Massima
Vi sono fattispecie nelle quali l’evento inadempimento reato per il quale è prevista la sanzione penale non è frutto di una volontà specifica concepita ex ante e concretamente intesa, discendendo da comportamenti che – essi sì – sono voluti in quanto tali, e che producono un effetto più grave collocantesi oltre l’intenzione dell’agente: tale effetto lesivo potrà assumersi voluto, a tutto concedere, solo in senso “astratto” ed implicito nella volontà di orientarsi verso il “meno grave” divisato. In queste ipotesi “preterintenzionali” (vale a dire proprio “oltre l’intenzione” di chi agisce) il problema principale è quello di capire a quale titolo soggettivo – in un contesto ordinamentale nel quale è prescritta la rimproverabilità per fatto colpevole – l’evento inadempimento reato più grave viene attribuito all’autore della condotta orientata all’evento inadempimento reato meno grave.
Crono-articolo
Secondo parte della dottrina la rilevanza attribuita dalla “Lex Numae” all’elemento soggettivo (l’omicidio doloso – ovvero commesso intenzionalmente, dolo sciens – autorizzava la vendetta dei parenti della vittima; l’omicidio involontario – colposo, come si evince dall’aggettivo “imprudens”, implicava il solo sacrificio di un ariete in favore degli agnati del defunto) palesa il superamento dell’arbitrio prima vigente, quando cioè la vendetta dei familiari veniva esercitata indiscriminatamente, anche in caso di omicidio colposo, “legittimo” o, appunto, preterintenzionale: tale vendetta, da quel momento in poi, può estrinsecarsi solo in presenza di “dolo sciens”, e dunque non anche nella fattispecie preterintenzionale. Secoli più tardi, vede la luce un importante rescritto dell’Imperatore Adriano (Digesto 48,8,14: Divus Hadrianus in haec verba rescripsit: ‘in maleficiis voluntas spectatur non exitus’, ovvero testualmente “nei reati va guardata la volontà, non il risultato”: un frammento che si presterebbe a due interpretazioni differenti, stando alla prima delle quali (più rigorosa, e puntata sulla volontà del soggetto agente) esso configura un’ipotesi in cui, pur non essendo seguito l’evento, vi è però la prova del disegno criminoso volontario: in sostanza vi verrebbe dichiarato punibile il tentativo; per la seconda (più garantista, e puntata sul risultato non conseguito) esso si riferirebbe all’ipotesi opposta, in cui cioè si è verificato un evento non voluto e che è andato proprio “oltre l’intenzione”: stando a questa seconda opzione ermeneutica del rescritto adrianeo, si è verificato l’evento, ma questo non è stato voluto e in questi casi ci si deve attenere alla valutazione dell’intenzione e non del fatto lesivo scaturito, onde resterebbe dimostrata la non perseguibilità a titolo di dolo proprio del delitto preterintenzionale. In altri termini, è solo la voluntas occidendi a costituire l’omicidio, che non può assumersi integrato nel diverso caso in cui chi agisce abbia voluto un evento diverso, provocando tuttavia la morte della vittima. Nel rescritto (versione di Ulpiano; ci è giunta anche una di Marciano) si cita il caso del servo Epafrodito che, nel corso di una rissa, con una percossa arrecata mediante un arnese di ferro (astrattamente non configurante un arma, ovvero un gladium o un telum), uccide la sua vittima: benché sia certo che la percossa è stata volontaria, l’Imperatore afferma in modo significativo che «et qui hominem occidit absolvi solet, si non occidendi animo id admisit»: in sostanza, allorché non sia dimostrabile la volontà dolosa del soggetto agente rispetto all’evento realizzato, si può giungere alla relativa assoluzione, salvo che non sia affiorata dal comportamento del colpevole una evidente leggerezza, stante la concreta modalità del fatto o la particolare responsabilità che il soggetto agente, magari per la professione che esercita, debba concretamente assumersi: sono i casi di colpa nei quali si ricorre a una pena extra ordinem, e che testimoniano come già presso i Romani – in disparte le pur interessanti considerazioni che potrebbero operarsi con riguardo alle fattispecie di responsabilità professionale, specie medica – nella preterintenzione il dolo abbracci, in qualche modo, la colpa.
1889
Nella codificazione liberale Zanardelli, anche con riguardo alla preterintenzione il punto di partenza non può che essere l’art.45, onde “nessuno può essere punito per un delitto se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione”: è un contesto di sostanziale mescolanza in cui restano sullo sfondo – palesandosi richiamati solo per implicito (“la legge pone altrimenti a carico”) – la colpa, il nesso di causalità, la responsabilità oggettiva e appunto la preterintenzione. Per il Carrara proprio la parte finale del comma 1 dell’articolo 45, laddove parla di fatto posto ex lege “altrimenti a carico” del relativo autore, allude alla preterintenzionalità ed alla colpa, dovendosi scorgere la preterintenzione quando “un’azione dalla quale è conseguita una lesione di diritto che si vuole imputare come delitto preterintenzionale, era diretta ad offesa, ma l’effetto ha ecceduto la intenzione del reo”; sono le ipotesi di parte speciale “…di omicidio e di lesione personale previsti dagli articoli 368 e 374 c.p., di cui la ipotesi agevolmente si semplifica nelle lesioni di taluno derivate in conseguenza di un urto violento datogli” (l’autore aggiunge poi, significativamente, che vi è semplice colpa “… quando l’azione del reo non era diretta ad offesa, ma nel commetterla vi fu un’imprudenza, negligenza, imperizia o l’irregolarità, sì che per questo manco di precauzione ha potuto conseguirne un evento dannoso”).
1930
Il codice penale Rocco inserisce la preterintenzione già nella parte generale e la definisce all’art.43: il delitto preterintenzionale è quello che si colloca oltre l’intenzione, e che si riscontra quando dall’azione od omissione (condotta) deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente. All’art.584 viene poi disciplinata la fattispecie, solitaria, dell’omicidio preterintenzionale: atti diretti a percuotere o ledere, che cagionano la morte della vittima. Rilevante anche l’art.586 che disciplina la morte o le lesioni come conseguenza di altro delitto.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza particolarmente importante in fattispecie, come la preterintenzione, nella cui orbita un evento viene addebitato ad un soggetto anche se non è esattamente quello che egli ha voluto e per il quale è dunque astrattamente rimproverabile.
1974
Il 13 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Mendicino, secondo la quale, laddove non si configuri il tentativo di percosse o lesioni ex art.56 c.p. e 581 e 582 c.p., ma vi sia la relativa minaccia (che già integra di per sé reato doloso), in caso di morte della vittima non si ha preterintenzione ex art.584 c.p., ma morte come conseguenza di altro delitto doloso (la minaccia, appunto) ex art.586 c.p.. Si tratta di indirizzo che rimarrà minoritario, orientandosi la giurisprudenza nel senso della preterintenzione anche laddove le percosse o le lesioni non raggiungano la soglia del tentativo punibile.
1978
Il 22 maggio viene varata la legge n.194, il cui art.18, comma 2, aggiunge alla previsione codicistica dell’omicidio preterintenzionale (art.584 c.p.) una seconda fattispecie, quella dell’aborto preterintenzionale.
1982
Il 3 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Daolio, onde, per potersi configurare omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p., non occorre che le percosse o le lesioni siano consumate, poiché la norma parla di atti diretti a percuotere o ledere, e non di lesioni o percosse consumate.
