Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 19 luglio 2021, n. 27909
PRINCIPIO DI DIRITTO
È configurabile il delitto di stalking nel caso in cui la vittima, per le reiterate molestie subite mediante continui approcci di natura allusiva alla sfera sessuale ed erotica, ispirati da una logica di assillante velleità da pseudo-innamoramento o corteggiamento e avvenuti sul luogo di lavoro della persona offesa, con abuso della posizione di autorità privata derivante dal ruolo di coordinamento dell’agente nei suoi confronti, manifesti un perdurante e grave stato d’ansia e sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita.
Inoltre, il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p., consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, non vi è dubbio possa estrinsecarsi in varie forme di molestie; sicché si configura il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p., ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Il ricorso è inammissibile.
- Ripercorrendo i passaggi principali della vicenda, l’imputato è stato condannato per aver reiteratamente molestato la vittima, una ragazza non ancora diciottenne, che lavorava presso l’azienda gestita dalla moglie e da lui stesso collaborata (attraverso compiti di direzione e coordinamento), dapprima come fruitrice di uno stage scolastico e, successivamente, perché assunta effettivamente, sebbene non regolarmente. Le molestie, per il loro carattere reiterato e l’atteggiarsi tale da provocare alla persona offesa più d’uno tra gli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis c.p., sono state ritenute integrare il delitto di atti persecutori; le condotte di reato commesse dal ricorrente sono consistite in frequenti e sgradevoli apprezzamenti fisici (icasticamente rappresentati nell’imputazione dalle frasi rivolte alla ragazza, del tipo “hai messo su un bel culo”.. “che bel fisico che hai”); nell’allusiva, volgare intenzione di toccarla sul seno pulendole la maglietta sporca; nell’insistente richiesta a che la vittima acconsentisse a posare per un calendario fotografico “aziendale” e, al rifiuto di costei, nella minaccia di diffondere una sua foto scaricata da un profilo “social” facendone uso inopportuno; infine, nel tentare in un’occasione di baciarla, afferrandola per i fianchi, non riuscendovi per l’opposizione della persona offesa.
La vittima era piombata, in ragione di tali comportamenti, in un grave e perdurante stato d’ansia e timore ed era stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, determinandosi a lasciare il lavoro ed a rivolgersi al servizio di neuropsichiatria infantile dell’ASL di Saluzzo per recuperare i danni psicologici subiti. I fatti sono stati collocati nel periodo temporale che va da aprile 2015 a maggio 2016 e sono state ritenute sussistenti anche le aggravanti previste dall’art. 612 bis c.p., comma 3, (minore età della vittima) e dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 11, per l’approfittamento del rapporto di autorità privata da parte del datore di lavoro, ritenute equivalenti alle pur riconosciute circostanze attenuanti generiche.
2.1. In via preliminare, osserva la Corte, deve essere esaminato il quarto motivo di ricorso, che deduce l’improcedibilità del reato con ragioni inammissibili, anzitutto perché generiche, in quanto completamente avulse dal confronto con la motivazione del provvedimento impugnato, che ha chiaramente evidenziato come, dalla prova in atti, emerga che le condotte ascritte all’imputato si siano protratte sino al maggio 2016, e cioè quando la vittima non era ancora maggiorenne, sicché la valenza della querela successivamente proposta non rileva, trattandosi di fattispecie procedibile d’ufficio ai sensi dell’art. 612 bis c.p., u.c., seconda parte.
E, come detto, costituisce principio condiviso quello secondo cui il delitto di atti persecutori ha natura di reato abituale di evento “per accumulo”, che si perfeziona al momento della realizzazione di uno degli eventi alternativi previsti dalla norma e si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato (cfr. la citata sentenza n. 17000 del 2020), sicché ciò che conta, ai fini del momento consumativo, è il tempo dell’ultimo atto espressivo della condotta e non quando, eventualmente, si sia manifestato, apparentemente, uno degli eventi del reato, seguendo l’erronea prospettazione del ricorrente, legata al tempo, successivo al compimento del diciottesimo anno d’età della vittima, in cui si sarebbero, a suo dire, evidenziati i sintomi dello stato d’ansia.
Il principio è confermato, in generale, dalla configurazione del delitto previsto dell’art. 612 bis c.p., come reato abituale e di danno, integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento (Sez. 5, n. 7899 del 14/1/2019, P., Rv. 275381).
Il motivo difensivo, peraltro, è anche formulato secondo implicite richieste di revisione degli elementi di fatto che compongono il tessuto probatorio e, anche per questo, inammissibile.
