Corte di Cassazione, I Sezione Penale, sentenza 26 luglio 2021, n. 29190
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Il ricorso è, nel suo complesso, manifestamente infondato.
1.1. Occorre premettere che, in base all’art. 606 c.p.p., lett. e), il ricorso per cassazione è ammesso unicamente per far valere la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, vizi che devono risultare dal testo del provvedimento impugnato e che non possono essere dedotti sulla base di una diversa valutazione del compendio probatorio acquisito nel corso del giudizio, ove non riversato in sentenza. La suddetta norma è costantemente interpretata nel senso di ritenere che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, Barraglia, Rv. 275100; Sez. 4, 1219 del 14/09/2017, Colomberotto, Rv. 271702).
Quanto detto, precisa la Corte, comporta che è preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601).
- Applicando tali parametri, prosegue la Corte, va rilevata la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, articolati sia come vizio di motivazione che violazione di legge, con i quali il ricorrente sostiene l’erroneità della decisione impugnata, nella misura in cui ha riconosciuto la sussistenza dell’abitualità della condotta illecita. Si sostiene, infatti, che già sulla base del capo di imputazione, sarebbero indicati solo tre episodi specifici in occasione dei quali l’imputato avrebbe percorso la persona offesa, cagionandole anche delle lesioni personali. Tali episodi, tuttavia, si sarebbero svolti a distanza di anni gli uni dagli altri, il che sarebbe del tutto incompatibile con l’abitualità richiesta dal reato di cui all’art. 572 c.p.
2.1. Il motivo di ricorso propone una lettura parziale degli elementi valorizzati nella sentenza di condanna e non si confronta con la motivazione nella parte in cui dà ampiamente conto di come le condotte maltrattanti siano state abituali, continuative e si siano protratte per tutto il periodo della convivenza. I singoli episodi specificati nell’imputazione, infatti, individuano solo i casi in cui i maltrattamenti si sono manifestati con condotte di aggressione fisica cui sono conseguite lesioni personali, ma non esauriscono certamente la condotta contestata. Di tale aspetto, chiaramente evidenziando nella sentenza impugnata, il ricorrente non tiene minimamente conto, giungendo a sostenere che le vessazioni subite dalla persona offesa non assumerebbero rilievo penale se non nei casi in cui la condotta si sia tradotta in “atti di costrizione“.
Si tratta, osserva la Corte, di una lettura del contenuto del reato di maltrattamenti in famiglia che non trova riscontro nella consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali (Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, Rv. 256962). Quanto detto comporta che il reato in esame può essere integrato sia mediante la commissione di condotte costituenti autonome ipotesi delittuose, come tipicamente avviene nel caso in cui la persona offesa subisca lesioni personali, ma anche a seguito di condotte genericamente vessatorie, purché queste siano in grado di realizzare quello stato di umiliazione ed abituale prostrazione della vittima che tipicamente contraddistingue la nozione stessa di maltrattamenti in famiglia. In tal senso, è stato ribadito anche recentemente che il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sé, non costituiscono reato, posto che il termine “maltrattare” non evoca la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art. 572 c.p. (Sez. 6, n. 13422 del 10/3/2016, Rv. 267270).
2.2. Manifestamente infondata, chiosa ancora la Corte, è anche l’ulteriore doglianza secondo cui la sussistenza del reato ed il diniego delle attenuanti generiche sarebbero conseguiti ad un “giudizio su atteggiamenti mentali e/o fatti simbolici”, piuttosto che su effettive condotte delittuose. Anche tale motivo è agevolmente smentito dalle considerazioni in precedenza svolte, lì dove si è sottolineato come il giudizio di responsabilità è stato espresso sulla base di una valutazione della complessiva condotta vessatoria tenuta dal T. nei confronti della F.. Il fatto che si sia ritenuto che tale condotta fosse il frutto di una vita familiare improntata all’attribuzione di un ruolo di “supremazia” al marito e di “subalternità” alla moglie, nulla toglie alla rilevanza penale delle stesse ma, anzi, contribuisce a delineare la personalità dell’imputato, aspetto sicuramente rilevante ai sensi dell’art. 133 c.p. e, quindi, correttamente valutato ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, secondo un giudizio non sindacabile in sede di legittimità, ove la motivazione – come nel caso di specie – non presenti aspetti di manifesta illogicità o contraddittorietà.
- Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.