Massima
Quando si parla di causa, si deve fare fondamentale riferimento all’interesse che la parte persegue quando compie un’attività giuridica: egli vuole – quando pone in essere uno schema negoziale collaudato e già recepito e disciplinato dal legislatore, così come quando forgia un contratto atipico – soddisfare un proprio interesse, ed è pronto, prefiggendosi questo fine, a compiere uno sforzo per soddisfare l’interesse di chi potrebbe soddisfare il suo. E’ in questo spettro “causale” di base che vanno lette – non già solo ed in genere tutte le norme che disciplinano il contratto e più in generale il negozio giuridico – ma anche, e nello specifico, tutte quelle più complesse figure che proprio nel concetto di causa trovano ratio ultima e sostanziale spiegazione, quali il collegamento negoziale, il negozio complesso, quello misto, indiretto ed in frode alla legge.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
La codificazione liberale accoglie il c.d. principio causalistico, ma in senso soggettivo, onde la causa viene riferita all’obbligazione e non già al contratto propriamente inteso: l’art. 1104 colloca infatti la sussistenza di una “lecita causa per obbligarsi” fra i requisiti per la validità della stipulazione ed il successivo art. 1119, in coerenza con quella norma, considera del tutto inefficace “l’obbligazione senza causa o fondata su causa illecita”. Una disciplina che si modella sul codice francese del 1804, sostanzialmente riproducendo, tradotti, gli articoli 1131 e 1132 del code civil. Sulla scorta delle disposizioni del codice, la dottrina di gran lunga dominante, sia in Francia che in Italia, intende allora la causa in senso soggettivo, facendola coincidere essenzialmente con lo scopo individuale del contratto, ovvero lo scopo per il perseguimento del quale la parte si obbliga, il perché del consenso prestato dalla parte ad obbligarsi. Più nello specifico, per il codice del 1865 l’obbligazione senza causa, o fondata sopra una causa falsa o illecita non può avere alcun effetto (art.1119); il contratto è valido, quantunque non ne sia espressa la causa (art.1120); la causa si presume sino a che non si prova il contrario (art.1121) ed infine la causa è illecita, quando è contraria alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico (art.1122).
1942
Il codice civile disciplina la causa oggettivizzandola, e guardandola dunque dal versante dell’ordinamento che in qualche modo suggella – consentendogli di produrre degli effetti – quanto voluto dalle parti del contratto (anche a fini di controllo del contratto stesso). Ecco allora comparire la causa agli articoli 1325 (requisiti del contratto), 1343 e seguenti (illiceità della causa e dei motivi) e 1418 (nullità del contratto). Afferendo peraltro la causa agli interessi delle parti, si tratta di un istituto che percorre trasversalmente l’intero codice civile, illuminando molte delle relative disposizioni, con particolare riguardo a quelle concernenti i rapporti patrimoniali. Viene sostanzialmente recepito il principio causalistico, alla cui stregua le attribuzioni patrimoniali debbono assumersi necessariamente giustificate e come tali, per l’appunto, causali, non potendo essere astratte, salvi i casi in cui esse appaiono tali senza fondamentalmente esserlo per davvero (disciplina dei titoli di credito).
1969
Il 23 maggio viene varata la Convenzione internazionale di Vienna sul diritto dei trattati, il cui art.62, nel recepire una norma (fino ad allora) consuetudinaria, prevede la clausola “rebus sic stantibus” per i Trattati internazionali, che la più avvertita dottrina internazionalistica assumerà inderogabile, che è il referente internazionale della c.d. presupposizione.
1981
Il 17 luglio esce la sentenza delle SSUU n.4414 che si occupa della nozione di negozio contrario al buon costume e, come tale, con causa nulla: non si tratta solo di quei negozi che si rivelino in frizione con le regole del pudore sessuale e della decenza, ma si estende anche ai negozi contrari a quei principi e a quelle esigenze etiche della coscienza morale collettiva che costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e di sani principi, in un determinato contesto storico ambientale. La causa turpe, e dunque contraria al buon costume, va apprezzata nel momento in cui il contratto viene concluso: laddove tale contratto sia diretto a violare norme imperative ma non più sanzionate penalmente quando il contratto viene concluso, esso non può intendersi contrario al buon costume, dal momento che il legislatore, avendo escluso la rilevanza penale di tali fatti, attenua la valutazione negativa dei fatti medesimi anche sotto il profilo etico-sociale.
1989
Il 31 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4554 che si occupa della presupposizione, additandola come caratterizzata da tre specifici requisiti: a) la comune consapevolezza delle parti: esse considerano l’evento presupposto come imprescindibile e tale, ove assente, da far perdere di significato all’operazione negoziale posta in essere: le parti non hanno fatto dell’evento presupposto l’oggetto di una loro specifica obbligazione, tuttavia se lo sono rappresentato come certo, quale presupposto obiettivo indipendente dalle loro volontà; b) la certezza dell’evento: le parti, per l’appunto, si sono rappresentate l’evento come certo, e dunque non meramente eventuale; c) l’oggettività dell’evento: le parti considerano l’evento supposto indipendente dalle loro volontà con la conseguenza onde, laddove non concretamente registratosi, tale assenza non può imputarsi ad inadempimento di alcuna di esse.
1992
Il 20 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12401 che si inserisce in un filone granitico secondo il quale uno spostamento (attribuzione) patrimoniale o ha una causa giustificativa di scambio o ne ha una di liberalità (donazione), dovendosi pertanto assumere nulla una attribuzione patrimoniale priva di controprestazione (corrispettivo), ove non a carattere di liberalità (e dunque non donativa). In sostanza, viene esclusa l’ammissibilità di negozi che si pongano al di fuori della dicotomia scambio/liberalità, e dunque sostanzialmente dei negozi gratuiti atipici non donativi, che devono intendersi nulli per difetto assoluto di causa.
1996
L’11 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2001 onde il trasferimento a titolo gratuito di risorse da una società ad un’altra appartenente allo stesso gruppo non costituisce una donazione ai sensi dell’art. 769 c.c. qualora l’operazione sia stata posta in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo, ovvero risulti preordinata al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, anche mediato ed indiretto, della società cedente. Secondo la Corte la “logica di gruppo” che è espressione di una politica imprenditoriale volta al perseguimento di obiettivi che trascendono quelli delle singole società, esclude la possibilità di ravvisare gli elementi che, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, sono necessari per la ricorrenza di un contratto donativo, le operazioni commerciali infragruppo essendo poste in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale, circostanza capace di escludere lo spirito di liberalità, dal momento che la sussistenza di tale requisito postula che l’attribuzione gratuita sia dovuta alla libera scelta del donante, la quale non è ipotizzabile in presenza di un vincolo giuridico o anche di un semplice dovere rilevante per legge. Secondo la Corte, in tali ipotesi manca inoltre il depauperamento del disponente, in quanto la società, per il fatto di essere inserita in un’aggregazione più vasta creata per esigenze obiettive di coordinamento e di razionalizzazione dell’attività imprenditrice, viene a conseguire vantaggi che la compensano del decremento patrimoniale causato dall’aver disposto di suoi beni a titolo gratuito. In sostanza, l’assenza di corrispettivo, caratteristica dei negozi a titolo gratuito, non basta ad individuare i caratteri della donazione, riassumibili nell’elemento soggettivo dello spirito di liberalità (da intendersi quale consapevolezza che l’attribuzione patrimoniale non è dovuta) e da quello oggettivo del depauperamento del disponente, accompagnato dall’incremento del patrimonio altrui. Non costituisce pertanto una donazione per la Corte – onde non è richiesta l’osservanza delle forme di cui all’art. 782 c.c. – l’atto di disposizione a titolo gratuito da parte della società controllata in favore della controllante, qualora l’operazione sia stata posta in essere in adempimento delle direttive della capogruppo o comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale, ovvero se, tenendo conto dell’operazione complessiva, il pregiudizio economico derivante dall’atto trovi contropartita in un altro rapporto, cosicché l’atto medesimo risulta preordinato a soddisfare un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto, del disponente.
1998
*Il 19 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2912 che ribadisce come uno spostamento (attribuzione) patrimoniale o ha una causa giustificativa di scambio o ne ha una di liberalità (donazione), dovendosi pertanto assumere nulla una attribuzione patrimoniale priva di controprestazione (corrispettivo), ove non a carattere di liberalità (e dunque non donativa). In sostanza, viene esclusa l’ammissibilità di negozi che si pongano al di fuori della dicotomia scambio/liberalità, e dunque sostanzialmente dei negozi gratuiti atipici non donativi, che devono intendersi nulli per difetto assoluto di causa.