- Venendo all’esame dei singoli motivi di ricorso, prosegue la Corte, il primo, il terzo ed il quinto argomento di censura possono essere esaminati in modo unitario, vertendo tutti sulla contestazione della stessa configurabilità del reato di atti persecutori, sotto diversi profili: l’inidoneità della condotta nel suo complesso ad esprimere l’offensività del delitto; il mancato verificarsi di uno degli eventi del reato; la prospettazione di un agire che si connota per essere soltanto un modo di esprimersi goliardico e scherzoso con le dipendenti dell’azienda presso cui l’imputato svolgeva mansioni di coordinamento e direzione, poiché di proprietà della moglie. La tesi del ricorrente, che egli porta avanti sin dalle prime battute del processo, è che quanto accaduto sia al più riconducibile ad un corteggiamento sgradevole e sgradito, realizzato con modalità magari volgari, ma non abbia i caratteri per configurare il delitto di stalking, avendo uno sfondo goliardico e scherzoso.
3.1. Le censure, precisa la Corte, sono manifestamente infondate e, per la gran parte, tendono anche a prospettare una rilettura non consentita in sede di legittimità di aspetti probatori valutati dal giudice di merito secondo parametri motivazionali non afflitti da vizi di contraddittorietà, manifesta illogicità o carenza, anzi espressi in una “doppia pronuncia conforme” che rassicura particolarmente sugli approdi decisori, per la puntualità anche delle analisi svolte dai giudici di merito e la coerenza reciproca delle due sentenze di primo grado e d’appello.
Il Collegio rammenta che, secondo l’orientamento pacificamente accolto dalla Cassazione, in tema di motivi di ricorso, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), quanto ad aspetti essenziali ad imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 9106 del 12/2/2021, Caradonna, Rv. 280747 e Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965). Ciò perché, esula dai poteri della Corte di cassazione quello consistente nella “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui verifica è, invece ed in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (ex multis Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; cfr. altresì Sez. 2, n. 30918 del 7/5/2015, Falbo, Rv. 264441; Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944).
3.2. I giudici di merito, soggiunge la Corte, hanno correttamente escluso che il ricorrente abbia posto in essere un mero corteggiamento petulante e volgare, ovvero sia autore di un semplice atteggiamento scherzoso e goliardico, penalmente irrilevante, come sostenuto dalla difesa. Neppure le sue azioni possono essere ritenute sussumibili nella diversa e meno grave condotta di molestie, punita dall’art. 660 c.p., nella quale la casistica più volte ha riscontrato una distorsione della dinamica dei rapporti e degli approcci tra un uomo ed una donna, con invasione della sfera privata ed intima della vittima (cfr. Sez. 5, n. 7993 del 9/12/2020, dep. 2021, P., Rv. 280495, in un caso di corteggiamento ossessivo volto ad instaurare una conoscenza con la vittima; Sez. 3, n. 1999 del 15/11/2019, dep. 2020, V., Rv. 277976, in una fattispecie di battute a sfondo sessuale e domande sulla sfera intima della persona offesa). La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito, peraltro, come sia configurabile il delitto di staiking nel caso in cui la vittima, per le reiterate molestie subite mediante continui approcci ispirati da una logica di assillante velleità da pseudo-innamoramento o corteggiamento, manifesti un perdurante e grave stato d’ansia e sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita (Sez. 5, n. 45453 del 3/7/2015, M., Rv. 265506, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il reato, proprio escludendo che potesse configurarsi un mero “pressante corteggiamento” penalmente irrilevante, in presenza di ripetuti atti molesti, costituiti, tra l’altro, dal seguire la vittima – vicina di casa dell’imputato e amica della figlia di quest’ultimo – in luoghi pubblici, avvicinarla e indirizzarle frasi d’amore).
Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p., consiste, infatti, come si è di recente affermato, nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, non vi è dubbio possa estrinsecarsi in varie forme di molestie; sicché si configura il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p., ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 6, n. 23375 del 10/7/2020, M., Rv. 279601; Sez. 5, n. 15625 del 9/2/2021, R., n. m.).
Rapportato alla condotta del ricorrente, il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 43453 del 2015 trova nuova efficacia, amplificata dalla volgarità delle condotte di attenzioni e complimenti sgraditi e rifiutati dalla vittima, che suo malgrado ne è stata destinataria per circa un anno; dal contesto di accadimento dei fatti: l’ambiente di lavoro, con l’abuso della posizione di direzione e coordinamento da parte dell’imputato nei confronti di una sua dipendente; dalla minore età della vittima, non ancora diciottenne. Di nessun pregio, in queste condizioni, è la tesi dell’irrilevanza penale della condotta posta in essere dell’imputato e della sua inoffensività. Ed infatti, oltre che per la chiara e continuativa volontà di molestare la giovanissima dipendente nella sua sfera intima e personale, rivolgendole apprezzamenti inequivoci e ripetuti sul proprio aspetto avvenente, generati verosimilmente da un modo di intendere la donna come “oggetto” estetico, di interesse preminentemente sessuale, le condotte del ricorrente si caratterizzano per essere obiettivamente insopportabili per la dignità della persona, ridotta a bersaglio delle proprie pulsioni erotiche e ad obiettivo di frasi non soltanto moleste perché, appunto, invasive dell’intimità profonda della vittima, ma anche capaci di generare uno stato di ansia e di timore in lei, alla luce anche della sua età e della condizione di preminenza gerarchica-lavorativa in cui l’imputato agiva.