1985
Il 26 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.9410, Origlia, che si occupa del caso in cui il soggetto agente inietti nella vittima, per via endovenosa, dell’eroina cagionandone la morte (quand’anche con il consenso della vittima stessa): in questa ipotesi si configura un atto diretto a ledere ex art.582 c.p. (le lesioni potendo essere cagionate con ogni mezzo) e conseguentemente va applicato, per la Corte, l’art.584 c.p. in tema di omicidio preterintenzionale, e non l’art.589 in tema di (meno grave) omicidio colposo.
1987
Il 18 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione onde, in caso di violenta spinta della vittima che provochi una caduta e conseguentemente la morte, non può parlarsi di omicidio colposo ex art.589 c.p, ma di omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p., stante l’ampia latitudine del termine “percuotere” che implica – oltre i canonici atti del battere o del colpire – anche qualsivoglia altra manomissione dell’altrui persona fisica, come appunto la spinta o l’afferramento, dai quali consegua la caduta letale.
1988
Il 20 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4793, Zeni, secondo la quale, stante la terminologia utilizzata dal codice (atti diretti a percuotere o ledere), non occorre che le percosse o le lesioni raggiungano lo stadio del tentativo punibile ex art.56 c.p. per poter assumere operativo l’art.584 c.p. in tema di omicidio preterintenzionale: all’uopo è sufficiente per la Corte anche una condotta atipica connotata da minaccia o comunque da aggressività, purché sia diretta a percuotere o ledere.
Il 7 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Merlo, che, nell’ipotesi in cui il soggetto agente si avventi sulla vittima, ne provochi una caduta e conseguentemente la morte, non può parlarsi di omicidio colposo ex art.589 c.p, ma di omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p., stante l’ampia latitudine del termine “percuotere” che implica – oltre i canonici atti del battere o del colpire – anche qualsivoglia altra manomissione dell’altrui persona fisica, come appunto la spinta o l’afferramento dai quali consegua la caduta letale.
1989
Il 7 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4904 onde le percosse o le lesioni, che sono il presupposto per l’applicazione dell’art. 584 cod. pen., devono essere il frutto di un dolo diretto e non di dolo (meramente) eventuale.
1992
*Il 4 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.5544, Carmignani, che si occupa del caso in cui il soggetto agente inietti nella vittima, per via endovenosa, dell’eroina cagionandone la morte (quand’anche con il consenso della vittima stessa): in questa ipotesi la Corte ribadisce come si configuri un atto diretto a ledere ex art.582 c.p. (le lesioni potendo essere cagionate con ogni mezzo) e conseguentemente va applicato, per la Corte, l’art.584 c.p. in tema di omicidio preterintenzionale, e non l’art.589 in tema di (meno grave) omicidio colposo.
1993
Il 18 marzo esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.7249, che si occupa di un caso del tutto peculiare in cui è stata ferita una donna attinta da colpi di pistola: essa dapprima ha visto interrotta la propria gravidanza e poi, a distanza di pochi giorni, è morta. In queste singolari ipotesi, per la Cassazione, il reato di procurato aborto (preterintenzionale) di cui all’art.18 della legge 194.78 concorre formalmente (unicità dell’azione) con quello di omicidio ex art.575 c.p. (peraltro senza alcun vincolo di continuazione), non potendosi quest’ultimo assumere assorbente del primo in quanto l’aborto si è verificato, sul piano fenomenico, in modo distinto e anteriore rispetto alla (successiva) morte della donna.
1995
Il 5 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.5139 che in un caso peculiare ammette la configurabilità della preterintenzione mediante omissione, e più precisamente mediante concorso omissivo nel reato commissivo commesso da terzi. Nel caso di specie viene condannato un alto funzionario di polizia che – dopo aver schiaffeggiato la persona sottoposta ad indagini per l’omicidio di un commissario – si assenta mentre dei suoi sottoposti, conducendolo in altra stanza e sottoponendolo al trattamento con acqua e sale, lo vedono morire per l’accidentale penetrazione del tubo per l’immissione dell’acqua nelle vie aeree.
1996
Il 2 febbraio esce la sentenza della V sezione n.3349, Vanzan, che si occupa dei rapporti tra preterintenzione e concorso anomalo ex art.116, comma 2, c.p.: secondo la Corte, il concorso anomalo non è applicabile all’omicidio preterintenzionale, in quanto trattasi di una forma attenuata di concorso configurabile solo nella ipotesi in cui il concorrente che si vuole anomalo abbia voluto un reato diverso da quello voluto dagli autori materiali e concretamente attuato, mentre nell’omicidio preterintenzionale l’evento mortale non è voluto da nessuno dei concorrenti; mentre tutti vogliono le lesioni o come nel caso in esame – le percosse -, onde tutti devono rispondere della morte che eventualmente consegua alla aggressione voluta.
1997
Il 19 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.1318, Paralupi, che – in un caso di morte del tossicodipendente in seguito alla assunzione di stupefacenti – si occupa del caso in cui il tossicodipendente assuma autonomamente la droga dopo averla acquistata o ricevuta dal soggetto agente, senza dunque che questi gliela abbia iniettata: in questo caso non può per la Corte parlarsi di omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p., quanto piuttosto dell’art.586 c.p., e dunque della morte quale conseguenza di altro reato, laddove il reato base è in questo caso quello configurato dall’art.73 del d.p.r. 309.90 (testo unico stupefacenti). Diverso il caso, altrimenti giudicato dalla Corte, della droga iniettata dal cedente nel corpo della vittima, in quanto in quel caso si hanno atti diretti a ledere (art.582 c.p.) e dunque si risponde per omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p.
2002
Il 13 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.13114 alla cui stregua l’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale non può assumersi compendiato dal dolo misto alla colpa, ma unicamente dalla volontà di infliggere percosse o di provocare lesioni, a condizione che la morte della vittima sia causalmente conseguente alla condotta dell’agente, che deve assumersi rispondere per fatto proprio, sia pure in relazione ad un elemento diverso da quello effettivamente voluto, che tuttavia per esplicita previsione legislativa ne aggrava il trattamento sanzionatorio. In questa pronuncia la Cassazione lascia già intravedere la tesi, seguita in seguito da parte della relativa giurisprudenza, sull’elemento soggettivo unico (e sostanzialmente doloso) nel delitto preterintenzionale.
2003
Il 28 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.3946, che si occupa della peculiare fattispecie in cui il soggetto agente, dopo aver compiuto atti diretti a percuotere o ledere la vittima (nel caso di specie, una donna), essendo essa solo svenuta, la crede morta e – nel tentativo di simularne il suicidio – la uccide: in questi casi per la Corte la morte sopraggiunge a cagione di una sequenza causale diversa rispetto a quella attivata con gli atti diretti a percuotere o ledere, onde l’evento morte va imputato al relativo autore a titolo di colpa, e non a titolo preterintenzionale.
