Massima
Per anni la Pubblica Amministrazione, nel contesto dello Stato liberale, ha rappresentato il Potere “che toglie”, o meglio che “può togliere” ai privati; questo almeno fino a quando, giusta lenta ma inesorabile metamorfosi, lo Stato è diventato “sociale” (o del Welfare), atteggiandosi a Servizio “che dà”, anche in ottica di eguaglianza e di redistribuzione delle risorse pubbliche, specie nei settori in cui i privati non troverebbero conveniente operare; proprio per questo, lo studio dei “servizi pubblici” – ovvero, nella sostanza, di prestazioni erogate (con prototipo imprenditoriale) dal “pubblico” al “privato”, si palesa cruciale al fine di individuare e riconoscere la più moderna cifra della Pubblica Amministrazione; e massime – stante il principio di sussidiarietà interna e sovranazionale, declinato in termini tanto verticali quanto orizzontali – di quella Pubblica Amministrazione (i Comuni, le Provincie, le Città metropolitane) maggiormente “vicina” a cittadini ed utenti, vale a dire ai destinatari “localmente” primi delle ridette prestazioni; le quali ultime, per la relativa connotazione “economica” e per ciò solo avvinta al “mercato”, intersecano la materia della concorrenza e della pertinente tutela, oltre che il tema dell’accessibilità “eguale”, dello sviluppo omogeneo e della coesione sociale.
Crono-articolo
1903
Il 29 marzo viene varata la legge n.103, su disegno di legge presentato dal Ministro dell’Interno Giovanni Giolitti; si tratta, per il Regno d’Italia, della prima normativa sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni, scaturigine anche di sollecitazioni di natura sociale, avvertendosi la necessità di perseguire – giusta appunto “municipalizzazione” dei pubblici servizi – una risposta efficace alla crescente intensificazione della vita urbana, legata non solo al progressivo ingrandimento della città, ma anche alla moltiplicazione dei bisogni collettivi, cui occorre giustapporre adeguati “mezzi sociali”. La legge in parola si preoccupa tuttavia anche, su diverso crinale, di porre un argine alla tendenza dei Comuni a concedere indiscriminatamente gli impianti e l’esercizio dei servizi municipali ad imprenditori privati: una scelta politica in parte obbligata dagli investimenti ingenti – come tali difficilmente sopportabili dalle finanze comunali – che, massime nelle grandi città, l’organizzazione e la gestione di tali servizi impongono, con l’effetto tuttavia di scaricare ineludibilmente il costo del pertinente servizio sull’utenza.
La legge medesima si pone anche un obiettivo politico più generale, vale a dire il controllo da parte dello Stato del fenomeno della municipalizzazione; un numero sempre maggiore di amministrazioni comunali, sulla base di disposizioni legislative che, per taluni settori espressamente indicati, consentono l’assunzione diretta del servizio, hanno infatti attuato un sistema di municipalizzazione di tipo surrettizio, facendo luogo ad una situazione di fatto sempre meno controllabile sul piano giuridico e politico. Ciò sollecita l’intervento appunto del legislatore statale che detta minuziose prescrizioni in materia con il duplice obiettivo di regolare l’assunzione diretta dei pubblici servizi, in risposta alle crescenti esigenze economico sociali dell’epoca, e d’introdurre un sistema complesso che in un certo senso contenga e dia un assetto ordinato allo sviluppo, fino ad ora confuso e disomogeneo, del pertinente fenomeno. Lo Stato, nel tentativo di razionalizzare e uniformare sul territorio i servizi pubblici, si rende protagonista di uno sforzo finanziario notevole per sottrarre la gestione dei servizi pubblici alle concessioni private, trasferendole progressivamente ai Comuni, anche con l’aspettativa che la gestione tramite le municipalizzate si confermi “fonte di equi profitti, a sollievo dei contribuenti”, secondo una prassi che in Inghilterra ha dato buona prova di sé. Non fanno tuttavia difetto i critici della municipalizzazione, che assumono improbabile un’azienda pubblica poter essere gestita con criteri ed efficienza imprenditoriali (seppure anche per i più scettici la crescente domanda di servizi renda ormai non più rinviabile un intervento il più possibile organico e diretto da parte degli enti pubblici, ed in particolare dello Stato e dei Comuni).
La legge in parola non definisce tuttavia il “servizio pubblico”, né ne delinea i connotati essenziali a fini di pertinente individuazione, scolpendo soltanto le condizioni ed i presupposti necessari per procedere alla relativa assunzione da parte dei Comuni giusta cristallizzazione di tutta una serie di regole amministrative ed organizzative finalizzate alla gestione “diretta” dei servizi di primaria necessità, in alternativa alla concessione ai privati. L’art. 1, più in specie, enumera in modo non tassativo la maggior parte dei servizi pubblici che i Comuni possono gestire direttamente tramite la costituzione di un’azienda speciale distinta dall’amministrazione comunale, con bilanci e conti dell’azienda stessa che devono essere separati rispetto a quelli del Comune. Si tratta di un elenco, per l’appunto, almeno formalmente non tassativo ed anzi meramente dimostrativo, che rimarrà, peraltro invariato nella successiva disciplina legislativa, rappresentando la diretta conseguenza delle difficoltà, derivanti dai contrasti politici fra gli orientamenti che ne avevano accompagnato la nascita, di fornire una definizione esatta del servizio pubblico. La legge configura tuttavia, nella sostanza, un sistema che qualifica pubblico il servizio nel momento in cui questo viene “municipalizzato” con la conseguenza onde – proprio a cagione del deficit di determinatezza che soffre il concetto generale di servizio pubblico – l’elenco “dimostrativo” dell’art. 1 finisce paradossalmente con l’assumere un valore tassativo, limitando di conseguenza per il futuro le possibilità di espandere l’oggetto della municipalizzazione stessa. Importante l’art.16 del provvedimento, che introduce nel sistema il modello del c.d. servizio “in economia”, gestito direttamente dal pertinente Comune.
Dal punto di vista del management, le nuove aziende municipalizzate sono rette da una Commissione amministrativa e presiedute da un Direttore: il consiglio comunale è competente per l’assunzione diretta del pubblico servizio e per il regolamento speciale dell’azienda, i cui bilanci richiedono l’approvazione della Commissione amministrativa e, messi a disposizione degli elettori, sono poi deliberati dal consiglio comunale e approvati dalla giunta provinciale amministrativa. Gli utili netti accertati vanno devoluti al bilancio ordinario del comune mentre le eventuali perdite vanno coperte con la parte straordinaria della spesa di bilancio comunale. Il legislatore, preoccupato già allora dal verificarsi di fenomeni di distrazione e di clientelismo, sottopone poi le aziende municipalizzate al controllo prefettizio in caso di gravi e persistenti irregolarità per le quali può disporsi financo il decreto di revoca. I servizi di non grande rilevanza possono essere riuniti e svolti da un’unica azienda; più Comuni possono poi consorziarsi per gestire i servizi pubblici dei loro territori.
La legge 103 si pone dunque degli obiettivi fondamentali, primo fra tutti quello di consentire ai Comuni di assumere per via ordinaria la gestione diretta dei servizi pubblici, tramite l’istituzione all’uopo di aziende speciali; altro obiettivo è quello di promuovere, più a monte, l’assunzione di responsabilità da parte dei Comuni nella valutazione della convenienza economica della gestione diretta dei servizi pubblici (assunzione di responsabilità peraltro estesa ai cittadini, chiamati a pronunciarsi in merito – art.13 – mediante un istituto molto simile al referendum, per la prima volta utilizzato in Italia). Altro obiettivo della legge è quello di prevedere il controllo da parte delle autorità comunali, ed anche governative, sul funzionamento e sull’andamento di gestione delle municipalizzate, favorendo peraltro l’assunzione da parte dei Comuni della gestione diretta dei servizi pubblici giusta introduzione di specifiche agevolazioni finanziarie (anche nel particolare caso di riscatto di un servizio pubblico dato in concessione, successivamente revocata).
Il servizio pubblico prende dunque ad assumere ex lege una propria, autonoma dimensione, benché sia ancora difficile distinguerlo dalla funzione pubblica, in quanto la linea di confine tra i comportamenti di spettanza pubblica necessaria e quelli indispensabili per il benessere della collettività non viene tracciata (né del resto lo sarà mai a livello normativo ed ordinamentale). Non a caso, il problema viene affrontato più che sul piano teorico della ripartizione dei compiti pubblici, su quello operativo degli strumenti giuridici utilizzati per realizzarli, giungendo alla conclusione che, mentre per organizzare la gestione e l’erogazione dei servizi pubblici è necessario ricorrere a moduli e mezzi mutuati dalle scienze tecno-aziendalistiche, per il disimpegno di funzioni pubbliche campeggiano piuttosto modelli ispirati alle scienze burocratico-amministrative
1904
Il 10 marzo viene varato il R.D. n.108, recante regolamento per l’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni.
1923
Il 30 dicembre viene varato il R.D. n.3047 che, seppure entro precisi limiti, consente anche alle Provincie l’assunzione di taluni pubblici servizi; lo stesso provvedimento autorizza poi il Governo a riunire e coordinare in un testo unico l’intera disciplina della materia dei servizi pubblici “municipalizzati”, anche con riguardo a norme dettate eventualmente in via successiva.
1925
Il 15 ottobre viene varato il R.D. n.2578, testo unico sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province, che per decenni, anche dopo la caduta del regime, costituirà la disciplina fondamentale della materia, ferme restando le norme di esecuzione ancora contenute nel regolamento del 1904. Secondo il testo unico, l’assunzione da parte del Comune di determinate attività di prestazione (i “servizi” appunto), il cui esercizio sia giudicato di interesse pubblico, è da assumersi libera qualora il servizio debba essere condotto in regime concorrenziale alle imprese private, mentre è da assumersi soggetta a limiti se debba invece svolgersi in regime di monopolio: in tale ultima evenienza, la possibilità di assumere il servizio con diritto di privativa comporta difatti una evidente compressione dei diritti privati, dovendo dunque avere luogo per legge; in particolare per gli enti pubblici minori (Comuni e Province) l’assunzione in monopolio può avvenire per deliberazione degli organi dell’ente soltanto per quei servizi per il quale la legge formale espressamente prevede questa possibilità.
Viene confermato il carattere semplicemente “dimostrativo” dell’indicazione dei servizi “pubblici” dei quali i Comuni possono assumere la gestione diretta, con pertinente elenco dunque dal valore esemplificativo e non tassativo, stante la sostanziale “evanescenza” della nozione di pubblico servizio, massime se riguardata proprio agli effetti della c.d. “municipalizzazione”. I servizi municipalizzati possono poi essere amministrati dagli enti pubblici territoriali o in regime di “gestione diretta”, vale a dire a cura degli stessi organi dell’Ente, ovvero giusta concessione erogata a privati. La gestione diretta, più in specie, può svolgersi “in economia” ovvero con la costituzione di apposite “aziende speciali”, il servizio in economia palesandosi ammesso – di regola – per taluni servizi (espressamente contemplati all’art. 1) ovvero per altri di minore importanza in ambito comunale; la gestione in economia viene inoltre assunta preferibile rispetto alla costituzione di un’azienda speciale per quei servizi che non rivestano carattere prevalentemente industriale; per taluni servizi di non grande importanza o di tale natura da potersi “riunire convenientemente”, può poi essere costituita un’unica azienda speciale, mantenendo tuttavia separata le contabilità relativa a ciascuno dei servizi riuniti.
Per quanto concerne ancora il servizio in economia, secondo l’art.15 del T.U. e a formale garanzia del pubblico interesse nel caso dei servizi comunali, per la relativa assunzione è prevista una complessa procedura, poi semplificata durante il periodo fascista dall’ordinamento c.d. “podestarile” laddove non si configurino situazioni di incompatibilità; i comuni possono assumere la gestione di alcuni dei servizi in regime di monopolio (trasporti funebri, macelli pubblici e mercati; distribuzione del latte) ovvero, di fatto, di quei servizi che richiedono l’uso di beni del demanio comunale, mentre tra i servizi non indicati espressamente nei testi legislativi che più di frequente i Comuni tendono ad assumere va rammentato, per importanza, quello dell’istruzione elementare e secondaria. La municipalizzazione del servizio si ottiene attraverso una delibera del consiglio comunale ed è soggetta al controllo di merito del comitato regionale di controllo, ai sensi dell’art. 19 del T. U.. Particolari indennizzi sono poi previsti all’art.24 per i casi in cui si incida sui diritti di precedenti concessionari.
Le aziende speciali vengono disegnate quali titolari della capacità di compiere tutti i negozi giuridici necessari per il raggiungimento del loro fine, oltre che del potere di stare in giudizio per le azioni che ne conseguono; vengono assoggettate alla vigilanza del consiglio comunale, che ne scandaglia l’andamento gestionale. Esse sono rette da regolamenti speciali e godono di un regime analogo a quello delle aziende autonome statali onde, pur facendo parte dell’organizzazione del Comune di riferimento e pur non essendo persone giuridiche, vengono dotate di una considerevole autonomia amministrativa, il difetto di personalità giuridica comportando peraltro la responsabilità del Comune per le eventuali passività maturate; gli utili netti dell’azienda, accertati dal conto approvato e detratto quanto si assume di destinare al miglioramento ed allo sviluppo della azienda stessa, oltre che a ridurre le tariffe dei servizi, vengono devoluti al bilancio comunale nei modi e nei tempi stabiliti dai regolamenti speciali delle singole aziende; alle perdite si fa fronte col fondo di riserva e, in caso di relativa insufficienza, con appositi stanziamenti nella parte straordinaria della spesa del bilancio comunale. Le aziende speciali sono governate da una commissione amministratrice eletta dal consiglio comunale ed hanno quale organo esecutivo un direttore, impiegato nominato dalla commissione con pubblico concorso, per un triennio e con possibilità di rinnovo del pertinente rapporto; i bilanci e le deliberazioni relative alle spese vengono assoggettate alle verifiche del consiglio comunale e del comitato regionale di controllo, che ha il potere di annullare le deliberazioni eventualmente illegittime.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.357, agli effetti della legge penale, sono considerati pubblici ufficiali tutti coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa (comma 1), mentre agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Stando poi al successivo art.358, agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio – che dunque si distingue da una pubblica funzione – coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio (comma 1), e per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale. La distinzione è importante anche in considerazione del fatto che talune fattispecie sanzionano penalmente entrambe le categorie di soggetti (pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio), mentre altre si limitano a punire i soli pubblici ufficiali, con esclusione dunque di chi presti un pubblico servizio (e non una pubblica funzione).
Su altro crinale, l’art.330 punisce l’abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori; il successivo art.331 punisce l’interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità, onde è punito chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei propri stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, con pene aggravate per i capi, promotori od organizzatori e per chi commette il fatto per fine politico ovvero determinando dimostrazioni, tumulti o sommosse popolari. Ancora, il successivo art.332 punisce il pubblico ufficiale o il dirigente un servizio pubblico o di pubblica necessità, che, in occasione di alcuno dei delitti preveduti dai due articoli precedenti, ai quali non abbia preso parte, rifiuta od omette di adoperarsi per la ripresa del servizio a cui è addetto o preposto, ovvero di compiere ciò che è necessario per la regolare continuazione del servizio, mentre l’art.333 incrimina l’abbandono individuale di un pubblico ufficio, servizio o lavoro.
1938
Il 16 giugno viene varata la legge n.851, recante norme per l’impianto ed il funzionamento delle «centrali del latte».
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, il cui art.1679, rubricato “pubblici servizi di linea” e dettato in tema di contratto di trasporto, prevede significativamente che coloro i quali in forza di concessione amministrativa esercitano servizi di linea per il trasporto di persone o di cose sono obbligati a accettare le richieste di trasporto che siano compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa, secondo le condizioni generali stabilite o autorizzate nell’atto di concessione e rese note al pubblico (comma 1); inoltre, i trasporti devono eseguirsi secondo l’ordine delle richieste, ed in caso di più richieste simultanee, deve essere preferita quella di percorso maggiore (comma 2); se poi le condizioni generali ammettono speciali concessioni, il vettore è obbligato ad applicarle a parità di condizioni a chiunque ne faccia richiesta (comma 3) e, salve le speciali concessioni ammesse dalle condizioni generali, qualunque deroga alle medesime è nulla, e alla clausola difforme è sostituita la norma delle condizioni generali. Dalla norma affiora prepotente il principio della pari accessibilità dell’utenza al servizio pubblico di trasporto, che costituirà uno dei cardini della disciplina dei servizi pubblici, specie locali. Da rammentare anche il disposto dell’art.2951, secondo il cui comma 4 si prescrivono in un anno dalla richiesta del trasporto (prescrizione breve) i diritti vantati verso gli esercenti i pubblici servizi di linea indicati dall’articolo 1679.
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, il cui art.5 – inserito tra i principi fondamentali – prevede che la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali ed attua, nei servizi che dipendono dallo Stato, il più ampio decentramento amministrativo (adeguando i principî ed i metodi della propria legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento).
Per il successivo art.43, a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali (oltre che a fonti di energia o a situazioni di monopolio) e che abbiano carattere di preminente interesse generale.
Alla stregua poi dell’art.110, ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministero della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
1957
Il 25 marzo viene firmato a Roma il Trattato istitutivo della CEE, secondo il cui art.90, in primo luogo, gli Stati membri non emanano ne mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente Trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 7 e da 85 a 94 inclusi (comma 1), in materia dunque di concorrenza; nondimeno, le imprese incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del Trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, (solo) nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata, lo sviluppo degli scambi non dovendo essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità (comma 2); la Commissione viene infine incaricata di vigilare sull’applicazione delle disposizioni di questo articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri opportune direttive o decisioni.
1969
Il 29 dicembre viene varata la legge n.1042, recante disposizioni concernenti la costruzione e l’esercizio di ferrovie metropolitane.
1970
Il 15 maggio viene varata la legge n.308, recante modifica dell’articolo 5 del testo unico 15 ottobre 1925, n. 2578, sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e delle province, alla cui stregua ad ogni rinnovo del consiglio comunale viene modificata la commissione amministratrice eletta dal consiglio comunale stesso per governare ciascuna azienda speciale.
1982
Il 26 febbraio viene varata la legge n.51, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, recante disposizioni in materia di finanza locale. Viene aggiunto all’originario decreto legge, tra gli altri, un articoli 27 nonies onde, a partire dall’esercizio 1982, il conto consuntivo delle aziende pubbliche locali va sottoposto all’esame di un collegio di revisori dei conti nominato dal Consiglio dell’ente locale e composto di 3 membri scelti fra gli iscritti agli ordini professionali provinciali dei dottori commercialisti e ragionieri e tra persone di comprovata esperienza tecnico-amministrativa. Il collegio elegge poi nel proprio seno un presidente. Tali revisori dei conti possono essere invitati alle sedute della commissione amministratrice dell’azienda senza diritto di voto ed al collegio dei revisori spetta di vigilare sulla regolarità contabile ed in generale sulla gestione economico-finanziaria dell’azienda, nonché di attestare la corrispondenza del rendiconto alle risultanze delle scritture contabili, redigendo apposita relazione nella quale siano evidenziate le corrette valutazioni di bilancio ed in particolare degli ammortamenti, accantonamenti, ratei e risconti. Nelle aziende pubbliche locali con almeno 100 dipendenti o con un volume di ricavi superiore a 5 miliardi di lire, il collegio, affiancato da tre esperti del settore, o da certificatori o da una società di certificazione, scelti dall’ente proprietario, oltre ad esercitare le funzioni ridette, ogni triennio redige una relazione per il Consiglio dell’ente locale, in cui sono quantificati in termini economici i dati della gestione aziendale e le possibili soglie ottimali di rendimento, in riferimento a parametri nazionali elaborati dalle associazioni nazionali di categoria.
1990
L’8 giugno viene varata la legge n.142, recante ordinamento delle autonomie locali, il cui art.22, rubricato “Servizi pubblici locali” prevede – inaugurando, ratione materiae e nell’ambito di una profonda revisione della pertinente disciplina, la c.d. Fase 1 – che i comuni e le province, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali (comma 1). I servizi riservati in via esclusiva ai comuni e alle province sono stabiliti dalla legge (comma 2), ed essi possono gestire i servizi pubblici (comma 3) nelle seguenti forme: a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una azienda; b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale; c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; d) a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; e) a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. L’Ente pubblico locale viene dunque chiamato a scegliere la forma di gestione dei servizi pubblici parametrando tale scelta alla natura del singolo servizio, con valutazioni ampiamente discrezionali che si calibrano sugli obiettivi programmati in ottica di migliore perseguimento dell’interesse pubblico che al singolo servizio è sotteso; quando tale servizio si compendia in una attività di tipo imprenditoriale, quale attività economica orientata alla produzione e allo scambio di beni o servizi, l’Ente pubblico locale può esternalizzarlo affidandolo in concessione, ovvero gestirlo attraverso una “azienda speciale” ovvero ancora giusta costituzione di una società per azioni a prevalente capitale pubblico locale.
Stando poi al successivo art.23, rubricato “aziende speciali ed istituzioni”, mentre l’azienda speciale e’ ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal Consiglio comunale o provinciale (comma 1), l’istituzione e’ organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali, dotato di autonomia gestionale (comma 2). Organi dell’azienda e dell’istituzione sono il consiglio di amministrazione, il presidente e il direttore, al quale compete la responsabilità gestionale; le modalità di nomina e revoca degli amministratori sono stabilite dallo statuto dell’ente locale (comma 3). L’azienda e l’istituzione informano la loro attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità ed hanno l’obbligo del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i trasferimenti (comma 4). Nell’ambito della legge (comma 5), l’ordinamento ed il funzionamento delle aziende speciali sono disciplinati da uno statuto e da regolamenti propri di ciascuna azienda speciale; quelli delle istituzioni sono disciplinati dallo statuto e dai regolamenti dell’Ente locale da cui dipendono. L’Ente locale conferisce il capitale di dotazione; determina le finalità e gli indirizzi; approva gli atti fondamentali; esercita la vigilanza; verifica i risultati della gestione; provvede alla copertura degli eventuali costi sociali (comma 6). Infine, il collegio dei revisori dei conti dell’ente locale esercita le proprie funzioni anche nei confronti delle istituzioni, mentre lo statuto dell’azienda speciale – dotata di maggiore autonomia rispetto all’istituzione – prevede un apposito organo di revisione, nonché forme (per l’appunto) autonome di verifica della gestione (comma 7).
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Il 12 giugno viene varata la legge n.146, recante norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati ed istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge stessa.
Il relativo art.11 abroga gli articoli 330 e 333 del codice penale, con dubbia residua applicabilità alla fattispecie, ancora punita, di interruzione di pubblico servizio ex art.331 c.p., dell’aggravante di cui all’ultimo comma dell’art.330, dalla medesima legge invece abrogato e riguardante la circostanza in cui il fatto venga commesso per fine politico ovvero determinando dimostrazioni, tumulti o sommosse popolari.,
Il successivo art.12 istituisce appunto la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge, al fine di valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati.
1992
Il 7 febbraio viene firmato a Maastricht il Trattato che trasforma la CEE in CE, e che si occupa – in particolare all’art.86 (ex art.90) del TCE (ex TCEE) – dei servizi d’interesse economico generale (SIEG). Essi sono più nel dettaglio menzionati in 2 disposizioni: 1) l’articolo 16 del Trattato CE, che affida alla Comunità e agli Stati membri la responsabilità di assicurare, attraverso le loro politiche, che i servizi d’interesse economico generale possano assolvere i loro compiti: la norma enuncia un importante principio senza tuttavia fornire alla Comunità alcuno strumento d’azione specifico; 2) l’articolo 86, paragrafo 2 del Trattato CE, che riconosce implicitamente agli Stati membri il diritto di imporre specifici obblighi di servizio pubblico agli operatori economici: esso stabilisce un principio fondamentale garantendo che i servizi di interesse economico generale (SIEG) possano continuare ad essere prestati e sviluppati nel mercato comune; i prestatori di servizi di interesse generale sono esentati dal rispetto delle norme del Trattato nella misura in cui ciò sia strettamente necessario per l’assolvimento della loro missione di interesse generale, onde, in caso di controversia, l’assolvimento di una missione di servizio pubblico può effettivamente prevalere sull’applicazione delle norme comunitarie, comprese quelle in materia di mercato interno e concorrenza.
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Il 23 dicembre viene varata la legge n.498, recante interventi urgenti in materia di finanza pubblica, il cui art.12 apporta consistenti modificazioni all’art.22 della legge 142.90, con particolare riguardo a quella peculiare forma di gestione del servizio pubblico locale compendiatesi nella costituzione di una s.p.a. mista, che non deve più necessariamente essere a prevalente capitale pubblico, potendo dunque la pertinente maggioranza anche essere in mano a privati.
1997
Il 15 maggio viene varata la legge n.127, il cui art. 17, comma 58, modifica l’art. 22, comma 3, lettera e) della legge 142.90, onde la gestione dei servizi pubblici locali da parte dei Comuni e delle Provincie può avvenire anche a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati: in sostanza, lo strumento societario può essere anche una s.r.l. (oltre ad una s.p.a.), e tuttavia la società – quale che essa sia – va costituita o partecipata dall’Ente (pubblico) titolare del pubblico servizio, vedendo così la luce il fenomeno delle c.d. società miste, con partecipazione pubblico-privata, per la gestione di un servizio pubblico.
1999
Il 25 giugno viene varata la legge n.205, recante delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario, il cui art.18 abroga l’art.332 del codice penale in tema di omissione di doveri di ufficio in occasione di abbandono di un pubblico ufficio o di interruzione di un pubblico servizio.
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Il 30 luglio viene varato il decreto legislativo n.286, recante riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59. Particolarmente importante il Capo III dedicato alla qualità dei servizi pubblici e alle carte dei servizi: l’art.11, al comma 1, afferma significativamente che i servizi pubblici nazionali e locali sono erogati con modalità che promuovono il miglioramento della qualità e assicurano la tutela dei cittadini e degli utenti e la loro partecipazione, nelle forme, anche associative, riconosciute dalla legge, alle inerenti procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi.
