Contratti – istituti di risoluzione autonoma contrattuale -clausola risolutiva espressa e nullità per generica indicazione degli inadempimenti contrattuali – risoluzione ad nutum.
L’istituto della clausola risolutiva espressa – insieme a quello previsto dall’art. 1454 c.c. ed a quello previsto dall’art. 1457 c.c. – è uno degli strumenti di risoluzione di diritto del contratto a prestazioni corrispettive, previsto allo scopo di offrire al creditore la possibilità di evitare le lungaggini di un’ordinaria azione giudiziaria: in questo caso, infatti, la risoluzione si verifica ope legis e non è richiesta alcuna pronuncia del giudice. La clausola risolutiva espressa, contenuta in un contratto a prestazioni corrispettive, consente ad una parte di ottenere la risoluzione del contratto nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta dalla controparte secondo le modalità stabilite. La risoluzione del contratto si ottiene nel momento in cui la parte dichiara alla controparte di volersi avvalere della clausola risolutiva. Si parla dunque, di una precisa predeterminazione dei motivi e delle ragioni della risoluzione e dunque della causa che in questo modo, non esistendo più o non venendo più ad esistere come era stato concordato, elide ogni fondamento di esistenza del contratto stesso.
Dunque, in linea di principio, come si ricava dall’art. 1372, co.1, c.c. non è dato alle parti di sciogliere unilateralmente il vincolo assunto attraverso la stipulazione di un contratto. Vi sono, tuttavia, ipotesi, nelle quali una, o entrambe le parti del rapporto contrattuale, hanno il diritto potestativo di sciogliere il rapporto instaurato: un diritto esercitabile, talvolta, ad nutum (ossia in modo del tutto libero e discrezionale) più spesso soltanto in presenza di determinati presupposti, e tale è il recesso per giusta causa. Quest’ultima può essere predeterminata, intuibile da quanto fin qui esposto, a quanto le parti decidono precedentemente, da quanto le parti decidono che sia “giusta causa” per la risoluzione di un contratto.
PRINCIPIO DI DIRITTO
La suprema Corte, con la pronuncia in commento, ha tracciato la linea di confine tra la nullità e la validità delle clausole espresse di risoluzione. Le stesse devono ritenersi nulle allorquando non specifichino esattamente in presenza di quale violazione contrattuale il contraente possa invocare le medesime per la risoluzione del contratto in violazione della stessa, precedentemente definita e specficate.
Il ragionamento della Corte si ravvisa in una via logica che se così non fosse finirebbe per confondere clausole risolutive espresse con clausole di stile, elidendone la distinzione e sfumando quello che è il principio della certezza del diritto.
Quest’ultime, infatti, sono clausole generiche, di stile, appunto, che alcuna valenza apportano ad una vera e propria sostanza giuridica.
Ma la problematica si potrebbe riscontrare anche per quanto riguarda la risoluzione ad nutum che, a differenza delle clausole di cui all’art. 1457 c.c., non necessitano la predeterminazione degli specifici inadempimenti in virtù dei quali è automatica l‘invocazione della risoluzione (motivo, altresì, per il quale, le clausole in questione non sindacabili dal giudice mentre le seconde sono passibili di vaglio giurisdizionale).
Nello specifico la Suprema Corte si sofferma sul fatto che ammettere che la violazione di qualsiasi obbligo contrattuale, perché trattasi di obbligazioni naturalisticamente o logicamente collegate, o per qualsiasi altra ragione che sia da intendersi automatica e spontanea perché facente parte del medesimo contratto, possa permettere alla controparte di invocare la clausola risolutiva espressa in modo generica e rendere essa stessa generica. Ciò creerebbe il caos su quale sia la vera causa contrattuale che, dunque, verrebbe a mancare e dunque renderebbe il contratto nullo. Ci sarebbe una vera propria cascata a ritroso di incertezza e di inesattezze.
Ma ciò che qui preme precisare è che rendere generica l’indicazione della vera causa risolutiva che, invece, è la caratteristica pregante della clausola risolutiva espressa e che ben la distingue dalla clausola di stile ovvero dal recesso ad nutum, svilisce la natura stessa di quel tipo di risoluzione.
- Alla stregua di tali determinazioni pare ragionevole quanto dedotto in sentenza allorquando venga ritenuto che la clausola risolutiva espressa porta all’assorbimento della domanda di recesso ad nutum.
In tale logica, infatti, si può affermare che poiché il recesso ad nutum è esercitabile in modo liberò ancorchè auspicabile in presenza di determinati presupposti che, però, si specifica, non devono essere predeterminati, a maggior ragione qualora ci fossero clausole espresse di recesso contenenti precisi e peculiari situazioni che legittimano l’azione di recesso, viene spontaneo che il caso “minore” di recesso ad nutum venga ragionevolmente assorbito da quello più macroscopicamente importante e operante, ope iuris, della clausola risolutiva espressa.
Qualora invece (motivazione fondata) le specificazioni sui motivi di recesso, per quanto riguarda la clausola di risoluzione espressa, sono riferiti, anche se peculiarmente, ma a tutte le obbligazioni contrattuali in capo a controparte, non vale più la specificità che viene meno, risultando la genericità che trasforma la clausola da espressa a generica e dunque ad una clausola di stile.