2006
Il 14 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.13673 che nel richiamare il proprio precedente del 2002, esplicita meglio la propria teoria in termini di elemento soggettivo unico (doloso) nel delitto preterintenzionale, con ciò escludendo le tesi miste (dolo + colpa; dolo + responsabilità oggettiva). La fattispecie è quella di una donna morta a seguito di frattura pelvica riportata in conseguenza dell’aggressione da parte di un’altra donna che, dopo averla schiaffeggiata ed afferrata per i capelli, ne ha cagionato la caduta a terra ed ha poi continuato a colpirla a calci (uno dei quali ha attinto la parte destra dell’inguine della vittima). Nel caso di specie, per la Corte il meno grave reato di percosse o lesioni è pacificamene attribuibile al soggetto agente a titolo di dolo; residua tuttavia un certo grado di incertezza nell’inquadratura scientifica del titolo di responsabilità dell’evento più grave, che può essere alternativamente individuato (secondo la dottrina e la giurisprudenza pertinenti) tanto nella colpa quanto nella responsabilità oggettiva, onde se nel primo caso (colpa) l’agente risponde solo di quegli effetti ulteriori della condotta che ne rappresentano lo sviluppo ed il risultato prevedibile ed evitabile, nel secondo caso (responsabilità oggettiva) egli risponde indistintamente di tutti gli eventi ulteriori per il solo fatto di essere in rapporto di causalità materiale con la condotta in concreto tenuta. La Corte afferma ora, innovativamente (seppure con richiamo al proprio precedente del 2002, meno articolato), proprio l’unicità dell’elemento psicologico, consistente nel dolo del delitto sussidiario di percosse e di lesioni, il quale, in ragione dell’omogeneità dell’evento morte rispetto a quello meno grave del delitto sussidiario, deve assumersi assorbire la prevedibilità dell’evento più grave: ciò sulla scorta in primis di un argomento di carattere sistematico, stante il chiaro rapporto di progressività dei delitti di percosse e lesioni con quello dell’omicidio preterintenzionale, onde sussiste un palmare tratto di omogeneità che lega l’evento meno grave voluto (percosse o lesioni), con quello più grave, non voluto (morte): ne discende per la Corte che se l’agente ha voluto un evento minore omogeneo, quale conseguenza della condotta tipica ai sensi degli artt. 581 o 582 c.p., la progressività che peculiarizza il delitto di cui all’art. 584 c.p. rende possibile l’applicazione della regola posta dall’art. 15 c.p., con la conseguenza onde il delitto sussidiario di lesioni o percosse rimane assorbito in quello dell’omicidio preterintenzionale (rapporto di specialità). Una conferma di tipo strutturale può poi per la Corte rinvenirsi nel raffronto dell’art 584 c.p. con l’art. 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto doloso), il quale del pari pone a carico dell’agente l’evento mortale (o lesivo), conseguenza non voluta di altro delitto doloso, diverso dalle lesioni e dalle percosse: una disposizione che per autorevole dottrina supporta la teoria del “doppio elemento psicologico”, e che invece per la Corte è idonea a dare fondamento proprio alla abbracciata, novella tesi dell’unicità dell’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale, sol che si consideri come nell’art. 586 c.p. l’evento mortale, non voluto dal soggetto agente, si configuri come disomogeneo rispetto a quello voluto che, proprio per questo, non può qualificarsi quale delitto sussidiario; mentre dunque l’art.586 c.p. si appoggia sulla disomogeneità dell’evento mortale (o lesivo), rispetto al risultato prefigurato dall’agente, l’art. 584 c.p. si caratterizza – all’opposto – proprio per l’omogeneità dei due eventi (percosse o lesioni da un lato e morte dall’altro), capace di attivare il meccanismo dell’assorbimento previsto dall’art. 15 c.p., che non può invece operare nel caso dell’art. 586 c.p., che rinvia all’art, 83 c.p. e che, prefigurando dunque una aberratio delicti, finisce con l’evidenziare come l’agente risponda a titolo di colpa per l‘evento diverso (disomogeneo) da quello voluto, se il fatto è previsto come delitto colposo, confermando tuttavia il concorso di reati se l’autore ha cagionato altresì l’evento voluto. Da ciò si evince, per la Corte, che mentre la fattispecie delittuosa di cui all’art. 586 c.p. ricade nel campo di applicazione del concorso di reati, stante la eterogeneità dei due eventi, voluto e non voluto, che per ciò stesso implicano ciascuno un proprio ed autonomo elemento psicologico, al contrario il delitto previsto dall’art. 584 c.p. richiama (seppure implicitamente) la regola dell’art. 15 c.p. (concorso apparente di norme per specialità), i due eventi omogenei palesandosi accomunati da un unico elemento psicologico, al quale corrisponde l’unico evento della morte capace di assorbire i delitti sussidiari (percosse o lesioni) perseguiti dall’agente. Viene così esclusa dalla Corte la complessità dell’elemento psicologico nell’omicidio preterintenzionale, che deve assumersi compendiato unicamente dalla volontà di percuotere o provocare lesioni: chi agisce con dolo di percosse o lesioni per definizione può infatti prevedere l’evento più grave della morte: seguendo questo percorso logico, la prevedibilità dell’evento morte viene assimilata, ai fini della ricostruzione della causalità morale, alla volontà e previsione del risultato della condotta, onde, guardando all’art. 43 c.p, va contrapposto al delitto colposo – nel cui ambito l’evento, seppur previsto, è in contrasto con il risultato intenzionale – il delitto doloso e preterintenzionale, entrambi accomunati dalla corrispondenza dell’evento all’intenzione del risultato, con la sola differenza onde nel delitto preterintenzionale (rispetto a quello doloso) la corrispondenza è superata solo dalla maggiore gravità dell’evento che ne scaturisce. In questa prospettiva, per la Corte la previsione dell’evento, nel delitto preterintenzionale così come in quello doloso, rappresenta un elemento costituivo della fattispecie tipica, e non un elemento circostanziante come dimostra il fatto che la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 3 c.p., ossia l’aver agito nonostante la previsione dell’evento, è tassativamente limitata dal codice al delitto colposo. La Corte conclude allora nel senso onde quanto al delitto preterintenzionale, la disposizione dell’art. 43 assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato, per il quale i parametri della negligenza, dell’imprudenza o dell’imperizia, o della mera inosservanza di norme appaiono assolutamente irrilevanti: è lo stesso legislatore infatti, all’atto di disegnare la fattispecie, a formulare a priori un giudizio di prevedibilità dell’evento morte a fronte della commissione di atti diretti ad offendere la incolumità personale, con l’ulteriore conseguenza per cui è attribuibile all’agente l’evento morte conseguente alla commissione di atti diretti a commettere percosse o lesioni indipendentemente da qualsivoglia indagine sulla sussistenza della colpa.
L’8 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.19611 che, in tema di omicidio preterintenzionale, ne afferma la consistenza strutturale in termini di “dolo + colpa” : secondo la Corte occorre muovere dalla necessaria natura “personale” della responsabilità penale di cui all’art.27, comma 1, Cost, siccome riaffermata dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n.364 del 1988, alla cui stregua la responsabilità penale è personale non solo quando dipende da fatto proprio (e non da fatto altrui), ma più precisamente da fatto proprio colpevole, onde l’evento va attribuito all’autore quanto meno in termini di prevedibilità ed evitabilità e, dunque, di colpa in senso stretto (nel che consiste appunto la colpevolezza). Secondo la Corte, più nel dettaglio, l’art.27 della Costituzione ammette (rectius, non vieta tassativamente) forme di responsabilità oggettiva “spuria o impropria”, nelle quali un solo, magari accidentale, elemento del fatto (a differenza di tutti gli altri) non risulti alfine coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente; devono invece assumersi vietate forme di responsabilità oggettiva “pura e propria”, sicché – al fine di non incorrere nel divieto di cui all’art.27 della Costituzione – occorre doversi postulare la colpa del soggetto agente almeno con riguardo agli elementi più significativi della fattispecie di volta in volta considerata, tra i quali va senz’altro annoverato il complessivo risultato ultimo vietato che, nel caso della preterintenzione, è proprio l’evento morte. Questo significa che l’evento morte, non voluto dal soggetto agente, deve assumersi almeno da lui prevedibile ed evitabile, potendogli pertanto essere attribuito solo laddove si accerti in concreto la prevedibilità ed evitabilità del detto evento allorché quegli compia atti diretti a percuotere o ledere.
