In tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, non è invocabile la causa di forza maggiore di incolpevole stato di crisi imprenditoriale laddove sia provato che le relative somme non siano state accantonate ma impiegate per autofinanziamento, per altri scopi imprenditoriali. In tal caso, infatti, poichè l’autore dell’omesso versamento si pone volontariamente nelle condizioni di non uniformarsi alla legge, risulta provato il dolo del reato de quo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
*Tributario – Omesso versamento IVA, invocata forza maggiore e dolo – Fattispecie
- Il primo motivo è infondato. 1.1. Oltre a rilevarsi che nel ricorso la sussistenza della crisi di liquidità è data per provata, senza minimamente spiegare in cosa sarebbe consistita, va ricordato che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter (omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto) prevede come reato il fatto di chi non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. 1.2. Il delitto D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 10-ter, è un reato omissivo ed istantaneo: si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo; ciò che rileva è, quindi, l’indicazione nella dichiarazione di un debito d’imposta e l’inadempimento alla conseguente e corrispondente obbligazione di pagamento. Ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili (così Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017, dep. 2018, Strada, Rv. 272552 – 01). 1.2.1. Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede degli specifici obblighi per il contribuente (artt. 21 e ss.) dai quali emerge, sia con riferimento all’emissione della fattura che agli obblighi di registrazione, che il soggetto obbligato già all’atto del compimento dell’operazione economica conosce quanto è poi dovuto a titolo di Iva, dovendo essere indicata l’aliquota, l’ammontare dell’imposta e dell’imponibile. 1.2.2. Sono poi irrilevanti, ai fini della configurabilità del reato, sia l’effettiva riscossione delle somme-corrispettivo relative alle prestazioni effettuate (tranne i casi di applicabilità del regime di “Iva per cassa”, cfr. Sez. 3, n. 6220 del 23/01/2018, Ventura, Rv. 272069) sia le condotte successive dell’obbligato, stante la natura del reato, che è emissivo proprio a consumazione istantanea. 1.3. Per la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, è, quindi, sufficiente, stante l’evidenziata struttura della fattispecie, la consapevolezza di omettere il versamento dell’imposta dovuta sulla base della dichiarazione annuale presentata dall’obbligato, a prescindere dagli intendimenti e dalle condotte successive del debitore, posto che ciò che determina la configurabilità del reato è quanto emergente dalla dichiarazione annuale e l’inadempimento alla scadenza della obbligazione tributaria dalla stessa risultante. Il delitto è dunque punibile a titolo di dolo generico che consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute a titolo di Iva del periodo considerato. 1.4. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto. Ciò deriva anche dai principi affermati da Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, Rv. 255757, secondo cui il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l’obbligazione tributaria. 1.5. Nel corso degli anni, in relazione alla natura giuridica delle prestazioni, la regola è infatti divenuta quella della cd. Iva per cassa; il pagamento è il criterio prevalente previsto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 6 per ritenere effettuata l’operazione relativa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi a cui si applica l’imposta sul valore aggiunto. Inoltre, regole specifiche sono previste dall’art. 26 nel caso di inadempimento con il diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione. Proprio in conseguenza di tali principi, Sez. 3, n. 38594 del 23/01/2018, M., Rv. 273958 – 01, ha affermato, in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, che l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura nè lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo. Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Mattiazzo, Rv. 278909 – 01, ha affermato il principio per cui, in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi. 1.6. La giurisprudenza è costante nell’affermare, anche in conseguenza della riscossione delle somme e dell’obbligo di accantonamento, che la scelta di non pagare l’imposta dovuta prova il dolo: soprattutto quando risulti che al contempo si siano pagati altri debiti o che le somme, che avrebbero dovuto essere accantonate, siano state impiegate in altro; infatti, la scelta imprenditoriale attiene ai motivi a delinquere e non può pertanto minimamente escludere la sussistenza del dolo (Sez. 3 n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262). 