunerazione di attività significative svolte al di fuori dell’udienza.
10.– Infine, e di conseguenza, non fondata risulta anche la questione sollevata con riferimento all’art. 97, secondo comma, Cost. (per mero lapsus calami riferita dal giudice a quo al primo comma).
Il rimettente ritiene la disposizione censurata causa di «sistematico trasferimento dei magistrati onorari in servizio dai posti giudicanti a quell[i] requirenti», ciò che determinerebbe la lesione del principio di buon andamento dell’amministrazione.
Tuttavia, una volta dimostrata la non fondatezza della questione incentrata sulla pretesa lesione del principio di eguale trattamento tra GOT e VPO, e dunque caduto il presupposto argomentativo fatto proprio dal giudice a quo, anche tale censura viene logicamente meno, senza che sia necessario ragionare sulla conferenza, nel caso di specie, del parametro costituzionale evocato, per costante giurisprudenza di questa Corte «riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari» (sentenze n. 80 del 2020 e n. 90 del 2019), sotto l’aspetto amministrativo (sentenza n. 14 del 2019).