2000
L’11 aprile viene varata la legge n.83, il cui art.15, comma 1, introduce nella legge 146.90 un nuovo art.20 bis alla cui stregua contro le deliberazioni della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali in materia di sanzioni è ammesso ricorso al giudice del lavoro
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Il 20 settembre viene varata la Comunicazione della Commissione europea sui servizi di interesse economico generale (c.d. SIEG), che li definisce significativamente come quell’insieme di “prestazioni” che si distinguono dalle altre attività di impresa sul presupposto onde l’Autorità pubblica ritiene che esse debbano essere fornite anche laddove il mercato non scorga sufficienti ragioni per assumerne la produzione.
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Il 18 agosto viene varato il decreto legislativo n.267, recante Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (c.d. TUEL), il cui art.112, al comma 1, afferma significativamente che gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali di riferimento. Il successivo comma 2 afferma poi che i servizi riservati in via esclusiva ai comuni e alle province sono stabiliti dalla legge, scolpendo dunque un principio di “tipicità” dei servizi pubblici locali “riservati”. Infine, alla stregua del comma 3 ai servizi pubblici locali si applica il capo III del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, relativo alla qualità dei servizi pubblici locali e alle carte dei servizi. Importante anche l’art.113 del TUEL, nel quale confluisce la disciplina di cui all’abrogato art.22 della legge 142.90.
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Il 7 dicembre viene proclamata a Nizza la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea o Carta di Nizza (CDFUE), secondo il cui articolo 36 l’Unione riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione stessa.
2001
Il 3 settembre esce la sentenza della V Sezione del Consiglio di Stato n.4586 che si occupa delle società miste e della possibilità per le stesse di svolgere attività “extra moenia” rispetto alla gestione del servizio pubblico a favore della collettività di riferimento della quale è esponenziale l’Ente locale che ha istituito la singola società mista e che partecipa al pertinente capitale sociale. Per il Consiglio non è possibile in modo rigido assimilare la società mista né all’azienda speciale, pubblicisticamente votata alla propria collettività di riferimento, né ad un qualunque operatore imprenditoriale privato in grado – come tale – di operare senza alcun vincolo territoriale rispetto alla funzionalizzazione pubblicistica che ne ha costituito la scaturigine istitutiva con riguardo ad una specifica collettività territorialmente localizzata. Diversamente da quanto accade per una azienda speciale, al cospetto di una società mista il vincolo funzionale non può a priori compendiare una ragione ostativa all’assunzione (anche) di attività extra moenia, massime quando tali attività siano compatibili con quella istituzionalmente disimpegnata dalla società mista in favore del “proprio” Ente locale di riferimento, che in quanto socio può a determinate condizioni vedersi garantito un ritorno del capitale investito da tale gestione extraterritoriale, capace di giovare alla stessa gestione del servizio pubblico locale “di partenza”. Su questo crinale, deve assumersi pienamente ammissibile per il Collegio che una società mista riferita ad un Ente locale A possegga una partecipazione finanziaria di minoranza in altra società mista riferita ad un diverso Ente locale B, dacché simile fattispecie non implica una rilevante distrazione di mezzi e di risorse a discapito della collettività territoriale di originario riferimento (A), e non fa dunque luogo a quel paventato depauperamento dell’organizzazione societaria operante a servizio del Comune istitutore (A).
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Il 18 ottobre viene varata la legge costituzionale n.3, il cui art.3 – nel quadro della riforma del Titolo V della Costituzione – muta l’art.117 della Costituzione, riservando in particolare alla legislazione esclusiva dello Stato (comma 2, lettera m) la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
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Il 28 dicembre viene varata la legge n.448 (legge finanziaria per l’anno 2002), il cui art.35, comma 12, lettera c) abroga il comma 2 dell’art.112 del TUEL (decreto legislativo 267.00) sui servizi pubblici locali c.d. riservati. Più in generale, l’art.35 innova profondamente il quadro normativo di riferimento in tema di servizi pubblici locali, varando una vera e propria Fase 2 in materia, giusta riformulazione dell’art.113 del TUEL e contestuale introduzione di un nuovo art.113 bis, distinguendo i servizi pubblici locali a rilevanza industriale da quelli non a rilevanza industriale.
Quando un servizio pubblico ha rilevanza industriale, alla stregua dell’art.113, comma 5 la relativa erogazione, da svolgere in regime “competitivo” di concorrenza, avviene secondo le discipline di settore, con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pubblica, rendendosi dunque obbligatoria la competizione (e la connessa “evidenza pubblica”) per individuare il pertinente gestore del servizio, superandosi il precedente regime che consentiva l’affidamento diretto a società miste con partecipazione pubblica da parte dell’Ente locale.
Allorché invece un servizio pubblico locale non abbia rilevanza industriale, la norma di riferimento è il nuovo art.113 bis del TUEL alla cui stregua, in generale, esso viene affidato e gestito secondo un modello che non è la società di capitali selezionata a valle di una gara: è piuttosto ammissibile l’affidamento diretto a favore di istituzioni, aziende speciali e società di capitali costituite o partecipate da Enti locali e disciplinate dal codice civile.
2002
Il 10 marzo viene varata la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche Comunitarie, alla cui stregua l’affidamento e la gestione di un servizio pubblico, quantunque non siano fenomeni regolati dalle Direttive in materia di appalti, soggiacciono in ogni caso ai canoni della concorrenza e del confronto competitivo che possono assumersi evincibili direttamente dal Trattato europeo. Per la Circolare occorre peraltro distinguere gli appalti pubblici di servizi dall’affidamento di pubblici servizi, in quest’ultimo prevalendo (a differenza del primo, nel quale è assente) la diretta funzionalizzazione dell’attività svolta dal titolare ed affidatario del servizio al soddisfacimento di bisogni dell’utenza, sulla base di una attività di gestione del servizio medesimo i cui proventi remunerano i pertinenti costi di erogazione.
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Il 27 dicembre viene varato il decreto legislativo n.302, recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, il cui art.1 introduce nell’art.43 del testo unico ridetto un nuovo comma 6 bis, onde – ai sensi dell’articolo 3 della legge 1 agosto 2002, n. 166 – la PA espropriante può procedere ai sensi dei comma precedenti (e dunque facendo luogo ad una acquisizione sanante), disponendo, con oneri di esproprio a carico dei soggetti beneficiari, l’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono, anche in base alla legge, servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua, energia.
2003
Il 21 maggio viene varato il Libro verde della Commissione europea sui servizi di interesse generale (c.d. SIG). La Commissione precisa che l’espressione “servizi di interesse generale” non è presente nel Trattato, ma nella prassi comunitaria compendia una derivazione dall’espressione “servizi di interesse economico generale”, che è invece presente nel Trattato. Si tratta di una espressione più ampia di quella di “servizi di interesse economico generale” e riguarda tanto i servizi di mercato quanto quelli non di mercato, che le Autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico. Per la Commissione i servizi d’interesse generale sono parte dei valori condivisi da tutte le società europee e costituiscono un tratto essenziale del modello europeo di società; il loro ruolo è fondamentale per migliorare la qualità di vita di tutti i cittadini e per superare l’emarginazione e l’isolamento sociali.
Ne costituiscono una sottocategoria, per l’appunto, i servizi d’interesse economico generale che sono citati in tre disposizioni: 1) l’articolo 16 del Trattato CE, che affida alla Comunità e agli Stati membri la responsabilità di assicurare, attraverso le loro politiche, che i servizi d’interesse economico generale possano assolvere i loro compiti; tale articolo enuncia peraltro solo un principio, ma non fornisce alla Comunità alcuno strumento d’azione specifico; 2) l’articolo 86, paragrafo 2 del Trattato CE, che riconosce implicitamente agli Stati membri il diritto di imporre specifici obblighi di servizio pubblico agli operatori economici; esso stabilisce un canone fondamentale che garantisce che i servizi di interesse economico generale possano continuare ad essere prestati e sviluppati nel mercato comune; i prestatori di servizi di interesse generale sono esentati dal rispetto delle norme del Trattato nella misura in cui ciò sia strettamente necessario per l’assolvimento della loro missione di interesse generale onde, in caso di controversia, l’assolvimento di una missione di servizio pubblico può effettivamente prevalere sull’applicazione delle norme comunitarie, comprese quelle in materia di mercato interno e concorrenza; 3) l’articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo il quale l’Unione riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione stessa.
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Il 30 settembre viene varato il decreto legge n.269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici, che inaugura la Fase 3 in tema di servizi pubblici locali. Ciò giusta nuova formulazione dell’art.113 del TUEL, operata dall’art.14 del decreto legge, con superamento della distinzione tra servizi pubblici locali a rilevanza industriale e non industriale e relativa sostituzione con quella tra servizi pubblici locali “a rilevanza economica” e “non a rilevanza economica”.
Per l’affidamento di un servizio pubblico locale a rilevanza economica occorre di regola indire e svolgere una gara ad evidenza pubblica orientata ad individuare la società di capitali alla quale, per l’appunto, affidare tale servizio; si tratta di una regola che nondimeno, alla stregua del novellato art.113, comma 5, del TUEL, soffre due rilevanti eccezioni, non essendo richiesta la gara (con conseguente possibilità di addivenire ad affidamento diretto del servizio) quando l’interlocutore individuato per la gestione sia una società a capitale misto pubblico privato nella quale il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure di evidenza pubblica, che abbia dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; nonché quando sempre l’interlocutore privato individuato per la gestione sia una società a capitale interamente pubblico, a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del pertinente capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti pubblici che la controllano (c.d. in house providing).
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Il 24 novembre viene varata la legge n.326 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.269.
2004
Il 27 luglio esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.272, che si occupa del riparto tra lo Stato e le Regioni della potestà legislativa in materia di servizi pubblici locali. La Corte dichiara incostituzionale – per invasione della sfera di competenza legislativa regionale – l’art.113 del TUEL (decreto legislativo 267.00), ed in particolare il relativo comma 7 in tema di disciplina dei criteri per lo svolgimento delle gare per l’affidamento dei servizi pubblici locali, nonché l’art.113 bis del ridetto TUEL in tema di disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici non economici.
Per la Consulta, la materia dei servizi pubblici locali non va ricondotta alle funzioni fondamentali degli Enti locali, tenuto conto della circostanza onde la gestione di tali servizi non può assumersi esplicazione, per l’appunto, di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale; la medesima materia (servizi pubblici locali) non è neppure riconducibile alla determinazione dei livelli minimi inerenti le prestazioni essenziali a tutela dei diritti civili e sociali (giacché concerne precipuamente servizi di rilevanza economica e comunque non riguarda la determinazione, per l’appunto, di pertinenti “livelli essenziali”).
Si tratta piuttosto di un ambito da ricondursi all’altra materia, a connotazione “trasversale”, di “tutela della concorrenza” ex art.117, comma 2, lettera e) della Costituzione, dunque di legislazione statale esclusiva, dovendo peraltro accogliersi una ermeneusi ampia della nozione “tutela della concorrenza”, che come tale facoltizza il legislatore statale ad intervenire per promuovere, per l’appunto, situazioni di concorrenza. Si può in proposito isolare una nozione di tutela della concorrenza in senso statico, quale garanzia di interventi di regolazione e di ripristino di un equilibrio concorrenziale ormai perduto, ed una nozione di tutela della concorrenza in senso dinamico, di ascendenza sovranazionale, capace come tale di legittimare interventi pubblici orientati a ridurre squilibri e a favorire le condizioni per un adeguato sviluppo del mercato, oltre che a instaurare assetti concorrenziali.
Proprio muovendo da questi presupposti, vanno per la Corte assunte legittime le disposizioni di cui all’art.14 del decreto legge 269.03, orientate a creare situazioni di concorrenzialità all’interno di un mercato pure in larga parte monopolistico, come tali riconducibili alla materia della tutela e della promozione della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva statale; sempre per la Corte va invece assunta contraria a Costituzione la disciplina di cui all’art.113, comma 7, del TUEL, laddove vengono indicati i criteri per lo svolgimento delle gare finalizzate ad affidare servizi pubblici locali in modo puntuale e con tecnica auto-applicativa, attraverso una disciplina così dettagliata da ledere, invadendola, la competenza legislativa delle Regioni.
2006
Il 3 aprile viene varato il decreto legislativo n.152, c.d. codice dell’ambiente, il cui art.154, comma 1, si occupa della tariffa del c.d. servizio idrico integrato. Si tratta di una tariffa che costituisce appunto il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità di ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio “chi inquina paga”.
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Il 4 luglio viene varato il D.L. n.223 (c.d. Decreto Bersani), secondo il cui art.13 – al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori – le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate da Amministrazioni pubbliche regionali o locali per la produzione di beni o servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non potendo svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. Il tenore equivoco della disposizione fa nascere la questione se il divieto di attività extra moenia espressamente sancito dal ridetto art.13 riguardi le sole società c.d. strumentali rispetto all’attività dell’Ente locale, e dunque preposte a fornire beni o servizi all’Ente stesso che ne detiene in tutto o in parte il capitale azionario, ovvero riguardi anche le società che gestiscono servizi pubblici, e che dunque dispiegano la relativa attività a favore della cittadinanza dell’Ente locale di riferimento.
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Il 4 agosto viene varata la legge n.248 che converte con modificazioni il decreto legge n.223.
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Il 13 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.7369 alla cui stregua la genericità dell’art.112 TUEL si spiega con la circostanza onde gli enti locali, ed il Comune in particolare, sono enti a fini generali dotati di autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria (art.3 TUEL), nel senso che essi hanno la facoltà di determinare da sé i propri scopi e, in particolare, di decidere quali attività di produzione di beni ed attività, purché genericamente rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile della comunità locale di riferimento, assumere come doverose. Proprio muovendo da questo presupposto, vanno qualificate “servizio pubblico locale” quelle attività caratterizzate, sul piano oggettivo, dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile – scopi, come tali, selezionati in base a scelte di carattere eminentemente politico quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all’ambito di intervento – e, su quello soggettivo, dalla riconduzione diretta o indiretta (per effetto dei rapporti concessori o di partecipazione all’assetto organizzativo dell’ente) ad una figura soggettiva di rilievo pubblico. In sostanza, ciascun ente locale può dunque per il Consiglio autonomamente valutare – parametrandola con lo specifico contesto socio economico e territoriale di riferimento – la decisione di assumere un servizio, decisione che tuttavia può ritenersi giustificata solo allorché la pertinente attività si orientata al soddisfacimento di bisogni fondamentali affioranti per l’appunto dalla comunità locale di riferimento.
2007
Il 13 dicembre viene firmato a Lisbona il Trattato che trasforma la CE in UE, e che prevede all’art.106 del TFUE (ex TCE) come le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale siano sottoposte alle norme del TFUE appunto, ed in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata.
2008
Il 25 giugno viene varato il decreto legge n.112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita’, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, con il cui noto art.23 bis si apre la Fase 4 in materia di servizi pubblici locali, orientata a far invalere nel pertinente settore l’imprescindibile applicazione dei principi sovranazionali in materia di tutela del mercato e della concorrenza e di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi da parte di tutti gli operatori economici del settore, coniugandola con la garanzia per gli utenti della universalità dei servizi pubblici locali e della relativa accessibilità, stante anche l’art.117, comma 2, rispettivamente, lettera e) in materia di tutela della concorrenza e lettera m) in tema di livello essenziale delle prestazioni da erogarsi. Secondo l’art.23 bis occorre distinguere una modalità ordinaria di affidamento della gestione del servizio pubblico locale (comma 2), giusta procedure competitive ad evidenza pubblica nel rispetto del Trattato e dei principi generali in tema di contratti pubblici; ed una (tipologicamente generica) modalità in deroga (comma 3), laddove ricorrano situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato, purché comunque rispettose dei principi della disciplina comunitaria, dovendo in simili casi l’Ente locale erogante (comma 4) dare adeguata pubblicità alla scelta giusta motivazione sulla base di una analisi di mercato e contestuale trasmissione di una relazione sugli esiti di tale verifica all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e alle Autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere, da parte di queste ultime, entro 60 giorni dalla ricezione della relazione dell’Ente. I tre prototipi di affidamento del pubblico servizio locale di cui all’art.113, comma 5, del TUEL diventano ora due, uno ordinario ed uno, per l’appunto, in deroga.
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Il 6 agosto viene varata la legge n.133 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.112.
2009
Il 24 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.246, alla cui stregua – expressis verbis – il servizio idrico integrato, in quanto destinato ad inserirsi in uno specifico e peculiare mercato, deve assumersi servizio con rilevanza economica in relazione al quale va riconosciuta la competenza legislativa esclusiva dello Stato, trattandosi della materia “tutela della concorrenza”.
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Il 25 settembre viene varato il decreto legge n.135, recante disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita’ europee (c.d. decreto legge “salva-infrazioni”), che porta a compimento la Fase 4 in materia di servizi pubblici locali laddove, con il relativo art.15, cerca di scongiurare la eccessiva genericità dell’art.23 bis del d.l. n.112.08 quanto ai c.d. affidamenti “in deroga”, chiarendo in primo luogo, espressamente, che tra le ridette modalità derogatorie di affidamento va annoverato il modello del c.d. in house providing, al quale può ricorrersi in situazioni ora specificamente definite “eccezionali” che – giusta peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento – non consentono un efficace ed utile ricorso al mercato. Proprio perché la deroga con ricorso all’in house va assunta eccezionale, occorre che l’Ente locale che intende ricorrervi la pubblicizzi adeguatamente e la motivi sulla base di una analisi di mercato che renda evidenti le condizioni che ne legittimano la scelta, con necessità di un parere preventivo dell’AGCM sulla base degli esiti della verifica, siccome consacrati nella relazione all’uopo trasmessale dall’Ente locale, con possibilità nondimeno – decorsi i 60 giorni dalla ricezione della relazione senza un pronunciamento espresso dell’Autorità – della formazione di un silenzio assenso. Muta anche la disciplina dell’affidamento a società miste, giusta novellazione dell’art.23 bis, comma 2, del d.l. n.112.08, venendone esplicitata l’ammissibilità e, tuttavia, tra le modalità ordinarie (e non già derogatorie) di affidamento di un servizio pubblico locale, al medesimo livello dunque della ordinaria procedura di gara per la selezione del pertinente affidatario e senza necessità di motivare particolarmente la scelta, operata dall’Ente, di affidare il servizio ad una s.p.a. mista., con la precisazione che occorre la previa gara sia per individuare il socio privato della ridetta società mista che, poi, per affidarle il servizio, mettendola dunque in competizione con altri operatori del settore e sconfessando quell’orientamento inteso ad assumere necessaria la gara solo “a monte”, per la selezione del socio privato. Sempre in tema di affidamento “ordinario” a società miste, il nuovo comma 2 dell’art.23 bis prevede una lettera b) alla cui stregua il socio privato deve indefettibilmente possedere almeno il 40% del capitale della società mista pertinente, così palesandosi l’intenzione del Legislatore di aprire alla concorrenza il mercato dei servizi pubblici locali.
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Il 20 novembre viene varata la legge n.166 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.135.
2010
Il 7 settembre viene varato il D.p.R. n.168, recante regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n.133. Si tratta del c.d. regolamento di attuazione dell’art.23 bis, il cui obiettivo disciplinare è quello di meglio attuare in tema di servizi pubblici locali i principi eurounitari sulle attività economiche, la tutela della concorrenza e le libertà fondamentali delle imprese, sorvegliati dall’azione della Commissione europea, come palesa il relativo art.2 (“misure di liberalizzazione”) che definisce eccezionale l’affidamento di tipo diretto e senza gara: gli Enti locali devono piuttosto verificare la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando l’attribuzione di diritti di esclusiva, ove non diversamente previsto dalla legge, ai casi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale ed efficienza, a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità, e liberalizzando in tutti gli altri casi le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità ed accessibilità del pertinente servizio (comma 1).
All’esito della verifica, l’Ente adotta una delibera quadro che illustra l’istruttoria compiuta ed evidenzia, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e, viceversa, i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio (comma 2), dando alla ridetta delibera adeguata pubblicità ed inviandola all’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini della relazione al Parlamento di cui alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (comma 3). La verifica ridetta va effettuata dall’Ente locale entro 1 anno dalla data di entrata in vigore del regolamento e poi periodicamente secondo i rispettivi ordinamenti degli enti locali; essa deve comunque essere effettuata prima di procedere al conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi (comma 4). Gli enti locali, precisa ancora la norma (comma 5), per assicurare agli utenti l’erogazione di servizi pubblici che abbiano ad oggetto la produzione di beni e le attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, devono definire, ove necessario, gli obblighi di servizio pubblico, prevedendo le eventuali compensazioni economiche alle aziende esercenti i servizi stessi, tenendo conto dei proventi derivanti dalle tariffe e nei limiti della disponibilità di bilancio destinata allo scopo.
Ai sensi del successivo art.4, comma 1, gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere di cui all’articolo 23-bis, comma 4, se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento supera la somma complessiva di 200.000,00 euro annui; parere che la dottrina tenderà ad assumere come obbligatorio ma non vincolante, potendo l’Ente locale discostarsene, seppure adeguatamente motivando.
Importante l’art. 3 del Regolamento, recante le norme applicabili in via generale per l’affidamento del servizio pubblico locale, secondo il cui primo comma le procedure competitive ad evidenza pubblica, di cui all’articolo 23-bis, comma 2, sono indette dagli Enti locali nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla legge, ove esistente, dalla competente autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti affidanti. Le società a capitale interamente pubblico possono inoltre partecipare (comma 2) alle procedure competitive ad evidenza pubblica di cui all’articolo 23-bis, comma 2, lettera a), sempre che non vi siano specifici divieti previsti dalla legge. Al fine di promuovere e proteggere l’assetto concorrenziale dei mercati interessati, alla stregua del comma 3 il bando di gara o la lettera di invito: a) esclude che la disponibilità a qualunque titolo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali non duplicabili a costi socialmente sostenibili ed essenziali per l’effettuazione del servizio possa costituire elemento discriminante per la valutazione delle offerte dei concorrenti; b) assicura che i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara siano proporzionati alle caratteristiche e al valore del servizio e che la definizione dell’oggetto della gara garantisca la più ampia partecipazione e il conseguimento di eventuali economie di scala e di gamma; c) indica, ferme restando le discipline di settore, la durata dell’affidamento commisurata alla consistenza degli investimenti in immobilizzazioni materiali previsti nei capitolati di gara a carico del soggetto gestore. In ogni caso la durata dell’affidamento non puo’ essere superiore al periodo di ammortamento dei suddetti investimenti; d) può prevedere l’esclusione di forme di aggregazione o di collaborazione tra soggetti che possiedono singolarmente i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara, qualora, in relazione alla prestazione oggetto del servizio, l’aggregazione o la collaborazione sia idonea a produrre effetti restrittivi della concorrenza sulla base di un’oggettiva e motivata analisi che tenga conto di struttura, dimensione e numero degli operatori del mercato di riferimento; e) prevede che la valutazione delle offerte sia effettuata da una commissione nominata dall’ente affidante e composta da soggetti esperti nella specifica materia; f) indica i criteri e le modalità per l’individuazione dei beni di cui all’articolo 10, comma 1 (beni strumentali alla gestione del servizio affidato), e per la determinazione dell’eventuale importo spettante al gestore al momento della scadenza o della cessazione anticipata della gestione ai sensi dell’articolo 10, comma 2; g) prevede l’adozione di carte dei servizi al fine di garantire trasparenza informativa e qualità del servizio. Fermo restando quanto appena detto, nel caso di procedure aventi ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio, il bando di gara o la lettera di invito assicura – ai sensi del comma 4 – che: a) i criteri di valutazione delle offerte basati su qualità e corrispettivo del servizio prevalgano di norma su quelli riferiti al prezzo delle quote societarie; b) il socio privato selezionato svolga gli specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio per l’intera durata del servizio stesso e che, ove ciò non si verifichi, si proceda a un nuovo affidamento ai sensi dell’articolo 23-bis, comma 2; c) siano previsti criteri e modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione.
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L’11 novembre esce la deliberazione 129/PAR/2010 della Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo Regione Puglia, che pone in dubbio la prevalenza dell’art.23 bis, comma 1, del decreto legge 112.08 – in termini di norma “generale” – sulle diverse discipline speciali di settore (di fonte primaria) in tema di affidamento e gestione di servizi pubblici locali.
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Il 17 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.325, alla cui stregua la nozione di servizio pubblico locale siccome affiorante dal decreto legislativo 267.00 deve assumersi sostanzialmente omogenea rispetto a quella unionale di SIEG, “servizio di interesse economico generale”, entrambe facendo riferimento ad un servizio che, da un lato, viene erogato mediante una attività economica – nella forma dell’impresa pubblica o privata – intesa in senso ampio, quale attività compendiantesi nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato; dall’altro, fornisce prestazioni considerate necessarie in quanto dirette a realizzare (anche) “fini sociali” nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle particolari condizioni in cui ciascuno di essi versa. Si tratta di due nozioni omologhe, per la Corte, non già solo dal punto di vista concettuale ma anche e soprattutto sul crinale funzionale, assolvendo esse l’identica funzione, per l’appunto, di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive di evidenza pubblica.
2011
Il 26 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.24, che dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare – dichiarata legittima, con ordinanza pronunciata il 6 dicembre 2010 e depositata il successivo 7 dicembre, dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione e rubricata con il n. 1 – per l’abrogazione dell’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a séguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale. Per la Corte, più in specie, nel caso in esame, all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza della Corte − sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 – sia da quella della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. Ne deriva per la Corte l’ammissibilità del quesito per l’insussistenza di impedimenti di natura comunitaria. La Corte richiama anche la propria precedente sentenza n. 325 del 2010, laddove si è espressamente escluso che l’art. 23-bis costituisca applicazione necessitata del diritto dell’Unione europea e si è affermato che esso integra solo «una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare» il «primo comma dell’art. 117 Cost.»; la stessa sentenza 325.10 ha precisato che l’introduzione, attraverso il suddetto art. 23-bis, di regole concorrenziali (come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici) più rigorose di quelle minime richieste dal diritto dell’Unione europea non è imposta dall’ordinamento comunitario «e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost. […], ma neppure si pone in contrasto […] con la […] normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri».