1.7. L’obbligo di accantonamento è strettamente collegato alla natura giuridica di profitto del reato delle somme non versate a titolo di Iva. Di tale profitto, infatti, è prevista la confisca obbligatoria D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12-bis, anche per equivalente; le somme non versate a titolo di Iva, pertanto, sono destinate in caso di condanna ad essere sottratte al patrimonio del reo, essendo già a monte destinate alla collettività. Nè è possibile consentire che l’autore del reato possa autofinanziarsi con risorse non proprie, con quelle destinate alla collettività, percependo così il profitto illecito del reato e reimpiegandolo, sottraendolo in tal modo anche alla confisca obbligatoria (così Sez. 3, n. 50007 del 04/10/2019, Baracchi, in motivazione). 1.8. Orbene, in punto di fatto, risulta dalle sentenze di merito e dagli atti allegati al ricorso che la società di cui il ricorrente era il legale rappresentante al momento della scadenza del termine per adempiere l’obbligo di versare l’Iva, era titolare di un. negozio in Milano e gestiva anche uno spazio vendita destinato ad outlet, poi ceduto, oltre ad un sito di vendite on line. Il che significa che è pacifico che, le somme dovute a titolo di Iva, per la natura delle prestazioni economiche fornite, la vendita al dettaglio e on line, sono state effettivamente incassate dalla società: non risultano essere state accantonate e non sono state versate. Come risulta dalla sentenza di primo grado e da quella impugnata, sul punto non contestata, le somme sono state impiegate per autofinanziamento, sono state impiegate per altro: l’omesso accantonamento e l’impiego delle somme – che avrebbero dovute essere versate per pagare l’Iva – per fini diversi provano il dolo, come affermato dalla sentenza Mondini. 1.9. Per altro, dalle sentenze di merito e dal ricorso e dagli allegati risulta l’uso sistematico di non corrispondere l’Iva, per cui sono intervenute anche condanne e non solo le due assoluzioni indicate dalla difesa, ad ulteriore conferma della correttezza della motivazione sulla sussistenza del dolo. 1.10. Sez. 3, 13/11/2018, n. 12906, Canella, ha affermato che il reato di omesso versamento IVA è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario. 1.11. Esiste un orientamento della giurisprudenza per cui, quanto alla incidenza dello stato di difficoltà o di crisi finanziaria dell’impresa obbligata al pagamento dell’imposta, al fine della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorrono l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3. N. 16035 del 10/10/2018, dep. 2019, Schirosi, in motivazione) 1.12. Va altresì evidenziato che le sentenze che hanno ritenuto possibile la rilevanza della crisi di liquidità partono sempre dal presupposto che per escludere la volontarietà della condotta è necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento all’obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3. N. 16035 del 10/10/2018, dep. 2019, Schirosi, in motivazione). Occorre la prova che il contribuente non sia stato in grado, per cause indipendenti dalla sua volontà, di reperire le necessarie risorse per l’adempimento dell’obbligo tributario (nonostante abbia posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, le somme necessarie; Sez. 3, n. 5905 del 9 ottobre 2013, Maffei, non massimata; Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, dep. 2014, Mercutello, Rv. 258055). 1.13. Altre sentenze, esplicitamente, hanno affermato che ciò che può escludere la responsabilità è solo la forza maggiore. Però, l’esimente della forza maggiore, di cui all’art. 45 c.p., sussiste in tutte le ipotesi in cui l’agente abbia fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e che per cause indipendenti dalla sua volontà non vi era la possibilità di impedire l’evento o la condotta antigiuridica (Sez. 5, n. 23026 del 03/04/2017, Mastrolia, Rv. 270145 – 01). La forza maggiore si riferisce ad un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, impedendo di configurare un’azione penalmente rilevante per difetto del generale requisito della coscienza e volontarietà della condotta previsto dall’art. 42 c.p., comma 1. Come affermato dalla sentenza Mastrolia, in motivazione, tale interpretazione dell’esimente in oggetto è quella che meglio si sposa non solo con il significato fatto proprio dall’espressione, la quale prefigura la situazione di un soggetto assolutamente privo della possibilità di sottrarsi a una forza per lui irresistibile (in proposito si dice che il soggetto non agit, sed agitur), ma anche con il dato normativo, giacché, da una parte, l’art. 46 c.p. enuclea un’ipotesi speciale di forza maggiore disciplinando il costringimento fisico, peraltro esplicitandone i caratteri e, dall’altra, l’art. 54 c.p. regola l’ipotesi diversa in cui la volontà dell’autore sia coartata in modo non assoluto bensì relativo, residuando in capo al soggetto un margine di scelta. 1.13.1. Proprio perché la forza maggiore postula l’individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, la Corte di Cassazione ha sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986). 