In materia di attività sanitaria e di responsabilità contrattuale, laddove l’azienda erogatrice del servizio versi in ritardo inescusabile nell’esecuzione della prestazione medica e di spedalità, non assume rilievo, ai fini della ricorrenza dell’impossibilità sopravvenuta, la condotta dei congiunti del paziente che abbiamo trasferito altrove quest’ultimo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
4.- Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 1218, 1175 e 1375 c.c.
La ricorrente parte dal presupposto che il rapporto intercorso con il paziente è consistito in un contratto che la prassi ormai denomina di “spedalità”, ossia un contratto in cui, accanto alla prestazione principale, la cura del paziente, la struttura è tenuta ad obbligazioni secondarie, come la messa a disposizione di strumenti, di personale, ed altro.
Ciò premesso ritiene che, trattandosi di una responsabilità contrattuale quella a lei imputata, avrebbe dovuto essere dimostrato il suo inadempimento, che invece è stato erroneamente ritenuto dalla corte di merito, la quale non ha considerato che l’intervento non era urgentissimo e che il suo differimento era dunque lecito in ragione del sopraggiungere di casi più gravi.
Semmai, ritiene la ricorrente, è la condotta del paziente (rectius dei suoi familiari) ad essere stata in violazione del dovere di buona fede e correttezza, che impone alla controparte di cooperare nell’adempimento, e che è stato violato proprio dalla decisione di portare via il malato e cosi impedire la prestazione di cura.
5.- Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 1207, 1256, 1463 c.c.
Secondo la ricorrente la condotta del paziente, meglio, la decisione assunta per lui dai congiunti, di spostarsi in altra struttura, ha determinato l’impossibilità della prestazione, che ancora era utilmente effettuabile, e così, pur non determinando la risoluzione del contratto, ha però fatto salvo il diritto alla controprestazione, ossia il diritto dell’Azienda al pagamento del corrispettivo.
La Corte di merito non avrebbe apprezzato adeguatamente la condotta del paziente sotto questo profilo: di avere reso lui impossibile la prestazione di cura, disattendendo dunque il significato delle citate norme, che è esteso fino ad ammettere la configurabilità della impossibilità sopravvenuta per fatto colpevole del contraente.
6.- Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. Secondo l’Azienda Ospedaliera era onere del ricorrente provare la fonte contrattuale dell’obbligazione e l’inadempimento, in primo luogo, e solo dopo che fosse stata fornita tale prova, sarebbe stato onere dell’Azienda liberarsene dimostrando la non imputabilità; regola questa disattesa dalla Corte nel momento in cui ha ritenuto che, provato l’inadempimento, non era stata fornita prova alcuna della estraneità di esso alla sfera del debitore della prestazione.
Tutti e tre i motivi possono valutarsi insieme e sono infondati.
Innanzitutto, è la stessa Azienda a ritenere che il rapporto con il paziente è, nel caso di specie, di natura contrattuale, ed anzi, nell’esporre il primo motivo, proprio l’Azienda richiama la copiosa giurisprudenza a sostegno di tale qualificazione; il che significa che l’onere della prova della natura della responsabilità, o meglio della fonte di tale responsabilità è stato assolto dal paziente; o perlomeno che era pacifico che la fonte del rapporto stava in un contratto e che dunque la responsabilità attribuita alla Azienda era di tipo contrattuale, con conseguente riflesso sull’onere della prova.
Senza tacere del fatto che la corte di merito non ha affatto disatteso il significato dell’art. 2697 c.c., in quanto, data per ammessa la natura contrattuale del rapporto, ed accertato l’inadempimento, che la corte ha ritenuto provato dal paziente – in quanto ha ritenuto che l’intervento era urgente, se non per salvare la vita, per evitare danni irreparabili – ha conseguentemente e correttamente ritenuto che gravasse sull’Azienda la prova liberatoria, ossia la prova che il ritardo della prestazione non fosse imputabile, conformemente alla regola probatoria in tema di responsabilità contrattuale.
Precisato dunque che l’onere della prova è stato correttamente ripartito, è infondato il primo motivo, o meglio inammissibile, in quanto mira a contestare l’accertamento in fatto circa l’inadempimento della prestazione. La Corte ha, con motivazione adeguata, ritenuto che l’intervento fosse urgente e che il suo differimento fosse ingiustificato, ossia che l’Azienda non ha dimostrato che era inevitabile differirlo; questo accertamento in fatto non può essere qui messo in discussione, essendo peraltro adeguatamente motivato dalla corte di merito, che indica le circostanze fattuali ed anche documentali (cartella clinica ed altro) da cui ha ricavato questa convinzione.
Posto allora che si deve ritenere per accertato il ritardo ingiustificato nell’intervento, viene meno anche il secondo motivo, che è connesso altresì con un argomento di censura contenuto nel primo, ossia la responsabilità addebitabile al paziente nella mancata esecuzione della prestazione: ritiene l’Azienda che, innanzitutto, la decisione di portare via il paziente sia da ritenersi contraria a correttezza, nel senso che la controparte non ha cooperato al fine di consentire l’adempimento della prestazione e, per altro verso, vada letta come causa di una impossibilità sopravvenuta di quella stessa prestazione, resa cioè impossibile proprio da detto trasferimento del paziente, causa imputabile ai suoi congiunti.
Questa lettura cade se cade la premessa, ossia che l’adempimento fosse ancora possibile, non vi fosse cioè ritardo, e che conseguentemente a renderlo impossibile sia stata la controparte. Se questa premessa viene meno, e si accede alla ricostruzione in fatto operata dalla Corte di merito, secondo cui, invece, il ritardo era ingiustificato non avendo l’Azienda dimostrato che non aveva modo di intervenire sul paziente a causa delle sopravvenienze più gravi; se questa ricostruzione in fatto è tenuta ferma, e come si è detto, non può essere messa qui in discussione, nè per certi versi lo è stata adeguatamente (ossia sotto gli unici profili possibili, di difetto di motivazione o errore percettivo), allora ovviamente ne deriva che la condotta del paziente, meglio dei suoi congiunti, non è nè in violazione del dovere di correttezza nè costituisce causa di una – colpevole dunque- impossibilità sopravvenuta: si tratta invece della condotta conseguente all’inadempimento altrui, volta ad evitare un danno maggiore.
In altri termini, l’accertamento in fatto che ad essere inadempiente è stata l’Azienda, esclude, per logica conseguenza, che possa invece la mancata soddisfazione dell’interesse del creditore essere imputata a condotta colpevole di quest’ultimo, esclude cioè l’inadempimento della controparte; nè è mai stata prospettata, neanche nei gradi precedenti, una qualche ipotesi di inadempimento reciproco.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Corte di Cassazione, VI– 3, del 15.06.2021, n. 16936