Completano la trama probatoria che punta alla configurabilità del delitto di atti persecutori due condotte, tra le molteplici molestie, particolarmente gravi, che, infatti, sono state evidenziate dalla contestazione di reato: l’aver cercato insistentemente, in più occasioni, di ottenere il consenso della vittima a posare per un “calendario” aziendale, minacciando, al rifiuto di costei, di utilizzare in maniera impropria e lesiva una fotografia della ragazza, acquisita mediante i suoi profili “socia)”; l’aver tentato di baciarla, prendendola per i fianchi e non riuscendovi per la ferma e veemente opposizione della persona offesa. La seconda condotta, un approccio sessuale vero e proprio, risulta, peraltro, essersi verificata anche più frequentemente che in quell’unica occasione espressamente contestata, per come raccontato da alcune testimoni, anch’esse dipendenti dell’azienda dell’imputato. Le numerose testimonianze di conforto a quella precisa, chiara, attendibile della vittima – la cui credibilità è stata lungamente analizzata nella sentenza impugnata – che, da sola, basterebbe a fondare la prova del reato (cfr. Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte, Rv. 253214) escludono, dunque, qualsiasi possibilità di ricostruire la vicenda nel senso voluto dal ricorrente, il quale, in ultima analisi, non contesta la materialità delle condotte, ma intende interpretarle secondo proprie e più indulgenti chiavi di lettura, facendo ricorso allo schema del corteggiamento “inopportuno ma inoffensivo”, ovvero a quello del comportamento diffuso, scherzoso e “goliardico”, per tutte quelle diverse dal tentativo di baciare la vittima afferrandone i fianchi, e, quanto a quest’ultimo episodio, ritenendolo incapace, di per sé, di costituire lo schema legale del delitto di atti persecutori.
La visione parcellizzata che il ricorrente propone, chiosa ancora la Corte, non può trovare ingresso, alla luce proprio della struttura normativa del reato di cui all’art. 612 bis c.p., che, come noto, si configura e consuma al verificarsi anche di uno solo degli eventi alternativi previsti dalla disposizione incriminatrici, eventi ciascuno dei quali è idoneo a realizzarlo (cfr. Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015, A., Rv. 265231; Sez. 5, n. 29782 del 19/5/2011, L., Rv. 250399; Sez. 5, n. 34015 del 22/6/2010, De Guglielmo, Rv. 248412) e che disegnano la tipicità oggettiva della fattispecie di staiking, realizzandosi “per accumulo” di condotte reiterate, di minaccia o anche solo molestia, tali da provocare un grave stato d’ansia o di paura, ovvero da ingenerare fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero ancora da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita (Sez. 5, n. 17000 del 11/12/2019, dep. 2020, A., Rv. 279081; Sez. 5, n. 54920 del 8/6/2016, G., Rv. 269081; Sez. 5, n. 51718 del 5/11/2014, T., Rv. 262636).
Nel caso di specie, osserva la Corte, la persona offesa ha chiaramente descritto le condotte moleste a sfondo sessuale subite per un periodo di tempo di circa un anno e con insistenza, mentre – secondo la pacifica opzione della giurisprudenza questa Corte di legittimità – il realizzarsi di uno degli eventi alternativi descritti dalla fattispecie di atti persecutori è evincibile in ogni caso dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente per come risulta accertata, senza che sia necessario che la vittima li prospetti espressamente o li descriva con esattezza (Sez. 5, n. 57704 del 14/9/2017, P., Rv. 272086; Sez. 5, n. 47195 del 6/10/2015, S., Rv. 265530). La prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato, in particolare, può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5, n. 24135 del 9/5/2012, G., Rv. 253764) e a maggior ragione, nel caso in cui la vittima sia un minore, maggiormente vulnerabile, detto stato d’ansia e paura può essere la conseguenza di reiterate condotte consistite nel rivolgere apprezzamenti di natura sessuale continuativi, accompagnati da tentativi di approccio erotico (Sez. 5, n. 4728 del 9/12/2019, dep. 2020, C., Rv. 278296; Sez. 5, n. 11945 del 12/1/2010, G., Rv. 246545).