Il 24 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3083 che si occupa della presupposizione, additandola come caratterizzata da tre specifici requisiti: a) la comune consapevolezza delle parti: esse considerano l’evento presupposto come imprescindibile e tale, ove assente, da far perdere di significato all’operazione negoziale posta in essere: le parti non hanno fatto dell’evento presupposto l’oggetto di una loro specifica obbligazione, tuttavia se lo sono rappresentato come certo, quale presupposto obiettivo indipendente dalle loro volontà; b) la certezza dell’evento: le parti, per l’appunto, si sono rappresentate l’evento come certo, e dunque non meramente eventuale; c) l’oggettività dell’evento: le parti considerano l’evento supposto indipendente dalle loro volontà con la conseguenza onde, laddove non concretamente registratosi, tale assenza non può imputarsi ad inadempimento di alcuna di esse. In sostanza, per la Corte la “presupposizione” ricorre quando una determinata situazione, di fatto o di diritto, passata, presente o futura, di carattere obiettivo – la cui esistenza, cessazione e verificazione sia del tutto indipendente dall’ attività o dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione – possa, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, come presupposto avente valore determinante ai fini dell’ esistenza e del permanere del vincolo contrattuale. Così intesa essa, prosegue la Corte, assume rilevanza, determinando l’invalidità o la risoluzione del contratto, allorché la situazione presupposta, passata o presente, in effetti non sia mai esistita e, comunque, non esista al momento della conclusione del contratto, ovvero quella contemplata come futura (ma comunque certa) non si verifichi. L’indagine diretta a stabilire se una determinata situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, sia stata dai contraenti, nella formulazione del consenso, tenuta presente secondo il delineato schema della presupposizione si esaurisce allora sul piano propriamente interpretativo del contratto costituendo pertanto un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici e giuridici. Nel caso di specie, in relazione alla conclusione di un contratto di rifornimento di carburante a stazione di servizio da costruire secondo un progetto allegato al contratto stesso, si è ritenuto che la realizzazione della stazione di servizio fosse il presupposto dell’accordo e che l’impossibilità di dare esecuzione a quel progetto, per la sopravvenuta normativa regionale, comportasse la risoluzione del contratto.
2005
Il 6 settembre viene varato il decreto legislativo n.206, c.d. codice del consumo, ai cui articoli da 40 a 43 viene disciplinato il credito al consumo, come forma di collegamento negoziale ex lege in cui più contratti tipici con causa autonoma (vendita e mutuo), nel collegamento tra loro, soddisfano gli interessi sottesi ad una operazione economica complessiva ed unitaria.
2006
Il 24 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.6631 che riconnette la presupposizione al concetto di causa in concreto del contratto: l’acclarato difetto dell’evento presupposto, che le parti hanno assunto imprescindibile nel regolare i loro interessi attraverso il contratto, rende irrealizzabile tale divisato assetto di interessi concretamente inteso. Le parti non sono più poste in grado di vedersi soddisfatti i propri interessi, con conseguente inesorabile frustrazione della causa del contratto concretamente intesa.
L’8 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.10490 che produce una importante svolta nella giurisprudenza della Corte: si passa dalla tradizionale visione della causa come funzione economico sociale del contratto (sostanzialmente sovrapposta al tipo contrattuale) alla causa come funzione economico-individuale del contratto stesso, la quale prescinde dalla natura tipica o atipica del contratto (e dalle valutazioni legislative a monte che vi sono sottese) per concentrarsi sui concreti interessi che le parti perseguono, e che sono la molla, il motore, la “causa” appunto del contratto. Le parti possono far ricorso ad un contratto tipico (come tale assurto agli onori della disciplina legislativa per il relativo successo nella prassi, per esempio degli affari) solo in via eventuale, ma non necessaria: possono anche perseguire interessi meritevoli di tutela forgiando forme contrattuali nuove, senza che questo possa far escludere la presenza della causa.
Il 12 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.13524 onde per il negotium mixtum cum donatione non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato (ad esempio, compravendita), senza far menzione del criterio della c.d. prevalenza (vengono richiamati i precedenti 21 gennaio 2000 n. 642; 10 aprile 1999 n. 3499). In sostanza, la Cassazione abbraccia l’opzione ermeneutica secondo la quale il negozio misto cum donatione configura una negozio indiretto, giusta il quale si utilizza uno schema tipico (ad esempio, la vendita) per raggiungere – almeno in parte – anche gli scopi propri della donazione, con la conseguenza onde all’atto si applica la disciplina del negozio tipico (vendita), mentre al rapporto si applica quella della donazione (nel caso di specie, assunta lesiva di quota di legittima e dunque fatta oggetto di azione di riduzione).
Il 27 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.17145 onde, in tema di leasing finanziario, esso non realizza un unico contratto trilaterale o plurilaterale ma realizza piuttosto un’ipotesi di collegamento negoziale tra il contratto di leasing ed il contratto di fornitura, quest’ultimo venendo dalla società di leasing concluso allo scopo, noto al fornitore, di soddisfare l’interesse del futuro utilizzatore ad acquisire la disponibilità della cosa, il cui godimento rappresenta l’interesse che l’operazione negoziale è volta a realizzare, costituendone la causa concreta, con specifica ed autonoma rilevanza rispetto a quella parziale dei singoli contratti, dei quali connota la reciproca interdipendenza, sicché le vicende dell’uno si ripercuotono sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale, a tale stregua segnandone la distinzione con il negozio complesso e con il negozio misto (in cui invece la causa finale unica esce dalla fusione delle cause dei due negozi che si mescolano – nel caso del negozio misto – o dei due negozi che pur astrattamente non mescolandosi, danno concretamente luogo ad un terzo negozio che ne è la sintesi – nel negozio complesso – : in sostanza sia nel negozio misto che in quello complesso i negozi-parte, o i singoli segmenti negoziali, perdono la loro individualità, mentre nei negozi collegati l’individualità autonoma rimane, seppure nel quadro di una operazione economica che va intesa come complessiva e globale).
2007
Il 27 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7524 onde nel caso di negozi collegati, il collegamento deve ritenersi meramente occasionale quando le singole dichiarazioni, strutturalmente e funzionalmente autonome, siano solo casualmente riunite, mantenendo l’individualità propria di ciascun tipo negoziale in cui esse si inquadrano, sicché la loro unione non influenza la disciplina dei singoli negozi in cui si sostanziano; il collegamento è, invece, funzionale quando i diversi e distinti negozi, cui le parti diano vita nell’esercizio della loro autonomia negoziale, pur conservando l’individualità propria di ciascun tipo, vengono tuttavia concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza, per cui le vicende dell’uno debbano ripercuotersi sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia. Ai fini della qualificazione giuridica della situazione negoziale, per accertare l’esistenza, l’entità, la natura le modalità e le conseguenze di un collegamento funzionale tra negozi realizzato dalle parti occorre un accertamento del giudice di merito che passi attraverso l’interpretazione della volontà contrattuale e che, se condotto nel rispetto dei criteri di logica ermeneutica e di corretto apprezzamento delle risultanze di fatto, si sottrae al sindacato di legittimità.
Il 25 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12235 che torna ad occuparsi della presupposizione, ponendola tuttavia al di fuori del concetto di causa (anche in concreto) del contratto. Si tratta di una autonoma categoria che abbraccia tutte quelle circostanze idonee a spiegare giuridica influenza sul contratto: quelle circostanze e quei fatti, da assumersi quali presupposti oggettivi, che assumono una importanza determinante al fine di conservare il vincolo contrattuale, pur collocandosi al di fuori della causa del contratto e pur non lambendo il contenuto della prestazione che le parti si sono promesse. Ove entrambe le parti, o anche una sola con riconoscimento da parte dell’altra, annettano importanza determinante a determinate circostanze obiettive, e non sia possibile inquadrare diversamente (tra gli elementi essenziali o accidentali del contratto) i pertinenti fatti, scatta la presupposizione. Secondo questa opzione ermeneutica dunque la possibilità di ricorrere alla causa (in concreto) esclude l’operatività della presupposizione, che scatta solo in via residuale. In particolare, se i fatti presupposti sono dovuti, e dunque sono oggetto di obbligazione (e di interesse del creditore), si è al di fuori del campo della presupposizione e dei relativi effetti, dovendosi più banalmente parlare di inadempimento. In questa medesima sentenza la Corte esclude che il rimedio a disposizione delle parti in caso di mancata realizzazione dell’evento oggettivo assunto da entrambe essenziale per la vita del contratto possa essere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art.1467 c.c.: un contratto infatti presenta presupposti generali e presupposti specifici; mentre i presupposti generali sono legati al contesto socio-economico in cui operano i contraenti ed il contratto prende vita, potendosi dunque a ragione parlare di eccessiva onerosità sopravvenuta nel caso in cui tali presupposti generali risultino alterati nel corso dell’esperienza contrattuale, discorso diverso vale per i presupposti specifici, che sono gli unici in relazione ai quali può chiamarsi in causa la presupposizione (che non attiene dunque ai presupposti generali del contratto), in difetto dei quali si profila il solo rimedio del recesso del contraente che vi abbia interesse.