2008
Il 12 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44751 alla cui stregua nel caso in cui nel corso di una rapina posta in essere con violenza sulla persona (nella specie, spintonando la vittima e trascinandola per alcuni metri per strapparle la borsa) la persona offesa riporti gravi lesioni personali che ne cagionino il decesso, l’evento morte va addebitato a titolo di omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.: l’evento letale deriva da una azione volontaria di lesioni o percosse), e non come morte in conseguenza di un altro reato (art. 586 c.p.: la morte deriva da un diverso delitto doloso). In primo luogo la Corte sgombra il campo dalla possibilità di assumere incompatibili gli atti diretti a percuotere o ledere di cui all’art.584 c.p. con il dolo eventuale: questa norma, l’art.584 c.p. appunto, mira a prevedere una difesa avanzata del bene della vita, visto che non è raro come da atti diretti a percuotere o ledere discenda la morte della vittima: questo giustifica che gli “atti diretti a percuotere o ledere” vanno compendiati esclusivamente sul crinale oggettivo, mentre dal punto di vista soggettivo chi li pone in essere può anche solo averli accettati come eventuali, senza averli voluti in modo immediato e diretto. Una volta chiarito che gli atti diretti a percuotere o ledere possono essere sorretti anche dal dolo eventuale, la Corte – abbracciando la tesi che vede nell’omicidio preterintenzionale una ipotesi di dolo + responsabilità oggettiva – conclude nel senso onde non occorre in capo a chi compie tali atti la prevedibilità dell’evento morte, che viene addebitato all’autore in forza del solo nesso di causalità. Infine, la Corte torna sul rapporto con l’art.586 c.p.: non si potrebbe predicare nel caso di specie l’applicazione di tale norma in considerazione della circostanza onde la morte della vittima sarebbe derivata da una rapina, in quanto la rapina assorbe il reato di percosse o lesioni, essendo più grave di esse ma – come il più contiene il meno – non può annullare le due pertinenti fattispecie (come episodio storico) e, con esse, la natura preterintenzionale dell’omicidio.
2012
Il 17 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35582, alla cui stregua il delitto preterintenzionale deve intendersi imputato al soggetto agente a titolo di “dolo + responsabilità oggettiva”, e non già a titolo di “dolo + colpa”. Militano in tal senso motivi sia di ordine letterale che di ordine logico: sul primo crinale (letterale), nessun richiamo a negligenza, imprudenza o imperizia si rintraccia nella norma (art.584 c.p.) che disegna l’omicidio preterintenzionale, nel cui contesto si fa riferimento evidente ad una aggressione fisica che è già ontologicamente capace di escludere ogni possibile forma di pretesa cautela; sotto il secondo profilo (logico), mentre nell’omicidio colposo il legislatore pretende la prevedibilità dell’evento, punendo tuttavia meno gravemente (quand’anche si tratti di colpa cosciente), nel caso dell’omicidio preterintenzionale la prevedibilità dell’evento non è richiesta, e la sanzione è molto più grave di quella prevista per l’omicidio colposo (anche con previsione), trattandosi di reclusione da 10 a 18 anni, il che esclude pertanto che possa parlarsi di colpa.
2013
Il 20 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.27161 che ribadisce come la preterintenzione rappresenti un titolo unico ed autonomo di imputazione soggettiva del reato al soggetto agente. Tale titolo è costituito dal dolo di percosse o lesioni, capace di assorbire la prevedibilità dell’evento più grave (morte) concretamente verificatosi nell’intenzione di risultato. In sostanza, non si tratta né di dolo + colpa né di dolo + responsabilità oggettiva, ma più semplicemente di dolo preterintenzionale: il legislatore è stato mosso, nel prevedere questa fattispecie, dalla condivisibile considerazione onde dal punto di vista naturalistico, quand’anche involontario, non raramente a cagione di atti diretti a percuotere o ledere la vittima può sopraggiungerne la morte, ed ha inteso apprestare al prezioso bene della vita una tutela anticipata. La preterintenzione, ed in particolare l’art.584 c.p., ha un titolo proprio ed esclusivo di imputazione della responsabilità penale all’autore, ovvero il dolo del reato base che è capace di assorbire anche la prevedibilità dell’evento preterintenzionale, e ciò al cospetto di un evento non voluto, la morte, che è omogeneo rispetto al meno grave delitto sussidiario di percosse o lesioni. Applicando l’art.15 c.p., attraverso l’omogeneità dei beni tutelati dalla norma penale da un lato si mutua il dolo (percosse o lesioni) e dall’altro l’evento più grave realizzato (morte), con il risultato di un omicidio doloso preterintenzionale, e non doloso tout court, senza possibilità di attribuire al reo anche le percosse e le lesioni, che restano assorbite, mentre il relativo dolo assorbe, quanto ad elemento soggettivo, la prevedibilità dell’evento morte (una sorta di assorbimento reciproco).
2015
L’8 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.301 che si occupa di un caso di omicidio preterintenzionale maturato nel contesto di una rapina. Secondo la Corte – che muove dal presupposto onde gli atti diretti a percuotere o ledere sono coperti, nel caso di specie, dal dolo diretto – in ogni caso, anche se l’azione lesiva fosse stata oggetto di dolo eventuale da parte del soggetto agente (come pretenderebbe quest’ultimo in veste di ricorrente), non per questo verrebbe meno la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale: la Corte dichiara di non ignorare l’esistenza di un precedente nel quale è stato affermato che le percosse o le lesioni, che sono il presupposto per l’applicazione dell’art. 584 cod. pen., devono essere il frutto di un dolo diretto e non di dolo eventuale (Sez. 1, sent. n. 4904 del 05/07/1988, dep. 07/04/1989) ma assume di non poter aderire a tale orientamento a cagione del fatto onde la ratio dell’incriminazione di cui all’art. 584 c.p. consiste nel porre una difesa avanzata al bene della vita, in considerazione della circostanza onde, non raramente, da atti diretti a ledere possa naturalisticamente (ancorché involontariamente) sopravvenire la morte della persona offesa (viene richiamato il precedente della Sezione 4, n. 17687/1989), dovendo quindi essere riaffermato per la Corte il principio secondo cui il formale riferimento normativo ad “atti diretti a percuotere o a ledere” non esclude la possibilità che questi siano accettati come eventuali; in tale ottica la direzione degli atti va intesa come requisito strutturale oggettivo dell’azione e l’espressione impiegata come finalizzata a ricomprendere in essa atti realizzanti semplice tentativo del delitto a cui consegua l’evento morte. Infondata è poi – secondo la Corte – la tesi della mancata prevedibilità che l’azione lesiva potesse determinare la morte della persona offesa: per la sussistenza del delitto di omicidio preterintenzionale è sufficiente infatti che esista un rapporto di causa ed effetto tra l’azione volontaria di percosse o di lesioni e la morte del soggetto passivo, non postulando detta figura la prevedibilità in capo all’agente dell’evento maggiore: invero la valutazione positiva in ordine a questo dato è nella legge stessa, secondo la ratio sopra enunciata dell’art. 584 cod. pen. (viene richiamato il precedente della sezione V n. 21056/04, dep. 05/05/2004). Infine, la Corte dichiara priva di consistenza l’ulteriore obiezione mossa nel caso di specie dal ricorrente secondo cui, essendo la rapina un reato contro il patrimonio, la morte verificatasi come conseguenza della medesima realizzerebbe non già un omicidio, preterintenzionale bensì il delitto di cui all’art. 586 cod. pen., sottolineando in senso opposto che l’art. 584 c.p. parla di “atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli artt. 581 e 582 cod. pen.” e la circostanza che tali delitti possano essere assorbiti da quello più grave di rapina non può portare all’assurdo ed irragionevole risultato di far escludere – in relazione al verificarsi di quest’ultima, pur “comprensiva “e più grave dei predetti – la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale.