La questione trattata vale a, ragionevolmente, concentrarsi non solo su questo aspetto, ma altresì, sull’esistenza o meno della specificazione, a priori, dei casi e modi in presenza dei quali il contraente possa esercitare il suo diritto di recesso. O meglio, vale a domandarsi in quale misura si debba ritenere una clausola di risoluzione specifica o generica, visto il caso di specie analizzato dalla Suprema Corte.
La giurisprudenza consolidata ha sempre ritenuto che fosse ammissibile determinare una clausola di risoluzione espressa che contenesse genericamente l’insieme di tutti gli adempimenti contrattuali in capo a controparte; tale struttura della clausola non sarebbe da riferire a quella di risoluzione espressa ma a quella generale della clausola di stile.
FATTO
L’Unione Ciclistica Vittorio Veneto citò in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la Federazione calcistica italiana per dichiararsi l’illegittimità del recesso esercitato dalla convenuta federazione calcistica. L’unione Ciclistica riteneva invalida la clausola risolutiva espressa invocata dalla federazione calcistica perché ritenuta dalla prima quale clausola di stile.
L’obbligo in capo alla federazione Ciclistica per quella di organizzare giri ciclistici per il triennio 2001 – 2004 e, sul presupposto dell’inadempimento agli obblighi contrattuali, la Federazione calcistica di era avvalsa della clausola risolutiva espressa esercitando il diritto di recesso.
La Corte aveva ritenuto legittima la clausola risolutiva espressa e dunque il recesso ad nutum. E, successivamente, anche la Corte d’Appello di Roma aveva ritenuta valida la suindicata clausola.
Le ragioni a fondamento di tali validità ritenute dalla corte della clausola di risoluzione espressa era la sua determinatezza. Contrariamente a quanto sostenuto da controparte, non si ravvedeva indeterminatezza nell’individuazione dei casi di inadempimento, ragione automatica di risoluzione del contratto proprio perchè gli oneri contrattuali e dunque le obbligazioni contrattuali che la UCVV si era assunta erano onnicomprensivi, evidentemente venivano ritenuti collegati da un punto di vista naturalistico nonché funzionale delle attività, e, dunque, avrebbero, potenzialmente, permesso a controparte di appellarsi a qualunque e qualsiasi tipo di inadempimento contrattuale per invocare la clausola risolutiva espressa.
Ciò che la Suprema Corte di Cassazione rileva in questa sentenza è quello di riportare ordine giuridico all’interno di quello che sono le distinzioni tra clausole risolutive espresse e clausole di stile, ma anche tra ciò che sii deve intendere per specificazione e genericità, tra collegamento e autonomia delle prestazioni.
I controricorrenti dichiaravano inammissibile l’appello per violazione della disposizione in merito alla clausola risolutiva espressa, suindicata come primo parametro giuridico di comprensione del caso in esame; nonché sull’interpretazione complessiva delle clausole, ex art. 1363 c.c.: ogni clausola del regolamento negoziale si interpreta avendo riguardo anche alle altre, e la comune volontà contrattuale è quella che emerge da una valutazione ermeneutica globale delle pattuizioni, tutte lette con un certo coordinamento tra di loro. Ciò non esclude, peraltro, che l’interprete debba sempre e comunque partire dal contenuto della singola clausola: infatti, il senso letterale delle parole va desunto da ogni parte della dichiarazione negoziale e da ogni parola che la compone, sicché la singola clausola, prima ancora di essere posta in relazione con le altre (come imposto dalla norma) va letta e valutata nella sua interezza.
Ulteriore doglianza, da parte dei controricorrenti, concerneva l’interpretazione del principio di buona fede del contratto, ex art. 1366 c.c. che richiama il generale canone di buona fede come criterio di interpretazione oggettiva del contratto: l’interprete dovrebbe leggere le clausole nel senso sul quale ciascuna parte poteva legittimamente fare affidamento o (secondo altra tesi) nel senso che potevano ragionevolmente intendere due contraenti “modello”, reciprocamente leali e corretti.
È, dunque, evidente, che se si collegano queste due ultime disposizioni con quella che concerne la clausola risolutiva espressa, non può non ravvisarsi un contrasto enorme con i principi alla base del diritto proprio perché l’art. 1456 c.c. specifica esplicitamente che le cause di risoluzione sono espresse e, dunque, non desumibili dal dettato letterario del resto del contratto, non sono automaticamente estendibili alle altre parti dello stesso, neanche per qualsiasi tipo di somiglianza ovvero funzionalità che anche lontanamente gli si voglia attribuire; le stesse devono essere predeterminate e, specificatamente, in tal senso.
La Suprema Corte, infatti, precisa, in linea con il combinato disposto delle suesposte norme che “per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti, devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate costituendo – invece – una clausola di stile quella redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto”.
Ciò che la Suprema Corte puntualizza è che la corte di merito non si è attenuta a quelli che sono le disposizioni codicistiche ma ha creato un disordine interpretativo che lascia il contratto in balia della mera interpretazione, priva di alcuna regola e svilendo quelle già esistenti come quella di cui all’art. 1456 c.c.
In ultima analisi, per quanto riguarda l’istituto dell’assorbimento, nel caso di specie la pronuncia sulla clausola risolutiva espressa assorbe la stessa validità e legittimità del recesso stesso che fa parte della clausola, appunto, risolutiva espressa, come suesposto.