Il 14 giugno esce la sentenza delle SSUU n.13894 onde, in tema di credito al consumo, Il collegamento negoziale si realizza attraverso la creazione di un vincolo tra i contratti che, nel rispetto della causa e dell’individualità di ciascuno, li indirizza tutti al perseguimento di una funzione unitaria che trascende quella dei singoli contratti e investe la fattispecie negoziale nel suo complesso. La fonte, nel collegamento volontario, è costituita dall’autonomia contrattuale delle parti e l’esistenza del collegamento va verificata non solo sulla base dei dati di natura soggettiva, bensì anche mediante ricorso a indici di tipo oggettivo. Al riguardo comunque, deve precisarsi, da un lato, che l’accertamento del nesso di collegamento, delle relative modalità e conseguenze (attraverso l’effettiva volontà delle parti e della reale funzione economico-sociale che esse hanno inteso dare ai contratti nell’economia dell’affare), rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici giuridici; dall’altro, che pur nella sua massima estensione, il collegamento non può mai comportare effetti sulla competenza giurisdizionale, determinandone lo spostamento dal giudice italiano ad altro straniero.
Il 24 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.16315 che si occupa di una fattispecie di viaggio vacanza “tutto compreso”. Si tratta di un caso di sopravvenuto difetto funzionale del contratto, nel cui contesto la causa (in concreto) era presente al momento della stipula ma viene meno durante lo svolgimento del rapporto per delle sopravvenienze. Non si tratta del caso di impossibilità sopravvenuta – totale o parziale – della prestazione, che è esplicitamente prevista e disciplinata dal legislatore agli articoli 1463 e 1464 c.c. e che si configura quando il debitore viene a trovarsi in una situazione di impedimento assoluto ad adempiere; si tratta invece di una ipotesi diversa, che il legislatore non ha disciplinato, e che si compendia in una prestazione che potrebbe essere ancora possibile, ma che in ogni caso non potrebbe realizzare la funzione concreta che il contratto persegue, ovvero l’interesse concreto per il quale il creditore si è indotto a contrarre: in sostanza la prestazione è ancora possibile, ma essa – a cagione di talune sopravvenienze – non è più idonea a soddisfare concretamente l’interesse del creditore (c.d. sopravvenuto difetto dell’elemento funzionale del contratto). Secondo la Corte, nel contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (c.d. “pacchetto turistico” o “package”), la “finalità turistica” (o “scopo di piacere“) connota la causa concreta del contratto, con la conseguenza onde taluni eventi sopravvenuti alla stipula del contratto, quali ad esempio l’imperversare di un’epidemia nel luogo prescelto per le vacanze, incidendo negativamente sulla sicurezza del soggiorno e, quindi, sulla “finalità turistica” del viaggio, comportano l’estinzione del contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta dello stesso, il venir meno dell’interesse creditorio dovuto alla sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto comportando – come tale – l’estinzione di quest’ultimo anche nell’ipotesi in cui la prestazione dedotta in obbligazione sia astrattamente ancora eseguibile. Si parla dunque di estinzione del contratto per difetto funzionale sopravvenuto, ovvero per sopravvenuta mancanza di causa seppure non vi sia inadempimento né impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Il 20 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.26958 che, per le ipotesi di difetto funzionale sopravvenuto del contratto pur senza l’inadempimento del debitore, parla di “impossibilità di utilizzazione della prestazione” da parte del creditore. Secondo la Corte, quando si parla di impossibilità sopravvenuta della prestazione occorre distinguere le ipotesi in cui essa opera in modo oggettivo ed automatico in quanto la prestazione è oramai non più eseguibile, da quelle in cui in realtà l’esecuzione della prestazione è ancora possibile, ma è divenuta impossibile la relativa utilizzazione da parte del creditore, allorché ciò non gli sia imputabile: in queste ipotesi viene meno l’interesse a ricevere la prestazione (pur oggettivamente ancora possibile) e dunque la finalità essenziale del contratto; la realizzazione in concreto di quell’interesse, non è più possibile, venendo a mancare al contratto la causa concreta, con conseguente estinzione dell’obbligazione. Mentre tuttavia in caso di impossibilità sopravvenuta oggettiva della prestazione le conseguenze sono automatiche, siccome previste dalla legge (risoluzione), nel diverso caso in cui la prestazione sia ancora possibile e sia divenuto solo impossibile per il creditore utilizzarla nel relativo, concreto interesse, sarà il creditore medesimo, valutando tutte le conseguenze del caso (e parametrandole per l’appunto al proprio concreto interesse da soddisfare) a scegliere se rimanere nel contratto mantenendolo in vita con conseguente fruizione in ogni caso della prestazione cui ha diritto, ovvero optare per lo scioglimento del contratto senza che vi siano per lui conseguenze giuridiche sfavorevoli. La Corte ribadisce l’affermazione già contenuta nel proprio precedente 16315 del luglio onde l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, al pari della totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (id est, della sua esecuzione, tale da costituire un impedimento assoluto ed oggettivo a carattere definitivo: artt. 1463 e 1256, 1° co., c.c.) integra una fattispecie di automatica estinzione dell’obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte, in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte. Nella pronuncia in esame l’accennato principio viene esteso ad una fattispecie relativa ad un contratto definito di soggiorno (in albergo) nel cui contesto il cliente-creditore è deceduto successivamente alla conclusione dell’atto e immediatamente prima dell’inizio del soggiorno; anche in questo caso (come in quello dello scoppio dell’epidemia prima del viaggio) per la Corte il venire oggettivamente meno dell’interesse creditorio conseguente alla morte del cliente non può non recare seco l’estinzione del rapporto obbligatorio in ragione del sopravvenuto difetto del suo elemento funzionale (art. 1174 c.c.), e, con esso, dell’intero rapporto contrattuale per sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto stesso.
2008
Il 7 febbraio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.2874 alla cui stregua l’affitto di azienda è da assumersi nullo per frode alla legge (art.1344 c.c.) allorquando l’unico obiettivo per il quale è stato realizzato è quello di eludere le garanzie previste per i lavoratori dall’art.18 della legge 300.70 (c.d. Statuto dei Lavoratori): in sostanza, viene usato un atto negoziale che ha una propria causa tipica, ma la determinazione causale “concreta” (e, dunque, l’interesse perseguito dall’autore dell’atto negoziale) è in realtà indirizzata alla elusione di una norma imperativa. Si tratta di una pronuncia che costituisce una freccia nell’arco di quella parte della dottrina che assume compatibile anche con la c.d. “causa concreta” l’art.1344 c.c. in tema di negozio in frode alla legge, senza che ogni volta debba necessariamente predicarsi (piuttosto) l’applicazione dell’art.1343 c.c. sulla causa illecita. In sostanza, se la gran parte della dottrina che aderisce alla più moderna figura della c.d. causa in concreto assume ormai non operativo l’art.1344 c.c. (per essere operativo il solo art.1343 c.c.), non manca chi, pur abbracciando la tesi della causa in concreto, assume sempre possibile applicare l’art.1344 c.c. ogni qual volta il negozio non sia direttamente violativo della legge (causa illecita), ma lo sia in via indiretta e dunque attraverso l’utilizzo di un negozio indiretto o di più negozi collegati compendianti un procedimento indiretto, per l’appunto, in frode alla legge laddove si guardi proprio alla causa concreta del negozio medesimo.
Il 23 aprile viene varata la Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai contratti di credito ai consumatori, che abroga la precedente Direttiva 87/102/CEE.