Il 6 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5676 che si occupa dell’accertamento dell’elemento psicologico che consente di distinguere tra l’omicidio volontario – nel cui contesto la volontà dell’agente è costituita direttamente dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale – e l’omicidio preterintenzionale, nel cui contesto invece la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con assoluta esclusione di ogni previsione dell’evento morte, il quale è riconducibile a fattori esterni: si tratta di un accertamento che per la Corte muove dalla valutazione rigorosa degli elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta posta in essere dal soggetto agente. Né potrebbe ostare ad una considerazione dell’omicidio preterintenzionale come connotato da “dolo + responsabilità oggettiva” la nota presa di posizione della Corte costituzionale in termini di colpevolezza ex art.27, comma 1, Cost., di cui tanto alla nota sentenza 364.88 sull’errore di diritto, quanto alla precedente ordinanza 152.84, in quanto sulla scorta di tali arresti occorre escludere in senso assoluto la responsabilità dell’agente per fatto di terzi, cosa ben diversa dalla responsabilità oggettiva di cui al delitto preterintenzionale in cui l’agente non persegue l’evento morte, ma che tuttavia vede tale evento come conseguenza della relativa condotta (e non della condotta di terzi), con conseguente aggravamento del trattamento sanzionatorio.
Il 20 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.21002 alla cui stregua il delitto previsto dall’art.586 (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) si differenzia dall’omicidio preterintenzionale poiché l’attività del colpevole nel primo è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre il secondo è diretto a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe proprio reato di percosse o lesioni personali. La Corte nel caso di specie assume configurarsi omicidio preterintenzionale in un caso di decesso per asfissia da soffocamento, causato da una azione violenta compendiatasi nell’immobilizzazione e nell’imbavagliamento della vittima.
2017
Il 19 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.56701, alla cui stregua perché possa configurarsi il reato di omicidio preterintenzionale, anziché volontario, gli agenti devono aver escluso ogni possibile previsione dell’evento-morte, in presenza di piena consapevolezza delle conseguenze derivanti dall’azione posta in essere configurandosi il reato di omicidio volontario. Per la Corte corretta è stata nel caso di specie, in primo luogo, la conclusione del giudice di merito nel senso del concorso pieno degli imputati, poiché l’azione di sopraffazione, imprigionamento e soffocamento della vittima non poteva che essere stata posta in essere da due persone congiuntamente. Il portare con sé il nastro adesivo e la previsione di vincere la resistenza della vittima ha fatto correttamente escludere per entrambi i soggetti attivi, nel caso di specie, il c.d. concorso anomalo: il nucleo differenziale, per ritenere integrato a carico del concorrente il concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., si incentra infatti per la Corte sulla particolarità che costui non abbia voluto, neppure nella forma del dolo indiretto, l’evento ulteriore; invece, se si agisce in gruppo si aderisce alle conseguenze che sono legate, in un logico e naturale divenire, all’azione programmata e laddove si programmi un delitto che rientra nell’ambito di un’azione violenta orientata alla persona la progressione e la degenerazione nell’evento lesivo maggiore o nella morte è ipotesi plausibile, poiché la stessa aggressione al bene materiale (integrità fisica), che si è accettato di mettere in discussione, può naturalmente progredire verso una lesività di maggiore intensità, nel perimetro di un bene giuridico omogeneo (viene richiamata la sentenza della Sez. 1, n. 4330 del 15/11/2011). Per la Corte poi è priva di errore o di illogicità l’esclusione, ad opera della Corte territoriale, della ipotesi del delitto preterintenzionale: il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e preterintenzionale è che in questo secondo caso la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento-morte, che si determina per fattori esterni e l’accertamento deve fondarsi su elementi oggettivi desunti dalla modalità dell’azione; nel caso di specie, chiosa la Corte, le modalità dell’azione conosciuta, per come già visto, individuavano un’azione idonea a cagionare la morte nella piena consapevolezza degli imputati, i quali non hanno dedotto nessun fattore esterno ed anzi hanno ammesso di essersi rappresentata la morte della vittima (viene richiamata la sentenza della Sez. 1, n. 30304 del 30/062009, e n. 4425 del 05/12/2013).
2018
Il 10 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 633 alla cui stregua l’omesso versamento di contributi in via sistematica giustifica la condanna per procurato fallimento. La Corte, occupandosi dell’art.223 della legge fallimentare, afferma più in specie che il fallimento determinato da operazioni dolose configura una eccezionale ipotesi a sfondo preterintenzionale. In particolare, rammenta la Corte come l’articolo 223, comma 2, n.2, legge fall. sancisca l’applicabilità nei confronti degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite della pena prevista dal comma 1 dell’art. 216, se hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società. Il successivo art.224 prevede l’applicabilità delle più lievi pene stabilite nell’art. 217 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge Secondo il proprio orientamento costante, rammenta la Corte, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sè efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 c.p., né il fatto che l’operazione dolosa contestata abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto (vengono richiamate le sentenze della Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu e altro, n. 8413 del 16/10/2013, dep. 2014, Besurga, n. 17690 del 18/272010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, e n. 19806 del 28/3/2003, Negro ed altri). Ancora, un costante orientamento della Corte, dedicato alla tecnica di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi, afferma che in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, I. fall. possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità (vengono richiamate le sentenza della Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, Bottiglieri, n. 12426 del 29/11/2013 – dep. 2014, P.G. e p.c. in proc. Beretta e altri). In particolare, le operazioni dolose di cui all’art 223, comma 2, n. 2, I. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la «salute» economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato. In applicazione del principio, la Corte rammenta come sia stata ritenuta corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società, richiamando in particolare la sentenza della Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri). Il fallimento determinato da operazioni dolose – precisa la Corte – configura un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale; l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare. (vengono richiamate le sentenze della Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri e n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina e altri).