Non vi è dubbio, poi, che la condotta vessatoria prevista come elemento oggettivo del reato di atti persecutori possa consistere anche in sole, reiterate molestie (sulla sussistenza del delitto di stalking in presenza di reiterate condotte di “sola” molestia, Sez. 5, n. 45453 del 3/7/2015, M., Rv. 265506; Sez.5, n. 29826 del 5/3/2015, P., Rv. 264459). La prova del realizzarsi degli eventi del reato, alla luce dei principi già premessi, è stata ampiamente argomentata dalle due sentenze di merito, attraverso le plurime prove testimoniali, sia quanto allo stato d’ansia e paura, al profondo disagio psicologico, causato dalle condotte del ricorrente (che aveva tale atteggiamento come “cifra” personale del proprio rapporto con le dipendenti di sesso femminile, secondo quanto riferito, in particolare, da una delle testimoni) e che aveva costretto la persona offesa a chiedere l’aiuto del servizio medico dell’ASL; sia in relazione al fatto che ella aveva dovuto modificare le proprie abitudini sul lavoro, cercando di non rimanere mai in condizioni tali da essere sola con il ricorrente e, infine, essendo costretta ad abbandonarlo.
Ancora una volta, deve rilevarsi come i motivi di ricorso relativi si risolvano in un tentativo di edulcorare le conseguenze subite dalla vittima, mistificando la prova dichiarativa di costei soprattutto e proponendo un’inammissibile e alternativa lettura degli eventi.
In conclusione, deve ribadirsi che è configurabile il delitto di stalking nel caso in cui la vittima, per le reiterate molestie subite mediante continui approcci di natura allusiva alla sfera sessuale ed erotica, ispirati da una logica di assillante velleità da pseudo-innamoramento o corteggiamento e avvenuti sul luogo di lavoro della persona offesa, con abuso della posizione di autorità privata derivante dal ruolo di coordinamento dell’agente nei suoi confronti, manifesti un perdurante e grave stato d’ansia e sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita.
3.3. Manifestamente infondata, prosegue la Corte, è la censura compresa nella seconda eccezione difensiva: la sospensione condizionale della pena è stata negata al ricorrente con una motivazione del tutto plausibile ed immune da qualsivoglia vizio logico. Sono stati infatti valorizzati in chiave negativa proprio gli innumerevoli passaggi della sua difesa volti a negare la gravità di quanto commesso ed a proporre una versione tanto lontana dal tessuto di prova quanto pervicace nel sostenere un mero comportamento scherzoso e guascone da parte sua, ignorando le conseguenze del reato sulla vita della vittima. La Corte d’Appello ha anche apprezzato negativamente la circostanza relativa a quella che è risultata essere, per le testimonianze in atti, un’abitudine dell’imputato a rivolgersi alle dipendenti di giovane età e di sesso femminile con allusioni sessuali e complimenti volgari, che sovente preludevano a tentativi di approccio fisico. Nè è di ostacolo alla valutazione negativa in tema di beneficio della sospensione condizionale la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Invero, deve ribadirsi che non sussiste incompatibilità tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la concessione della sospensione condizionale della pena, o viceversa, avendo i due istituti diversi presupposti e finalità, in quanto il riconoscimento delle prime risponde alla logica di un’adeguata commisurazione della pena, in funzione individualizzante rispetto alla personalità del reo ed al disvalore del fatto; mentre la concessione della seconda si fonda su un giudizio prognostico strutturalmente diverso da quello posto a fondamento delle attenuanti generiche, perché orientato, invece, a prevenire, in funzione disincentivante, la commissione di ulteriori attività criminose (Sez. 4, n. 27107 del 15/9/2020, Tedesco, Rv. 280047; Sez. 4, n. 39475 del 16/2/2016, Tagli, Rv. 267773; Sez. 3, n. 12828 del 18/10/1999, Dal Pont, Rv. 215636).
3.4. Infine, conclude la Corte, inammissibile è la richiesta di sospensione dell’esecuzione della condanna civile al risarcimento del danno ed alle spese dei giudizi di merito, non ricorrendo le condizioni previste dall’art. 612 c.p.p., del grave ed irreparabile danno, solo genericamente dedotte, disposizione che comunque non riguarda le spese processuali.
- Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonché, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000. Deve essere disposta, altresì, condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte d’Appello di Trieste con separato decreto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la pronuncia Sez. U, ord. n. 5464 del 26/9/2019, dep. 2020, De Falco, Rv. 277760. Il massimo collegio nomofilattico ha, infatti, chiarito che, nel giudizio di legittimità, in tema di liquidazione, delle spese sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, compete alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 541 c.p.p., e D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 110, pronunciare condanna generica dell’imputato al pagamento di tali spese in favore dell’Erario, mentre è rimessa al giudice del rinvio, o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83, del citato D.P.R..
4.1. Si dispone, infine, che, in caso di diffusione del provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.