1.13.2. Nello stesso solco si pone la sentenza di Sez. 3 del 13 novembre 2018, n. 12906, Canella, che ha affermato che il reato di omesso versamento IVA è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario. 1.14. Può dunque affermarsi il principio per cui quando, come nel caso in esame, risulti che l’Iva sia stata effettivamente incassata, le relative somme non siano state accantonate ma impiegate per autofinanziamento, per altri scopi imprenditoriali, oltre ad essere provato il dolo, l’autore dell’omesso versamento si pone volontariamente nelle condizioni di non uniformarsi alla legge, con la conseguenza che non è invocabile la forza maggiore. 1.15. Pertanto, va ribadito che le sentenze che richiamano la possibilità di invocare la forza maggiore, come la sentenza Canella in motivazione, presuppongono sempre che l’agente abbia fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e che per cause indipendenti dalla sua volontà non vi era la possibilità di impedire l’evento o la condotta antigiuridica; ciò non si verifica quando la condotta antigiuridica è il frutto di una scelta imprenditoriale consapevole e volontaria. Va inoltre rilevato che la sentenza citata nel ricorso (Sez. 3, n. 42522 del 16/10/2019) si è limitata a dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione del Pubblico ministero per la mancanza del requisito della specificità estrinseca. 2. Il secondo motivo è infondato. La Corte di appello ha esplicitamente valutato le sentenze di assoluzione prodotte ma ha ritenuto elementi di prova non in grado di scardinare la logica della condanna che si fonda, correttamente, oltre che sulla sussistenza del dolo dell’omissione, effettuata con coscienza e volontà, anche sull’insussistenza di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, tale da integrare la forza maggiore, posto che la crisi del settore era precedente, definita un ciclo economico; i lavori che interessarono l’area dello store risalivano al 2005. Inoltre, le ragioni dell’assoluzione non superano le argomentazioni relative alla scelta consapevole e volontaria di non versare le somme percepite a titolo di Iva alla scadenza del termine destinandole ad altro. 3. È inammissibile il terzo motivo con cui si deduce il vizio di violazione di legge processuale di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c); tale vizio sussiste solo per l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o di decadenza. La norma invocata dalla difesa non prevede, in caso di inosservanza, nessuna delle sanzioni descritte nell’art. 606 c.p.p., lett. c). 3.1. Il motivo per il resto è infondato. 3.1.1. È indubbio che, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, nell’ipotesi di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1 la riassunzione di prove già acquisite o l’assunzione di quelle nuove è subordinata alla condizione che i dati probatori raccolti in precedenza siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività. Nel caso previsto dal comma 2, invece, il giudice è tenuto a disporre l’ammissione delle prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado negli stessi termini di cui all’art. 495 c.p.p., comma 1, con il solo limite costituito dalle richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti, tenuto conto del richiamo di tale ultima norma all’art. 190 c.p.p., comma 1, e art. 190-bis c.p.p.. Così Sez. 3, n. 47963 del 13/09/2016, F., Rv. 268657 – 01: in motivazione la Corte ha affermato che, nella prima ipotesi, le ragioni di rigetto possono essere anche implicite nell’apparato motivazionale della decisione adottata, mentre, nel secondo caso, la giustificazione del rigetto deve risultare in modo espresso e compiuto. 3.1.2. Secondo Sez. 3, n. 13888 del 27/01/2017, D, Rv. 269334 – 01, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mentre nelle ipotesi di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1 (richiesta di riassunzione di prove già acquisite e di assunzione di nuove prove) e comma 3 (rinnovazione ex officio) è necessaria la dimostrazione, in positivo, della necessità (assoluta nel caso del comma 3) del mezzo di prova da assumere, onde superare la presunzione di completezza del compendio probatorio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del citato art. 603, al contrario, è richiesta la prova, negativa, della manifesta superfluità e della irrilevanza del mezzo, al fine di superare la presunzione, opposta, di necessità della rinnovazione, discendente dalla impossibilità di una precedente articolazione della prova, in quanto sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado. 3.2. Se indubbiamente la Corte di appello ha erroneamente richiamato la decisività allo stato degli atti di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1, mentre le prove documentali prodotte erano sopravvenute, però ha anche motivato sulla superfluità delle prove in quanto volte a dimostrare lo stato di crisi della Dueci s.r.l. e del debito erariale accumulato negli anni, dati del tutto pacifici. L’errore di diritto, oltre a poter essere corretto dalla Corte, non è rilevante in presenza di una specifica motivazione sull’irrilevanza delle prove, per altro non specificamente attaccata con il motivo. 3.3. In base alle allegazioni al ricorso, deve escludersi che i documenti prodotti costituiscano prove decisive. 3.3.1. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza (cfr. Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323) è decisiva, ex art. 606 c.p.p., lett. d), la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante. La prova non è decisiva quando i risultati che la parte si propone di ottenere possono condurre – confrontati con le altre ragioni poste a sostegno della decisione – solo ad una diversa valutazione degli elementi legittimamente acquisiti nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale (cfr. Sez. 6, n. 37173 del 11/06/2008, Ianniello, Rv. 241009: fattispecie in cui, a fronte di una prova già acquisita mediante accertamento peritale, si è ritenuta priva del carattere di decisività la deduzione della testimonianza della persona offesa, al fine di metterla a confronto con l’imputato). Cfr. anche Sez. 2, n. 2827 del 22/11/2005, dep. 2006, Russo, Rv. 233328, per cui, in tema di ricorso per cassazione, non sussiste il vizio di mancata ammissione di prova decisiva quando si tratti di prova che debba essere valutata unitamente agli altri elementi di prova processualmente acquisiti, non per eliderne l’efficacia probatoria, ma per effettuare un confronto dialettico che in ipotesi potrebbe condurre a diverse conclusioni argomentative. 3.3.2. La relazione allegata conferma che la crisi economica risale al 2009 e non può essere qualificata quale evento imprevedibile ed imponderabile rispetto al momento in cui è scaduto il termine per il versamento. Secondo quanto rappresentato, là riduzione delle transazioni commerciali iniziò dal 2007; le altre circostanze di fatto dedotte concernono lo stato della società al 2018 ed interventi successivi alla commissione del reato, irrilevanti pertanto ai fini della decisione. Le circostanze di fatto rilevano infatti solo se incidono sull’inadempimento, se sono antecedenti alla scadenza del termine, posto che il reato contestato è omissivo ed istantaneo. 3.4. Va poi ribadito che anche nel giudizio di appello non sussiste un’automatica acquisibilità dei documenti ex art. 234 c.p.p. (cfr. in tal senso Sez. 3, n. 34949 del 03/11/2020, S., Rv. 280504, in motivazione). La giurisprudenza è costante nell’affermare che un documento può essere acquisito nel giudizio di appello anche senza un’ordinanza che disponga la rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale; ma tale acquisizione deve avvenire, a pena di inutilizzabilità ex art. 526 comma 1 c.p.p., nel giudizio d’appello sempre con il rispetto del contraddittorio, che richiede che le parti siano poste in condizione di interloquire e far valere le loro ragioni in ordine all’assunzione di una prova (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 23167601). L’acquisizione di un documento nel giudizio di appello, però, postula sempre che la prova richiesta sia rilevante e decisiva rispetto al quadro probatorio in atti (Sez. 3, n. 37879 del 23/06/2015, Pisaniello, Rv. 26502201). 4. Manifestamente infondato è il quarto motivo sul rigetto del motivo di appello con cui si chiese l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche. 4.1. La Corte di appello ha rigettato le argomentazioni difensive ritenendo prevalente la sussistenza di precedenti penali specifici: dalla sentenza di primo grado risulta infatti che l’imputato è stato condannato in via definitiva per i reati D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 10-bis (per gli anni 2006,2007, 2009) e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter (per gli anni 2006, 2007, 2008, 2009, 2011). 4.2. Tale motivazione è immune da vizi logici. In tema di applicazione delle circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271,269). Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (così Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549). Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, l’esclusione delle circostanze attenuanti generiche è adeguatamente motivata quando il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto della richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. Per Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899 – 01, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (la Corte ha ritenuto giustificato il diniego motivato nella sentenza impugnata, avendo riguardo alle ammissioni solo parziali dell’imputato e al suo comportamento non collaborativo emergente dalle intercettazioni telefoniche). La Corte di Cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269). 5. L’eccezione di legittimità costituzionale sollevata con il quinto motivo è sia irrilevante ai fini della decisione che manifestamente infondata. Le sanzioni pecuniarie amministrative si applicano nel caso in esame alla società, mentre la sanzione penale D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 10-ter è inflitta al legale rappresentante. La disciplina, per altro, è del tutto coerente con il principio di offensività tenuto conto dell’elevata soglia di punibilità e di quanto prima rappresentato rispetto all’obbligo di accantonamento, alla natura di profitto delle somme non versate ed alla necessità che esse siano destinate all’uso pubblico e non privato. 6. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Cass. pen., sez. III, ud. dep. 05.08.2021, n. 30677