Il 23 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3075 alla cui stregua, in tema di riconoscimento di sentenza straniera di condanna, ai sensi dell’art. 10 d.lgs. n. 161/2010 la Corte territoriale deve procedere a verificare quale fattispecie astratta di reato sia nell’ordinamento interno riconducibile, indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione, il fatto per il quale è intervenuta la sentenza di condanna oggetto di riconoscimento; la mera traduzione del ”nomen juris” attribuito al reato dalla legislazione straniera non rappresenta una qualificazione giuridica vincolante per l’Autorità giudiziaria italiana, la quale deve al riguardo procedere in modo autonomo con riferimento alle specifiche e concrete connotazioni del fatto accertato ed in relazione alle pertinenti norme penali interne. In sostanza, per la Corte al fine di procedere al riconoscimento della sentenza di condanna emessa in un altro Stato membro dell’Unione europea, ai fini della relativa esecuzione in Italia, la Corte territoriale deve, tra l’altro, accertare che la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza applicate nello Stato di emissione siano compatibili con quelle previste in Italia per reati simili (art. 10, commi 1, lett. f, e 5, D.Lvo n. 161 del 2010). Per individuare il tipo di pena o di misura di sicurezza applicabile nell’ordinamento italiano al fatto ritenuto nella sentenza oggetto di riconoscimento, e la relativa cornice edittale, la Corte di appello deve quindi necessariamente determinare per la Corte a quale fattispecie astratta di reato sia nell’ordinamento interno riconducibile quel fatto, “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione” (così, testualmente, l’art. 10, comma 1, lett. e, D.Lvo 161/2010). Se la durata e la natura della pena e della misura di sicurezza applicate con la sentenza di condanna sono incompatibili con quelle previste in Italia per reati simili, la Corte di appello procede al loro adattamento. In tal caso, la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza adattate non possono essere inferiori alla pena o alla misura di sicurezza previste dalla legge italiana per reati simili, né più gravi di quelle applicate dallo Stato di emissione con la sentenza di condanna (art. 10, comma 5, D.Lvo n. 161 del 2010). Orbene, la Corte territoriale non ha dato per il Collegio corretta applicazione alle norme testé richiamate, non avendo in primo luogo essa proceduto a verificare a quale fattispecie astratta di reato sia nell’ordinamento interno riconducibile, “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione” (art. 10, comma 1, lett. e, D.Lvo 161/2010) il fatto per il quale è intervenuta la sentenza di condanna oggetto di riconoscimento. Tale sentenza riguarda infatti il delitto di manslaughter, che nella nota di trasmissione in lingua italiana del certificato datata 5/1/2017 le Autorità del Regno Unito traducono come “omicidio preterintenzionale“. Si tratta peraltro di una mera traduzione, che non rappresenta una qualificazione giuridica vincolante per l’Autorità giudiziaria italiana, la quale deve al riguardo procedere in modo autonomo con riferimento alle specifiche e concrete connotazioni del fatto accertato ed in relazione alle pertinenti norme penali interne. Il termine manslaughter comprende in vero diverse fattispecie, che vanno dall’omicidio volontario a imputabilità ridotta per vizio parziale di mente, all’omicidio volontario con dolo d’impeto e/o attenuante della provocazione, al vero e proprio omicidio preterintenzionale, nel quale la morte della vittima consegue ad atti diretti a commettere delitti di percosse o lesioni personali (art. 584 cod. pen.). Nel caso di specie, il provvedimento oggetto di riconoscimento procede ad una minuziosa descrizione della condotta omicidiaria là dove, tra l’altro, afferma che “senza dubbio si è trattato di un attacco sostenuto e furioso attuato con un’arma mortale” e che, anche se il soggetto agente era in stato maniacale, egli aveva l’intenzione di uccidere la vittima. Ciò determina con chiarezza la qualificazione giuridica del fatto in diritto italiano nell’ambito della fattispecie di omicidio volontario di cui all’art. 575 cod. pen..Per tale fatto-reato, non sono state contestate al soggetto agente, o ritenute nella sentenza oggetto di riconoscimento, aggravanti di sorta, risultando al contrario l’attuale ricorrente essere al momento del fatto affetto da schizofrenia, manifestatasi in maniera repentina e inaspettata, senza alcun contributo dello stesso ricorrente all’insorgenza di tale stato psicotico acuto, sicché solo la malattia mentale da cui è affetto ha determinato la condotta per la quale ha riportato condanna (si richiama la sentenza della Sez. 1, n. 33268 del 13/06/2013, Arba). Ciò – prosegue la Corte – ha determinato il giudice inglese a riconoscere al soggetto agente una capacità di intendere e volere grandemente scemata nel momento in cui ha commesso il fatto in ragione della malattia mentale da cui era affetto (corrispondente al vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen.), nonché le ulteriori attenuanti correlate al corretto comportamento post factum dell’imputato, che si è tra l’altro da subito sottoposto regolarmente e attivamente alle necessarie cure farmacologiche e psicologiche, e alla relativa scelta di dichiararsi colpevole, riconducibili nell’ordinamento interno agli artt. 62 bis cod. pen. e 444 cod. proc. pen.. È del tutto evidente, dunque, che in Italia per il richiamato reato di cui all’art. 575 cod. pen., non aggravato e anzi connotato da imputabilità ridotta e dalle indicate attenuanti, nonché dalla riduzione di pena riconosciuta dall’Autorità giudiziaria inglese in ragione della scelta del rito (viene richiamata la sentenza della Sez. 4, n. 10885 del 09/02/2012, Marsalone e altro,), è prevista unicamente la pena della reclusione (art. 23 cod. pen.) e non già quella dell’ergastolo (art. 22 cod. pen.). La sentenza impugnata deve pertanto per la Corte essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, che dovrà verificare la possibilità e le eventuali modalità di adattamento nell’ordinamento interno della dicretionary life sentence con termine minimo di sei anni di reclusione applicata al ricorrente dal Giudice Farrer della Crown Court di Birmingham. A tal fine, la Corte di rinvio dovrà considerare che la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza adattate non possono essere inferiori alla pena o alla misura di sicurezza previste dalla legge italiana per reati simili, né più gravi di quelle applicate dallo Stato di emissione con la sentenza di condanna (art. 10, comma 5, D.Lvo n. 161 del 2010). Per il Collegio, nella determinazione del primo parametro, la Corte di rinvio dovrà in particolare tenere conto, a partire dal limite edittale pari a 21 anni di reclusione previsto dall’art. 575 cod. pen., delle successive riduzioni di pena conseguenti all’avvenuto riconoscimento da parte del giudice inglese del vizio parziale di mente e delle attenuanti generiche, nonché quelle conseguenti alla scelta del rito e dovrà inoltre accertare, anche se del caso mediante apposita richiesta di chiarimenti all’Autorità richiedente il riconoscimento, il periodo nel quale il soggetto agente è stato eventualmente sottoposto nel Regno Unito, in relazione al fatto per il quale ha riportato condanna, a misura della custodia cautelare in carcere ovvero ad altra assimilabile agli arresti domiciliari presso un luogo pubblico di cura o di assistenza (art. 284 cod. proc. pen.), con la conseguenza che il relativo periodo di privazione della libertà va integralmente detratto, secondo le regole dell’ordinamento interno, dalla durata della pena detentiva da scontare, posto che costituisce principio fondamentale dell’ordinamento giuridico dello Stato quello secondo cui la custodia cautelare deve essere sempre computata nella pena da espiare relativa allo stesso fatto (vengono richiamate le sentenze della Sez. 6, n. 46451 del 17/09/2004, Iute,e n. 1279 del 28/11/2013, Jakovljevic).
