Cassazione civile, Sez. II, ordinanza, 15.09.2021, n. 24937
Guida alla lettura.
Con l’ordinanza suindicata, la Cassazione si sofferma sulle compressioni domenicali scaturenti dall’esistenza di una servitù di uso pubblico su una strada privata nella quale insistono più proprietà (private), con conseguente impossibilità per i soggetti titolari delle ridette proprietà di effettuare opere che ne riducano la pubblica fruizione.
Testo rilevante della decisione
Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 825 c.c., sostenendo l’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui, pur essendo rimasto accertato che sulle strade private di (omissis) esisteva una servitù di uso pubblico, aveva ritenuto l’illegittimità delle opere eseguite da essa ricorrente nei locali di sua proprietà, malgrado che il Comune di Genova si dovesse ritenere l’unico soggetto titolare dei poteri di gestione della strada vicinale e degli annessi spazi di sosta e che non fosse necessario alcun titolo di natura privatistica per legittimare l’intervento da essa ricorrente realizzato.
Con la seconda censura la ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., prospettando l’erroneità della gravata pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto che la servitù di uso pubblico sulla strada privata non si estendeva anche alla sosta di autovetture, così disattendendo il giudicato formatosi per effetto della sentenza n. 1102/1992 del Tribunale di Genova.
Con la terza ed ultima doglianza la ricorrente ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., sul presupposto che la citata norma andrebbe applicata con riguardo ai diritti sulla cosa comune nella loro estensione in concreto, tenuto conto di eventuali pesi e limitazioni posti sugli stessi, nel mentre la Corte di appello non aveva tenuto conto dell’esistenza di una servitù di uso pubblico gravante sul bene comune.
Per il Collegio i primi due motivi sono infondati e devono, perciò, essere rigettati.
Invero, la richiamata sentenza del Tribunale di Genova passata in giudicato – accertativa della costituzione sulla (omissis) di servitù di pubblico transito per usucapione – non prevedeva alcuna specifica statuizione in merito all’esercizio da parte del Comune di Genova (unico ente legittimato) della facoltà di accordare a terzi usi eccezionali e particolari del bene di proprietà dei consorziati, rimanendo, perciò applicabile (cfr. Cass. SU n. 6633/1998; Cass. SU n. 158/1999; Cass. n. 7156/2004 e Cass. n. 21953/2013) il principio generale secondo cui l’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico, in relazione all’interesse della collettività di goderne quale collegamento tra due vie pubbliche, non comporta la facoltà dei proprietari frontisti di aprirvi accessi diretti dai loro fondi quando il relativo intervento implichi un’utilizzazione di essa più intensa e diversa, non riconducibile al contenuto della stessa, con ciò escludendosi l’applicabilità dell’art. 825 c.c.. Pertanto, la portata decisoria riconducibile a tale giudicato non poteva avere un’efficacia tale da ricomprendere anche l’aspetto relativo all’estensione dell’uso pubblico pure ai parcheggi.
Anche il terzo motivo – chiosa la Cassazione – è privo di fondamento e va respinto per le ragioni che seguono.
Ad avviso del Collegio si deve ritenere che la Corte genovese ha correttamente ritenuto sussistente, nel caso di specie, la violazione dell’art. 1102 c.c., poiché l’intervento eseguito dalla ricorrente società aveva comportato una limitazione effettiva e concreta dei diritti degli altri comproprietari della strada, impedendo il pari uso del relativo diritto.
Per la Sez. II, in punto di diritto va osservato che, in tema di comunione, se è vero che ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, è altrettanto vero che mediante questa utilizzazione non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest’ultimi. A tal fine, va, quindi, puntualizzato che l’uso del singolo comproprietario può ritenersi consentito solo ove l’utilità aggiuntiva non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene e sempre che detto uso non dia luogo a servitù a carico del suddetto bene comune.
Applicando tale principio generale ne deriva che anche l’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico non implica la facoltà dei proprietari frontisti di aprire accessi diretti dai loro fondi su detta strada, comportando ciò un’utilizzazione di essa più intensa e diversa, non riconducibile al contenuto dell’indicata servitù (cfr., ex multis, Cass. n. 3525/1993; Cass. n. 7156/2004, cit.; Cass. n. 21953/2013 e, da ultimo, cass. n. 24268/2019).
Nel caso di specie, quindi, il mutamento di destinazione dell’immobile di proprietà della società ricorrente da palestra ad autorimessa, con la connessa apertura di sei accessi carrabili è venuto a porsi in contrasto con il più volte indicato art. 1102 c.c., in dipendenza della prodotta soppressione ed a svantaggio di tutti gli altri numerosi condomini del supercondominio insistente “in loco”, della possibilità, per questi ultimi, di poter continuare a fruire pienamente della possibilità di parcheggiare secondo le antecedenti modalità – lungo i lati della strada in questione, così conseguendone l’alterazione dell’equilibrio tra le concorrenti utilizzazioni attuali o potenziali degli altri comproprietari e la configurazione di una pregiudizievole invasione nell’ambito dei coesistenti diritti di questi, con correlata violazione del principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali, il quale impone un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (v. anche Cass. n. 17208/2008 e Cass. n. 13213/2019).
In definitiva, per il Collegio, alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, da liquidarsi ai sensi di cui in dispositivo (sussistono i presupposti per l’applicabilità dell’art. 13 comma 1-bis del D.P.R. n. 115 del 2002).