L’8 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.24772, che si occupa del mandato senza rappresentanza affermando che l’art.1705, comma 2, c.c. ha valenza eccezionale, onde l’espressione “diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato” va interpretata quale riferimento ai soli diritti sostanziali acquisiti dal mandatario nell’interesse del mandante, con esclusione dunque delle connesse azioni poste a tutela di tali diritti come l’annullamento, la risoluzione o la rescissione del contratto, ovvero il risarcimento del danno. Si tratta di una decisione delle SSUU che si riflette su talune prese di posizione della giurisprudenza in tema di leasing, con particolare riguardo alla possibile tutela diretta dell’utilizzatore nei confronti del fornitore del bene (al quale non è legato contrattualmente) laddove quegli sia inadempiente, ed alla configurazione delle azioni spiccabili dall’utilizzatore per l’appunto nei confronti del fornitore laddove difetti una specifica clausola negoziale con la quale il lessor trasferisca all’utilizzatore la propria posizione sostanziale (e le connesse azioni processuali). Abbandonata infatti la più risalente concezione trilaterale, la giurisprudenza si è attestata nel senso di assumere il leasing come una fattispecie di collegamento negoziale tra compravendita (che interviene tra fornitore e lessor concedente) e leasing in senso stretto (che interviene tra lessor concedente e lessee utilizzatore), onde nel caso in cui il fornitore-venditore sia inadempiente, l’utilizzatore viene assunto – in difetto di specifica clausola di trasferimento della posizione sostanziale (e processuale) del lessor – quale mandatario senza rappresentanza del lessor, potendo dunque come tale, ex art.1705, comma 2, c.c. esercitare in via diretta i diritti di credito gemmati dal contratto di vendita in capo all’acquirente-concedente-lessor (mandante) nei confronti del venditore, a condizione che non siano pregiudicati i diritti spettanti al mandante medesimo in base al contratto concluso: più in specie, per la giurisprudenza precedente all’arresto delle SSUU, il lessee va considerato – quale mandatario senza rappresentanza del lessor – legittimato a spiccare la azioni manutentive (spettanti in via diretta al lessor acquirente del bene concesso in leasing) ed intese all’adempimento del contratto di fornitura e al risarcimento dell’eventuale danno subito, escludendosi invece la legittimazione a spiccare domanda di risoluzione del contratto di vendita-fornitura, che pregiudicherebbe il mandante. Con questo arresto delle SSUU, la richiamata natura eccezionale dell’art.1705, comma 2, c.c. finisce con l’incidere sulla richiamata giurisprudenza nel senso della non invocabilità di tale norma in ipotesi del collegamento negoziale sub specie di leasing.
2009
Il 23 aprile esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, in causa C-509/07, che si occupa di credito al consumo e che interpreta la Direttiva comunitaria 87/102/CEE del 22 dicembre 1986 onde l’esistenza di una clausola di esclusiva tra fornitore del bene e finanziatore non è presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore (finanziatore) in caso di inadempimento delle obbligazioni da parte del fornitore (venditore del bene, laddove il bene non sia stato consegnato o sia viziato), al fine di ottenere la risoluzione del contratto di credito e la conseguente restituzione delle somme corrisposte al finanziatore (e ovviamente la cessazione degli ulteriori versamenti di rate).
2010
Il 18 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.3947 che si occupa del caso in cui in un contratto che ha ad oggetto una garanzia personale venga inserita la clausola di pagamento “a prima richiesta e senza eccezioni”, sia che si tratti di un contratto additato come contratto autonomo di garanzia, sia che si tratti di una c.d. polizza fideiussoria. Dirimendo il pertinente contrasto di giurisprudenza, per la Corte si è al cospetto di una deroga assai consistente alla disciplina della fideiussione: il creditore può infatti pretendere dal terzo garante l’immediato pagamento di quanto dovutogli dal debitore, senza che occorra né provare, né comunque accertare l’intervenuto inadempimento del debitore principale. La Corte ribadisce dunque che in presenza di simili clausole va esclusa la presenza di una fideiussione, la quale presuppone quell’accessorietà che è incompatibile con clausole di tal fatta. Se si arriva a contenzioso, il creditore può essere certo della decisione giudiziaria – del tutto prevedibile – a proprio favore, mentre se rimanessero possibili intestizi interpretativi, il tutto creerebbe alea da un lato e potenziali disparità di trattamento tra creditori dall’altro. In sostanza per la Corte, al fine di garantire la certezza dei rapporti (finanziari e commerciali) tra le parti, l’inserimento nell’accordo di una simile clausola consente di presumere in modo assai consistente la presenza di una garanzia autonoma pura, restando tuttavia sempre possibile – sulla scorta del contenuto globale del contratto cui la clausola accede – disvelare una volontà delle parti in senso contrario, laddove affiori una palmare incompatibilità ed una irredimibile discrasia della medesima con la piena autonomia della garanzia siccome concretamente disposta. Per quanto più direttamente concerne la c.d. polizza fideiussoria, le SSUU chiariscono – con specifico riferimento allo schema applicato al contratto di appalto – come si sia al cospetto di un contratto a favore di terzo, in cui è il terzo (il committente dell’appalto, creditore) a richiedere allo stipulante (l’appaltatore, debitore) di stipulare con una banca o con un’assicurazione (in veste di promittente) detta polizza: in tal modo il promittente (banca o assicurazione) si obbliga a pagare una somma al terzo (il committente, spesso la PA) nel caso in cui lo stipulante (l’appaltatore) resti inadempiente ad obbligazioni contratte in seno al contratto di appalto. Anche se è il terzo (che è il committente dell’appalto) a promuovere la stipula della polizza fideiussoria (e, in qualche modo, ad imporla), esso resta per l’appunto terzo, e dunque estraneo rispetto ad un rapporto contrattuale del quale egli beneficia ai sensi dell’art.1411 c.c. (contratto a favore di terzo), ma che intercorre tra stipulante (l’appaltatore) e promittente (la banca o l’assicurazione che rilascia la polizza): se, come terzo, dichiara di volerne profittare, lo stipulante non potrà più revocare né modificare (ex art.1411, comma 3, c.c.) la relativa previsione contrattuale. Si configura una variante a questo schema laddove il terzo (il committente dell’appalto e creditore garantito) partecipi anch’egli al contratto consacrato nella polizza fideiussoria, circostanza nella quale l’operazione acquisisce – anche formalmente, oltre che sostanzialmente – foggia trilaterale, ed in tal caso il terzo – in realtà divenuto parte contrattuale – non può rifiutare di volerne profittare. La Corte si sofferma anche, e più specificamente, sulla natura giuridica della polizza fideiussoria, sconfessando la precedente giurisprudenza ed escludendo, in primo luogo, che si tratti di una cauzione, in quanto difetta il versamento anticipato di una somma di denaro (scongiurandosi l’immobilizzazione di capitali) e, massime, la garanzia non viene prestata dallo stesso debitore, ma da un terzo. In secondo luogo, non si è al cospetto di una fideiussione: la polizza fideiussoria non garantisce l’adempimento dell’obbligazione principale, ma di una obbligazione di tipo indennitario diversa (con esclusione della solidarietà) e collegata all’inadempimento di quella; la garanzia si atteggia allora ad assai più estesa di quella fideiussoria, e soprattutto collegata ad una unilateralità operativa in capo al creditore garantito che, una volta insindacabilmente accertato che ricorrono le condizioni per l’escussione della garanzia, procede in via “autoritativa-privata” ad un vero e proprio atto di autotutela compendiantesi nella richiesta della somma dovuta all’istituto bancario o assicurativo, sovente – e giusta apposita clausola all’uopo inserita – “a prima richiesta e senza eccezioni”, similmente a come farebbe in via reale con l’incameramento della cauzione depositata presso di sé. A differenza di quanto accade nel contratto di assicurazione – e pur dovendosi registrare nella prassi la frequenza con la quale la polizza fideiussoria viene stipulata con una compagnia assicuratrice – non si assiste ad una traslazione (o comunque ad una copertura) del rischio, la quale richiederebbe un preciso ed obbiettivo accertamento dei relativi presupposti di operatività (evento che concretizza il rischio traslato o coperto) da parte dell’assicuratore, mentre nel caso di specie l’escussione è demandata in via unilaterale ed insindacabile all’accertamento dello stesso creditore beneficiario della garanzia; la causa è invece quella di garanzia, il creditore beneficiario potendo escutere la polizza anche quando il debitore sia pienamente solvibile e non voglia adempiere la prestazione dovuta. La Corte rammenta di avere più volte sottolineato come le polizze fideiussorie concretino un rapporto in cui un soggetto (una compagnia di assicurazioni o un istituto bancario), dietro pagamento di un corrispettivo, si impegna a garantire in favore di altro soggetto l’adempimento di una determinata obbligazione assunta dal contraente della polizza, strumento contrattuale che, pur non essendo espressamente disciplinato dal codice del ’42, è menzionato in molte leggi speciali che lo prevedono come forma di garanzia sostitutiva della cauzione reale, normalmente richiesta per chi stipula – come nel caso di specie – contratti con la P.A. Si tratta di una fattispecie (polizza fideiussoria) dove non si configura una astrazione assoluta dall’elemento causale e ciò in quanto, afferma la Corte, tra astrazione assoluta – da un lato – e accessorietà piena – dall’altro – si stagliano orizzonti che abbracciano diverse gradazioni di strutture negoziali che il legislatore di volta in volta legittima, secondo un giudizio di valore rispetto ai vari interessi coinvolti nella vicenda: l’accessorietà dell’obbligazione autonoma di garanzia rispetto al rapporto debitorio principale (di valuta) assume un carattere certamente più elastico, di semplice collegamento / coordinamento tra obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare come si evince, da un lato, dalla rilevanza delle ipotesi in cui il garante è esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il rapporto sottostante; e, dall’altro, dal meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema delle rivalse. Si tratta insomma, per la Corte, di una garanzia “autonoma” in senso