Con la medesima pronuncia la Corte costituzionale dichiara invece inammissibile il quesito referendario orientato all’abrogazione dell’art.150 del decreto legislativo 152.06, Codice dell’ambiente; ciò sulla scorta della considerazione (di carattere formale) onde ciascuno dei quesiti proposti deve essere valutato – per la Corte – indipendentemente dagli altri e, in particolare, degli effetti che l’esito degli altri referendum potrebbe avere sulla c.d. normativa di risulta.
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Il 13 maggio viene varato il decreto legge n.70 (c.d. decreto sviluppo) il cui art.10, comma 11, istituisce l’Agenzia Nazionale di vigilanza sulle risorse idriche, alla quale spetta in particolare il compito di definire un nuovo metodo per la definizione delle tariffe del settore idrico, in vista della cessazione delle c.d. AATO (Autorità di Ambito Territoriale Ottimale), che sono state soppresse giusta art.2, comma 186 bis, della legge 191.09 (legge finanziaria del 2010).
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Il 12 e 13 giugno si tiene una consultazione referendaria che abroga l’art.23 bis del decreto legge 112.08, inaugurando la Fase 5 in tema di servizi pubblici locali. All’indomani del ridetto decreto legge, e sull’onda della evoluzione normativa che gli è succeduta, si è infatti innescato un dibattito sulla intervenuta, draconiana “privatizzazione” dei servizi pubblici locali – seppure in un quadro di promozione della concorrenza e della liberalizzazione – dal ridetto provvedimento introdotta, peraltro giusta decreto legge e senza un intervento di respiro organico e sistematico nella pertinente materia, con sostanziale marginalizzazione delle imprese pubbliche che, non potendo più essere rese affidatarie senza gara in quanto tali, si sono viste costrette ad aprire le porte ai privati, quanto meno in termini di partecipazione specificamente operativa di un socio privato, altrimenti rimanendo escluse dal pertinente mercato competitivo, con forte sbilanciamento a favore, per l’appunto, del settore privato a discapito di quello pubblico. Il problema è dunque quello dell’equilibrio tra la presenza del pubblico, assunta da più parti ineludibile, e le logiche del mercato concorrenziale, con particolare riguardo al settore idrico integrato, in relazione al quale si invoca una nuova “ripubblicizzazione” che ha condotto per l’appunto al referendum abrogativo del 12 e 13 giugno; esso sortisce esito positivo, con conseguente abrogazione dell’art.23 bis del decreto legge 112.08 e connesso vuoto normativo per subentrato difetto di qualsivoglia normativa a disciplinare la materia, specie in termini di modalità di gestione dei servizi pubblici locali, che risulta ormai normata solo (e direttamente) dal diritto unionale, senza mediazione di una normativa nazionale.
Abrogato il menzionato art.23 bis, norma che assume eccezionale per gli Enti locali affidare i servizi pubblici a soggetti in house, ciascun Ente locale ritrova la propria libertà di autoorganizzazione che gli è stata riconosciuta dal Trattato UE e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, potendo dunque scegliere se ricorrere o meno alla autoproduzione del servizio pubblico di volta in volta considerato, quand’anche nel quadro dei vincoli sovranazionali. Non si produce tuttavia – come peraltro già avvertito dalla Corte costituzionale in sede di declaratoria di ammissibilità della pertinente consultazione referendaria – una “nuova vita” effettuale per il vecchio art.113 del TUEL, con conseguente possibilità di porre sullo stesso livello le tre diverse modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali ivi previste. Su altro crinale, l’art.23 bis ormai abrogato, al comma 1 dichiarava di dettare una disciplina prevalente rispetto a quella delle discipline di settore con esso incompatibili (escluse quelle in materia di servizio ferroviario regionale, farmacie comunali, gas ed energia elettrica), con conseguente riespansione – a valle della intervenuta abrogazione per via referendaria – di tutte le normative speciali in tema di affidamento e gestione di servizi pubblici locali, essendo venuta meno per l’appunto la norma “generale” e come tale fino ad ora prevalente. Ancora, il comma 8 dell’art.23 bis prevedeva un regime transitorio in tema di affidamenti diretti onde occorreva – una volta entrato in vigore il Regolamento del 2010 – far luogo alla cessazione della pertinente gestione entro specifiche scadenze: anche questo regime transitorio viene meno per effetto dell’esito caducatorio referendario; analogamente, decadono i limiti di cui al comma 9 dell’art.23 bis, prescritti per le società già affidatarie di servizi pubblici locali in house ed aventi ad oggetto l’ottenimento – direttamente o con gara – di ulteriori servizi (ovvero di servizi in ambiti territoriali diversi dal proprio), onde a seguito della tornata referendaria le società in house soggiacciono ormai ai meno stringenti limiti previsti in sede di normativa europea. Ancora, nell’ottica di un riequilibrio dei rapporti tra “pubblico” e “privato” a favore del primo, cade l’obbligo di attribuire al socio privato, nelle società miste, una partecipazione almeno pari al 40% del capitale della pertinente società mista.
L’abrograzione dell’art.23 bis comporta anche che la disciplina del servizio idrico integrato ritorna ad essere quella, settoriale, di cui alla Parte III del decreto legislativo 152.06, c.d. codice dell’ambiente, nel quale è confluita la precedente normativa di cui alla c.d. Legge Galli n.36.94. Di tale codice dell’ambiente viene tuttavia parzialmente abrogato l’art.154, comma 1, laddove reca i criteri di determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, onde il canone dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito esce dalle voci che contribuiscono a determinare (quale componente) la pertinente tariffa.
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Il 4 agosto esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.17, alla cui stregua il divieto di fornire prestazioni a terzi (c.d. extra moenia) siccome scolpito all’art.13 del d.l. 223.06 (decreto Bersani) riguarda le sole società pubbliche “strumentali” alle Amministrazioni regionali o locali, le quali esercitano attività amministrativa in forma privatistica e costituiscono una longa manus dell’Amministrazione pubblica cui sono avvinte (e per le quali in via esclusiva operano), ma non anche le società destinate a gestire servizi pubblici locali, che esercitano attività di impresa di enti pubblici e che si rivolgono non all’Amministrazione pubblica che le partecipa, ma al pubblico.
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Il 13 agosto viene varato il decreto legge n.138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, che porta a compimento la Fase 5 in tema di servizi pubblici locali, dando seguito alla consultazione referendaria abrogativa del giugno del medesimo anno e colmando il vuoto normativo da essa posto in essere giusta abrogazione dell’art.23 bis del decreto legge 112.08, col dettare nuovamente una disciplina sistematica dell’affidamento e della gestione dei servizi pubblici locali.
In particolare, il relativo art.4 non fa che riproporre la disciplina di cui all’art.23 bis del decreto legge 112.08 (e del pertinente regolamento di attuazione 168.10), sottraendo tuttavia dal relativo orizzonte applicativo taluni servizi pubblici locali peculiari e, più nel dettaglio, il servizio idrico integrato (che aveva dato la stura al referendum, in tema di “acqua”), il servizio di distribuzione di gas naturale (decreto legislativo 164.00), quello di distribuzione di energia elettrica (decreto legislativo 79.99 e legge 239.04), il servizio di trasporto ferroviario regionale (decreto legislativo 422.97) ed il servizio di gestione delle farmacie comunali (legge 475.68). Per il ridetto art.4 gli Enti locali, nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, sono chiamati a verificare la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, con liberalizzazione di tutte le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità ed accessibilità del servizio; negli altri casi, l’attribuzione dei diritti di esclusiva va limitata alle ipotesi in cui, sulla base di un’analisi di mercato, la libera iniziativa privata si palesa non idonea a garantire un servizio (e, dunque, delle prestazioni) capaci di realizzare i bisogni della comunità territoriale di riferimento; proprio con riguardo a queste fattispecie sottratte alla liberalizzazione, l’Ente locale deve motivare le ragioni della pertinente decisione ed i benefici che la comunità territoriale di riferimento ritrae dal mantenimento di un regime (pubblico) di esclusiva del servizio in parola.
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Il 14 settembre viene varata la legge n.148 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.138.
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Il 12 novembre viene varata la legge n.183, c.d. legge di stabilità per il 2012, il cui art.9 interviene in tema di affidamento di servizi pubblici locali, proponendosi expressis verbis il fine di realizzare un sistema liberalizzato dei servizi pubblici locali di rilevanza economica attraverso la piena concorrenza nel mercato, oltre che di perseguire obiettivi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici in parola e di assicurare – giusta sistema, varato all’uopo, di benchmarking – il progressivo miglioramento della qualità e dell’efficienza della pertinente gestione. Secondo questa nuova presa di posizione del legislatore, gli Enti locali sono tenuti a valutare l’opportunità di procedere all’affidamento simultaneo con gara di una pluralità di servizi pubblici locali, nei casi in cui possa essere dimostrato che tale scelta sia economicamente vantaggiosa.
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Il 6 dicembre viene varato il decreto legge n.201, il cui art.21, comma 13, sopprime l’Agenzia Nazionale di vigilanza sulle risorse idriche, con contestuale trasferimento (comma 19) delle funzioni attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici all’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas (AEEG).
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Il 22 dicembre viene varata la legge n.214 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.201.
2012
Il 24 gennaio viene varato il decreto legge n.1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività (c.d. decreto liberalizzazione), il cui art.25, rubricato “promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali”, novella il decreto legge 138.11. In particolare, viene modificato il comma 13 dell’art.4 del ridetto decreto legge 138.11, onde la soglia dell’affidamento diretto e senza gara a società pubbliche controllate in via totalitaria dall’Ente locale viene abbassata dagli originari 900 mila Euro annui alla ben più modesta somma di 200 mila Euro annui, in funzione di promozione della concorrenza.
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Il 24 marzo viene varata la legge n.27 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.1.
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Il 22 giugno viene varato il decreto legge n.83, (c.d. decreto cresci-Italia), il cui art.53, comma 1, lettera b) novella ancora l’art.2 del decreto legge 138.11. Il pacchetto normativo di cui a tale decreto legge unitamente al precedente decreto legge “liberalizzazione”, si propone lo scopo di agevolare ed incentivare la crescita, dal punto di vista dimensionale, delle imprese operanti nel settore dei servizi pubblici locali. Proprio muovendo da questo intento, l’affidamento può avvenire in deroga – per la gestione in house del pertinente servizio pubblico locale – a favore di una unica società in house per l’appunto, quale compagine risultante dall’integrazione operativa di preesistenti gestioni in affidamento diretto e gestioni in economia, così da configurare un unico gestore del servizio pertinente ad un livello di ambito o di bacino territoriale ottimale la cui dimensione deve, di norma, essere non inferiore almeno a quella del territorio di una Provincia. Le Regioni, anche su proposta dei Comuni, possono tuttavia individuare specifici bacini territoriali di diverso dimensionamento rispetto a quello provinciale, motivando la pertinente scelta sulla scorta di criteri di differenziazione territoriale e socio-economica ed in base ai canoni di proporzionalità, di adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio considerato. Le società affidatarie di un servizio pubblico locale in house vengono tuttavia assoggettate al patto di stabilità interno, sulla cui osservanza vigila l’ente locale o l’ente di governo locale dell’ambito o del bacino.
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Il 6 luglio viene varato il decreto legge n.95, recante disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, il cui art.4 interviene in tema di affidamenti diretti nei servizi pubblici locali (c.d. decreto spending review). Più in specie, il comma 1 prevede lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società controllate direttamente o indirettamente da PPAA che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazioni di servizi a favore di Pubbliche Amministrazioni superiore al 90%, ovvero in via alternativa l’alienazione delle pertinenti partecipazioni giusta procedure di evidenza pubblica entro il 30 giugno 2013. Alla stregua del comma 2 poi, laddove non si proceda in uno dei due modi alternativamente previsti dal comma 1, la società interessata – a partire dal 01 gennaio 2014 – non può comunque ricevere affidamenti diretti di servizi, né può beneficiare del rinnovo di affidamenti di cui sia già titolare. Infine, importante il comma 3 dell’art.4 che, nella sostanza, innesta nuovamente nel sistema quanto a suo tempo disposto in via derogatoria ed eccezionale dall’art.4 del decreto legge 138.11, lasciando dunque in vita società pubbliche affidatarie dirette di servizi locali allorché, per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale di riferimento, non sia possibile per la PA locale pertinente e controllante il ricorso al mercato, prescrivendo ad un tempo l’obbligatorietà di una analisi di mercato e la trasmissione di una relazione all’AGCM onde acquisirne un parere vincolante da comunicare dipoi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri; sempre secondo il ridetto comma 3, i servizi già prestati dalle società, laddove non vengano prodotti (in economia) dall’Amministrazione locale stessa avvalendosi della propria struttura, devono essere gestiti nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale, e dunque affidandoli a terzi a valle di procedure di evidenza pubblica. Importante anche il comma 7, onde al fine di evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale, a decorrere dal 1° gennaio 2014 le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, le stazioni appaltanti, gli enti aggiudicatori e i soggetti aggiudicatori di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, nel rispetto dell’articolo 2, comma 1 del citato decreto acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo.
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Il 20 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.199, che dichiara costituzionalmente illegittimo l’art.4 del decreto legge 138.11, inaugurando la Fase 6 in tema di servizi pubblici locali. Per la Corte l’art.4 richiamato non fa che riprodurre, talvolta testualmente e talaltra nei relativi principi di fondo, talune delle disposizioni di cui all’art.23 bis del decreto legge 112.08 o del relativo regolamento di attuazione 168.10, introducendo solo poche novità che finiscono con l’accentuare la riduzione molto consistente di affidamenti diretti (a società in house) dei servizi pubblici locali e, dunque, la relativa consistenza “pubblica”, in modo non conforme alla volontà referendaria popolare espressasi nel giugno del 2011, dalla quale è affiorato un intento abrogativo espressamente riferibile a pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica investiti dalla disciplina dell’art.23 bis caducato, onde non può assumersi per la Corte che la sola esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della volontà espressa giusta consultazione popolare, con conseguente rotta di collisione rispetto all’art.75 Cost. in tema appunto di referendum abrogativo.
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Il 7 agosto viene varata la legge n.134 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.83.
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Sempre il 7 agosto viene varata la legge n.135 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.95. La legge di conversione interviene in particolare sull’art.4 del decreto legge “spendig review”, anche al fine di adeguarsi al pronunciamento, medio tempore intervenuto, della Corte costituzionale.
2013
Il 21 giugno viene varato il decreto legge n.69, c.d. decreto del fare, il cui art.49, comma 1, lettera a) e lettera b) proroga i termini per l’alienazione delle partecipazioni pubbliche dalle società miste affidatarie di servizi pubblici locali dal 30 giugno 2013 (termine originario) al 31 dicembre 2013, nonché i termini a decorrere dai quali la società inadempiente non può più ricevere affidamenti diretti di servizi, né beneficiare del rinnovo di affidamenti di cui sia già titolare, dal 01 gennaio 2014 (termine originario) al 01 luglio 2014.
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Il 23 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.229, che dichiara costituzionalmente illegittimi i comma 1, 2, 3, secondo periodo, 3 sexies e 8 dell’art.4 del decreto legge 95.12, nella parte in cui si applicano alle Regioni a statuto ordinario.
Per la Corte, deve assumersi senz’altro consentito porre limiti alla spesa degli Enti pubblici regionali a condizione, tuttavia, che ci si ponga un obiettivo di riequilibrio della spesa in parola, in termini di transitorio contenimento complessivo, quantunque non generale, in particolare della spesa corrente; ed a condizione che non siano previsti in modo preciso ed esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento di tali obiettivi, onde deve assumersi quale legittimo modo di esercizio dell’autonomia organizzativa delle Regioni il fatto che queste possano scegliere quale sia la migliore modalità di svolgimento dei servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali.
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Il 27 dicembre viene varata la legge n.147, legge di stabilità per il 2014, il cui art.1, comma 562, lettera a) abroga – a decorrere dal 01 gennaio 2014 – i comma 1, 2 e 3 dell’art.4 del decreto legge 95.12, già dichiarati incostituzionali dalla Consulta con la sentenza n.229.13.
2014
Il 12 settembre viene varato il decreto legge n.133, c.d. Sblocca-Italia, il cui art.7, comma 1, in tema di servizio idrico integrato, da un lato sostituisce – nella Parte III del decreto legislativo 152.06 – l’espressione “autorità di ambito”, ormai soppresse, con “enti di governo di ambito”; dall’altro, modifica in misura consistente l’art.147 del medesimo decreto legislativo (codice dell’ambiente), giusta novellazione del relativo comma 1 ed innesto del termine perentorio, fissato al 31 dicembre 2014, entro il quale le Regioni sono tenute ad emanare un delibera che individua gli enti di governo di ambito ottimale. Gli Enti locali sono poi obbligatoriamente chiamati a partecipare, laddove ubicati nel relativo ambito ottimale, all’ente di governo siccome individuato dalla Regione, ente di governo al quale viene trasferito l’esercizio delle competenze spettanti agli Enti locali in materia di gestione delle risorse idriche, tra le quali la programmazione delle infrastrutture idriche.
Sempre incidendo sull’art.147, vi viene introdotto un comma 1 bis, onde il Presidente della Regione viene munito di poteri sostitutivi laddove gli Enti locali si rendano inadempienti giusta mancata adesione agli enti di governo di ambito. Quanto poi all’affidamento del servizio idrico integrato, viene abrogato l’art.150 del codice dell’ambiente, rubricato “scelta delle forme di gestione e procedure di affidamento”, con contestuale introduzione di un nuovo art.149 bis secondo il cui comma 1 l’ente di governo di ambito, nel rispetto del piano previsto dall’art.149 e del canone della unicità della gestione per ciascun ambito territoriale ottimale, delibera la forma di gestione tra quelle previste dall’ordinamento europeo provvedendo, conseguentemente, all’affidamento del servizio nel rispetto della normativa nazionale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica. L’affidamento può avvenire a favore di società in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house, partecipate esclusivamente e direttamente da enti locali compresi nell’ambito territoriale ottimale.
Viene poi riformulato l’art.151 del codice dell’ambiente, onde il rapporto tra l’ente di governo di ambito ed il soggetto gestore del servizio idrico integrato è regolato da una convenzione predisposta dall’ente di governo di ambito sulla base delle convenzioni tipo, e relativi disciplinari, adottate dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico; il contenuto di tali convenzioni tipo viene peraltro integrato dall’art.7 del decreto legge (art.151, comma 2, del codice dell’ambiente), onde esse devono prevedere anche le opere che l’affidatario del servizio idrico integrato è tenuto a realizzare durante la gestione del servizio, siccome individuate dal pertinente bando di gara. Infine, viene abrogato l’art.151, comma 7, del codice dell’ambiente, laddove consente all’affidatario del servizio idrico integrato, previo consenso dell’autorità di ambito, la gestione di altri servizi pubblici compatibili con quello idrico, quand’anche non estesi all’intero ambito territoriale ottimale: l’affidatario del servizio idrico integrato non può dunque più gestire altri servizi di natura diversa.
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Il 14 ottobre esce la sentenza della V Sezione del Consiglio di Stato n.5080, onde è legittimo l’affidamento del servizio idrico integrato ad una società consortile per azioni il cui Statuto e connessa convenzione, anche in deroga alla disciplina civilistica delle società per azioni, consentano alle PPAA partecipanti – ancorché non ne abbiano la maggioranza azionaria – di svolgere un controllo effettivo sull’attività della società pertinente. Peraltro, nel caso di specie la società considerata svolge anche l’attività prevalente in favore degli Enti pubblici che partecipano al relativo capitale, onde per il Collegio sussistono entrambi i requisiti essenziali richiesti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE per l’affidamento di un servizio “in house”.
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L’11 novembre viene varata la legge n.164 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.133.
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Il 23 dicembre viene varata la legge n.190 (legge di stabilità 2015), il cui art.1, comma 615, interviene sull’art.149 bis, comma 1, secondo periodo del decreto legislativo 152.06 (codice dell’ambiente), onde le società a favore delle quali può avvenire l’affidamento diretto del servizio idrico integrato devono essere interamente pubbliche e comunque partecipate dagli Enti locali che ricadono nell’ambito territoriale ottimale.
2015
Il 7 agosto viene varata la legge 124, recante deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche, che apre la Fase 7 in tema di servizi pubblici locali ed i cui articoli 16, 18 e 19 conferiscono al Governo la delega al riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale e di partecipazione societaria delle PPAA. Il Legislatore si pone il fine di varare – delegando all’uopo il Governo – un testo organico orientato alla semplificazione normativa, con promozione del ruolo dei Comuni e delle Città metropolitane nell’individuazione dei servizi economici di interesse generale necessari per il soddisfacimento dei bisogni della pertinente collettività, giusta strumenti idonei a favorire un assetto del mercato di tipo concorrenziale.
2016
Il 10 giugno esce la sentenza della II sezione del Tar Liguria n.606, secondo la quale deve assumersi assente nella legislazione italiana un obbligo di esclusiva in capo alle società in house in relazione all’Ente territoriale di riferimento. A tal riguardo l’art. 13 d.l. 4 luglio 2006 n. 223 convertito nella l. 4 agosto 2006 n. 248 per il Collegio non positivizza simile obbligo con correlativo divieto di operazioni extra moenia. La norma, al comma uno, stabilisce: “1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali e dei servizi di committenza o delle centrali di committenza apprestati a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, nonchè, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, nè in affidamento diretto nè con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale. Le società che svolgono l’attività di intermediazione finanziaria prevista dal testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono escluse dal divieto di partecipazione ad altre società o enti”. La norma introduce bensì un obbligo di esclusiva a carico delle società pubbliche ma tale obbligo investe esclusivamente “le società costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività” ed esclude espressamente quelle destinate allo svolgimento di servizi pubblici locali.
Anche la sentenza del Consiglio di Stato VI 8 maggio 2014 n. 2362, prosegue il Collegio, ammette che le società in house costituite per lo svolgimento di servizi pubblici locali possono svolgere servizi per enti diversi da quelli costituenti, partecipanti o affidanti purché si tratti di soggetti erogatori di servizi pubblici locali; “i predetti servizi potrebbero, di conseguenza, essere svolti anche a favore di soggetti diversi da quelli “costituenti, partecipanti o affidanti“, sempre però che si tratti di soggetti erogatori degli stessi, quali sono, appunto, i Comuni, …(cfr. Cons. Stato, IV, 15 marzo 2008, n. 946; V, 7 luglio 2009, n. 4346, 5 marzo 2010, n. 1282, 10 settembre 2010, n. 6527, 1 aprile 2011, n. 2012).”. La normativa UE – prosegue ancora il Collegio – è intervenuta sul problema, prevedendo all’art. 12 della direttiva 24/2014 che la società in house deve svolgere più dell’80% della propria attività a favore dell’amministrazione controllante (si cfr. Parere C.S. Commissione speciale 21 aprile 2016 n. 968), conseguendone a contrario che è legittima nei limiti sopraindicati la attività extra moenia di una società in house.
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Il 19 agosto viene varato il decreto legislativo n.175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, il cui art.28 abroga, tra gli altri, l’art.13 del d.l. Bersani n.223.06 sul divieto di attività extra moenia per le società miste c.d. strumentali.
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Il 24 novembre viene approvato dal Governo uno schema di decreto legislativo per il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale, così attuando la legge delega n.124.15. I servizi pubblici locali di interesse economico generale, o servizi di interesse economico generale di ambito locale, vengono definiti – in sostanziale recepimento della nozione eurounitaria di SIEG – come quei servizi erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato, che non sarebbero svolti senza un intervento pubblico o sarebbero svolti a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che i comuni e le città metropolitane, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessari per assicurare la soddisfazione dei bisogni delle comunità locali, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale. Il cittadino assume dunque una posizione di fulcro con riguardo all’organizzazione, alla produzione e alla gestione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale, venendo peraltro contestualmente promossi modelli di partecipazione attiva della cittadinanza di pertinenza all’organizzazione e alla gestione dei servizi in parola, dovendo l’assunzione, la gestione e la regolazione dei ridetti servizi ispirarsi ai principi di efficienza della gestione, efficacia nella soddisfazione dei bisogni dei cittadini, produzione di servizi quantitativamente e qualitativamente adeguati, applicazione di tariffe orientate ai costi standard, promozione di investimenti in innovazione tecnologica, concorrenza nell’affidamento dei servizi medesimi, sussidiarietà anche orizzontale e trasparenza. Funzione fondamentale appannaggio dei Comuni e delle Città metropolitane viene additata quella di individuare, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, talune attività di produzione di beni e servizi di interesse economico generale il cui svolgimento è necessario al fine di assicurare la soddisfazione dei bisogni delle comunità locali in condizioni di paritaria accessibilità fisica ed economica, di continuità e non discriminazione e ai migliori livelli di qualità e di sicurezza, onde garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale.
Di particolare rilievo l’art.7 in tema di gestione e affidamento dei servizi in parola che – sulla scia dell’impostazione sovranazionale – colloca in misura equiordinata le tre forme pertinenti, vale a dire la gara ad evidenza pubblica, l’affidamento a società miste e l’affidamento a enti o società in house, dovendo tuttavia motivare la scelta in ordine alle ragioni ed alla sussistenza dei requisiti previsti dal diritto dell’Unione europea per la forma di gestione di volta in volta prescelta. Per quanto più in specie concerne l’affidamento in house del servizio, coerentemente con quanto previsto all’art.192 del decreto legislativo 50.16 (codice dei contratti pubblici), il provvedimento dell’Ente locale deve espressamente motivare in ordine alle ragioni di mancato ricorso al mercato, spiegando perché tale scelta non sia comparativamente più svantaggiosa per i cittadini, tenuto anche conto dei costi standard del servizio in parola siccome definiti dalle Autorità indipendenti di settore; la motivazione deve anche investire specificamente, in positivo (art.7, comma 3), i benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, massime tenuto conto degli obiettivi di universalità, socialità, efficienza, economicità, qualità e ottimo impiego delle risorse pubbliche.
Fatto salvo quanto eventualmente stabilito da singole discipline di settore, la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali essenziali per l’erogazione servizi pubblici in parola può essere affidata, al fine di favorire la tutela della concorrenza, in via separata rispetto all’affidamento della gestione del servizio, dovendosi tuttavia garantire l’accesso equo e non discriminatorio alle risorse in parola da parte di tutti i soggetti legittimati all’erogazione del pertinente servizio; resta ferma la possibilità per l’Ente locale competente di stabilire la gestione unitaria delle predette risorse, per ragioni di efficienza ovvero comunque in funzione di maggior beneficio per gli utenti del territorio di riferimento.