Il 6 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.40100, alla cui stregua l’art.223, comma 2, n.2, della legge fallimentare assoggetta alla pena prevista dal comma 1 dell’art. 216 della stessa legge gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, che abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società. Secondo il proprio orientamento costante, rammenta la Corte dandovi continuità, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod.pen. né il fatto che l’operazione dolosa contestata abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto (vengono rammentate le sentenze della Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu e altro, n. 8413 del 16/10/2013, dep. 2014, Besurga, n. 17690 del 18/2/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, n. 19806 del 28/3/2003, Negro ed altri). Un costante orientamento della Corte medesima, dedicato alla tecnica di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi, afferma che in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, I. fall. possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali praticato con carattere di sistematicità (vengono rammentate le sentenze della Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016 – dep. 2017, Bottiglieri, n. 29586 del 15/05/2014, Belleri, n. 12426 del 29/11/2013 – dep. 2014, P.G. e p.c. in proc. Beretta e altri). In particolare, le operazioni dolose di cui all’art 223, comma 2, n. 2, I. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la «salute» economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale che non discende direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), ma da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato. La Corte rammenta in proposito che nel proprio precedente della medesima Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, in applicazione del principio, è stata ritenuta corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rende prevedibile il conseguente dissesto della società. Poiché – prosegue emblematicamente la Corte – il fallimento determinato da operazioni dolose configura un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare (vengono richiamati i precedenti della Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, e n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina e altri).
2019
Il 4 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 5515 che ribadisce il principio secondo cui ai fini dell’integrazione dell’omicidio preterintenzionale, è necessario che l’autore dell’aggressione abbia commesso atti diretti a percuotere o a ledere e che esista un rapporto di causa ed effetto tra gli atti predetti e l’evento letale, senza necessità che la serie causale che ha prodotto la morte rappresenti lo sviluppo dello stesso evento di percosse o di lesioni voluto dall’agente
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Il 26 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13192 che ricorda come il delitto previsto dall’art. 586 cod. pen., (morte come conseguenza di altro delitto) si differenzia dall’omicidio preterintenzionale perché, nel primo reato, l’attività del colpevole è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre, nel secondo, l’attività è finalizzata a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe un reato di percosse o lesioni. In sostanza, nel delitto di cui all’art. 586 cod. pen. l’agente vuole ledere un bene giuridico che non appartiene, come nel delitto preterintenzionale, allo stesso genere di interessi giuridici tutelati (incolumità, vita) che si distinguono, come tali, solo per la gravità, per la progressione dell’offesa. Nel delitto di cui all’art. 586 cod. pen. viene offeso un bene giuridico completamente diverso e viene conseguentemente commesso un delitto di diversa “specie”.
Ritiene inoltre la Corte che ai fini della positiva valutazione della sussistenza del nesso causale del delitto di omicidio preterintenzionale, non rileva che la serie causale che ha prodotto la morte rappresenti lo sviluppo dello stesso evento di percosse o di lesioni voluto dall’agente, potendo trattarsi – come nel caso di specie – di un evento successivo seppur eziologicamente collegato alla causa iniziale posta in essere dall’agente.
2020
Il 4 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 4715 onde in tema di concorso di persone nel reato, le norme sulla partecipazione non soffrono alcuna specifica eccezione riguardo all’omicidio preterintenzionale, essendo sufficiente, anche in relazione a tale reato, che sia dimostrato il concorso dei vari soggetti attivi – non importa se morale o materiale – nell’attività diretta a percuotere o ledere senza volontà di uccidere e che tra tale attività e l’evento letale posto a loro carico esista un rigido rapporto di causalità, rappresentando questo elemento il presupposto richiesto dal legislatore per il mutamento del titolo del reato; pertanto, è configurabile il concorso di persone nell’omicidio preterintenzionale quando vi è la partecipazione materiale o morale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o ledere una persona senza la volontà di ucciderla e vi sia un evidente rapporto di causalità tra tale attività e l’evento mortale.
In generale, per la configurabilità del concorso di persone nel reato è necessario che il concorrente abbia posto in essere un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato.
Anche con riferimento al dolo di concorso, va innanzitutto rammentato che, come affermato anche nella prima sentenza della Cassazione pronunciata sulla medesima vicenda, l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale è costituito unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato; è consolidato, infatti, l’insegnamento secondo cui l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva nè dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato; pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto “de quo” è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa.
Questioni intriganti
In cosa si risolve una fattispecie preterintenzionale?
- si atteggia ad autonoma tipologia di illecito penalmente sanzionato rispetto al reato doloso e a quello colposo, applicabile in diverse fattispecie di parte speciale;
- il soggetto agente vuole un evento;
- realizza, senza volerlo, un evento più grave di quello voluto;
- la condotta: e.1) per taluni può essere solo commissiva, in quanto la parola “atti” impedisce che, per via analogica, si possa punire per una omissione; e.2) per altri mentre in caso di atti diretti a percuotere la condotta non può che essere commissiva, in caso di atti diretti a ledere può anche essere omissiva, stante la configurabilità della lesione mediante omissione (e ferma la necessità della posizione di garanzia in capo all’agente); e.3) per altri ancora, l’espressione atti va intesa in senso generico, sicché, laddove sia configurabile una posizione di garanzia, è possibile almeno astrattamente ammettere una preterintenzione omissiva sia nel caso degli atti diretti a percuotere che in quella degli atti diretti a ledere;
- tra la specifica modalità lesiva (in senso ampio, e dunque concernente anche le percosse) concretamente posta in essere dall’agente (che esprime la volontà dell’evento meno grave) e l’evento morte non voluto più grave deve essere riscontrabile un nesso di causalità;
- il nomen iuris si riscontra solo all’584 c.p. (e all’ipotesi contermine dell’aborto preterintenzionale), ma in realtà lo schema viene predicato applicabile ai delitti aggravati dall’evento che si compendino in delitti dolosi, non potendosi invece applicare alle contravvenzioni aggravate dall’evento e ai delitti colposi aggravati dall’evento, per ovvie ragioni di incompatibilità strutturale, avendo il reato preterintenzionale necessariamente alla base un reato doloso;
- il reato base voluto deve raggiungere almeno la soglia del tentativo punibile, non essendo sufficienti meri atti preparatori per imputare al soggetto agente l’evento più grave non voluto; del resto, l’art.43 parla di azione od omissione con riguardo al reato base voluto, alludendo alla condotta tipica realizzata, quanto meno allo stadio minimo del tentativo; peraltro, deve trattarsi di una condotta che è eziologicamente legata all’evento più grave non voluto, e dunque deve compendiare quanto meno atti idonei ed inequivoci propri del reato base, tenuto conto anche del fatto che – sul crinale soggettivo – la rimproverabilità del fatto più grave passa necessariamente (oltre che de minimis) attraverso quella del fatto meno grave, che dunque deve essere compiuto quanto meno a livello di tentativo punibile;
A quale titolo viene imputato all’agente l’evento morte da lui non voluto, stante la collocazione della figura all’art.43, tra il dolo e la colpa?