relativo, e non assoluto. La Corte, a questo proposito, ritorna sul concetto di causa del contratto, per riaffermarne la relativa configurabilità non in senso astratto, ma in senso concreto: secondo la Corte infatti – che richiama quanto già condivisibilmente affermato dalla III sezione con la sentenza 10490/06 (in materia di contratto di consulenza professionale) e successivamente ribadito con le 4 pronunce dell’11 novembre del 2008, rese in tema di danno non patrimoniale – appare ormai predicabile una ermeneutica del concetto di causa che – sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo della utilità sociale del contratto che essa sottende – affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa, al medesimo tempo, avere causa illecita), ricostruendo tale elemento (la causa appunto) in termini di “concreta” sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato): sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, precisa la Corte, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora oggettivamente iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, secondo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti – nel singolo caso di specie – adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale. E’ innegabile pertanto – prosegue la Corte – che di causa negotii sia lecito discorrere, in termini di relativa concreta esistenza, anche con riferimento al contratto autonomo di garanzia ed alla polizza fideiussoria, ad esso assimilabile quoad effecta; ed è altresì innegabile, nel caso di specie, che la forma di garanzia prescelta dalle parti, in alternativa al deposito cauzionale in denaro o titoli, non sia stata quella della fideiussione, bensì quella della polizza fideiussoria, alternativa e, per l’effetto, sostituiva forma di prestazione della cauzione stessa, “consentita” (così, letteralmente, il testo negoziale rilevante in parte qua) dall’Amministrazione appaltante senza essere accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri poteri e facoltà spettantile sulla base della normativa di settore vigente ratione temporis. La funzione individuale del singolo, specifico negozio (id est della polizza fideiussoria) è stata dunque quella di sostituire la traditio del denaro tipica della cauzione con l’obbligazione di corrispondere una somma di denaro, da parte del garante, a richiesta del creditore, senza alcuna possibilità, per il primo, di invocare il meccanismo, tipicamente fideiussorio, di cui all’art. 1957 c.c.. La Corte conclude pertanto affermando il principio di diritto onde la polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell’insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento o un indennizzo, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto all’inadempimento delle obbligazioni garantite.
Il 13 agosto viene varato il decreto legislativo n.141 che, nell’attuare la Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, abroga gli articoli da 40 a 43 del c.d. codice del consumo del 2005 ridisegnando la disciplina del credito al consumo all’interno del TUB, decreto legislativo 385.93, agli articoli da 121 a 126.
2012
Il 27 gennaio viene varata la legge n. 3 recante disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Si tratta di una legge interessante sul crinale della causa in particolare considerando la circostanza onde, per accedere ai benefici della legge sul sovra indebitamento, il debitore – che propone all’uopo un accordo ai creditori ai sensi dell’art.6 – deve possedere tanto requisiti soggettivi che oggettivi e deve superare positivamente il giudizio di meritevolezza (rimesso al giudice) ed il giudizio di convenienza economica (rimesso, a seconda dei casi, ai creditori oppure all’Organismo di composizione della crisi e al giudice). L’istituto del sovraindebitamento, come fatto notare dalla dottrina, presenta un peculiare profilo causale che, addotto quale esempio tangibile del c.d. “diritto della crisi”, inserisce nell’ordinamento un rimedio manutentivo del rapporto obbligatorio, giusta bilanciamento di valori certamente diverso da quello immaginato dal legislatore del codice civile, e nel quale l’interesse del debitore, in un’ottica di accentuazione della solidarietà contrattuale, finisce con l’acquisire sempre più peso. In particolare, in tema di ristrutturazione dei debiti, il legislatore lascia all’interprete per l’appunto la ricostruzione causale della fattispecie, atteso il sostanziale disinteresse palesato sul punto dal legislatore medesimo, divenendo allora compito dell’interprete indagare la sussumibilità degli accordi in esame in una della fattispecie tipiche previste dalla legge ovvero, in difetto, valutare se tali accordi possano assumersi ritrovare una causa concreta atipica ma rispondente ad un interesse meritevole di tutela, con particolare riguardo all’accordo di ristrutturazione qualificabile quale contratto.
2014
Il 29 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.20477, in tema di credito al consumo che, facendo luogo ad un autentico revirement sul collegamento negoziale, afferma come in materia di contratto di credito al consumo, nella vigenza della disciplina del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 121 e ss., la norma dell’art. 124, comma 3, va interpretata come previsione di un collegamento negoziale di fonte legale tra i contratti di credito al consumo che abbiano a oggetto l’acquisto di determinati beni o servizi, contenenti i requisiti ivi indicati, ed i contratti di acquisto degli stessi beni o servizi, a prescindere dalla sussistenza di un accordo che attribuisca al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti dei fornitori. Nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi – prosegue la Corte – l’azione diretta del consumatore contro il finanziatore prevista dall’art. 125, comma 4, si aggiunge alle azioni che il consumatore può già esercitare sulla base delle disposizioni applicabili ad ogni rapporto contrattuale, con la conseguenza onde il soddisfacimento delle condizioni di cui a tale articolo può essere richiesto solo rispetto alle azioni proposte ai sensi di detta disposizione (e, dunque, concernenti il collegamento negoziale e le ripercussioni della sorte di un negozio sull’altro collegato): in ogni altro caso, spetta al giudice di merito individuare le conseguenze, in riferimento al contratto ed al rapporto di finanziamento, del collegamento negoziale istituito per legge tra il contratto di finanziamento e quello di vendita, secondo i principi vigenti in materia contrattuale. L’esistenza del collegamento negoziale rappresenta allora il fulcro della questione sottoposta allo scrutinio della Corte di Cassazione, in quanto la risoluzione di un contratto può comportare in tali casi anche quella dell’altro (simul stabunt, simul cadent): si ha difatti collegamento negoziale quando, per una qualche ragione, uno dei negozi dipenda dall’altro e allorché sussista tra di loro un nesso di interdipendenza con la conseguenza onde il trattamento giuridico del primo è influenzato dalle vicende del secondo. Tale collegamento, come noto, può essere “necessario” allorquando sia legalmente previsto – prescindendo dunque dalla volontà delle parti – ovvero “volontario”, laddove ci si trovi dinanzi a due negozi indipendenti ma programmati dalle parti (da loro, e non dalla legge) come elementi della medesima operazione. In precedenza, al cospetto di contratti di credito al consumo, i giudici di merito avevano negato il collegamento negoziale per assunta mancanza della clausola di esclusiva tra finanziatore e clienti del venditore, la cui presenza solo avrebbe reso applicabile tale connessione (art. 42 Codice del Consumo) al finanziatore dovendo essere concessa (in virtù di tale clausola e solo laddove prevista dalle parti) l’esclusiva per l’attribuzione di credito ai clienti del fornitore; unicamente nelle suddette ipotesi dunque il consumatore avrebbe avuto titolo per agire contro il finanziatore nel caso di inadempimento del fornitore. L’articolo 42 del codice del consumo (anche laddove ancora applicabile ratione temporis), secondo la Corte, va tuttavia ormai disapplicato in base alla Direttiva comunitaria 87/102/CEE del 22 dicembre 1986 ed all’interpretazione che ne ha fornito la Corte di Giustizia con la sentenza del 23 aprile 2009, emessa nella causa C-509/07, onde l’esistenza di una clausola di esclusiva tra fornitore del bene e finanziatore non è presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore (finanziatore) in caso di inadempimento delle obbligazioni da parte del fornitore (venditore del bene, laddove il bene non sia stato consegnato o sia viziato), al fine di ottenere la risoluzione del contratto di credito e la conseguente restituzione delle somme corrisposte al finanziatore (e ovviamente la cessazione degli ulteriori versamenti di rate). Il collegamento teleologico tra i due contratti, stando all’opzione argomentativa abbracciata dalla Corte, ha allora fonte legale e prescinde dall’esistenza di una clausola ad hoc inserita nel regolamento contrattuale (come nel precedente regime). In precedenza, l’orientamento prevalente della giurisprudenza era – all’opposto – nel senso dell’autonomia funzionale dei due schemi contrattuali (finanziamento e vendita), essendo rimessa alla volontà delle parti la scelta di avvincere un contratto alle sorti dell’altro, onde per poter configurare un collegamento negoziale non si assumeva sufficiente un nesso occasionale tra i contratti, ma si rendeva necessario un collegamento che dipendesse dalla genesi del rapporto, ovvero dal fatto che un contratto trovasse la propria causa nell’altro, all’uopo occorrendo far riferimento all’intenzione dei contraenti ed alla loro volontà di coordinare i due contratti, instaurando tra gli stessi una connessione funzionale e teleologica, solo allora potendosi assumere che le vicende di uno si sarebbero ripercosse sull’altro. Ciò che rilevava era dunque l’unitarietà della funzione perseguita; nell’intenzione delle parti, ambedue i negozi dovevano mirare a realizzare un fine pratico unitario, i giudici di legittimità assumendo il collegamento negoziale quale mera quaestio facti, desumibile ermeneuticamente dalla volontà dei contraenti ed insindacabile in cassazione se esente da vizi logici. Dopo gli interventi del legislatore e del giudice europeo, e dopo l’adeguamento del legislatore interno, la Cassazione si orienta invece ora ad assumere di fonte legale il collegamento negoziale in tema di credito al consumo, con ogni conseguenza in termini di diretta ed immediata ripercussione delle sorti di un contratto sull’altro (anche in difetto di clausola di esclusiva tra banca finanziatrice del consumatore e venditore fornitore del bene).