Le Autorità indipendenti di regolazione settoriale predispongono poi schemi di bandi di gara e contratti tipo, così provvedendo il legislatore delegato a organizzare ed allocare i poteri di regolazione, di vigilanza e di controllo sui servizi pubblici in parola; in particolare, la rinominata Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (ARERA, già Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico) si vede attribuiti poteri di regolazione del ciclo dei rifiuti, anche differenziati, urbani ed assimilati, mentre l’Autorità dei trasporti vede a propria volta ampliata la propria gamma di competenze.
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Il 25 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.251 che dichiara la incostituzionalità della legge 124.15 anche in materia di delega sui servizi pubblici locali di interesse economico generale (articolo 19, lettere b, c, d, g, h, l, m, n, o, p, s, t, u), con successivo ritiro da parte del Governo dello schema di decreto legislativo peraltro già definitivamente approvato il giorno prima dal Consiglio dei Ministri.
Per la Corte la legge di delega è illegittima nella parte in cui prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere (delle Regioni), anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata. Più precisamente, le disposizioni dell’art.19 impugnate contengono per la Corte principi e criteri direttivi che coinvolgono, intrecciandole tra loro, disposizioni orientate alla tutela della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, e disposizioni che invece concernono la gestione e l’organizzazione dei servizi pubblici locali, che appartengono alla competenza legislativa regionale residuale, oltre a disposizioni che riguardano (in particolare quelle contemplate dalla lettera t) i rapporti di lavoro. Si tratta per la Corte di disposizioni tenute insieme da forti connessioni, proprio perché funzionali al progetto di riordino dell’intero settore dei servizi pubblici locali di interesse economico generale e, pur costituendo epifania di interessi distinti corrispondenti a del pari diverse competenze legislative, rispettivamente, dello Stato e delle Regioni, compendiano un microsistema normativo che le vede quali disposizioni inscindibili l’una dall’altra, palesandosi inserite in un unico progetto normativo; il Governo deve dunque dare attuazione ai principi e ai criteri direttivi contenuti in tale compendio precettivo, se vuole rimanere nell’alveo della Costituzione, pienamente rispettando il principio di leale collaborazione, in particolare avviando le procedure che concernono l’intesa tanto con le Regioni che con gli enti locali, nella sede della pertinente Conferenza unificata. Questo è il motivo per il quale, a giudizio della Corte, il censurato art.19 della legge 124.15 è da assumersi incostituzionale nella parte in cui, in combinato diposto con l’art.16, comma 1 e 4, consente al Governo di adottare i pertinenti decreti legislativi previo parere, piuttosto che previa intesa, con la Conferenza unificata ridetta. Il ritiro dello schema di decreto legislativo da parte del Governo, appena approvato il giorno prima, è dettato da ovvie ragioni di opportunità istituzionale.
2019
L’11 luglio viene varata la legge n.71, recante affidamento dei servizi di trasporto nelle ferrovie turistiche.
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Il 29 luglio esce la delibera n. 79/2019/PAR della sezione controllo per la Regione Puglia della Corte dei Conti onde per ciò che concerne il servizio di trasporto scolastico nei Comuni, deve ritenersi che, ferme restando le scelte gestionali e l’individuazione dei criteri di finanziamento demandate alla competenza dell’ente locale, l’attuale quadro normativo non consente l’erogazione gratuita del servizio di trasporto pubblico scolastico, servizio che deve avere a fondamento una adeguata copertura finanziaria necessariamente riconducibile nei limiti fissati dai parametri normativi del Tuel, alla luce della espressa previsione normativa della corresponsione della quota di partecipazione diretta da parte degli utenti, quota la quale, nel rispetto del rapporto di corrispondenza tra costi e ricavi, non può non essere finalizzata ad assicurare l’integrale copertura dei costi del servizio.
Nell’obbligatorio rispetto dell’economicità del servizio, presupposto essenziale per consentire l’effettività e la continuità della sua erogazione, tra le risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei costi possono essere ricomprese le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate dall’ente nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri, con corrispondente minor aggravio a carico all’utenza.
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Il 30 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.20504, alla cui stregua un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabile e, quindi, non può costituire oggetto di accertamento da parte del giudice ordinario, in favore degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado, i quali possono esercitare diritti procedimentali, al fine di influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, rimesse all’autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche, in attuazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione pubblica.
La Corte rammenta che l’invocato diritto soggettivo perfetto o incondizionato all’autorefezione scolastica è stato rappresentato dai controricorrenti e in parte dalla sentenza impugnata anche quale espressione di una incomprimibile libertà personale (inteso come diritto di libertà) o del diritto all’autodeterminazione individuale o del diritto dei genitori di educare i propri figli in campo alimentare, con riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 30 Cost.; in via residuale è invocato il diritto dei genitori a non subire interferenze nell’adempimento dei loro doveri come lavoratori, a causa della necessità di accudire i figli durante l’orario della mensa (art. 35 Cost.). Questa rappresentazione, per come variamente articolata, non è tuttavia per la Corte convincente perché trascura il contesto nel quale i suddetti diritti dovrebbero essere esercitati, che è quello delle istituzioni scolastiche, le quali, nell’ambito dell’autonomia organizzativa oltre che didattica che è loro conferita dalla legge (15 marzo 1997, n. 59), possono istituire il servizio mensa che è un servizio pubblico a domanda individuale (D.M. 31 dicembre 1983, p. 10), prestato in favore degli alunni che hanno optato per il «tempo pieno» e «prolungato» e, quindi, accettato l’offerta formativa comprendente la mensa.
Le famiglie in tal modo hanno esercitato una libertà di scelta educativa (art. 21 della legge n. 59 del 1997), dalla quale scaturisce il loro diritto di partecipazione al procedimento amministrativo per influire sulle modalità di gestione del servizio pubblico di mensa (ai fini dell’individuazione dell’impresa che lo gestisce e dei cibi offerti), ma non il diritto sostanziale di performarlo secondo le proprie esigenze individuali. Il diritto soggettivo perfetto che si chiede di accertare in via generalizzata e incondizionata, di consentire agli alunni che intendano partecipare alle attività formative pomeridiane di pranzare con cibo proprio nei locali scolastici (quelli adibiti a mensa o altri), implica l’esercizio di un potere delle famiglie che è privo di base normativa, il cui effetto sarebbe di imporre alle istituzioni scolastiche un obbligo conformativo del servizio pubblico di mensa di immediata attuazione. L’obiettivo è di modulare detto servizio pubblico in modo oggettivamente, seppur parzialmente, diverso da come è stato organizzato dall’istituzione scolastica che lo eroga, all’esito del procedimento amministrativo previsto dalla legge con la partecipazione di tutte le componenti dell’istituzione stessa.
E a dimostrarlo è la tesi dei controricorrenti secondo cui il cosiddetto «tempo mensa» non coinciderebbe con il «servizio mensa» erogato dalla scuola, quanto piuttosto con il tempo dedicato alla ristorazione individuale mediante autorefezione: in tal caso, tuttavia, non si comprende per quale ragione il suddetto tempo dovrebbe essere ricompreso nel «tempo scuola» che è una nozione indicativa di un servizio d’istruzione da considerare unitariamente. Le parti private obiettano che gli alunni muniti del pasto domestico siedono nel refettorio nei posti loro assegnati e ivi consumano le pietanze portate da casa, vigilati dal personale docente che, in base al contratto nazionale di categoria, è tenuto a prestare l’assistenza educativa; analogamente, alla pulizia dei locali scolastici provvedono contrattualmente le imprese esterne che gestiscono il servizio ovvero il personale ATA, senza oneri per l’amministrazione scolastica. Sono obiezioni che, tuttavia, non smentiscono e, anzi, dimostrano quella che sarebbe una impropria ingerenza dei privati nella gestione di un servizio che, per come organizzato dall’amministrazione scolastica, non prevede da parte del personale docente la vigilanza degli alunni che pranzano con il pasto domestico: il livello di attenzione dovuto dagli insegnanti verso gli alunni che usufruiscono della mensa (ove il cibo è controllato e calibrato secondo le esigenze individuali di salute, religiose ecc.) è diverso da quello che sarebbe richiesto in presenza di alunni ammessi al pasto domestico, anche per la possibilità di scambio di alimenti tra gli alunni. Quando poi alcuni alunni siano ammessi a consumare il proprio cibo in locali destinati allo scopo, l’amministrazione dovrebbe prevedere per la vigilanza un docente diverso da quello che presta la vigilanza nei locali adibiti a mensa; inoltre, occorre una diversa modulazione delle condizioni contrattuali per imporre al gestore del servizio la pulizia dei locali utilizzati dagli alunni che utilizzano il cibo domestico. Né si può trascurare l’esigenza che l’istituzione scolastica sia messa in condizione di controllare le fonti generatrici della responsabilità, contrattuale o da contatto sociale, cui è essa esposta per i danni subiti dagli alunni (Cass. 28 aprile 2017, n. 10516), provvedendo all’organizzazione del servizio pubblico di istruzione reso al pubblico.
Nella vicenda in esame, prosegue la Corte, la conformazione del diritto in questione in termini di diritto di libertà, quasi ad evocare la nozione ottocentesca di libertà negativa («libertà da»), postula in realtà non già l’astensione ma l’intervento del terzo (pubblico potere), in quanto indispensabile per il soddisfacimento dell’interesse azionato. Ed in effetti non di libertà (personale) si tratta, ma di un diritto sociale (all’istruzione), evidentemente condizionato e dipendente dalle scelte organizzative rimesse alle singole istituzioni scolastiche, sulle quali i beneficiari del servizio pubblico possono influire nell’ambito del procedimento amministrativo, in attuazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione pubblica, di cui all’art. 97 Cost., e con i consueti strumenti a tutela della legittimità dell’azione amministrativa. Il detto procedimento è la sede nella quale effettuare le opportune valutazioni, anche di natura tecnica, nella ricerca del più corretto bilanciamento degli interessi individuali di coloro che chiedono di consumare il cibo portato da casa con gli interessi pubblici potenzialmente confliggenti, tenuto conto delle risorse a disposizione dell’Amministrazione.
Non è pertinente il rilievo che agli alunni è invece consentito il consumo di merende portate da casa durante il tempo della ricreazione, il quale non interferisce con il servizio pubblico della refezione scolastica. Ed allora, la tesi (espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza della Sez. V, n. 5156 del 2018) secondo cui la «scelta alimentare» costituisce oggetto di «una naturale facoltà dell’individuo – afferente alla sua libertà personale – e, se minore, della famiglia mediante i genitori», «per sua natura e in principio libera, [che] si esplica vuoi all’interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici» ed anche nelle scuole e a prescindere dalle determinazioni delle autorità scolastiche, non può assurgere a fondamento di un diritto perfetto o incondizionato degli alunni all’autorefezione nei locali scolastici.
Deve darsi, quindi, risposta negativa al quesito posto dall’ordinanza di rimessione, se la citata sentenza del Consiglio di Stato – che ha annullato per eccesso di potere l’impugnata delibera del Comune di Benevento che vietava la permanenza nei locali scolastici agli alunni delle scuole materne ed elementari che intendevano consumare cibi portati da casa o acquistati autonomamente (cui ha fatto seguito l’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, sez. V, 27 marzo 2019, n. 1623, che ha sospeso la determinazione di un dirigente scolastico che vietava agli alunni autorizzati a fruire del pasto domestico di consumarlo nei locali adibiti a refettorio) – debba intendersi come ricognitiva di un diritto soggettivo perfetto o incondizionato, suscettibile in quanto tale di accertamento in giudizio e di ottemperanza ad istanza degli interessati.
La Corte ha avuto occasione di rilevare, e ora ribadisce, che l’autonomia delle istituzioni scolastiche si manifesta analogamente rispetto alle scelte didattiche, inerendo alle funzione delle stesse istituzioni le «scelte di programmi e di metodi […] potenzialmente idonei ad interferire ed anche eventualmente a contrastare con gli indirizzi educativi adottati dalla famiglia e con le impostazioni culturali e le visioni politiche esistenti nel suo ambito», ben potendo «verificarsi che sia legittimamente impartita nella scuola una istruzione non pienamente corrispondente alla mentalità ed alle convinzioni dei genitori, senza che alle opzioni didattiche così assunte sia opponibile un diritto di veto dei singoli genitori» (Cass. SU 5 febbraio 2008, n. 2656, ha escluso la configurabilità di un diritto delle famiglie, azionabile dinanzi al giudice ordinario, di vietare alla scuola di esercitare il potere di impartire lezioni di educazione sessuale agli alunni). Ed in effetti, l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni, né il rapporto con l’utenza è connotato in termini meramente negoziali, ma piuttosto è un luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali (cfr. l’art. 5 D.Lgs. n. 59 del 2004) devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità, come interpretati dall’istituzione scolastica mediante regole di comportamento cogenti, tenendo conto dell’adempimento dei doveri cui gli alunni sono tenuti, di reciproco rispetto, di condivisione e tolleranza. Per altro verso, i genitori sono tenuti anch’essi, nei confronti dei genitori degli alunni portatori di interessi contrapposti, all’adempimento dei doveri di solidarietà sociale, oltre che economica, richiesti per l’attuazione anche dei diritti inviolabili dell’uomo, a norma dell’art. 2 della Costituzione.
Non comparabile con la pretesa azionata nel giudizio de quo – precisa infine la Corte – è quella dell’alunno di non avvalersi dell’insegnamento di religione, la quale rappresenta una esigenza imperiosa, anche sul piano costituzionale, implicante il diritto di svolgere le attività alternative organizzate dall’istituzione scolastica, tanto più che detta esigenza è stata riconosciuta espressamente dalla legge (artt. 310 e 311 della legge 16 aprile 1994, n. 297).
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Il 2 agosto esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.20822 che in primo luogo ribadisce come le Sezioni Unite stesse abbiano già affermato il principio, che va ribadito, secondo cui «in tema di affidamento di un pubblico servizio, nella vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, la giurisdizione amministrativa esclusiva indicata dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, del d.lgs. n. 104 del 2010 concerne solo le controversie relative al procedimento di scelta del contraente fino al momento in cui acquista efficacia l’aggiudicazione definitiva, mentre le controversie vertenti sull’attività successiva, anche se precedente alla stipula del contratto, seguono l’ordinario criterio di riparto, imperniato sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, da individuare con riferimento alla posizione che la domanda è diretta a tutelare sotto il profilo del petitum sostanziale» (Cass., sez. un, ord., 5/10/2018, n. 24411).
Dovendosi, pertanto, per la determinazione della giurisdizione, individuare il petitum sostanziale con riferimento ai fatti materiali allegati dalla parte attrice, il Collegio rileva che, nel caso all’esame, con la controversia instaurata innanzi al Tribunale ordinario nei confronti di X, la ASUR Marche intende ottenere dalla società convenuta il rilascio del locale adibito a bar, sito all’interno del presidio ospedaliero, nonché il pagamento, a titolo risarcitorio, di una somma mensile correlata all’utilizzo del predetto locale sine titulo (in ragione del rifiuto di addivenire alla conclusione del contratto dopo l’aggiudicazione), oltre interessi e maggior danno, detratto l’importo già versato. Deve ritenersi – prosegue la Corte – che tali domande sono devolute alla giurisdizione del GO, restando esse chiaramente escluse dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto investono pretese di tipo patrimoniale dell’ente pubblico (restituzione e risarcimento), a fronte della allegazione di comportamenti illeciti del privato, consistenti nell’ingiustificato rifiuto a concludere il contratto di appalto.
Va pure evidenziato per la Corte che non rilevano, al fine di ritenere la controversia rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo, le circostanze addotte dalla società convenuta a giustificazione del proprio operato, né la domanda riconvenzionale dalla medesima proposta, tenuto conto della natura privatistica delle posizioni giuridiche soggettive invocate (dedotta responsabilità precontrattuale dell’ASUR). Come affermato dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 204 del 2004), la giurisdizione esclusiva per le procedure di evidenza pubblica tese alla ricerca dell’aggiudicatario negli appalti di lavori, servizi e forniture riguarda pur sempre quelle controversie nelle quali gli interessi legittimi e i diritti soggettivi sono in stretta correlazione tra di loro. Le stesse Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare che «è proprio l’esercizio del potere autoritativo che consente di configurare quella particolare materia prefigurata dai costituenti nell’intreccio tra diritti del privato, da un lato, e interessi e poteri della P.A. dall’altro» (Cass., sez. un., ord., 13/12/2016, n. 25516 del 2016) e che «solo la parte che tocca comunque l’esercizio del potere amministrativo … può essere legittimamente devoluta alla giurisdizione esclusiva dei compiti TAR-Consiglio di Stato, dovendo restare alla giurisdizione civile le vertenze ogniqualvolta non venga in riguardo alcun intreccio tra diritti privati e interessi/poteri pubblici, giacché in questa seconda fase, pur strettamente connessa con la precedente, e ad essa consequenziale, che ha inizio subito dopo l’incontro delle volontà delle parti e prosegue con tutte le vicende in cui si articola la sua esecuzione, i contraenti – pubblica amministrazione e privato – si trovano in una posizione paritetica e le rispettive situazioni soggettive si connotano del carattere, rispettivamente, di diritti soggettivi, ed obblighi giuridici a seconda delle posizioni assunte in concreto» (Cass., sez. un., ord., 13/12/2016, n. 25516; Cass., sez. un., 16/01/2018, n. 895). Alla luce di quanto sopra evidenziato, per la Corte va dunque dichiarata la giurisdizione del GO.
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Il 19 settembre esce la sentenza della I sezione del TAR Liguria n. 722 che riconosce la legittimità del provvedimento con il quale il Dirigente di un Istituto scolastico ha opposto un diniego in merito ad una istanza avanzata da un genitore, tendente ad ottenere l’ammissione del proprio figlio minore, frequentante la scuola primaria, a consumare il “pasto di preparazione domestica” nel locale refettorio, unitamente e contemporaneamente ai compagni di classe, sotto la vigilanza e con l’assistenza educativa dei propri docenti, per condividere i contenuti educativi connessi al tempo mensa, che sia motivata con riferimento all’offerta formativa prescelta dalle famiglie e con la necessità di tutelare la salute di alcuni gravi casi di intolleranze alimentati.
Peraltro, l’Amministrazione aveva stabilito che la consumazione dei “pasti domestici” sarebbe potuta avvenire esclusivamente in locali diversi dal refettorio ed in orario non coincidente con quello della mensa, vista la necessità di tutelare l’igiene alimentare, con particolare riguardo alla presenza di alunni segnalati per allergie alimentari e/o in situazione di codice rosso frequentanti il plesso, nonché con le “caratteristiche strutturali del locale adibito a refettorio ed ai rischi connessi alla commistione di pasti veicolati con i cd. pasti domestici.
Rileva comunque il TAR che la dichiarata inclusione del “tempo mensa” nel novero delle attività educative comporta la necessità di condividerne le finalità, non diversamente da quanto si verifica per le attività didattiche in senso stretto.
Anche in questo secondo ambito può verificarsi, infatti, che gli indirizzi educativi attuati all’interno delle famiglie non coincidano con le scelte dell’amministrazione scolastica o dei docenti, ma ciò non legittima certo i genitori ad opporvi un diritto di veto (cfr. Cass. civ., sez. un., 5 febbraio 2008, n. 2656) ovvero a pretendere di conformare i contenuti dell’insegnamento secondo le proprie convinzioni (fatta eccezione per il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica).
Analoghe considerazioni valgono per la partecipazione al cosiddetto “tempo mensa”, poiché le finalità formative ad esso sottese implicano necessariamente una prospettiva di socializzazione che, a sua volta, comporta la condivisione dei cibi in una situazione di sostanziale uguaglianza, salvi i limiti imposti da esigenze di salute o religiose.
Neppure in tale contesto, quindi, può essere attribuita al nucleo familiare “una funzione esclusiva e totalizzante nel processo di crescita, educazione e maturazione dei figli” (Cass., sent. n. 2656 cit.), sicché le scelte compiute dalle famiglie in materia alimentare, anziché costituire espressione di una volontà incomprimibile, devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con le azioni poste in essere dall’amministrazione nell’interesse pubblico, peraltro presidiate da controlli sanitari e di qualità ovviamente non riproducibili in ambito domestico.
Non può trascurarsi, infine, come la scelta individuale dell’autorefezione, perlomeno nei termini in cui è configurata da parte ricorrente, sostanzi un comportamento non conforme ai doveri di solidarietà sociale sanciti dall’art. 2 Cost., in ragione dei rischi immotivatamente generati per gli alunni con problemi di salute e del contrasto con gli interessi delle famiglie che si avvalgono del servizio di refezione scolastica.
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Il 20 settembre esce la sentenza della II sezione del TAR Puglia, sede di Lecce, n. 1483 che dichiara l’illegittimità di un’ordinanza contingibile ed urgente di un Comune che disponeva la proroga del servizio di raccolta dei rifiuti senza contestualmente procedere all’indizione di una “gara-ponte” in attesa della “gara unitaria” e senza prevedere la risoluzione anticipata ed immediata in caso di avvio del servizio in base alle espletande procedure di gara.
Se è vero, infatti, che, ai sensi dell’art. 24, commi 1 e 2, L. reg. Puglia n. 24/2012, i Comuni sono tenuti ad affidare il servizio di raccolta rifiuti con una gara unitaria (v. comma 1), è altrettanto vero che ciascun Comune, per non rimanere sfornito del servizio rifiuti nelle more dell’avvio del servizio unitario affidato a seguito di “gara accentrata”, deve espletare la “gara-ponte” ai sensi del comma 2, per “contratti di durata biennale aventi clausola di risoluzione immediata in caso di avvio del servizio unitario”.
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In pari data esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 23541 onde, ai sensi dell’art. 133, comma primo, lett. e), n. 1 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA, tra l’altro, le controversie relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale. La disciplina interna vigente, costituita dal d.lgs. n. 50 del 2016 (c.d. codice dei contratti pubblici), individua i predetti soggetti nelle amministrazioni aggiudicatrici (per tali intendendosi, ai sensi dell’art. 3, comma primo, lett. a), le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni, unioni, consorzi costituiti da detti soggetti) e gli enti aggiudicatori (ovverosia, ai sensi della lett. e) n. 1 dell’art. 3, comma primo, cit., le imprese pubbliche che svolgono una delle attività di cui agli artt. 115-121 del d.lgs. n. 50 del 2016, e gli enti che, pur non essendo amministrazioni aggiudicatrici né imprese pubbliche, esercitano una o più delle predette attività, operando in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall’autorità competente). Restano invece esclusi dall’ambito applicativo delle predette disposizioni, ai sensi dell’art. 14, comma primo, gli appalti e le concessioni aggiudicati dagli enti aggiudicatori per scopi diversi dal perseguimento delle attività di cui agli artt. 115-121, tra le quali sono inclusi, ai sensi dell’art. 120, i servizi postali, comprendenti non solo la raccolta, lo smistamento, il trasporto e la distribuzione di invii postali, ma anche altri servizi diversi da quelli postali, a condizione che siano prestati da un ente che fornisce anche servizi postali la cui attività, per quanto riguarda tali servizi, non sia direttamente esposta alla concorrenza su mercati liberamente accessibili.
Alla stregua di tale disciplina, presupposto indispensabile per la devoluzione delle controversie alla giurisdizione amministrativa esclusiva è l’assoggettamento del contratto alle procedure di evidenza pubblica, il quale dipende sotto il profilo soggettivo dall’inquadramento del committente nelle categorie di soggetti indicate dall’art. 3, comma primo, lett. a) del d.lgs. n. 50 cit., e sotto quello oggettivo dalla riconducibilità dell’appalto ad una delle attività previste dagli artt. 115-121 del medesimo decreto. La sussistenza del primo requisito dovrebbe essere nella specie accertata con riferimento non già alla Poste Italiane S.p.a., che ha incorporato la Poste Tutela S.p.a. in epoca successiva all’aggiudicazione dell’appalto (anche se anteriore alla sottoscrizione del contratto), ma alla società incorporata, che ha provveduto all’espletamento della procedura di evidenza pubblica: prima della fusione, la Poste Tutela costituiva infatti un soggetto distinto dalla Poste Italiane, la cui autonoma personalità giuridica consentirebbe in questa sede di attribuire un rilievo soltanto indiretto alla circostanza che la società incorporante detenesse l’intero pacchetto azionario di quella incorporata. In concreto, tuttavia, il predetto accertamento può considerarsi superfluo, rivestendo una portata assorbente l’aspetto oggettivo della fattispecie, caratterizzata per un verso dalla non riconducibilità dell’oggetto dell’appalto all’ambito delle attività indicate negli artt. 115-121 del d.lgs. n. 50 del 2016, e segnatamente a quella dei servizi postali o di quelli diversi previsti dall’art. 120, e per altro verso dall’estraneità a tale settore dell’attività svolta dalla società committente, il cui oggetto non comprende in alcun modo servizi postali. L’appalto per la cui stipulazione è stata indetta la procedura aperta in modalità telematica, il cui esito ha costituito oggetto d’impugnazione da parte dell’Europolice dinanzi al Giudice amministrativo, non ha infatti nulla in comune con i servizi di raccolta, smistamento, trasporto e distribuzione di invii postali, nel senso precisato dal comma secondo, lett. a) e b), del d.lgs. n. 50 del 2016, avendo ad oggetto la prestazione del «servizio di vigilanza armata e gestione chiavi presso siti di Poste Italiane S.p.a. e di società del Gruppo»; in quanto sostanzialmente consistente nello svolgimento del servizio di sorveglianza e custodia delle sedi in cui si svolgono l’attività postale e quelle anche diverse delle altre società controllate da Poste Italiane, esso non è riconducibile neppure all’ambito dei servizi diversi previsti dalla lettera c) dell’art. 120, comma secondo, i quali comprendono esclusivamente le attività precedenti e successive all’invio postale, ma strettamente connesse allo stesso, nonché i servizi di spedizione diversi da quelli postali propriamente detti: in tal senso depongono infatti chiaramente i riferimenti esemplificativi ai servizi di smistamento della posta e di spedizione di invii pubblicitari privi di indirizzo, contenuti rispettivamente nei nn. 1 e 2 della disposizione in esame. A propria volta, l’oggetto dell’attività esercitata dalla Poste Tutela non consisteva anche nello svolgimento di servizi postali, ma esclusivamente nella fornitura di prestazioni di pianificazione, progettazione, indagini di mercato, procedure di acquisto, coordinamento e monitoraggio finalizzate alla prestazione di servizi di trasporto, vigilanza armata, portierato e reception; in quanto notoriamente esercitata in via ordinaria anche da altri imprenditori privati operanti in competizione tra loro sia in sede locale che sull’intero territorio nazionale, tale attività deve inoltre considerarsi direttamente esposta alla concorrenza su un mercato liberamente accessibile, nel senso precisato dall’art. 8 del d.lgs. n. 50 del 2016: pertanto, anche a voler ritenere che le prestazioni dedotte nel contratto siano riconducibili al disposto dell’art. 120, comma secondo, lett. c), del d.lgs. n. 50 cit., dovrebbe ugualmente escludersi l’assoggettamento dell’appalto alle procedure di evidenza pubblica, non risultando soddisfatta la duplice condizione prevista dal comma primo, lett. b), del medesimo articolo.