- si tratta di un tertium genus di colpevolezza, a metà strada tra dolo e colpa; si obietta tuttavia che non basta parlare di tertium genus senza dimostrare in cosa esso consista effettivamente, non additandolo né quale dolo, né quale colpa;
- l’agente vuole le percosse o le lesioni, dirigendosi verso di esse, e dunque si tratta di un peculiare caso di delitto doloso, nel cui contesto la morte come reato più grave non è disvoluta, palesandosi anzi lambita dalla volontà di chi agisce; anche in questo caso si critica tuttavia la genericità dell’espressione “lambire la volontà”, dal momento che il codice parla solo di atti diretti a percuotere o ledere;
- l’agente risponde a titolo di dolo + responsabilità oggettiva: non vi è traccia di espressioni quali negligenza o imprudenza e del resto indizi in questo senso si rintracciano nella relazione al codice, dove si parla di morte quale evento non voluto che è “conseguenza” della relativa azione od omissione; è dunque sufficiente che l’agente versi “in re illicita” per imputargli anche l’evento morte non voluto; la tesi (seguita da parte maggioritaria della giurisprudenza) fa i conti con il difficile rapporto tra responsabilità oggettiva e responsabilità penale personale ex art.27 Cost.;
- l’agente risponde a titolo di dolo + colpa presunta: è sufficiente l’inosservanza da parte dell’agente di qualunque legge, circostanza che si riscontra appunto negli atti diretti a percuotere o ledere (violativi degli articoli 581 e 582 c.p.) per configurare una relativa colpa con riguardo all’evento morte sopraggiunto e non voluto; si tratta di una tesi che ripropone sotto mentite spoglie la tesi del dolo + responsabilità oggettiva, con tutte le critiche che possono essere mosse a detta tesi e con l’aggiunta di un totale svuotamento del concetto di colpa, la quale presuppone non già la violazione di una qualsiasi regola cautelare, quanto piuttosto della specifica regola cautelare orientata a prevenire (il rischio e) l’evento del tipo di quello realmente maturato in conseguenza della relativa violazione, che deve attualizzare il rischio che la regola cautelare mirava a prevenire;
- l’agente risponde a titolo di dolo + colpa effettiva ed accertata (in termini di concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento, e non già meramente di colpa presunta); si tratta della presa di posizione maggiormente conforme alla Costituzione ed alla responsabilità penale personale dipinta all’art.27, comma 1, della Carta; tale tesi appare anche compatibile con la collocazione sistematica intermedia – all’interno dell’art.43 – del delitto preterintenzionale, che viene posto tra il dolo e la colpa, triade che è a propria volta posta in contrapposizione con la specifica ipotesi della responsabilità oggettiva, di cui al precedente articolo 42. Stante il minimo comun denominatore della imputazione dell’evento morte non voluto a titolo di colpa, si distingue poi: e.1) chi ritiene che, poiché l’agente già versa in re illicita (in quanto compie atti diretti a percuotere o ledere), questi – per potersi predicare in colpa con riguardo anche alla morte non voluta – deve violare generiche regole cautelari, senza allontanarsi da ciò che farebbe il d. agente medio nel caso di specie; e.2) chi ritiene che sia sufficiente, proprio perché già si versa in re illicita, accertare la sola prevedibilità dell’evento morte da parte dell’autore degli atti diretti a percuotere o ledere, dal quale non si potrebbe pretendere, proprio nel momento in cui si colloca in una posizione di simile illiceità, la diligenza esecutiva degli atti diretti a percuotere o ledere, al fine di evitare la morte della vittima; e.3) chi ritiene, sulla scorta della dottrina tedesca, che sia necessario configurare per l’evento morte una colpa generica “oggettivata”: poiché le percosse dolose e le lesioni dolose tipizzano un’area (illecita) di rischio peculiare, che rende oggettivamente prevedibile la morte come possibile conseguenza di esse, si assiste ad un doppio grado di colpa, in quanto già nel fatto doloso delle percosse o delle lesioni si possono violare – laddove si entri in frizione con i connessi doveri comportamentali di attenzione – regole oggettive di diligenza capaci poi di illuminare la colpa del fatto ulteriore non voluto (morte) che rappresenta la concreta attuazione del pericolo che le regole che sanzionano i fatti base (percosse e lesioni appunto) mirano ad evitare; si obietta tuttavia che nell’omicidio preterintenzionale le percosse dolose o le lesioni dolose già presuppongono astrattamente la rappresentabilità in capo all’agente del (possibile) evento morte, sicché è del tutto inutile mettersi alla ricerca di un peculiare rapporto di rischio tra la regola precauzionale che si viola giusta percosse o lesioni dolose e la morte siccome concretamente avvenuta, senza sottacere, su altro ed opposto crinale, che non sempre nell’unica ipotesi di delitto preterintenzionale prevista dal sistema (art.584 c.p.) è dato riscontrare quel rapporto di immediata pericolosità che qualifica le lesioni e soprattutto le percosse con l’evento morte che ne consegue.
Quali sono le altre figure del diritto penale con le quali la preterintenzione entra in rapporto più o meno problematico?
- l’errore: se l’evento morte si verifica per errore dell’autore il quale, dopo atti diretti a percuotere o ledere, crede erroneamente morta la vittima e pone in essere una condotta che ne cagiona in concreto la morte, quest’ultima per la giurisprudenza gli va attribuita a titolo di colpa;
- la morte come conseguenza di altro delitto ex art.586 c.p.: mentre nel caso di omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p. si ha piena omogeneità tra i beni tutelati dalla norma che punisce il reato base (percosse o lesioni) ed il bene della vita, nell’ipotesi prevista dall’art.586 tale omogeneità non si riscontra, potendo (e anzi dovendo) la morte discendere da un delitto diverso; inoltre, mentre per la configurabilità dell’art.586 occorre la consumazione del reato base, per l’art.584 è sufficiente il tentativo di percosse o lesioni;
- il concorso anomalo ex art.116 c.p.: esso sarebbe incompatibile con l’omicidio preterintenzionale, in quanto trattasi di una forma attenuata di concorso configurabile solo nella ipotesi in cui il concorrente che si vuole anomalo (C) abbia voluto un reato diverso da quello voluto dagli autori materiali (A e B) e concretamente attuato, mentre nell’omicidio preterintenzionale l’evento mortale non è voluto da nessuno dei concorrenti, tutti (sia A che B che C) volendo le lesioni o le percosse, onde tutti dovendo rispondere della morte che eventualmente consegua alla aggressione voluta.;
- l’aberratio: in particolare, quando si compiono atti diretti a percuotere o ledere il soggetto A e muore il soggetto B. In queste ipotesi: d.1) la giurisprudenza – specie quella che muove dalla preterintenzione come autonomo titolo di imputazione soggettiva del reato al soggetto agente – assume trattarsi di aberratio ictus ex art.82 c.p., dal momento che il nucleo doloso del fatto è il medesimo, e cambia solo il soggetto passivo (B), nei confronti del quale viene solo commesso un fatto più grave di quello divisato nei confronti del soggetto A, sicché, stante la omogeneità tra i beni aggrediti (incolumità personale) e colpiti, non può parlarsi di “diverso reato”, ma semplicemente dello stesso reato che colpisce, per errore nei mezzi di esecuzione o per altra causa, un soggetto diverso da quello preso di mira; d.2) la dottrina che non condivide la giurisprudenza della Cassazione e pensa al delitto preterintenzionale come ad una ipotesi di dolo + colpa, dal momento che l’art.82 si applica soltanto ai delitti dolosi e postula solo un errore di persona, assume inapplicabile tale norma ed abbraccia l’applicazione dell’art.83 (aberratio delicti), palesandosi una forbice tra l’offesa divisata (atti dolosi diretti a percuotere o ledere A) e offesa concretamente prodotta (morte colposa di B).