2015
Il 4 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.8867 alla cui stregua è configurabile una presupposizione quando da un lato si assiste ad una obiettiva situazione di fatto o di diritto – sia essa passata, presente o futura – che sia stata tenuta presente dai contraenti nel momento in cui hanno prestato ciascuno il proprio consenso alla stipula del negozio, quand’anche in difetto di un espresso riferimento a tale situazione obiettiva in alcuna delle clausole contrattuali, e che sia stata intesa come presupposto capace di condizionare la validità o l’efficacia del negozio tra loro concluso; dall’altro, il venir meno della ridetta situazione obiettiva o il relativo, concreto verificarsi, siano del tutto indipendenti dalla attività e dalla volontà dei contraenti senza corrispondere, neppure a titolo di integrazione, all’oggetto di una specifica obbligazione dell’uno o dell’altro.
Il 5 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 19785, onde il leasing configura un collegamento negoziale tra i due distinti contratti di vendita-fornitura del bene (tra ventitore fornitore acquirente-conedente-lessor) e di connessa concessione in leasing (tra acquirente-concedente-lessor ed utilizzatore-lessee), onde non si tratta di fattispecie plurilaterale ma, per l’appunto, di collegamento negoziale (come affiora dalle clausole che i contraenti stipulano nell’ambito dei due negozi tra loro avvinti). Proprio il collegamento negoziale consente all’utilizzatore di agire direttamente nei confronti del fornitore (cui non è contrattualmente legato) al fine di pretendere l’adempimento del contratto di fornitura del bene e l’eventuale risarcimento del danno subito, senza necessità di ricorrere all’art.1705, comma 2, c.c. (norma peraltro da ribadirsi eccezionale e dunque soggetta ad interpretazione restrittiva) ed alla figura ivi prevista del mandato senza rappresentanza.
Il 4 novembre esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 22513 alla cui stregua il contratto misto va distinto dal collegamento negoziale stante come nel collegamento negoziale non si configuri un unico contratto quanto piuttosto una pluralità coordinata di contratti ciascuno con propria autonoma causa, ancorché nel relativo insieme globale essi mirino ad attuare una unitaria operazione negoziale, dacché il criterio di distinzione tra contratto misto e collegamento negoziale non è formale ma sostanziale, palesandosi avvinto all’unità della causa (negozio misto) o alla pluralità di cause (collegamento negoziale); fermo restando che nel collegamento negoziale, fa notare la dottrina, è possibile individuare una sorta di “causa di collegamento” che è la sintesi delle singole cause di ciascuno dei negozi che partecipano al collegamento.
2016
Il 15 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.5068 alla cui stregua in caso di donazione di cosa inconsapevolmente altrui non può essere utilizzato lo schema dell’art.1381 c.c., e dunque la promessa del fatto del terzo, dovendo piuttosto assumersi tale donazione (solo apparentemente dispositiva) nulla. La Corte è chiamata in proposito a dirimere il contrasto tra due diverse posizioni della giurisprudenza a sezioni semplici: la prima – muovendo dall’art.771 c.c. sulla nullità di beni futuri, interpretabile analogicamente alla donazione di bene altrui, in una con il fondamento della donazione sul c.d. principio consensualistico – assume per l’appunto nulla la donazione di beni altrui stante anche la necessità di una immediatezza dell’arricchimento del donatario, che come tale presuppone l’appartenenza al patrimonio del donante del bene donato; la seconda ritiene all’opposto valida una donazione di bene altrui sia perché la donazione stessa, ex art.769 c.c., può assumere anche foggia obbligatoria (oltre che immediatamente traslativa) e sia perché, ferma la nullità della donazione di beni futuri, nel caso della donazione di beni altrui scatta l’operatività dell’art.1381 c.c. e dunque della promessa del fatto del terzo. Per le SSUU la donazione di cosa totalmente (o parzialmente) altrui è nulla e ciò non già perché si applichi in via analogica l’art.771 c.c. in tema di nullità della donazione di beni futuri, quanto piuttosto per difetto di causa del contratto di donazione (dispositiva). In sostanza, per la Corte la donazione dispositiva di beni inconsapevolmente altrui è totalmente nulla (e non già valida ma inefficace, come pure predicato da parte della giurisprudenza) dovendosi considerare come dall’art.769 c.c. affiori la imprescindibile appartenenza del bene donato al patrimonio del donante, quale elemento essenziale in difetto del quale (laddove dunque il bene donato appartenga ad un terzo) è inconcepibile la realizzazione della causa tipica, sorretta dal c.d. spirito di liberalità, del contratto di donazione traslativa o dispositiva; la donazione ha infatti alla propria base il depauperamento del donante, il contestuale arricchimento del donatario ed il c.d. animus donandi, vale a dire quello spirito di liberalità (corrispondente ad un interesse personale del donante) che fa da ponte tra il depauperamento e l’arricchimento citati; il donante è consapevole di attribuire al donatario un vantaggio patrimoniale senza alcuna costrizione di tipo morale o giuridico. Se così è, prosegue la Corte, la presenza del bene donato nel patrimonio del donante costituisce un elemento costitutivo ed essenziale del contratto di donazione con effetti immediatamente traslativi, mentre la consapevolezza – da parte di entrambi i protagonisti della vicenda – dell’appartenenza ad un terzo del bene donato si configura una donazione obbligatoria; laddove invece la res donata sia inconsapevolmente altrui, la donazione va assunta nulla per difetto di causa, facendosi luogo ad una operazione che non è riconducibile appunto allo schema causale della donazione dispositiva, il quale ultimo presuppone la consapevolezza in capo al donante di sottrarsi un bene proprio per, impoverendosi, attribuirlo al donante così arricchendolo, senza che occorra alcuna (artificiosa) riconducibilità del bene altrui ad un bene futuro ex art.771 c.c.
Il 6 maggio 2016 esce la sentenza a SSUU n. 9140 della Cassazione civile, che si pronuncia sulle clausole assicurative claims made. Sostiene la Corte, in motivazione, che l’affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori rilievi – disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva – volti a evidenziare la consustanziale e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione, posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la compagnia, stravolgerebbe, a danno dell’assicurato, la struttura tipica del contratto, quale delineato nell’art. 1917 cod. civ. che, conformata, come si è detto, sul modello c.d. loss occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza della polizza. Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perché vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all’assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall’agente all’assicuratore, del rischio derivante dall’esercizio dell’attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell’obbligo di manleva. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell’intagibilità del modello codicistico si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall’art. 1932 cod. civ., che tra le norme inderogabili non menziona il primo comma dell’art. 1917 cod. civ. il che, in via di principio, consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l’obbligo del garante di tenere indenne il garantito “di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione”, deve pagare a un terzo. Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell’assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell’assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c’è la percezione che essa snaturi l’essenza stessa del contratto di assicurazione lo per responsabilità civile, legando l’obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l’assicurato a stipularlo, considerato che l’eventualità di un’aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione. Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola, operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico, deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell’art. 1341 cod. civ., ovvero dell’oggetto del contratto, tenendo conto che, in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all’oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata. Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.