Per effetto dell’estraneità del relativo oggetto alle attività di cui agli artt. 115-121 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’appalto in questione deve considerarsi sottratto all’ambito di operatività della disciplina dettata da tale decreto, la cui applicazione alla fattispecie in esame non è quindi ricollegabile alla volontà della legge, ma esclusivamente a quella della committente, che si è liberamente determinata in favore dell’assoggettamento della scelta del contraente alle regole dell’evidenza pubblica: trova conseguentemente applicazione il principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento all’art. 133, lett. e), del d.lgs. n. 104 del 2010 (e prima ancora all’art. 33, comma secondo, lett. d), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ed agli artt. 6 e 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205), secondo cui la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del GA delle controversie in materia di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture postula che la sottoposizione dell’appalto al regime pubblicistico discenda esclusivamente dalle relative caratteristiche oggettive e da quelle soggettive della stazione appaltante, e non è pertanto configurabile nel caso in cui quest’ultima, pur non essendovi tenuta, si sia volontariamente vincolata all’osservanza del predetto regime, in tal modo procedimentalizzando l’individuazione in concreto dell’appaltatore.
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Sempre il 20 settembre esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 23541 che afferma rientrare nella giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c) del cod. proc. amm. la domanda con cui una concessionaria di pubblico servizio sanitario in seno al Servizio Sanitario nazionale, a seguito dell’invio da parte dell’Amministrazione sanitaria, all’esito dell’esercizio del potere di controllo di cui all’art. 8-octies del d.lgs. n. 502 del 1992 e della relativa normativa di attuazione, della richiesta di emissione di note di credito a titolo di c.d. penalizzazione ai sensi del comma 3, lettera a) di detta norma, e della minaccia, in mancanza di emissione delle stesse, di compensare il preteso su corrispettivi fatturandi dalla concessionaria, chieda in via negativa l’accertamento della mancata adozione di un provvedimento amministrativo sanzionatorio, nonché della inesistenza delle condizioni della minacciata compensazione e di non essere tenuta ad emettere le chieste note di credito.
Le S.U. (n. 18168/2017) avevano già stabilito in un caso analogo la giurisdizione del giudice amministrativo rilevando: (a) che in linea generale le Convenzioni e gli accordi tra le ASL e le Case di cura private hanno natura di contratti di diritto pubblico e sono qualificabili come concessioni di pubblico servizio (sulla linea, pacifica, che muove da Cass., S.U. n. 28501/2005); (b) che di conseguenza le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo, a norma dell’art. 133, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 104/2010, codice del processo amministrativo (e, prima, dell’art. 5 della legge n. 1034/1971: Cass., S.U., n. 8212/2004); (c) che – con indiretto riferimento alla sola eccezione predicabile in questo ambito, sulla scia dì Corte cost. n. 204/2004, ossia alla clausola di riserva attributiva all’A.G.O. delle (sole) controversie in tema di concessione di pubblico servizio che abbiano riguardo a “indennità, canoni o altri corrispettivi” – nella fattispecie non veniva in rilievo la sola contestazione di atti di recupero di posizioni creditorie dell’ASL da determinare facendo applicazione di criteri legali predefiniti, bensì era messo in discussione il profilo valutativo che aveva condotto all’applicazione di quelle “sanzioni” (così impropriamente definite nei Decreti 2009 e 2012 già menzionati) attraverso un apprezzamento sulla adeguatezza e congruità dei servizi resi dalla struttura accreditata; (d) che, in presenza dell’esercizio del potere autoritativo di programmazione sanitaria, espresso sia nel relativo budget sia nella definizione del sistema dei controlli a posteriori sull’attività sanitaria e sui criteri operativi, nonché sul correlato potere di applicare le “sanzioni” (penalità patrimoniali), in tanto la struttura sanitaria può contestarne la debenza in quanto, “inevitabilmente”, metta in discussione quei controlli e i rispettivi esiti, contestandone la legittimità e il modo di esercizio, giacché la correlazione tra potere di vigilanza e potere sanzionatorio rende il provvedimento adottato ascrivibile alla materia della concessione di pubblico servizio, risultando la determinazione “sanzionatoria” direttamente funzionale alla tutela dell’interesse pubblico al corretto espletamento del servizio-sanità, in un intreccio di posizioni soggettive di diritto e di interesse che legittima l’attribuzione all’A.G.A., in via esclusiva come disposto dalla legge, delle relative controversie (ed è fatto richiamo in tal senso all’applicazione delle penali in materia di servizi pubblici di trasporto, Cass., S.U. n. 12111/2013). Onde la contestazione della debenza della “sanzione” porta con sé, inevitabilmente, lo scrutinio sulla legittimità dell’attività provvedimentale autoritativa e tecnicamente discrezionale della amministrazione, dal che la affermazione della giurisdizione amministrativa di carattere esclusivo.
Tali principi sono stati ribaditi, per pressoché totale sovrapposizione. A ulteriore conferma di questa conclusione sta inoltre la circostanza che, come nel caso deciso dalla citata pronuncia del 2017, l’assunto di base delle censura allora come oggi mossa alle determinazioni dell’amministrazione era rappresentata dalla qualificazione di queste ultime come “sanzioni” amministrative: ieri, per dire che era questa “a tutti gli effetti” la sostanza delle decisioni adottate all’esito dei controlli; oggi per dire che questi esiti non sono stati trasfusi in un provvedimento formale del tipo ordinanza-ingiunzione applicativa di sanzione amministrativa, secondo lo schema della legge n. 689/1981; ma in entrambi i casi per sostenere che si delineerebbe in capo alla struttura privata accreditata, una posizione di diritto soggettivo, tutelabile solo davanti al GO. Questo è infatti il petitum sostanziale – da leggere, come sempre, in connessione con la causa petendi – del ricorso proposto nel caso in esame davanti al giudice ordinario. Ma è una prospettiva non sostenibile, sotto nessuna delle angolature proposte nel ricorso per regolamento. Il meccanismo dei controlli nel campo del servizio sanitario, erogato dalle strutture private attraverso l’accreditamento e con il meccanismo della cd. tariffazione, è predefinito dalla legge, ossia dall’art. 8-quinquies del decreto di riforma del 1992, n. 502: “1. Le regioni, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, definiscono l’ambito di applicazione degli accordi contrattuali ed individuano i soggetti interessati, con specifico riferimento ai seguenti aspetti: a) individuazione delle responsabilità riservate alla regione e di quelle attribuite alle unità sanitarie locali nella definizione degli accordi contrattuali e nella verifica del loro rispetto; b) indirizzi per la formulazione dei programmi di attività delle strutture interessate, con l’indicazione delle funzioni e delle attività da potenziare e da depotenziare, secondo le linee della programmazione regionale e nei rispetto delle priorità indicate dal Piano sanitario nazionale; c) determinazione del piano delle attività relative alle alte specialità ed alla rete dei servizi di emergenza; d) criteri per la determinazione della remunerazione delle strutture ove queste abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato, tenuto conto del volume complessivo di attività e del concorso allo stesso da parte di ciascuna struttura. 2. In attuazione di quanto previsto dal comma 1, la regione e le unità sanitarie locali, anche attraverso valutazioni comparative della qualità e dei costi, definiscono accordi con le strutture pubbliche ed equiparate, comprese le aziende ospedaliere universitarie, e stipulano contratti con quelle private e con i professionisti accreditati, anche mediante intese con le loro organizzazioni rappresentative a livello regionale, che indicano: a) gli obiettivi di salute e i programmi di integrazione dei servizi; b) il volume massimo di prestazioni che le strutture presenti nell’ambito territoriale della medesima unità sanitaria locale, si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza. Le regioni possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati; c) i requisiti del servizio da rendere, con particolare riguardo ad accessibilità, appropriatezza clinica ed organizzativa, tempi di attesa e continuità assistenziale; (omissis)”.
Sulla base di questa norma, nonché dell’art. 79, comma 1-septies, del d.l. n. 112/2008 conv. dalla legge n. 133/2008 (che ha imposto alle Regioni, a fini di economicità e appropriatezza del servizio erogato, un controllo analitico a campione sui dati di ricovero, su base percentuale), i Decreti del 2009 e del 2012 hanno minuziosamente regolato i modi procedimentali del controllo di congruità e di appropriatezza, con la previsione di un contraddittorio con le strutture interessate circa i controlli (i cui esiti possono essere “concordati” con la struttura, o no; e in caso di discordanza è previsto un passaggio presso una Commissione di esperti, con compiti di relazione), e con la prefigurazione di aree percentuali diversificate di scostamento dai parametri di congruità/appropriatezza del servizio, cui corrispondono importi crescenti di recupero delle somme già tariffate e fatturate. Una simile conformazione del modello di controllo ne manifesta la totale incompatibilità giuridica con lo schema di principio che regge la materia delle sanzioni amministrative pecuniarie secondo la legge n. 689/1981 certamente procedimentalizzato (e dunque compatibile con i canoni della legge n. 241/1990), questo meccanismo non consente d ravvisarvi le regole fondanti della attività applicativa di una sanzione in senso proprio. I provvedimenti di recupero degli importi adottati dagli Uffici regionali, anche attraverso l’avvalimento delle ASL quali enti strumentali, non potrebbero trovare fonte nella legge come preteso dalla disciplina della legge n. 689/1981, in particolare e soprattutto, più che per il precetto – in astratto etero-integrabile da parte di fonte secondaria, ma che c’è, a ben vedere: si tratta della cattiva gestione della erogazione del servizio nelle sue molteplici varianti – per la “sanzione””, che non è prevista da fonte primaria ma solo, nella complessa articolazione che si è accennata, da provvedimenti generali di amministrazione. La qualificazione, che si è già detto inappropriata in senso tecnico, di “sanzione” (e la virgolettatura presente in Cass., S.U. n. 18168/2017 cit. ne è conferma) è contenuta bensì nei Decreti del Commissario ad acta del 2009 e del 2012 ma la formula lessicale non può certamente vincolare la Corte in questo senso, trattandosi di conseguenza patrimoniale, prevista non da una fonte legislativa ma da un atto amministrativo, quale conseguenza di controlli sulla complessiva gestione del servizio sanitario affidato ai privati, dunque secondo uno schema assimilabile a “penali” nel campo delle concessioni di servizio pubblico, situazioni a fronte delle quali non è ravvisabile una posizione del concessionario che sia tutelabile davanti al giudice ordinario (Cass., S.U., n. 12111/2013 cit.).
A sostegno della conclusione, inoltre, può osservarsi che, più di recente, Cass., S.U., n. 28053/2018, in controversia avente riguardo a una ingiunzione della struttura accreditata per il pagamento di fatture inevase in relazione ai tetti spesa (dunque, con un petitum differente da quello ora in discorso, e riferibile al sub-settore dei “corrispettivi” etc. che fondano la giurisdizione ordinaria), ha significativamente ulteriormente sviluppato i connotati della funzione di controllo (che in quel caso erano stati fatti valere, però, dall’ASL solo in via di replica ossia di eccezione; dal che la decisione in concreto nel senso della attribuzione di quel giudizio all’A.G.O, ma appunto solo per ragioni processuali, che impongono, a fini di statuizione sulla giurisdizione di considerare la sola domanda, non la estensione portata dalla eccezione: Cass., S.U., n. 16700/2012). Essa afferma, sempre sulla premessa che si verte in tema di concessioni di servizio pubblico (§ 4.1.), che la negazione della soggezione della struttura alla pretesa creditoria dell’ASL involge la negazione del potere autoritativo espresso con le determinazioni della P.A., giacché le specifiche determinazioni dell’Azienda sono attuative della deliberazione “a monte” (in quel caso, del tetto di spesa nel regime di accreditamento provvisorio; nel caso che occupa, dei parametri di congruità e di adeguatezza al cui rispetto sono finalizzati i controlli), ossia di un potere amministrativo riconosciuto dalla legge ed estrinsecato in atti amministrativi a contenuto generale che fissano limiti e condizioni della gestione del servizio e dei relativi emolumenti: “il potere di attuazione da parte di tali organismi [le ASL, n.d.r.], per il fatto stesso che deve in concreto realizzare quanto disposto dalla regione, non può che avere la stessa natura e dunque anch’esso tendenzialmente carattere autoritativo, ancorché diretto a incidere sul profilo del rapporto di concessione di servizio inerente il corrispettivo che è regolato dall’accordo contrattuale …il potere dei detti organismi risulta autoritativo per il fatto stesso che deve attuare l’atto regionale espressione di potere autoritativo e tale natura è rafforzata anche dal fatto che per l’attuazione di quanto disposto da detto atto regionale gli organismi debbono compiere a loro volta valutazioni che implicano apprezzamento di interessi di natura pubblicistica inerenti all’organizzazione del servizio sanitario”; così che “il controllo sull’esercizio di tale potere … non può essere ricondotto nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario inerente alle controversie sulle indennità, sui canoni o altri corrispettivi, ancorché tale provvedimento in concreto incida sulla debenza di tali entità”. E’ quindi da escludere che nella fattispecie si possa individuare un connotato che sia in qualsiasi senso paritetico/negoziale, tale da assegnare la cognizione del giudizio all’A.G.O., anche perché appare evidente che l’applicazione del recupero degli importi già fatturati è del tutto scollegato da un accertamento sulla misura effettiva dello scostamento, parametrato invece – e così necessariamente accettato dalla struttura privata in sede di concessione di servizio, la cui regolazione è data anche dal contenuto dei Decreti 2009 e 2012 – a soglie percentuali che risultano dalla proiezione figurativa dei controlli effettivi; e appare quindi evidente che nella vicenda non si fa questione di “corrispettivi” sinallagmatici in senso proprio.
La giurisdizione amministrativa è altresì coerentemente affermata anche dallo stesso giudice amministrativo: Cons. Stato, Sez. III, n. 3189/2015, resa in giudizio per annullamento (negato) dei provvedimenti commissariali in parola, conferma questi tratti, nel dire che l’applicazione delle “sanzioni” si configura come momento di esecuzione della concessione per la gestione del servizio pubblico, che non può essere considerata espressione di una facoltà improntata a un rapporto partitario [rectius: paritario], in quanto afferisce all’esercizio di specifici poteri di vigilanza e di controllo sulla correttezza della gestione stessa. Il fatto che la riscossione di detta “sanzione” sia operata mediante detrazione dal corrispettivo costituisce null’altro che una modalità attuativa della pretesa, non una circostanza che colloca il soggetto concedente in posizione paritaria. Che è quanto accade nella specie, in cui la riscossione è attuata attraverso richiesta di emissione di note di credito (possibilità, questa, negata dalla struttura ricorrente, ma con notazioni che non solo non fanno parte del contenuto della domanda giudiziale ma che in ogni caso riguardano il merito, senza interferire sulla determinazione della giurisdizione).
Mette conto rilevare che la determinazione della giurisdizione sulla controversia, avuto riguardo al fatto che pacificamente essa concerne un rapporto di concessione di servizio pubblico (nel settore sanitario), deve avvenire considerando le previsioni dell’art. 133, comma 1, lett. c), del Codice del processo amministrativo e, dunque, domandandosi se la controversia sia riconducibile oppure no all’àmbito della fattispecie di giurisdizione esclusiva dell’A.G.A. individuata da detta norma. Quest’ultima reca una formulazione che, dopo un esordio espressamente onnicomprensivo riferito alla “controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi”, il quale di per sé sarebbe idoneo ad assoggettare alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie in quella materia, cioè che traggano origine da o si ricolleghino ad un rapporto di concessione di pubblico servizio, eventualmente anche con riferimento alla fase della sua insorgenza, in primo luogo stabilisce un’eccezione alla regola generale della soggezione alla giurisdizione esclusiva individuata con il semplice e generico riferimento al detto rapporto. Essa è relativa alle controversie concernenti “indennità, canoni ed altri corrispettivi”. La norma continua, poi, con una serie di previsioni che vorrebbero essere aggiuntive a quella generale, quando – con la congiunzione “ovvero” (da intendersi non nel senso avversativo, bensì in quello simile a “cioè”, “ossia”, e dunque esemplificativo della previsione generale) -riferisce la giurisdizione esclusiva alle controversie “relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servìzio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sui credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità”. Si tratta, peraltro, di esemplificazioni che, se non fossero state fatte, non avrebbero comunque – e proprio per il loro carattere esemplificativo – impedito la riconducibilità delle dette controversie alla fattispecie generale di giurisdizione esclusiva. Tale fattispecie, infatti, avrebbe dovuto intendersi secondo la metanorma di cui al comma 1 dell’art. 7 del cod. proc. amm. e, quindi, in modo da comprendere le controversie su “i diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posto in essere da pubbliche amministrazioni”. In base a tale metanorma, com’è noto fotografante i limiti della giurisdizione esclusiva segnati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004, la giurisdizione esclusiva nella materia delle concessioni di pubblico servizio secondo la previsione generale sarebbe stata ed è idonea – al di là delle esemplificazioni fatte poi dalla stessa lettera c), che comunque vanno lette allo stesso modo – a comprendere tutte le controversie che originino da un rapporto concessorio di pubblico servizio o comunque siano relative alla sua insorgenza, in quanto coinvolgano l’esercizio o il mancato esercizio di un potere amministrativo, che si esprima in un provvedimento oppure in un atto o un accordo che sia riconducibile a tale esercizio o mancato esercizio oppure in un comportamento che anche mediatamente a detto potere sia riconducibile. Le esemplificazioni introdotte dalla congiunzione “ovvero” risultano – come s’è già detto – a loro volta da leggersi secondo il disposto della detta metanorma. Al di fuori della fattispecie di giurisdizione esclusiva così individuata sia sulla base della previsione generale, sia, in modo confermativo ed esemplificativo, da quelle particolari, mette conto di rilevare che si colloca soltanto la giurisdizione sulle “controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi”.
La legge non dice quale sia la giurisdizione su tali controversie, ma, ragionando in negativo e valorizzando l’eccettuazione dalla giurisdizione esclusiva, si potrebbe pensare che essa sia regolata dal criterio normale di riparto della giurisdizione, quello imperniato sulla distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi. Ne seguirebbe che, quando siffatte controversie riguardino la tutela di una situazione di diritto soggettivo spetterebbero all’A.G.O., mentre spetterebbero all’A.G.A. se riguardino la tutela di una situazione di interesse legittimo. In realtà, conforme a quanto nella materia doveva ritenersi nella vigenza della I. n. 1034 del 1971, l’eccettuazione implica che le controversie in discorso siano attribuite alla giurisdizione ordinaria se ed in quanto la loro decisione non postuli la cognizione di diritti soggettivi riguardo ai quali, secondo la previsione generale e, se si vuole, le esemplificazioni di cui si è detto, non si configura la giurisdizione esclusiva dell’A.G.A.: tale conclusione è obbligata perché la giurisdizione del giudice amministrativo in via esclusiva sul rapporto concessorio è esclusiva e comprende l’esame di posizioni di diritto soggettivo alle condizioni indicate dall’art. 7, comma 1, del cod. proc. amm.: se, per individuare l’àmbito della giurisdizione dell’A.G.O. sulle controversie relative a canoni, indennità e corrispettivi, si applicasse il normale criterio di riparto imperniato sulla distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi, si verificherebbe una palese contraddizione con l’attribuzione all’A.G.A. della giurisdizione esclusiva sul rapporto concessorio, che comprende anche i diritti soggettivi, sebbene alla condizione indicata dall’art. 7, comma 1, citato.
E’ sulla base di tale convincimento che le Sezioni Unite hanno già rilevato (nella sentenza n. 28053 del 2018): a) che quando la legge […] allude a dette controversie, usa una formulazione che certamente si presta in prima battuta ad essere intesa come comprensiva anche delle liti nelle quali si discute della pretesa a dette spettanze in quanto dovute sulla base della disciplina del rapporto di concessione e, dunque, anche con riferimento alle varie modalità che esso prevede per la loro determinazione e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di modalità di determinazione espressione di poteri soggetti al diritto comune o di modalità di determinazione espressione di poteri autoritativi della p.a. concedente; b) che, tuttavia, in concreto l’ampiezza della formulazione non toglie che il legislatore abbia inteso riferirsi ad esse solo nel primo senso e dunque esclusivamente alla controversia sulla determinazione che dipenda dall’applicazione della disciplina del rapporto concessorio in quanto connotata da una posizione di pariteticità delle parti e pertanto dall’assenza di poteri autoritativi della p.a. concedente e dall’attribuzione ad essa soltanto di poteri iure privatorum, cioè dei normali poteri riconosciuti ad una parte di un rapporto di diritto comune, qual è l’accordo contrattuale che la p.a. e il concessionario stipulano per dar corso al regime di erogazione delle prestazioni in c.d. accreditamento; c) che se ed invece la controversia riguardi quella determinazione in quanto dipendente da poteri autoritativi pubblicistici riconosciuti alla p.a., nel senso di abilitarla ad intervenire autoritativamente sulle indennità, sui canoni, sui corrispettivi, la formulazione attributiva della giurisdizione al giudice ordinario non può essere intesa nel senso che ad esso competa di controllare la legittimità dell’esercizio di quel potere; d) che questa seconda opzione esegetica è giustificata alla stregua dell’interpretazione costituzionale che si impone in base alla norma dell’art. 113, terzo comma, della Costituzione, giacché tale norma, nel disporre che «la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge“ esige che una legge ordinaria dica espressamente quando la giurisdizione ordinaria in una determinata materia può annullare un atto della pubblica amministrazione e che ne indichi gli effetti ; e) che il riferimento all’annullamento, concretandosi l’annullamento nella negazione dell’efficacia provvedimentale dell’atto, va inteso non solo nel senso che occorre che la legge debba attribuire un potere di annullamento espressamente, ma anche correlativamente nel senso che, in mancanza di tale attribuzione, l’a.g.o., quando le sia attribuita la giurisdizione su un rapporto con una p.a. non può neppure negare quella efficacia sebbene non tramite un formale annullamento, ma disconoscendola, atteso che tale disconoscimento si risolverebbe in una sorta di annullamento in senso sostanziale; f) che, poiché nel caso di specie la formulazione eccettuativa dall’àmbito della giurisdizione esclusiva delle controversie su canoni, etc., non dice espressamente che l’a.g.o. ha il potere di annullare eventuali atti autoritativi incidenti sulla determinazione delle indennità, dei canoni e dei corrispettivi, deve escludersi che la detta giurisdizione possa comprendere la possibilità del giudice ordinario investito di una controversia al riguardo di deciderla eventualmente annullando formalmente o disconoscendo sostanzialmente l’efficacia (e, dunque, facendo luogo ad una sorta di annullamento sostanziale) il provvedimento della p.a. che abbia inciso in qualche modo sull’obbligazione di corresponsione di indennità, canoni e corrispettivi, con la conseguenza che il giudice ordinario non può essere adito con una domanda che postuli la corresponsione di indennità, canoni o corrispettivi previo annullamento dell’eventuale deliberazione autoritativa della p.a. che abbia inciso in qualche modo sulla loro relativa debenza; g) che poiché la giurisdizione si determina dalla domanda, sebbene secondo il criterio del c.d. petitum sostanziale, la stessa soluzione si giustifica nel caso in cui con la domanda si chieda la corresponsione di indennità, canoni o corrispettivi postulando l’accertamento incidentale dell’invalidità della suddetta deliberazione in quanto incidente sulla loro determinazione e ciò per la ragione che, quando si prospetti con la domanda giudiziale un determinato modo di essere di un rapporto pregiudicante, qual è una deliberazione di quel genere, la domanda, pur se il petitum formale immediato non concerna tale accertamento, deve ritenersi comprensiva di esso, giacché l’art. 34 cod. proc. civ. concepisce la possibilità di un accertamento incidentale del rapporto pregiudicante (qual è quello concretatosi nella deliberazione incidente) come possibile solo se la contestazione sul suo modo di essere sia prospettata dal convenuto, mentre se esso sia prospettato come contestato dallo stesso attore il relativo accertamento è oggetto della domanda giudiziale; h) che in questo caso il giudice ordinario deve ritenersi investito di una domanda di accertamento della illegittimità della deliberazione e, quindi, secondo il criterio del petitum sostanziale, di una domanda di annullamento di essa e deve su tale domanda declinare la giurisdizione, trattenendo la sola domanda di condanna alle indennità, canoni o corrispettivi (salvo poi sospendere il giudizio ex art. 295 cod. proc. civ. su di essa in attesa della definizione di quello rimesso all’A.G.A.; i) che la domanda di annullamento proposta espressamente o impropriamente in via incidentale, una volta considerato che nella materia la giurisdizione del giudice amministrativo è esclusiva, è da ascrivere alla giurisdizione del giudice amministrativo secondo tale qualificazione e non in via di sola legittimità, con la conseguenza che concerne indifferentemente tanto la cognizione degli interessi legittimi quanto quella dei diritti soggettivi.
Dunque, l’àmbito della giurisdizione ordinaria quando si discuta di indennità, canoni e corrispettivi risulta escluso allorché la discussione sulla loro determinazione e debenza riguardi l’incidenza di poteri autoritativi riconosciuti alla p.a. ed è possibile solo se riguardi profili paritetici esulanti dall’incidenza di tali poteri oppure se si è ottenuta dinanzi all’A.G.A. tutela contro l’esercizio di quei poteri. La stessa decisione appena evocata ha sottolineato che, quando penda il giudizio amministrativo sull’impugnazione del provvedimento incidente, il giudice ordinario chiamato a decidere sulla debenza di canoni, indennità e corrispettivi deve sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ..
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Il 2 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 6603 che, in tema di accesso agli atti, ricorda che il diritto di accesso può essere senz’altro esercitato nei confronti di soggetti privati “gestori di pubblici servizi” (cfr. art. 23 l. n. 241/1990); non sussiste, peraltro, necessaria coincidenza – a dispetto delle evidenti sovrapposizioni – tra le attività di pubblico interesse ai fini dell’accesso e quelle rientranti nel perimetro di applicazione delle norme sull’evidenza pubblica, dettate dal d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
In tale ottica, la gestione dell’infrastruttura aeroportuale: a) si colloca nell’ambito di un mercato concorrenziale; b) è caratterizzata da una tipologia di attività che incontra un’offerta di servizi di carattere commerciale proveniente dagli operatori del settore (in primis le compagnie aeree e quindi gli utenti di queste ultime) ed è quindi suscettibile di essere assicurata in condizioni di equilibrio economico, senza la necessità di sovvenzioni pubbliche; c) non è, come tale, assoggettata (non ricorrendo a carico del gestore, come nel caso di Aeroporti di Roma o della SEA, i requisiti per la qualificazione in termini di organismo pubblico di diritto comunitario) all’obbligo di espletamento di procedura di gara nell’affidamento dei contratti di appalto; d) è, cionondimeno, in quanto correlata alla erogazione di pubblico servizio, soggetta all’esercizio del diritto di accesso.
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Il 16 ottobre esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 26200 che ribadisce la giurisdizione del GO sulle controversie relative alle indennità, canoni e altri corrispettivi delle prestazioni sanitarie in regime di convenzione.
La giurisdizione, infatti, si determina in base alla domanda e, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non tanto la prospettazione compiuta dalle parti, quanto il petitum sostanziale, che va identificato in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione.
Costituisce principio consolidato l’affermazione che le controversie, concernenti «indennità, canoni ed altri corrispettivi» nei rapporti, qualificabili come concessione di pubblico servizio, tra le ASL e le case di cura o le strutture minori, quali laboratori o gabinetti specialistici, riservate alla giurisdizione del giudice ordinario dall’art. 133, comma 1, lettera c), cod. proc. amm., sono sostanzialmente quelle contrassegnate da un contenuto meramente patrimoniale, attinente al rapporto interno tra la P.A. concedente e il concessionario del servizio pubblico (contenuto in ordine al quale la contrapposizione tra le parti si presta ad essere schematizzata secondo il binomio “obbligo- pretesa”, senza che assuma rilievo un potere d’intervento riservato alla P.A. per la tutela d’interessi generali); mentre, se la controversia esula da tali limiti e coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, il conflitto tra la P.A. e il concessionario si configura secondo il binomio “potere-interesse” e viene attratto nella sfera della competenza giurisdizionale del giudice amministrativo; appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia che abbia ad oggetto soltanto l’effettiva debenza dei corrispettivi in favore del concessionario, senza coinvolgere la verifica dell’azione autoritativa della P.A., posto che, nell’attuale sistema sanitario, il pagamento delle prestazioni rese dai soggetti privati accreditati viene effettuato nell’ambito di appositi accordi contrattuali, ben potendo il giudice ordinario direttamente accertare e sindacare le singole voci costitutive del credito fatto valere dal privato; su tale base, è stato di recente affermato dalle Sezioni Unite che, in tema di prestazioni sanitarie effettuate in regime di accreditamento provvisorio, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, secondo il criterio di riparto fissato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004 ed ora dall’art. 133, comma 1, lettera c), cod. proc. amm., le controversie sul corrispettivo dovuto in applicazione della disciplina del rapporto concessorio determinata nell’accordo contrattuale stipulato, in condizioni di pariteticità, tra la ASL e la struttura privata concessionaria; peraltro, qualora la ASL opponga alla domanda di pagamento (petitum formale immediato) l’esistenza di una propria deliberazione che, in attuazione di quella regionale a contenuto generale, determini in concreto il tetto di spesa e la creditrice replichi, negando la soggezione della propria pretesa creditoria a tali atti o sostenendone l’illegittimità, il petitum sostanziale della domanda non è automaticamente inciso da siffatte replicationes, le quali devono essere considerate irrilevanti ai fini della individuazione della giurisdizione, a meno che non si sostanzino in una richiesta di accertamento – con efficacia di giudicato – dell’illegittimità del provvedimento posto a fondamento dell’eccezione sollevata dalla ASL; in quest’ultimo caso, infatti, poiché il petitum sostanziale investe anche l’esercizio di un potere autoritativo, il giudice ordinario deve declinare la giurisdizione sulla domanda di annullamento della deliberazione, trattenendo la sola domanda di condanna alle indennità, canoni o corrispettivi, salvo poi sospendere il giudizio ex art. 295 cod. proc. civ. in attesa della definizione del giudizio sul provvedimento rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
2020
Il 9 marzo esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 44 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016, nella parte in cui fissa il requisito della residenza (o dell’occupazione) ultraquinquennale in regione come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, in quanto tale disposizione contrasta sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché produce una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica.
La Corte, in particolare, richiama il proprio costante orientamento secondo il quale il diritto all’abitazione rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione ed è compito dello Stato garantirlo, contribuendo così a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana. Benché non espressamente previsto dalla Costituzione, tale diritto deve dunque ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili e il suo oggetto, l’abitazione, deve considerarsi bene di primaria importanza.
L’edilizia residenziale pubblica è diretta ad assicurare in concreto il soddisfacimento di questo bisogno primario, perché serve a garantire un’abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi, al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti. L’edilizia residenziale pubblica rientra dunque nell’ambito dei «servizi sociali» di cui all’art. 1, comma 2, della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), e all’art. 128, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Come la Corte ha più volte affermato, i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono presentare un collegamento con la funzione del servizio. Il giudizio sulla sussistenza e sull’adeguatezza di tale collegamento – fra finalità del servizio da erogare e caratteristiche soggettive richieste ai suoi potenziali beneficiari – è operato dalla Corte secondo la struttura tipica del sindacato svolto ai sensi dell’art. 3, primo comma, Cost., che muove dall’identificazione della ratio della norma di riferimento e passa poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto.
Nel caso esaminato della Corte, l’esito di tale verifica conduce a conclusioni di irragionevolezza del requisito della residenza ultraquinquennale previsto dalla norma censurata come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio ERP. Se infatti non vi è dubbio che la ratio del servizio è il soddisfacimento del bisogno abitativo, è agevole constatare che la condizione di previa residenza protratta dei suoi destinatari non presenta con esso alcuna ragionevole connessione. Parallelamente, l’esclusione di coloro che non soddisfano il requisito della previa residenza quinquennale nella regione determina conseguenze incoerenti con quella stessa funzione.
Mentre si possono immaginare requisiti di accesso sicuramente coerenti con la funzione – l’esclusione dal servizio, ad esempio, dei soggetti che dispongono già di un proprio alloggio idoneo si pone in linea con la sua ratio, che è appunto quella di dotare di un alloggio chi ne è privo – risulta con essa incongrua l’esclusione di coloro che non abbiano risieduto nella regione nei cinque anni precedenti la domanda di alloggio, non essendo tale requisito rivelatore di alcuna condizione rilevante in funzione del bisogno che il servizio tende a soddisfare. Il requisito stesso si risolve così semplicemente in una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli). Ciò, secondo la Corte, è incompatibile con il concetto stesso di servizio sociale, come servizio destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli.
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Il 18 marzo esce la sentenza della III sezione del Tar Lazio- Roma n. 3371 che, nell’ambito dei contratti pubblici, configura la concessione come un rapporto trilaterale nel quale, accanto al rapporto tra amministrazione concedente e concessionario, si colloca il “rapporto” del concessionario con la massa degli utenti che possono fruire del servizio, pagando un certo corrispettivo, mediante il quale il concessionario remunera i costi sostenuti per erogare il servizio stesso; pertanto la concessione di un servizio non può prescindere dal “rischio operativo” che si configura, in gran parte dei casi, come “rischio di domanda”, il quale è legato ai diversi e oscillanti volumi di domanda provenienti dagli utenti, dai quali dipendono i maggiori o minori flussi di cassa di cui l’impresa può beneficiare.
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Il 17 giugno esce la sentenza della II sezione del TAR Calabria n. 1068 onde è legittima l’indizione, da parte di una Azienda Sanitaria, di un avviso di selezione, per l’affidamento diretto in convenzione, mediante procedura comparativa ex artt. 56 e 57, d.lgs. n. 117/2017 – escludendo gli altri Enti del Terzo Settore come le Cooperative Sociali, piuttosto che tramite una procedura a evidenza pubblica – alle sole organizzazioni di volontariato ed alla Croce Rossa Italiana, del servizio di trasporto sanitario di emergenza-urgenza in forma continuativa; infatti: a) l’affidamento in convenzione diretta di servizi di trasporto sanitario di emergenza e urgenza alle organizzazioni di volontariato è previsto dall’art. 57 d.lgs. 117/2017 (codice del terzo settore), che ne indica gli autonomi presupposti, tra cui non rientra la maggiore convenienza di tale affidamento rispetto al ricorso al mercato concorrenziale, poiché prevista dal primo comma dell’art. 56, non richiamato dal successivo art. 57; b) l’affidamento di tale servizio (a differenza del solo trasporto sanitario) è escluso dal campo di applicazione del codice dei contratti pubblici, secondo quanto stabilito dall’art. 17, comma 1, lett. h), d.lgs. 50/2016, in conformità all’art. 10, lett. h), direttiva 2014/24/UE (che ha fornito concretezza al 28º considerando della medesima direttiva), a prescindere dal valore del servizio e, dunque, dal superamento o meno delle soglie di rilevanza europea.
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Il 26 giugno esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12864 che, preliminarmente, affronta la questione circa i limiti di ammissibilità del regolamento di giurisdizione in caso di intervenuta pronuncia cautelare prima della proposizione del ricorso.
Osserva il Collegio che la proposizione del regolamento di giurisdizione non è inibita dalla pronuncia dell’ordinanza cautelare del Tar Lazio della quale si è dato conto in narrativa. E ciò perché il provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo (al pari di quello emesso dal giudice ordinario) non assume carattere decisorio e non incide in via definitiva sulle posizioni soggettive dedotte in giudizio, poiché è destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di merito: per conseguenza, esso, pur quando coinvolge posizioni di diritto soggettivo, non statuisce su di esse con la forza dell’atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di giudicato, neppure sul punto della giurisdizione (Cass., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21677).
Il regolamento preventivo di giurisdizione è strumento utilizzabile anche dallo stesso soggetto che ha scelto il giudice della cui giurisdizione abbia poi avuto motivo di dubitare a seguito delle contestazioni dell’altra parte, oppure di un proprio spontaneo ripensamento (da ultimo, Cass., sez. un., 27 gennaio 2020, n. 1720), al cospetto di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adito, che fondano l’interesse concreto e immediato a una risoluzione della questione da parte delle sezioni unite, in via definitiva e immodificabile; e ciò al fine di evitare che la relativa soluzione in sede di merito possa essere modificata, così ritardando la definizione della causa e frustrando l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
Successivamente le Sezioni Unite passano ad analizzare la questione circa la giurisdizione in una controversia concernente l’obbligo di pagamento di una tariffa per l’accesso a una zona di traffico limitato imposto agli autobus gran turismo in servizio pubblico di linea.
La fonte normativa della previsione della tariffa si rinviene nel comma 9 dell’art. 7 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, a norma del quale: «I comuni, con deliberazione della giunta, provvedono a delimitare le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull’ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio…» e, a tal fine, «possono subordinare l’ingresso o la circolazione dei veicoli a motore, all’interno delle zone a traffico limitato, anche al pagamento di una somma».
La norma precisa che «Con direttiva emanata dall’Ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale entro un anno dall’entrata in vigore del presente codice, sono individuate le tipologie dei comuni che possono avvalersi di tale facoltà, nonché le modalità di riscossione del pagamento e le categorie dei veicoli esentati».
Le misure sono correlate ai piani di traffico previsti dall’art. 36 del medesimo decreto legislativo, i quali «sono finalizzati ad ottenere il miglioramento delle condizioni di circolazione e della sicurezza stradale, la riduzione degli inquinamenti acustico ed atmosferico ed il risparmio energetico, in accordo con gli strumenti urbanistici vigenti e con i piani di trasporto e nel rispetto dei valori ambientali, stabilendo le priorità e i tempi di attuazione degli interventi…».
3.- I provvedimenti di limitazione della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono quindi espressione di scelte discrezionali, che incidono su valori costituzionali spesso contrapposti, da contemperare secondo criteri di ragionevolezza. E, in particolare, il regime di accesso a determinate zone dei centri abitati risponde a esigenze di buon governo della cosa pubblica e della sua conservazione.
Coerentemente, la Corte costituzionale (Corte cost. 10 luglio 1996, n. 264) ha sottolineato che la fissazione di limiti (divieti, diversità temporali o di utilizzazione, subordinazione a certe condizioni) all’uso delle strade è funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela e alle diverse esigenze, sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza.
Sicché, ha stabilito quella Corte, il pagamento di una tariffa sfugge sia alla nozione di tributo, sia a quella di prestazione patrimoniale imposta; esso è configurabile piuttosto come corrispettivo, commisurato ai tempi e ai luoghi della sosta, di una utilizzazione particolare della strada, e non risponde, in particolare, alla fisionomia della prestazione patrimoniale imposta, perché quella particolare utilizzazione è rimessa ad una scelta dell’utente non priva di alternative.
Indubbiamente i servizi di gran turismo sono classificati come servizi di trasporto pubblico su strada (art. 4, comma 1, lett. d) bis, della legge della Regione Lazio 16 luglio 1998, n. 30); ma si tratta di servizi aventi «…lo scopo di valorizzare le caratteristiche artistiche, storico-ambientali e paesaggistiche delle località da essi collegate che si effettuano a tariffa libera» (comma 5-bis del medesimo articolo).
Con i bus gran turismo non ci si limita quindi a trasportare persone da un luogo all’altro, in base a una tratta obbligata, ma si prestano servizi turistici, che incidono sulla tariffa, che difatti è libera.
Non solo, quindi, anche per i bus turistici l’accesso alla ZTL si traduce in un’utilizzazione particolare della strada, in relazione alla quale il pagamento della tariffa funge da corrispettivo; ma questa utilizzazione integra proprio il servizio turistico prestato per mezzo di essi e, quindi, è funzionale alla finalità economica che si persegue con la prestazione offerta e resa. Per conseguenza non si può dire prevalente, in relazione alla tariffa, l’elemento dell’imposizione legale, che caratterizza la prestazione patrimoniale imposta.
Significativamente, d’altronde, sia pure in tema di iva, si è stabilito che i servizi di trasporto pubblici e urbani non godono dell’esenzione stabilita dall’art. 10, comma 1, n. 14, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nel testo vigente all’epoca dei fatti, qualora siano effettuati insieme con altre prestazioni, giustappunto turistiche, che rappresentino la finalità economica perseguita (Cass. 14 gennaio 2020, n. 419).
Né alla tariffa in questione può essere riconosciuta natura tributaria, ravvisabile a fronte del carattere coattivo, ma in assenza di qualsiasi rapporto sinallagmatico con la beneficiaria, in collegamento con una pubblica spesa, ma con riguardo a un presupposto economicamente rilevante, perché commisurato a un indice di capacità contributiva (secondo le precisazioni rese, da ultimo, da Cass., sez. un., 4 giugno 2020, n. 10577).
L’istituzione di una zona a traffico limitato, in definitiva, è esercizio di un potere pubblico, che conforma la qualificazione della tariffa di accesso; e si tratta di un potere pubblico afferente all’uso del territorio.
La disciplina pubblicistica dell’uso del territorio rientra nella materia dell’urbanistica, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma dell’art. 133, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 104/10, che si riferisce alle «controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio».
L’espressione “materia urbanistica” ha, difatti, tendenzialmente un’accezione omnicomprensiva, che si estende alla totalità degli aspetti di tale uso (in termini, Cass., sez. un., 9 marzo 2009, n. 5629, concernente domande di condanna alla rimozione di un apparecchio distributore di biglietti per la sosta regolamentata di autovetture (c.d. parcometro) e di risarcimento del danno, che ha fatto leva sul fatto che la collocazione dei parcometri era giustappunto avvenuta nell’ambito di un procedimento amministrativo di pianificazione urbanistica del traffico ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 285/92).
Osserva infine il Collegio che diverse conclusioni sono state raggiunte al cospetto della pretesa di restituzione dell’importo corrispondente alla tariffa corrisposta per l’ingresso con autoveicoli e motoveicoli in determinate aree del territorio comunale.
In quel caso, tuttavia, era acclarata l’illegittimità del provvedimento, di modo che la controversia non originava da atti espressione di potere pubblico, ma concerneva l’inesistenza dell’obbligazione di pagare: perciò si era dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
Viene quindi dichiarata, nel giudizio in questione, la giurisdizione del giudice amministrativo.
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Il 30 luglio esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 16460 che, in tema di attività sanitaria esercitata in regime di c.d. accreditamento, afferma che la domanda di condanna della Asl al pagamento del corrispettivo per le prestazioni eccedenti il limite di spesa, proposta dalla società accreditata sul presupposto dell’annullamento in via giurisdizionale dei provvedimenti amministrativi che avevano stabilito i ccdd. “tetti di spesa” e della conseguente invalidità, inefficacia o inoperatività parziale dell’accordo stipulato tra le parti limitatamente alle clausole che prevedevano la non remunerabilità delle predette prestazioni, rientra, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 104 del 2010, nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di controversia il cui “petitum” sostanziale investe unicamente la verifica dell’esatto adempimento di una obbligazione correlata ad una pretesa del privato riconducibile nell’alveo dei diritti soggettivi, senza coinvolgere il controllo di legittimità dell’azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio
Restano quindi nella giurisdizione amministrativa le controversie inerenti pubblici servizi che coinvolgono l’esercizio di poteri discrezionali inerenti alla determinazione del canone, dell’indennità o di altri corrispettivi, rimanendo la competenza giurisdizionale del G.A. anche in assenza di impugnativa di un atto o provvedimento dell’autorità pubblica, purché la controversia coinvolga il contenuto dell’atto concessorio e la violazione degli obblighi nascenti dal rapporto concessorio, quali quelli inerenti la durata del rapporto concessorio, l’esistenza del rapporto o la rinnovazione della concessione.
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Il 30 settembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n. 20869 che, in tema di emittenza radiofonica, poiché rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo la controversia in cui si faccia valere l’illegittimità di un provvedimento o comunque l’esercizio almeno mediato di un pubblico potere, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il riconoscimento dei diritti fondati sul provvedimento concessorio e l’illegittimità della situazione di fatto, connotata dall’interferenza sulle proprie trasmissioni, dovuta all’esercizio materiale di un impianto privo di autorizzazione ad opera della controparte, sebbene concessionaria del servizio pubblico nazionale o da questa controllata, quale causa di danni ed oggetto di domanda di cessazione della turbativa del libero e pacifico esercizio dell’attività di impresa sulla frequenza per la quale si è titolari di rituale concessione.
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Il 30 dicembre esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 29825 che riconosce la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le controversie in tema di energia prevista dall’art. 133, comma 1, lett. o), cod. proc. amm. anche nelle controversie con il Gestore dei servizi energetici in tema di misure d’incentivazione per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Il Gestore dei servizi energetici, difatti, seppur nella veste di società per azioni, il cui azionista unico è il Ministero dell’economia e delle finanze, svolge funzioni di natura pubblicistica nel settore elettrico e in particolare in tema di incentivazione dell’energia elettrica da fonte rinnovabile, poiché provvede alla gestione del relativo sistema pubblico.
Che la materia sia integralmente riferibile al sistema pubblico e alle scelte di segno pubblicistico emerge anche dalla giurisprudenza unionale, la quale ha fatto leva sulla discrezionalità lasciata agli Stati membri in ordine all’introduzione di misure di sostegno alla produzione di energia (in quel caso, mediante impianti solari fotovoltaici), che comporta la possibilità di modificare e anche di sopprimere le misure di sostegno.
In tal caso, la tutela dell’affidamento degli operatori economici, espressione del principio di certezza del diritto, postula pur sempre che la possibilità di modifica o di soppressione non fosse prevedibile da un operatore economico accorto e prudente.
La giurisdizione esclusiva non viene meno per la circostanza che il Gestore abbia fatto ricorso a strumenti negoziali. E ciò perché egli non è chiamato a intervenire nella veste di mera controparte della convenzione (capace, perciò, di soli atti paritetici), ma come pubblica amministrazione, destinata ad operare in posizione di supremazia mediante l’esercizio di poteri autoritativi finalizzati ad assicurare l’attuazione della superiore volontà di legge.
D’altronde, sono devolute alla giurisdizione amministrativa anche le controversie sulle cc.dd. rimodulazioni degli incentivi, comunque dotate di carattere autoritativo.
2021
Il 16 febbraio 2021 esce la sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 6087 che afferma il principio di diritto secondo il quale integra il reato di peculato la condotta del gestore o dell’esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all’art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del PREU, non versandoli al concessionario competente.
Per le Sezioni Unite, prima di affrontare il tema in oggetto, appare utile, nei limiti di quanto di interesse ai fini della decisione, illustrare sinteticamente la disciplina della tipologia degli apparecchi da gioco lecito cui è applicato il PREU, un settore relativo all’ambito di esercizio del monopolio fiscale su giochi e scommesse, destinato a fornire risorse finanziarie allo Stato, in cui le finalità del controllo pubblico comprendono il contrasto alla ludopatia, la gestione dei flussi di denaro derivanti dal gioco, in maggiore parte destinati all’erario, i sistemi di controllo per evitare frodi ed evasione fiscale.
Nella vicenda sottesa alle condotte oggetto di giudizio viene in rilievo l’utilizzazione di giochi tipo slot-machine, ovvero quegli apparecchi “autosufficienti” che, con varie forme di automatismo, interagendo direttamente con il soggetto scommettitore, consentono la giocata previo inserimento di denaro, elaborano il meccanismo di vincita e, se del caso, consegnano immediatamente il premio al giocatore.
La legge 27 dicembre 2002, n. 289 ha modificato l’art. 110 R.D. 18 giugno 1931 n.773, disciplinando la installazione di apparecchi automatici “leciti” nei seguenti termini: – si è previsto che la installazione degli «apparecchi automatici di cui ai commi 6 e 7, lettera b), dell’articolo in esame è consentita negli esercizi assoggettati ad autorizzazione ai sensi degli articoli 86 o 88» (comma 3); – sono state regolamentate le macchine “autosufficienti” che prevedono la scommessa in denaro ed il gioco gestito esclusivamente dalla macchina locale (comma 6); – sono state previste altre tipologie di macchine che non offrono la vincita diretta in denaro, ma per le quali si introduce un controllo diretto (anche) alla verifica del pagamento delle imposte che gravano sulle stesse (comma 7).
Con riferimento alle macchine “autosufficienti” (che qui maggiormente interessano) la norma prevede precise condizioni per l’esercizio del gioco (si fa riferimento alla previsione attuale, essendo intervenute varie modifiche delle percentuali di destinazione dell’incasso delle giocate): – gli apparecchi, di proprietà privata, sono leciti a condizione che siano «dotati di attestato di conformità alle disposizioni vigenti rilasciato dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato» e siano «obbligatoriamente collegati alla rete telematica di cui all’articolo 14-bis, comma 4, del DPR 26 ottobre 1972, n. 640»; – la giocata ammessa non può superare un euro e la durata della partita non deve essere inferiore a quattro secondi; – la vincita non può essere superiore a Euro 100 e deve essere pagata con denaro erogato direttamente dalla macchina; – su di un ciclo di 140.000 partite, ogni singola macchina deve restituire in premi il 75% delle somme inserite.
Il sistema essenziale di controllo sul regolare esercizio delle attività di gioco, compresa la gestione degli incassi, previsto da tale normativa si incentra sulla creazione di una rete telematica per potere avere il controllo diretto ed in tempo reale dell’utilizzazione di ogni singolo apparecchio: a tale fine è stato modificato il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 640 (imposta sugli spettacoli) e si è previsto che l’AAMS individui con gare ad evidenza pubblica uno o più concessionari della «rete o delle reti per la gestione telematica degli apparecchi».
Il successivo d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 ha introdotto il sistema di raccolta della quota destinata all’Erario degli introiti degli apparecchi da gioco, lasciati in esercizio ai concessionari delle reti ed ai loro gestori ed esercenti. Il citato decreto-legge, all’art. 39, comma 13, dispone che su tali apparecchi «si applica un Prelievo Erariale Unico fissato in misura del 13,5 per cento delle somme giocate, dovuto dal soggetto al quale l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato ha rilasciato il nulla osta di cui all’articolo 38, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni.
A decorrere dal 26 luglio 2004 il soggetto passivo d’imposta è identificato nell’ambito dei concessionari individuati ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, e successive modificazioni, ove in possesso di tale nulla osta rilasciato dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (…).».
Il PREU è, quindi, configurato come imposta sul consumo. La sua natura tributaria è stata affermata dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 334 del 2006, che, in sede di conflitto di attribuzione tra la Regione Siciliana e lo Stato, ha risolto il dubbio su alcuni profili ambigui della disciplina, ritenendo il PREU una «entrata tributaria erariale», sostitutiva della precedente forma di imposta sugli intrattenimenti applicata agli apparecchi da gioco.
La natura di imposta di consumo, quindi, porta a ritenere che rispetto al PREU il giocatore è il contribuente di fatto, mentre il concessionario è il contribuente di diritto; l’imposta, difatti, è computata sull’importo della giocata e non sul reddito di impresa del contribuente di diritto. Le ulteriori norme introdotte con la legge finanziaria del 2006 hanno completato la specifica disciplina del PREU, per il quale è prevista la riscossione mediante ruolo.