Il 27 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.19000, onde sussiste tra i contratti di credito al consumo finalizzati all’acquisto di determinati beni o servizi ed i contratti di acquisto dei medesimi, un collegamento negoziale di fonte legale, che prescinde dalla sussistenza di una esclusiva del finanziatore per la concessione di credito ai clienti dei fornitori, demandando al giudice di individuare, in applicazione dei principi generali, gli effetti del collegamento negoziale istituito per legge tra il contratto di finanziamento e quello di vendita. Il collegamento tra i due contratti per la Corte va considerato necessario, in quanto disposto direttamente dalla legge; pertanto, nel caso di inadempimento del venditore, il consumatore non è obbligato a restituire il finanziamento ottenuto per l’acquisto di un bene (pagato e) mai consegnato, giacché le sorti del contratto di vendita si ripercuotono su quelle del finanziamento (anche laddove non vi sia esclusiva nei rapporti tra finanziatore e clienti del singolo fornitore), restando ovviamente ferma la possibilità per il finanziatore di far valere i propri diritti nei confronti del venditore che è stato inadempiente verso il consumatore acquirente.
2017
L’8 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.14262 che, dopo aver affermato come nel caso di specie la cessione della proprietà da parte di una delle parti contrattuali non avrebbe potuto essere legittimamente qualificata “preliminare di donazione” (pena la relativa insanabile nullità, essendo la donazione actus legitimus che non ammette preliminare), si sofferma – in una vicenda in cui rileva il collegamento negoziale – sulla causa, quale elemento essenziale del contratto, la quale non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale dello specifico contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la concreta dinamica contrattuale e non la mera volontà delle parti. Si tratta di una pronuncia che si inserisce nel filone orientato ad ammettere il c.d. negozio atipico con caratterizzazione solutoria, ovvero il pagamento traslativo: la causa – che va vista in concreto e non in astratto, distinguendosi dunque dal “tipo” negoziale – non deve essere per forza rintracciata nell’atto che opera concretamente l’attribuzione patrimoniale, potendosi essa rinvenire in un atto a monte ed esterno, collegato per volontà delle parti a quello successivo, attuativo e solutorio.
Il 3 luglio esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.3 alla cui stregua, da un lato l’art. 76, comma 11, del d.P.R. n. 207/2010 deve essere interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione SOA, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento, e dall’altro che in ipotesi di cessione di un ramo d’azienda, l’accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di qualificazione da parte dell’impresa cedente, comporta la conservazione dell’attestazione da parte della stessa senza soluzione di continuità. Nel contesto motivazionale il Consiglio afferma che la teoria della causa in astratto, già da tempo abbandonata dalla dottrina maggioritaria, è stata superata anche in giurisprudenza in favore della teoria della causa in concreto, quale sintesi degli interessi reali delle parti, precisando poi come il rapporto contrattuale si produca secondo lo schema fatto-norma-effetto, dove il fatto è dato dal singolo contratto e la norma dalla disposizione di legge che lo contempla, la causa, quale elemento del contratto, non potendo allora che riferirsi all’uno come all’altro. Per il Collegio il contratto è tipico, allorquando la causa concreta (ossia la causa del singolo contratto) è riconducibile a quella astratta (ossia la causa del tipo contrattuale), operando il procedimento logico di sussunzione del fatto nella norma; altrimenti esso è atipico, ma, anche in tal ultima ipotesi, in base al metodo tipologico, costantemente seguito dalla Corte di cassazione, esisterà pur sempre una causa tipica (o una pluralità di cause tipiche) che fungeranno da paradigma nella definizione del contratto atipico. In definitiva, per il Collegio entrambe le nozioni di causa hanno ragion d’essere, poiché esse, a ben guardare, si riferiscono ad entità diverse: il tipo legale ovvero il contratto storicamente stipulato. Volendo pervenire a una nozione unitaria di causa, prosegue il Collegio, deve guardarsi all’art. 1321 c.c., in cui la causa è rinvenibile nella particella “per” (“il contratto è l’accordo per costituire… un rapporto giuridico patrimoniale“), essendo ciò che giustifica la produzione degli effetti giuridici per atto di autonomia privata, ossia, in sostanza, la legge di copertura del contratto e, più precisamente, del meccanismo di causalità giuridica che lega l’accordo al rapporto cui esso dà vita; si intuisce come tale legge di copertura appartenga preliminarmente alla realtà sociale ed economica, e come il legislatore si limiti a codificarla nell’ordine giuridico, da ciò discendendo che l’autorizzazione alla produzione di effetti giuridici e il tipo di effetti prodotti dipendono dalla valutazione degli scopi concretamente (cioè nella realtà) perseguiti dalle parti, ancorché ancorata in larga misura a parametri preventivamente definiti dall’ordinamento. Muovendo da questo presupposto, per il Collegio è fuori luogo sostenere che la cessione dei beni aziendali comporti di per sé il trasferimento delle qualificazioni, occorrendo considerare quale sia l’interesse pratico sotteso all’operazione, il relativo effettivo contenuto e se l’eventuale interesse pratico possa realizzarsi senza il concorso di elementi esterni al contratto, come nel caso gli adempimenti ulteriori di competenza SOA.
Il 7 luglio esce la sentenza del Tar Abruzzo, Pescara, n. 216 alla cui stregua è inammissibile, per carenza di interesse a ricorrere, un ricorso giurisdizionale proposto avverso l’aggiudicazione di una gara di appalto, laddove proposto da una ditta classificatasi quinta in una graduatoria finale di 8 imprese che, ai fini della partecipazione, ha fatto ricorso all’istituto dell’avvalimento, ove una clausola di tale accordo negoziale preveda espressamente che: “Il presente contratto si intenderà tacitamente risolto e perderà validità in caso di mancata aggiudicazione dell’incarico al concorrente con la pubblicazione del verbale di aggiudicazione definitiva”; infatti, il contratto di messa a disposizione degli strumenti dell’impresa ausiliaria, necessario per accedere all’istituto dell’avvalimento ex articolo 49 d.lgs. n. 163 del 2006, deve essere non solo valido ma anche efficace, e, nel caso di specie, tale contratto è divenuto inefficace a seguito della mancata aggiudicazione dell’appalto in favore della ditta istante, come si evince dalla suddetta clausola chiara e univoca; sicché la stazione appaltante non avrebbe alcuna tutela nei confronti dell’ausiliaria, atteso che l’impegno negoziale unilaterale di quest’ultima verso l’Amministrazione non ha causa astratta ma solo causa esterna nel rapporto sottostante tra l’ausiliaria e l’ausiliata (sicché l’inefficacia di questo determina l’inefficacia dell’impegno unilaterale in questione).
Il 31 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 19013 in tema di contratti di interest rate swap, alla cui stregua in tema di meritevolezza degli interessi perseguiti con contratti atipici ex art. 1322 c.c., in particolare per i contratti cc.dd. “derivati”, l’art. 21 T.U.F. e l’art. 26 Reg. Consob n. 11522/1998 hanno portata imperativa e inderogabile – anche in applicazione dei principi della Direttiva 93/22/CEE – prescrivendo che gli intermediari si comportino con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e dell’integrità del mercato. Nella fattispecie, avente ad oggetto appunto contratti derivati interest rate swap con natura di operazioni “di copertura”, il Collegio richiama specificamente il rispetto delle condizioni di cui alla determinazione Consob 26 febbraio 1999, evidenziando la necessità di una stretta correlazione tra l’operazione di “copertura” e il rischio da coprire. La dottrina sottolinea come la Corte nel caso di specie fissi un principio di diritto inedito, stabilendo che il giudice chiamato a valutare la “meritevolezza degli interessi” perseguiti con un contratto di interest rate swap deve tenere conto dell’interesse “oggettivo” del cliente “alla copertura” e quindi verificare la sussistenza del requisito della necessaria “stretta correlazione” tra lo strumento di copertura del rischio ed il rischio da coprire. Il contenzioso scaturente dalla negoziazione di strumenti finanziari derivati non standardizzati continua per la dottrina ad offrire occasione per un confronto con temi classici del diritto delle obbligazioni e dei contratti, fra i quali il problema del controllo dell’ordinamento sulle manifestazioni dell’autonomia contrattuale e il rapporto fra regole di comportamento da un lato e regole di validità del contratto dall’altro. Per la Corte in particolare la riscontrata non idoneità dello strumento finanziario negoziato a realizzare l’interesse del cliente alla copertura da un rischio preesistente, oltre a essere sintomatica di una inadeguatezza dell’operazione di investimento, sotto il profilo della non rispondenza agli obiettivi del cliente, può determinare la non meritevolezza degli interessi realizzati dalle parti, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c.
Il 6 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 20846, alla cui stretua , laddove venga proposta da una parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum”, il giudice deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche alla relativa proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla relativa, rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, c.c..