Per completare la disciplina della destinazione degli introiti degli apparecchi di gioco lecito, oltre al PREU, determinato per legge, le convenzioni di concessione delle reti per la gestione telematica degli apparecchi, predisposte dall’AAMS in base al D.M. 12 marzo 2004 n. 86 del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Regolamento per la gestione telematica di tali apparecchi da divertimento e intrattenimento), dispongono l’ulteriore destinazione delle somme nette incassate dagli apparecchi da gioco: canone di concessione, destinato alla AAMS, aggio destinato al concessionario, quota residua che va divisa tra il concessionario ed il gestore (o esercente) degli apparecchi. Le somme costituenti aggio e residuo andranno a formare il ricavo di impresa del concessionario.
Il d.P.R. n. 640 del 1972, come anticipato, prevede che l’esercizio delle attività nel settore in questione sia affidata con concessione “traslativa”, avente ad oggetto la gestione della rete di controllo e l’esercizio dei singoli apparecchi che sono di proprietà privata, ma devono essere muniti dell’apposito nulla osta rilasciato dall’ente concedente (si tratta dell’attestato di conformità alle disposizioni vigenti, previsto dall’art. 110, comma 6, T.U.L.P.S.).
Si devono quindi chiarire i ruoli dei singoli soggetti che partecipano in vario modo all’esercizio di tale concessione.
In particolare, oltre al concessionario, rilevano le figure del “gestore” e dell’esercente” i quali, pur svolgendo la propria attività nella gestione del gioco sulla base di un contratto di diritto privato con il concessionario, sono figure che ricevono una regolamentazione prevalentemente dalla convenzione di concessione.
Il gestore è il soggetto che esercita un’attività organizzata diretta alla distribuzione, installazione e gestione economica degli apparecchi da intrattenimento. In particolare, provvede materialmente a prelevare i proventi, mediante l’operazione gergalmente denominata di “scassettamento”; quindi è il gestore che in prima battura ha la disponibilità materiale delle somme contenute nei singoli apparecchi, al netto delle vincite erogate.
L’esercente è il titolare dell’esercizio ove sono installati gli apparecchi, che svolge attività simili quando non vi sia un soggetto gestore. Nel prosieguo si farà riferimento al solo gestore, considerando che comunque le stesse regole valgono anche per l’esercente.
La convenzione di concessione con l’AAMS (oggi ADM) prevede che il concessionario di rete possa avvalersi nell’attività di gestione degli apparecchi di gioco dei citati ausiliari che devono essere in possesso delle prescritte autorizzazioni, devono essere iscritti nell’apposito elenco di cui all’art. 1, comma 533, della I. 23.12.2005, n. 266 e successive modifiche e sono legati al concessionario da appositi contratti di diritto privato il cui contenuto è predeterminato dall’atto di concessione e dall’AAMS (oggi ADM).
Il gestore è tenuto a rispettare specifici obblighi nello svolgimento dell’attività di interesse dell’Amministrazione.
Poste queste premesse, viene evidenziato che le decisioni che hanno dato luogo al contrasto riguardano casi in cui il soggetto gestore che operava per conto del concessionario nell’effettivo esercizio degli apparecchi si è appropriato di tutte le somme materialmente raccolte nei dispositivi da gioco non riversandole al concessionario; è il caso che ricorre anche nel presente processo in cui l’imputazione fa riferimento non solo all’appropriazione delle somme destinate al pagamento del PREU, ma anche di quelle destinate a canone di concessione e di quelle destinate al concessionario.
Un primo orientamento, in linea con una giurisprudenza incline a riconoscere la natura pubblica delle somme raccolte da privati abilitati allo svolgimento di svariate tipologie di giochi autorizzati, qualifica il concessionario della gestione della rete telematica come “agente contabile” «atteso che il denaro che riscuote è fin da subito di spettanza della P.A.» come risulta dal decreto 12 marzo 2004 del Ministero dell’Economia e delle Finanze che dispone che il concessionario «contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatagli, il prelievo erariale unico ed esegue il versamento del prelievo stesso, con modalità definite con decreto di AAMS». In questo senso, Sez. 6, n.49070 del 05/10/2017, Corsino, Rv. 271498, secondo la quale «riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il sub- concessionario per la gestione dei giochi telematici, trattandosi di un soggetto che, in virtù di una facoltà riconosciuta al concessionario dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), è investito contrattualmente dell’esercizio dell’attività di agente contabile addetto alla riscossione ed al successivo versamento del prelievo erariale unico sulle giocate previsto dall’art. 2, lett. g), del d.m. 12 marzo 2004».
La Corte argomenta che il concessionario, nel delegare le proprie attività al “subconcessionario”, ancorché utilizzi lo schema del contratto di diritto privato, comunque «demanda ad altro soggetto l’esercizio dell’attività di agente contabile». Logico corollario di tale impostazione è che la condotta del gestore che si impossessa degli incassi delle giocate, omettendo di versarli al concessionario, integra il peculato ex art. 314 cod. pen.
Tale decisione ritiene che ricorra sostanzialmente lo stesso schema del concessionario dell’attività di raccolta del gioco del lotto, la cui condotta di appropriazione delle giocate è qualificata in giurisprudenza come peculato.
Questa impostazione risulta condivisa anche da Sez.6, n.15860 del 10/4/2018, Cilli, non mass., che, affrontando la questione in sede cautelare, ha ritenuto corretta la contestazione di peculato a fronte della condotta appropriativa del PREU e del canone di concessione posta in essere dal gestore che non aveva versato la raccolta del gioco esercitato con apparecchi del tipo in questione; questa decisione sottolinea, altresì, che la configurabilità del reato non è esclusa dall’eventuale esistenza di contestazioni tra il gestore ed il concessionario circa le somme da riversare all’Erario.
Inoltre, la Corte ha anche precisato che la sussistenza del reato in capo al gestore non è neppure esclusa per effetto dell’adempimento dell’obbligo fiscale da parte del concessionario. Sez. 6 n. 4937 del 30/04/2019, dep. 2020, Defraia, Rv. 278116, è sostanzialmente adesiva alle argomentazioni della sentenza Corsino; difatti, ribadisce con argomentazioni simili che il denaro delle giocate è fin da subito di spettanza della P.A. («il denaro versato dai giocatori diviene ‘pecunia publica’ non appena entra in possesso del soggetto incaricato di raccogliere tale denaro»).
Considera come la natura privatistica del contratto con cui il concessionario “demanda” ad altro soggetto l’esercizio dell’attività di agente contabile non esclude la qualifica di incaricato di pubblico servizio del sub-concessionario/gestore. Il contratto, difatti, regola comunque l’esercizio di servizi pubblici, in quanto il gestore viene investito della partecipazione all’attività di agente contabile quale «addetto alla riscossione ed al successivo versamento del “prelievo erariale unico” sulle giocate, previsto dall’art. 2 lett. g) del D.M. 12 marzo 2004, poiché il servizio del gioco è riservato allo Stato».
In definitiva, anche tale sentenza esclude che l’attività del gestore possa ridursi alla semplice fornitura/assistenza delle macchine e che la sua attività di raccolta degli incassi delle giocate possa essere qualificata come semplice attività materiale.
Il diverso orientamento è rappresentato dalla sentenza Sez. 6, n. 21318 del 05/04/2018, Poggianti, che è intervenuta in un caso in cui il gestore degli apparecchi aveva utilizzato un espediente tecnico tale da impedire la comunicazione dei dati delle giocate all’Amministrazione ed in tal modo aveva nascosto l’incasso indebito delle somme non contabilizzate.
La sentenza ha considerato che la normativa positiva disciplina il PREU quale debito tributario. Ha, quindi, affermato che le somme materialmente prelevate dagli apparecchi da gioco sono in possesso del gestore del gioco il quale è tenuto al pagamento del PREU quale soggetto passivo d’imposta, sulla base di un’analitica valutazione di tutte le disposizioni rilevanti di tale normativa che consentono di qualificare il PREU quale imposta «il denaro incassato all’atto della puntata, e a causa di questa, deve ritenersi non immediatamente di proprietà, pro quota, dell’erario (all’epoca dei fatti in misura pari al 12% degli introiti), bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all’importo da versare a titolo di prelievo unico erariale.
Questo perché la giocata genera un ricavo di impresa sul quale è calcolato l’importo che la società deve corrispondere a titolo di debito tributario; quindi, l’impresa che gestisce il congegno da gioco non incassa neppure in parte denaro già in quel momento dell’erario, e, di conseguenza, quando non corrisponde le somme dovute a titolo di prelievo erariale unico, non si appropria di una cosa altrui, ma omette di versare denaro proprio all’Amministrazione finanziaria in adempimento di un’obbligazione tributaria».
La sentenza citata giunge a tale conclusione sulla base dell’esegesi del d.l. 24 novembre 2003, n.326 da cui desume che: – il soggetto passivo di imposta non è individuato nel giocatore, ma nei concessionari della rete (art.39, commi 13 e 13-bis), con i quali i terzi incaricati della raccolta (i cd. gestori) sono solidamente responsabili (art.39-sexies); – l’unità temporale di riferimento per il calcolo finale del PREU è riferita all’anno solare (art.39, comma 13-bis), mediante un versamento finale a saldo dei versamenti periodici;- il PREU è dovuto su tutte le somme giocate tramite apparecchi e congegni che erogano vincite in denaro, anche se questi siano esercitati al di fuori di qualunque autorizzazione e non siano collegati alla rete telematica (art.39- quater).
Secondo la sentenza in esame, la specifica disciplina, dettata per la categoria di apparecchi da gioco in esame, consentirebbe di affermare che il soggetto passivo dell’imposta non è il giocatore, bensì il concessionario ed il terzo incaricato della raccolta, sicché, ove il denaro non venga riversato all’AAMS (oggi ADM), non si configurerebbe l’appropriazione di somme già appartenenti all’erario, bensì un tipico caso di omesso versamento di un tributo (nel caso di specie il PREU). Corollario di tale affermazione è che il denaro raccolto mediante le giocate altro non è che il ricavo di un’attività commerciale, che a prescindere dal fatto che sia svolta in forma lecita o illecita, genera in ogni caso l’insorgere dell’obbligazione tributaria.
Nell’ordinanza di rimessione, oltre a considerare in modo dettagliato gli argomenti della sentenza Poggianti, si osserva che, in tale prospettiva, «il soggetto che incassa le somme delle giocate non ha il possesso o la disponibilità di denaro altrui, ovviamente per la parte da versare all’Amministrazione finanziaria a titolo di prelievo erariale unico, ma, diversamente, è debitore nei confronti di questa in relazione ad una obbligazione pecuniaria commisurata all’entità del denaro percepito».
In definitiva, secondo tale impostazione il denaro incassato non è di proprietà pubblica, bensì del concessionario della rete il quale, su tale incasso dei “propri” apparecchi di gioco, assume un’obbligazione tributaria. Per tale ragione, la condotta di appropriazione non integra il reato di peculato.
Il contrasto scaturisce da un’unica decisione rispetto ad un orientamento sostanzialmente stabile. Va sottolineato che la differenza di ricostruzione, che porta alla alternativa qualificazione giuridica della condotta di indebito trattenimento degli incassi delle giocate, non verte sulla natura di obbligazione tributaria del versamento del PREU, bensì sulla proprietà del denaro versato dai giocatori negli apparecchi da gioco, al netto di quanto restituito direttamente in vincite.
Secondo il primo indirizzo, tale denaro è incassato, a prescindere dalla proprietà dei dispositivi di gioco, nell’esercizio della concessione e per conto della concedente, e, quindi, appartiene alla Amministrazione; la peculiare modalità di riversamento del denaro, con il meccanismo tributario per una gran parte (il PREU) e con il canone di concessione per altra, non incide sulla natura di denaro pubblico, dato rilevante ai fini che qui interessano.
L’altro indirizzo, invece, accentuando il profilo di natura tributaria e, qualificando il PREU come imposta sui redditi di impresa (come sembra affermare quando parametra l’imposta al «ricavo di impresa») anziché come imposta sui consumi, usa tale argomento per affermare che l’incasso delle somme residuate dalle giocate, detratte le vincite, rappresenta un “guadagno” privato sottoposto, appunto, ad imposta (PREU).
Il Collegio condivide la conclusione cui giunge il primo indirizzo, con le precisazioni di cui appresso.
Devono, innanzitutto, essere distinti due diversi profili, quello riguardante la proprietà delle somme incassate dagli apparecchi da gioco, di cui (una gran) parte destinata al pagamento del PREU, e quello relativo all’obbligo di versamento del PREU quale tributo. Tale profilo appare dirimente per rispondere al quesito posto dalla ordinanza di rimessione quanto alla qualità di incaricato di pubblico servizio del gestore.
La soluzione prescelta poggia sulla considerazione che non è dubitabile che (tutti) i proventi del gioco presenti negli apparecchi, al netto del denaro restituito quale vincita agli scommettitori, appartengano all’Amministrazione. La questione della proprietà degli incassi è già stata risolta dalle Sezioni Unite civili di questa Corte che in più occasioni hanno confermato la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti dei concessionari di rete, chiamati dal giudice contabile alla resa del conto giudiziale, ai sensi del R.D. 23 maggio 1924, n. 827, per la gestione degli incassi, in quanto originariamente appartenenti alla pubblica amministrazione concedente e gestiti dai soggetti concessionari nel ruolo di “agente contabile”.
In tali termini si sono espresse in primo luogo Sez. U. civ. n. 13330 dell’01/06/2010, Rv. 613290, secondo cui «la società contabilizza, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico e ne esegue il versamento; come tale essa riveste la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario».
Un’altra decisione ha precisato che la società concessionaria dell’Azienda Autonoma dei Monopoli dello Stato per la attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito assicura che la rete telematica affidatale contabilizzi le somme giocate, le vincite ed il prelievo erariale unico, nonché la trasmissione periodica di tali informazioni al sistema centrale, e, inoltre, provvede a contabilizzare, per gli apparecchi collegati alla rete telematica affidatale, il prelievo erariale unico, seguendone il versamento (così, Sez. U civ., ord. n. 14891 del 21/06/2010, Rv. 613822).
Secondo queste decisioni la società concessionaria riveste la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario.
Negli stessi termini e con più ampio sviluppo, proprio degli aspetti rilevanti ai fini della odierna decisione, sono intervenute di recente Sez. U civ., n. 14697 del 29/05/2019, che hanno ritenuto espressamente la natura pubblica di tutti gli incassi degli apparecchi da gioco in questione proprio in considerazione della funzione del collegamento diretto del sistema centrale dell’Amministrazione rispetto ai singoli apparecchi da gioco e hanno affermato che questo «sistema di collegamento diretto, rivolto in particolare al flusso di denaro, riscosso in conseguenza del gioco lecito, ed alle sue destinazioni (vincite, canone di concessione, deposito cauzionale, obbligazioni tributarie, compenso del concessionario) così come previste dalla legge, ne evidenzia la diretta appartenenza pubblica».
Soprattutto, le Sezioni Unite civili risolvono l’aspetto qui rilevante, escludendo che vi sia contrasto tra l’essere il concessionario soggetto passivo d’imposta rispetto al PREU e l’essere gli incassi del gioco di proprietà pubblica: il regime fiscale previsto dal legislatore non incide sull’obbligo del concessionario di assicurare, mediante, la conduzione operativa della rete telematica, la contabilizzazione delle somme giocate, delle vincite e del P.R.E.U.
La natura tributaria dell’imposta (Corte cost. 334 del 2006) e la qualificazione del concessionario come soggetto passivo d’imposta (ex art. 1, comma 81 della legge n. 296 del 2006) operano limitatamente al rapporto di natura tributaria, senza incidere sulla funzione di agente della riscossione di denaro pubblico derivante dalla configurazione complessiva dell’attività di gioco lecito mediante apparecchi o congegni elettronici, caratterizzata dalla predeterminazione dettagliata delle modalità di svolgimento dell’attività e della funzione del concessionario rispetto agli esercenti, in particolare sotto il profilo del controllo periodico della destinazione delle somme riscosse(Sez. Un. civ. n. 14697 del 2019, cit.).
La soluzione recepita dalle Sezioni unite civili è in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti, competente ad esercitare il controllo sui concessionari in virtù della loro qualificazione quali “agenti contabili”. Il problema sottoposto al Collegio si era già ampiamente posto dinanzi al giudice contabile, sostanzialmente nei medesimi termini circa l’esatta qualificazione del PREU come un’entrata erariale qualificabile come tale ab origine, piuttosto che come un ordinario tributo rispetto al quale il concessionario non poteva assumere il ruolo di agente contabile, ma solo quello di soggetto passivo d’imposta.
L’interpretazione data dalle SS.UU. civili e dal giudice contabile è univoca e ne vengono condivisi gli argomenti anche dalle S.U. penali.
Il privato concessionario gestisce in via esclusiva un’attività propria dell’Amministrazione, rientrante nell’ambito di un monopolio legale, esercitandone i medesimi poteri pubblici. In un tale contesto, il concessionario procede alla raccolta di denaro, tramite gli apparecchi collegati alla rete telematica della Pubblica Amministrazione, attività che assume carattere pubblico in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d’azzardo che, altrimenti, integrerebbe un’attività assolutamente vietata dall’art. 110 T.U.L.P.S. e sanzionata.
Il soggetto al quale viene affidata dalla Pubblica Amministrazione la gestione della funzione pubblica del gioco lecito ed, in particolare, deputato istituzionalmente al maneggio di tale denaro pubblico, riveste obiettivamente il ruolo di agente contabile ex art. 178, R.D. 23 maggio 1924 n. 827 in virtù delle regole che gli conferiscono specifici compiti di raccolta, rendicontazione e riversamento della quota parte della giocata sotto forma di prelievo unico erariale, secondo quanto previsto testualmente dalla convenzione di concessione in conformità alle inequivoche disposizioni del D. M. 12 marzo 2004, n. 86 (Regolamento concernente disposizioni per la gestione telematica degli apparecchi in questione).
A questo punto può offrirsi una prima risposta alla questione essenziale che ha dato luogo al contrasto: non è in discussione se il PREU in sé sia un’imposta, in quanto questa natura è pacifica proprio alla luce della normativa inequivoca che lo disciplina. E’, invece, in questione la natura pubblica degli incassi del gioco realizzati utilizzando una certa tipologia di apparecchi.
L’orientamento minoritario che ritiene che gli incassi degli apparecchi rappresentino “ricavi” dell’attività imprenditoriale svolta dalla concessionaria non può essere condiviso per gli argomenti in precedenza illustrati che dimostrano che la proprietà degli incassi, proprio per l’attività dalla quale provengono, non può essere attribuita al privato.
Come sopra argomentato, è corretto quanto affermato dal primo indirizzo che, del resto, non qualifica quale peculato il mancato pagamento del PREU quale imposta, bensì l’indebita appropriazione dell’intero incasso prelevato dagli apparecchi di cui una (maggior) parte, ma non il tutto, destinata al pagamento del PREU.
Ulteriore problema è quello di verificare se il concessionario vada qualificato quale incaricato di pubblico servizio per la complessiva attività svolta, a prescindere dal ruolo di agente contabile.
Si tratta di un passaggio necessario per ritenere che tale qualificazione spetti anche al gestore il cui eventuale ruolo di incaricato di pubblico servizio è condizionato dall’esserlo il concessionario dal quale, in ipotesi, deriverebbe il conferimento dei compiti nella conduzione del servizio pubblico.
Il tema, inoltre, va esplicitamente affrontato anche perchè la questione del ruolo del concessionario, al di là dell’ambito del maneggio di denaro di proprietà pubblica, è stata posta in termini dubitativi dall’ordinanza di rimessione.
L’ordinanza, dopo avere richiamato i comuni principi secondo i quali il soggetto “incaricato di pubblico servizio” va individuato sotto il profilo funzionale della attività effettivamente svolta, ritiene che proprio le Sezioni Unite civili, in particolare con l’ordinanza n. 14697 del 2019, dubitino che nella attività devoluta al concessionario di rete vi sia un contenuto di pubblico servizio.
Secondo la Sezione rimettente tale ordinanza espressamente afferma che la società ricorrente è concessionaria di un’attività che non ha né natura di servizio pubblico, né assolve una funzione neanche latu sensu “pubblicistica” (p. 9), evidentemente riferendosi alla intrinseca estraneità dell’esercizio del gioco d’azzardo da parte dello Stato dal perimetro proprio ai pubblici servizi, ove si astragga dalle connesse entrate tributarie e dal vantaggio erariale che ad esse consegue.
Va invero chiarito che questo passaggio della decisione citata va collegato a quanto sostenuto nella ordinanza delle Sezioni Unite civili che, subito dopo avere escluso la funzione pubblicistica del gioco d’azzardo in sé, fa riferimento al compito proprio del concessionario di esercizio della rete telematica deputata al controllo ed afferma che solo all’interno «di queste rigide maglie» il gioco può ritenersi lecito.
Il “pubblico servizio” è, quindi, rappresentato dal diretto e continuativo controllo di un’attività che, altrimenti, sarebbe illecita. L’ambito del pubblico servizio attribuito al concessionario di rete è chiaramente individuato anche dalla recente giurisprudenza costituzionale.
Infatti, la sentenza costituzionale n. 56 del 2015, proprio con riferimento alla tipologia di concessioni riferite agli apparecchi da gioco di cui all’art. 110, comma 6, T.U.L.P.S., ne ha rammentato la natura di “concessione traslativa”, in quanto «la materia dei giochi pubblici è riservata al monopolio dello Stato, che ne può affidare a privati l’organizzazione e l’esercizio in regime di concessione di servizio, sulla base di una disciplina che trova origine negli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496 (Disciplina dell’attività di giuoco)».
In particolare, ravvisa gli interessi pubblici tutelati dalla normativa che disciplina tali giochi nella «pubblica fede, l’ordine pubblico e la sicurezza, la salute dei giocatori, la protezione dei minori e delle fasce di giocatori adulti più deboli, la protezione degli interessi erariali relativamente ai proventi pubblici derivanti dalla raccolta del gioco».
Quindi, l’attività di gestione della rete di controllo deve qualificarsi come pubblico servizio, come del resto chiarisce il decreto ministeriale 12 marzo 2004, n. 86, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, contenente il Regolamento per la gestione telematica degli apparecchi da divertimento e intrattenimento in questione, secondo il quale la Amministrazione «affida in concessione l’attivazione e la gestione operativa delle reti telematiche» e non l’esercizio del gioco d’azzardo. È inoltre un pubblico servizio l’esercizio del monopolio fiscale connesso ai giochi leciti.
Nel già citato d.l. n. 269 del 2003, n. 269, istitutivo del PREU, si fa riferimento più volte a tale monopolio con riferimento alla gestione delle entrate fiscali (art. 39, comma 13-quinquies: «Al fine di evitare fenomeni di elusione del monopolio statale dei giuochi …», «attività di giuoco riservato allo Stato»).
In definitiva, non può dubitarsi che il concessionario svolga in regime di concessione un pubblico servizio, riservato al monopolio statale, che consiste proprio nel controllo delle attività di gioco sia per il rispetto dei limiti entro quale può ritenersi lecito, svolgendo quella funzione pubblica, più volte dichiarata nella normativa, di contrasto alla diffusione della ludopatia e delle attività criminali nel dato settore, sia per la gestione degli incassi delle giocate, destinati all’Erario.
Per quanto riguarda il ruolo del gestore, quanto sinora esposto chiarisce che il denaro che le figure di supporto dell’attività del concessionario hanno in gestione non può mai definirsi a loro appartenente.
La stessa questione controversa, verte sul profilo della spettanza degli incassi allo Stato, concedente dell’esercizio del gioco lecito, o al concessionario. In ogni caso, il gestore non assume mai il possesso autonomo del denaro, secondo gli schemi della convenzione di concessione che non consente di “cedere” la concessione, ma solo di avvalersi di soggetti addetti ai dati compiti, imponendo contenuti ai contratti di collaborazione per funzioni di garanzia del corretto esercizio dell’attività.
Quindi, il rapporto del gestore con il denaro che raccoglie dagli apparecchi è di detenzione nomine alieno, che ai fini dell’art. 314 cod. pen., integra la condizione di altruità della cosa. Il gestore, comunque, sicuramente non riveste in proprio il ruolo di agente contabile.
Si è detto come tale ruolo risulti già attribuito al concessionario, né la convenzione di concessione, che pure disciplina il rapporto dei gestori, assegna loro alcun ruolo autonomo nel “maneggio” degli incassi, quanto ad autonomia e responsabilità di gestione.
Del resto, un ruolo autonomo di agente contabile del gestore contrasterebbe con quello, avente lo stesso oggetto, del concessionario, e vi dovrebbe essere una autonoma relazione, quanto alla resa del conto ex R.D. 23 maggio 1924, n. 827, tra i “subconcessionari” ed il giudice contabile.
Dal punto di vista del Regolamento di contabilità, del resto, la posizione degli ausiliari rientra agevolmente nell’art. 188 del R.D. 23 maggio 1924 n. 827, che prevede la responsabilità dell’agente contabile nei confronti dell’Amministrazione anche per le attività dei propri ausiliari con funzione di cassieri etc. «anche se la loro assunzione sia stata approvata dalle autorità competenti».
Va ora verificato se il gestore (o l’esercente) svolga, su incarico del concessionario, solo attività comuni o anche compiti rientranti nel pubblico servizio quale sopra delineato, in modo da acquisire a sua volta la qualità pubblicistica in base al quale la sua condotta di appropriazione del denaro altrui integra il peculato: diversamente, ricorrerebbe l’appropriazione indebita o un diverso reato “comune”, come nel caso della sentenza Poggianti che, ricorrendo le ulteriori condizioni di occultamento fraudolento degli incassi, ha qualificato la condotta quale truffa.
La questione si pone poiché, non essendo neanche prevista la figura del gestore dal citato regolamento di cui al D.M. n. 86 del 2004, le attività previste dai contratti di collaborazione con il concessionario, quali la collocazione fisica degli apparecchi, la verifica del loro corretto funzionamento e la necessaria manutenzione, lo “scassettamento” del denaro e la sua movimentazione, potrebbero valutarsi quali attività meramente materiali e non di partecipazione all’esercizio del servizio pubblico.
Invero, il contenuto della convenzione di concessione dimostra che l’Amministrazione impone che i soggetti delegati all’esercizio dei dati compiti per conto del concessionario esercitino anche attività proprie del pubblico servizio.
In particolare, pur se non si prevede alcun rapporto diretto ed obbligo di rendiconto direttamente nei confronti dell’Amministrazione, il gestore (che può essere anche proprietario delle macchine o può operare con apparecchi altrui) svolge la sua attività in autonomia, senza il controllo diretto del concessionario, ed a lui è affidata, tra l’altro, la verifica della funzionalità della rete telematica con obblighi di segnalazione di anomalie, risultando già solo per questo avere un ruolo determinante nel profilo che qualifica l’attività data in concessione quale pubblico servizio.
Inoltre, tali soggetti, pur non essendo loro assegnato un ruolo diretto ed autonomo nella gestione del denaro per conto dell’ente pubblico proprietario, lì dove delegati anche alla gestione degli incassi, sono comunque destinatari, secondo la convenzione di concessione (artt. 6-bis, del contratto con il gestore, e 6, del contratto con l’esercente), di penetranti obblighi di controllo, offerta di garanzie, tracciabilità; tali obblighi sono evidentemente fondamentali per la verifica dei corretti flussi finanziari per la prevenzione dell’inserimento di fenomeni criminali, anche di riciclaggio, così realizzando altri interessi pubblici sottesi alla gestione monopolistica nei termini di cui si è già detto.
Si può, quindi, affermare che anche il gestore riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio quando, come nel caso qui in considerazione, abbia la gestione degli incassi, trovandosi a detenere nomine alieno il denaro per ragione del suo servizio pubblico.
Difatti partecipa, per la parte delegatagli, all’esercizio delle attività in concessione e, in particolare, partecipa anche all’esercizio della stessa attività di agente contabile del concessionario, svolgendo rispetto a questa, pur nell’ambito del rapporto di dipendenza considerato dal citato art. 188, R.D. 23 maggio 1924 n. 827, funzioni che non sono di mero concetto, essendogli delegate parte delle necessarie attività di contabilizzazione e movimentazione che il gestore svolge in piena autonomia ed al di fuori del diretto controllo del suo committente, condizioni che, a ben vedere, hanno consentito proprio nella vicenda oggetto di questo processo la rilevante sottrazione di incassi per un ampio arco temporale.
In definitiva, la condotta del gestore (cui, si rammenta, va equiparato l’esercente) di appropriazione degli incassi degli apparecchi da gioco, in quanto denaro “altrui” del quale ha il possesso per ragione del suo ufficio di incaricato di pubblico servizio, è quindi correttamente qualificata come peculato.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare sul servizio pubblico sul piano storico?
- si tratta fondamentalmente di una “prestazione” resa da un soggetto pubblico, che si qualifica come prestazione fondamentalmente di “fare” e dunque a carattere “positivo”;
- è attraverso il “servizio” che l’attività pubblica si declina ormai non già solo come negativo “non fare”, tipico dello Stato liberale, quanto piuttosto anche, ed appunto, come positivo “fare” (o “dare”), tipico dello Stato sociale (c.d. Welfare State);
- dire dunque che l’Amministrazione trasfigura da potere a servizio significa che essa si rende sempre più obbligata (quale Stato Apparato) a prestazioni di “fare” o di “dare” nei confronti dei creditori cittadini (appartenenti allo Stato Comunità), con parallela recessività degli interessi c.d. “oppositivi” di questi ultimi, avvinti per l’appunto ad obblighi pubblici di “non facere”, rispetto agli interessi “pretensivi”, collegabili piuttosto ad obblighi di “dare” o di “facere”;
- si tratta di un fenomeno che rende sempre più rilevanti per il privato, in termini di tutela, le fattispecie in cui la PA – rendendosi inadempiente – “non fa” quel che dovrebbe fare, con contestuale sempre maggiore significatività (anche in termini di attenzione dottrinale) per istituti di diritto amministrativo sostanziale quale il “silenzio” (collegato come esso è all’inerzia pubblica) e di diritto processuale quali le misure cautelari “propulsive” – rispetto a quelle meramente “sospensive” – e l’ottemperanza (anch’essi avvinti all’inerzia della Amministrazione pur a fronte di provvedimenti giurisdizionali quali l’ordinanza cautelare o la sentenza esecutiva o in giudicato).
Cosa occorre rammentare sul servizio pubblico sul piano sistematico?
- la legge non definisce né ha mai definito cosa sia un “pubblico servizio”, la cui nozione è dunque opera della dottrina e della giurisprudenza, giustapponendosi, diacronicamente ed a grandi linee 3 grandi impostazioni;
- una impostazione soggettiva: è il potere pubblico a valutare, secondo convenienza ed opportunità, cosa sia un pubblico servizio e cosa non lo sia, dovendo esso promuovere – secondo la celebre espressione di Orlando – la “civiltà del popolo” nelle relative declinazioni di benessere “fisico, economico ed intellettuale”; quando l’attività disimpegnata è riconducibile allo Stato o ad un altro Ente pubblico, il pertinente servizio è “pubblico” perché tale viene riconosciuto in forza di un atto legislativo o amministrativo che ne attribuisce la gestione, diretta o indiretta, per l’appunto a tale soggetto pubblico; si tratta dell’impostazione più remota e fondamentalmente precostituzionale, alla cui stregua una attività privata diventa “servizio pubblico” quando lo Stato, consideratala di preminente rilevanza collettiva, la assume e la riconosce come pubblica, affidandola ad Enti pubblici esistenti o istituendone di nuovi, e dunque attraendola alla competenza del “pubblico”;
- una impostazione oggettiva: si tratta della tesi più recente e post-costituzionale, connotata da funzionalità, sulla scorta del combinato disposto degli articoli 41 e 43 Cost. onde si ha servizio pubblico quando una data attività economica, tanto che sia pubblica quanto che sia privata sul crinale di chi la disimpegna, viene sottoposta comunque a programmi e controlli al fine di indirizzarla e coordinarla, orientandola verso il conseguimento di finalità di preminente carattere sociale; in sostanza, per identificare un servizio pubblico non ci si può affidare ad un canone nominalistico avvinto al soggetto che disimpegna tale servizio, stante come in particolare l’art.43 implicitamente riconosca la possibilità che imprese o categorie di imprese “si riferiscano a servizi pubblici essenziali” e possano essere (oltre che riservate originariamente, anche) “trasferite” a mezzo esproprio e salvo indennizzo allo Stato e ad enti pubblici (oltre che a comunità di lavoratori e utenti) quando abbiano carattere di preminente interesse generale, con ciò presupponendo appunto la titolarità di un servizio pubblico in capo a soggetti privati; a rendere un servizio “pubblico” non è dunque la natura pubblica del soggetto che lo disimpegna (che può anche essere un privato), quanto piuttosto la natura “pubblica” dell’attività che lo compendia e la relativa, funzionalizzata capacità di soddisfare interessi socialmente declinabili e dunque bisogni di carattere collettivo; parte della dottrina ha tuttavia criticato questa opzione ermeneutica, in primo luogo per la relativa, asserita genericità, latamente connessa al fenomeno interventistico (pubblico), ed in secondo luogo per la relativa connotazione fortemente economica e, al di là delle dichiarazioni di facciata, assai poco sociale;
- una impostazione “mista”, orientata a contemperare il profilo soggettivo e quello oggettivo: se da un lato occorre dunque che l’attività disimpegnata sia funzionalizzata al soddisfacimento di bisogni socialmente rilevanti, dall’altra occorrono taluni canoni capaci di meglio precisare cosa sia realmente un “servizio pubblico”, recuperando il profilo soggettivo della relativa, necessaria titolarità in capo alla PA, in modo peraltro sganciato dalla gestione concreta del servizio in parola che resta “pubblico” quand’anche a concretamente disimpegnarlo sia appunto un soggetto privato (oltre che, ovviamente, un soggetto pubblico); è dunque il soggetto pubblico che, giusta utilizzo dei poteri ad esso affidati dalla legge, tanto di carattere legislativo quanto di natura amministrativa, assume e considera come propria – regolandola ed organizzandola – una data attività, giusta attrazione della medesima nei propri compiti istituzionali per il relativo palesarsi strettamente avvinta ad esigenze di benessere e di sviluppo socio economico delle comunità di riferimento; si tratta di una opzione ricostruttiva più recente secondo la quale è “pubblico” quel servizio che sia imputabile alla PA, che lo organizza, lo disciplina e lo attrae nella propria orbita istituzionale, pur potendo affidare a privati la concreta gestione del ridetto servizio, che resta tuttavia autenticamente “pubblico”.
Cosa occorre rammentare sui rapporti tra servizio pubblico ed ordinamento europeo?
- il diritto sovranazionale euro-unitario ha fornito un importante contributo alla definizione di pubblico servizio, sulla scorta di quanto statuito via via dalle Istituzioni europee in ottica di pertinenti politiche concorrenziali, alla cui stregua quando si è al cospetto di prestazioni essenziali per lo sviluppo ed il benessere di una data collettività che tuttavia il mercato non riesce a soddisfare autonomamente, deve giocoforza intervenire la Pubblica Amministrazione, che raccoglie le ridette “prestazioni essenziali”, per l’appunto, in un “servizio pubblico”;
- proprio perché la PA si inserisce laddove il mercato non può giungere, l’Ente erogatore del servizio opera nel mercato, con criteri di gestione di tipo imprenditoriale, soggiacendo ad un rapporto di utenza onde la fornitura del servizio viene determinata dall’incontro tra la domanda e l’offerta delle ridette prestazioni essenziali, siccome espressa nel mercato, senza che essa possa più assumersi predeterminata “dall’alto” in sede pubblicistica; secondo la declinazione europea, nota dunque la dottrina, il servizio pubblico viene calato in un modulo che è il medesimo che presidia l’attività commerciale dei privati, pur rimanendo assoggettato a regole speciali e ad obblighi peculiari che hanno lo scopo di assicurare il funzionamento del mercato (nel cui contesto viene disimpegnata l’attività definibile “servizio pubblico”) nelle relative connotazioni in termini di accesso diffuso alle pertinenti prestazioni, di libertà di scelta da parte degli utenti e di sostanziale correttezza degli scambi;
- le Istituzioni europee prediligono dunque una nozione non già e non tanto soggettiva, quanto piuttosto oggettiva e funzionale di “pubblico servizio”, strettamente avvinta alla natura prestazionale “nel mercato” dell’attività esercitata dal soggetto che ne sia titolare e gestore;
- il perno della disciplina europea, ex art.106 TFUE, è il c.d. SIEG, ovvero il “servizio di interesse economico generale”, nozione più moderna e precisa rispetto a quella di “servizio pubblico”, laddove viene valorizzato – dal punto di vista funzionale ed oggettivo assai più che soggettivo – il concreto perseguimento da parte del soggetto gestore del servizio di una “mission” di interesse generale, al di là dell’astratto atteggiarsi sul crinale della forma da parte del soggetto medesimo; l’ordinamento sovranazionale abbraccia un prototipo di gestione del servizio “pubblico” a connotazione imprenditoriale-concorrenziale, potendo la PA intervenire soltanto ove il mercato non sia capace, in via autonoma, di assicurare l’efficace erogazione delle prestazioni che compendiano il divisato servizio a beneficio della collettività di riferimento;
- tra i SIEG (cerchio grande), particolarmente significativi sono i “servizi (di interesse economico generale) universali”, ovvero quell’insieme minimo di prestazioni le quali, atteso il relativo carattere antieconomico, non sono ordinariamente garantibili dal mercato e debbono pertanto esser fatte oggetto di un preciso compito pubblico in capo all’impresa esercente; i principi della concorrenza e del libero mercato di ascendenza sovranazionale non possono infatti obliterare in modo completo e definitivo quei valori di carattere socio politico che sono intrinseci nello stesso concetto di SIEG, onde la garanzia di un nucleo minimo di prestazioni a beneficio dell’utenza (anche in un settore antieconomico appunto) viene visto come l’imprescindibile punto di incontro tra istanze concorrenziali e finalità sociali caratteristiche dei servizi pubblici;
- i SIEG (cerchio piccolo) sono invece ricompresi nel più ampio novero dei SIG (espressione peraltro non presente nei Trattati), ovvero dei “servizi di interesse generale”, che ricomprendono per l’appunto i SIEG da un lato e, dall’altro, quei servizi – dalla elevata carica “sociale” – che si palesano non suscettibili di essere gestiti esclusivamente in regime di impresa e che attengono ai bisogni primari del cittadino, come nel caso dell’assistenza sociale, della sanità e della scuola.
Cosa occorre rammentare sul servizio pubblico “locale” in generale?
- si tratta di una “species” di servizio pubblico, e dunque di prestazione, declinata in orbita “locale”;
- esso si compendia in una attività economica “prestazionale”, che è astrattamente suscettibile di essere organizzata in forma di impresa;
- tale attività economica “prestazionale” organizzata si connota per il relativo essere finalizzata a soddisfare un bisogno primario di una data collettività locale;
- chi disimpegna tale attività economica prestazionale è un Ente locale, a beneficio della propria collettività di riferimento ed a soddisfazione di un pertinente bisogno primario;
- l’Ente locale che disimpegna un servizio pubblico locale non esercita una funzione amministrativa, né si limita a gestire un’attività economica in veste di imprenditore, collocandosi – in qualche modo – nel mezzo rispetto a questi due modelli di operatività;
- l’attività economica “prestazionale” definibile come servizio pubblico viene posta in essere dall’Ente locale a vantaggio dei propri cittadini utenti, secondo il principio della sussidiarietà verticale alla cui stregua il soggetto istituzionale più vicino ai propri cittadini è quello meglio capace di registrarne ed interpretarne bisogni ed esigenze, al fine di soddisfarle;
- proprio per questo relativo atteggiarsi, il servizio pubblico locale si connota fondamentalmente: g.1) per la relativa erogazione a prezzi sostenibili dai cittadini utenti; g.2) per la relativa organizzazione secondo adeguati modelli qualitativi delle prestazioni erogate; g.3) per essere capace di garantire la continuità delle prestazioni erogate, la relativa capillarità su tutto il territorio “locale” di riferimento e la pertinente sicurezza (e continuità) erogativa;
- esistono servizi pubblici locali “indispensabili”, che come tali si atteggiano ad irreversibilmente “pubblici” per il relativo essere connotati da essenzialità e trasversalità, che si accompagnano alla inadeguatezza di una eventuale offerta privata rispetto alle esigenze da soddisfare in capo alla collettività “locale” di riferimento; si tratta di servizi pubblici che possono veder variate le relative modalità concrete di erogazione e le relative condizioni di erogabilità in termini prestazionali, ma che restano “pubblici inside”, dovendo soddisfare sempre e comunque bisogni collettivi di tipo economico, ma anche sociale (eguaglianza, legalità e così via), come nel caso della regolazione della viabilità, dell’igiene urbana, della distribuzione dell’acqua potabile, quali funzioni fondamentali proprie dell’Ente locale, cui quest’ultimo – in termini di erogazione ai propri cittadini – non può abdicare;
- esistono altresì servizi che possono o meno essere attratti nell’orbita pubblica, e possono dunque – o meno – divenire “pubblici”, sulla base di una scelta discrezionale dell’Ente locale scaturigine di una pertinente, autonoma iniziativa, sulla scorta degli specifici bisogni della comunità locale di riferimento la cui soddisfazione, per l’appunto, il singolo Ente locale decide di intestarsi scegliendo di disimpegnare il pertinente servizio prestazionale secondo determinate condizioni di espletamento, così rendendolo “pubblico” (senza che indefettibilmente esso si atteggi a tale);
- nell’ambito dei servizi pubblici locali si giustappongono: j.1) servizi finali: le pertinenti prestazioni, autenticamente pubbliche, sono indirizzate direttamente ai cittadini della comunità locale di riferimento, e dunque al soddisfacimento dei relativi bisogni quali utenti individuali “divisibilmente” considerati, come nel caso del trasporto pubblico o del servizio idrico, ovvero quali membri della comunità locale “indivisibilmente” o comunque “collettivamente” considerati, come nel caso della pulizia stradale e dell’illuminazione pubblica; si tratta dei più autentici “servizi pubblici locali”, che sortiscono un immediato impatto sull’assetto socio economico della comunità locale di riferimento; j.2) servizi strumentali: le prestazioni – normalmente private – sono qui indirizzate solo indirettamente ai cittadini della comunità locale di riferimento e piuttosto, direttamente, a taluni uffici dell’Ente stesso, come nel caso della pulizia dei locali comunali o la manutenzione dei sistemi informatici dei quali l’Ente si avvale; qui l’espressione “servizio pubblico locale” viene utilizzata in senso più “atecnico”, trattandosi in realtà di “servizi” che – normalmente a valle di una procedura di evidenza pubblica (gara finalizzata ad aggiudicare un “pubblico servizio”) – soggetti privati all’uopo individuati erogano all’Ente locale affinché esso sia messo nelle condizioni di disimpegnare i veri e propri servizi pubblici “finali”;
- particolarmente significativo per quanto concerne i servizi pubblici locali l’art.112 del TUEL (decreto legislativo 267.00), che ben definisce il concetto di “servizio” mentre resta più anodino con riguardo al predicato di “pubblico”, ad esso riferibile in ambito locale; si è parlato in proposito di “norma aperta” laddove è possibile riconoscere: k.1) un elemento oggettivo, compendiantesi nella produzione di beni ed attività; k.2) un elemento soggettivo, dacché la scelta – di tipo organizzativo – orientata alla gestione del pertinente “servizio” (produzione di beni ed attività) è imputabile ad un Ente locale; k.3) un elemento teleologico, l’attività compendiante il pubblico servizio che l’Ente locale ha valutato di organizzare e gestire (produzione di beni ed attività) essendo caratterizzata dal precipuo scopo di perseguire fini sociali e di promuovere lo sviluppo delle comunità locali di riferimento. Sono i singoli Enti locali – nel rispetto del principio id sussidiarietà e nell’ambito della competenza a ciascuno di essi riconoscibile – a parametrare l’estensione di ciascun “servizio pubblico locale”, che non è dunque predeterminata in via generale dal legislatore, onde qualunque attività che, rientrante nella sfera di competenza dell’Ente locale, si compendi nella produzione di beni o servizi aventi finalità di carattere sociale può essere, a valle di una autonoma valutazione all’uopo, organizzata dal ridetto Ente locale come “servizio pubblico locale”, calibrandola in rapporto allo specifico contesto socio-economico e territoriale di riferimento; per la dottrina più accreditata, ogni attività idonea ad incidere in via diretta sulla comunità territoriale di riferimento può essere assunta dal pertinente Ente locale come servizio pubblico: non tuttavia una attività qualunque, ma piuttosto una attività che presenti taluni connotati imprescindibili, primo fra tutti il fatto di essere orientata al soddisfacimento di bisogni fondamentali (quand’anche mutevoli) dei cittadini che compongono la pertinente comunità di riferimento, oltre al fatto di rivestire una pubblica utilità ed alla circostanza onde essa non può essere economicamente esercitata giusta organizzazioni alternative in concorrenza tra loro, con particolare riguardo ai soggetti privati ed alla impossibilità per essi di reperire l’ingente volume di capitali necessari per la relativa gestione erogativa, dovendosi tenere conto che il funzionamento della attività in parola va garantito in modo soddisfacente a tutti i cittadini del territorio di riferimento;
- dal punto di vista dell’affidamento e della gestione dei servizi pubblici locali, occorre da sempre contemperare da un lato il ruolo pubblico di un Ente locale e, dall’altro, la funzione gestionale (potenzialmente, anche privata) pertinente, la migliore soddisfazione dei bisogni (interessi) essenziali dei cittadini essendo strettamente avvinta al raggiungimento di un equilibrio ottimale tra autonomia organizzativa (pubblica) e (tendenzialmente) imprescindibile rispetto del canone della concorrenza; affiorano in proposito, anche storicamente, soluzioni diverse capaci, in misura per l’appunto differente, di condizionare l’evoluzione del mercato e la pertinente, effettiva “apertura”, con particolare riguardo al ruolo da riconoscersi alla imprenditoria privata, la cui iniziativa va conciliata con la partecipazione attiva (massime in termini societari) del “pubblico” in settori economici che hanno un rilievo fondamentale; ciascuna delle ridette soluzioni può agevolare o, all’opposto, ostacolare la competitività dell’imprenditoria privata e la stessa capacità della medesima di concorrere in modo adeguato anche a livello sovranazionale; in proposito, schematicamente, le modalità di gestione e affidamento dei servizi pubblici locali si atteggiano nella triplice declinazione che segue: l.1) soluzione interamente “pubblicistica”: la PA locale produce interamente in proprio le prestazioni occorrenti ed eroga i servizi in favore dei propri cittadini, se occorre giusta affidamento diretto e senza gara a strutture di tipo societario così avvinte all’ente pubblico da atteggiarsi a proiezioni organizzative (longa manus) dell’ente pubblico medesimo (c.d. in house providing); l.2) soluzione interamente “privatistica”: la PA locale esternalizza le ridette prestazioni ed i ridetti servizi affidandoli a soggetti terzi (privati) selezionati a valle di una gara; l.3) soluzione “mista”: la PA locale fa luogo a dei c.d. PPP, ovvero “partenariati pubblico privato”, massime giusta affidamento diretto e senza gara di appalti di servizi a società a capitale misto, i cui soci privati vengono “a monte” selezionati con gara.
Cosa occorre rammentare – in termini problematici – delle s.p.a. miste in ambito locale?
- una delle questioni più rilevanti e discusse è se una s.p.a. mista partecipata da un Ente locale possa o meno svolgere attività imprenditoriale c.d. extra moenia (letteralmente, “fuori dalle mura”);
- si tratta di capire se la ridetta società mista possa (o meno) impiegare proprie risorse di tipo organizzativo ed economico per operare al di fuori del territorio dell’Ente locale che partecipa al pertinente capitale sociale, e dunque a favore di collettività locali diverse rispetto a quella a favore della quale dovrebbe naturaliter svolgere il servizio pubblico pertinente;
- ancora più a monte, si tratta di capire se tale società mista possa partecipare ad appalti banditi da Enti locali diversi rispetto a quello che partecipa al relativo capitale, finalizzati ad affidare servizi pubblici con prestazioni da erogarsi a favore delle collettività delle quali essi costituiscono Enti pubblici territoriali esponenziali;
- la dottrina ha messo in risalto la natura ancipite della società mista che, se da un lato è un soggetto privato (imprenditoriale), dall’altro vede partecipare al proprio capitale uno o più Enti pubblici (territoriali) essendo stata istituita per la cura degli interessi facenti capo alle collettività di tali Enti locali partecipanti, giusta svolgimento del pertinente servizio pubblico ed erogazione alla cittadinanza delle annesse prestazioni;
- quando una società mista opera extra moenia, essa rischia di vedere la propria attività erogatrice distratta dal fine per i quale essa è stata istituita, dovendosi tuttavia – e su diverso crinale – salvaguardare la par condicio tra le imprese operanti nel settore di riferimento quando a bandire la gara sia un Ente locale diverso da quello istituente o partecipante;
- la società mista è un soggetto che, quantunque in mano (parzialmente) pubblica, ha veste formalmente privatistica ed è dotato di una propria capacità imprenditoriale, circostanza che rende decisamente angusto un limite spaziale di operatività di tipo “territoriale”;
- si sono a lungo giustapposte in dottrina e in giurisprudenza due tesi: g.1) una prima tesi minoritaria “privatistica”, onde la società mista è da intendersi soggetto con piena capacità imprenditoriale e con annessa capacità di operare nel mercato di riferimento, anche al di fuori dei confini territoriali dell’Ente locale che la ha istituita e che partecipa al pertinente capitale; essa può dunque anche gestire un servizio pubblico “extra moenia”, secondo le regole del diritto privato societario, dovendo tuttavia partecipare con successo alle pertinenti gare senza che l’Ente locale “diverso” da quello di riferimento possa operare a relativo favore degli affidamenti diretti; g.2) una tesi maggioritaria “pubblicistica”, orientata piuttosto a valorizzare la funzionalizzazione dell’attività di una società mista (servizio pubblico) rispetto alle esigenze della collettività facente capo all’Ente locale che la ha istituita e che partecipa al pertinente capitale, potendosi ammettere l’estensione dell’attività della società a prevalente capitale pubblico al di fuori del territorio dell’Ente locale che la ha costituita solo allorché si configuri un collegamento funzionale, quand’anche non territoriale (purché non meramente imprenditoriale), tra il servizio eccedente l’ambito locale e le necessità della collettività locale di cui all’Ente di istituzione e partecipazione;
- si è poi progressivamente affermata – massime in dottrina – una tesi di compromesso orientata ad ammettere – in taluni casi concreti – la possibilità per una società mista istituita e partecipata dall’Ente locale “A” di operare a favore di un Ente locale diverso “B”, quando l’attività extra moenia a favore dell’Ente locale “B” risulti, sulla base di un accertamento specifico “caso per caso”, funzionale al dispiego del servizio pubblico a favore dell’Ente locale A; ciò in considerazione della necessità di considerare in modo sinergico le due componenti, pubblicistica e privatistica, di una società mista che è formalmente (e, in qualche modo, anche sostanzialmente) un soggetto privato, la cui vocazione è tuttavia pubblicistica essendo nata per erogare prestazioni di servizio pubblico ad una data collettività di riferimento, rappresentata dall’Ente locale che la ha istituita e che partecipa al relativo capitale;
- l’approdo dottrinale si è compendiato nel riconoscimento dell’ammissibilità, per una società mista riferibile all’Ente locale “A”, dello svolgimento di attività extra moenia a favore dell’Ente locale “B”, e tuttavia con l’osservanza di uno specifico “limite funzionale” rispetto alla collettività di cui all’Ente locale “A”; un vincolo funzionale non facilissimo da specificamente isolare ed in ordine al quale ha progressivamente svolto opera di individuazione e concretizzazione la giurisprudenza la quale talvolta ha perimetrato tale limite funzionale “in negativo” (l’attività extra moenia deve essere “non incompatibile” con il modello gestionale di erogazione di un servizio pubblico a favore della collettività territoriale di riferimento), ovvero “in positivo” (l’attività extra moenia deve essere pienamente funzionale rispetto al modello gestionale di erogazione di un servizio pubblico a favore della collettività territoriale di riferimento);
- quando tuttavia la società che gestisce il servizio pubblico locale assume la consistenza di un in house providing, la disciplina europea prevede che più dell’80% dell’attività pertinente deve essere svolta a favore dell’Ente locale di riferimento, onde in questo specifico caso il “limite funzionale” risulta, già sul crinale quantitativo, specificamente individuato dal legislatore europeo e da quello interno di recepimento.