Il 9 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 23601 alla cui stregua la mancata registrazione del contratto di locazione di immobili è causa di nullità dello stesso; la Corte precisa altresì che il contratto di locazione di immobili, quando sia nullo per (la sola) omessa registrazione, può comunque produrre i relativi effetti con decorrenza ex tunc, nel caso in cui la registrazione sia effettuata tardivamente e che è nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato, con nullità che vitiatur sed non vitiat, onde il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, anche a prescindere dall’avvenuta registrazione. Interessante ratione materiae quanto afferma la Corte con riguardo alla fattispecie di contratto debitamente registrato, contenente un’indicazione simulata di prezzo, cui acceda una pattuizione a latere (di regola denominata “accordo integrativo“, come nel caso di specie), non registrata e destinata a sostituire la previsione negoziale del canone simulato con quella di un canone maggiore rispetto a quello formalmente risultante dal contratto registrato. Appare inevitabile per la Corte la riconduzione di tale fattispecie nell’orbita dell’istituto della simulazione, in sintonia con quanto affermato dalle stesse Sezioni Unite con riferimento alla speculare (e in parte qua del tutto sovrapponibile) vicenda delle locazione ad uso abitativo, il (medesimo) procedimento simulatorio sostanziandosi difatti, sul piano morfologico, in un previo accordo simulatorio e in una successiva, unica convenzione negoziale, tanto nell’ipotesi di simulazione assoluta (assenza di effetti negoziali) quanto di simulazione relativa (produzione di effetti diversi da quelli riconducibili al negozio apparente), mentre la cd. controdichiarazione non è altro che uno strumento probatorio idoneo a fornire la “chiave di lettura” del negozio apparente, caratterizzata dalla relativa eventualità e dalla irrilevanza della contestuale partecipazione alla relativa stesura di tutti i soggetti protagonisti dell’accordo – tanto che l’atto controdichiarativo può anche provenire da uno solo di essi, e sostanziarsi in una dichiarazione unilaterale, perciò solo priva di ogni veste contrattuale. Sicchè prosegue la Corte non appare corretto, in punto di diritto, discorrere di contratto simulato e contratto dissimulato come di due diverse e materialmente separate convenzioni negoziali (né tampoco appare corretto ricondurre il cd. negozio dissimulato alla controdichiarazione, come talora si suole affermare). Ebbene, precisa ancora la Corte, proprio tale accordo simulatorio, in quanto volto a celare un canone maggiore rispetto a quello indicato nel contratto scritto e registrato, disvela la finalità di elusione ed evasione fiscale che un simile patto è funzionalmente destinato a realizzare e, dunque, la relativa causa concreta, da intendersi quest’ultima nella più moderna nozione di scopo pratico del negozio, sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. Osservata da tale prospettiva, la fattispecie della simulazione (relativa) del canone locatizio risulta per la Corte affetta da un vizio genetico, attinente alla relativa causa concreta, inequivocabilmente volta a perseguire lo scopo pratico di eludere (seppure parzialmente) la norma tributaria sull’obbligo di registrazione dei contratti di locazione. Se tale norma tributaria si ritiene essere stata elevata a “rango di norma imperativa“, come sembra suggerire l’evoluzione normativa e giurisprudenziale più recente e come precisato dalla stessa Corte costituzionale, deve concludersi che la convenzione negoziale sia intrinsecamente nulla, oltre che per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di (integrale) registrazione, anche perché ab origine caratterizzata da una causa illecita per contrarietà a norma imperativa (ex art. 1418, comma 1, c.c.), tale essendo costantemente ritenuto lo stesso articolo 53 Cost. – la cui natura di norma imperativa (come tale, direttamente precettiva) è stata, già in tempi ormai risalenti riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte medesima (viene richiamata Cass. n. 5 del 1985; SSUU n. 6445 del 1985). In tale ottica, prosegue la Corte, acquista una valenza particolarmente significativa l’affermazione della Corte costituzionale che, nel qualificare la nullità sancita dall’art. 1, comma 346, I. n. 311 del 2004 come genericamente riconducibile all’art. 1418 c.c., non ha ristretto la (evidente) portata della norma al solo comma 3 dell’articolo richiamato (nullità testuale), ma ne ha implicitamente evidenziato la rilevanza anche ai fini del comma 1 (nullità virtuale), sottolineandone l’effetto di aver elevato a norma imperativa la disposizione tributaria sull’obbligo di registrazione dei contratti ivi contemplati. Trattandosi di un vizio riconducibile al momento genetico del contratto, e non (soltanto) ad un mero inadempimento successivo alla stipula (sanzionato dalla nullità testuale di cui al comma 346 della Finanziaria 2004), nelle fattispecie simulatorie del canone locatizio contenuto in un contratto già registrato deve allora ravvisarsi la diversa ipotesi di una nullità virtuale, secondo la concezione tradizionale di tale categoria – e, quindi, tradizionalmente insanabile ex art. 1423 c.c.: in tal caso, infatti, la nullità deriva non dalla mancata registrazione (situazione suscettibile di essere sanata con il tardivo adempimento), ma, a monte, dall’illiceità della causa concreta del negozio, che una tardiva registrazione non appare idonea a sanare. Non senza considerare, prosegue la Corte, che, dalla registrazione del cd. “accordo integrativo“, ove questo presenti i caratteri di cui all’art. 1321 c.c., se ne dovrebbe trarre, ove se ne predicassero liceità, validità ed efficacia, la relativa configurazione in termini di nuovo contratto, cui attribuire (del tutto fittiziamente, e del tutto erroneamente, come si è visto) il carattere o dell’accordo novativo ovvero del negozio di accertamento: caratteri, evidentemente, del tutto inesistenti, salvo che, nella facoltà di interpretazione del contratto che gli è riconosciuta, il giudice di merito non accerti, nel singolo caso, l’effettivo carattere novativo dell’accordo (novazione peraltro impredicabile nel caso di coincidenza temporale tra i due atti), alla luce dell’effettiva esistenza di un animus novandi e di un aliquid novi. Si rende conseguentemente necessario per la Corte estendere l’indagine alla sorte del contratto di locazione regolarmente registrato, e contenente l’indicazione del canone simulato. Con specifico riguardo all’analoga fattispecie simulatoria riferita alla locazione ad uso abitativo e soggetta alla disciplina dell’art. 13, comma 1, I. n. 431 del 1998, la sentenza delle medesime SSUU del 2015 ebbe modo di precisare come la sanzione legislativa della nullità prevista da quella specifica norma colpisse non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale (attesane la precipua funzione di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, sicché “sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto“. Ora nell’ipotesi stavolta sottoposta al vaglio della Corte, che ha ad oggetto una locazione ad uso non abitativo, per la Corte medesima ciò che la disciplina legislativa del 2004 ha inteso non solo sanzionare, ma anche elevare a rango di norma imperativa, è proprio l’obbligo di registrazione, non il divieto di sostituzione di un canone con un altro; ed è proprio quell’obbligo che la causa concreta dell’accordo intercorso tra le parti è funzionalmente volta (ancorché parzialmente) ad eludere.
Il 5 dicembre esce la sentenza della Corte di Cassazione – Sez. I civile, n. 29111, che si pronuncia circa le operazioni di intermediazione finanziaria a catena, nelle quali cioè si susseguono operazioni (e dunque, contratti) di investimento e disinvestimento, tramite l’acquisto e la vendita di pacchetti azionari, titoli e altri strumenti finanziari. La Corte, in specie, è chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza, in specie, di un unico contratto complesso o di una operazione di collegamento negoziale, in cui un contratto vede il suo presupposto nella sussistenza dell’altro (nel caso specifico, il contratto di vendita o disinvestimento trova la sua causa nell’operazione precedente di investimento). Sancisce la Corte, preliminarmente, che in tema di intermediazione finanziaria, le operazioni finanziarie “a catena” (e cioè investimenti e disinvestimenti in successione) in valori mobiliari integrano contratti autonomi esecutivi del contratto quadro originariamente stipulato dall’investitore con l’intermediario, atteso che l’insieme delle operazioni non è riconducibile né al paradigma del contratto complesso (di cui non ricorre la combinazione di schemi negoziali che dia luogo ad un contratto nuovo e differenziato) né a quello del collegamento negoziale (di cui non ricorre il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, quanto il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere, non solo gli effetti tipici dei negozi in concreto posti in essere, ma anche il loro coordinamento per la realizzazione di un fine che tali effetti trascende, per assumere una propria autonomia causale); ne consegue che, costituendo ciascuna operazione un distinto atto di natura negoziale, il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della nullità dell’ultima operazione finanziaria non preclude l’esperibilità dell’azione risarcitoria traente origine da altra che l’aveva preceduta.
2018
Il 19 gennaio vede la luce l’ordinanza interlocutoria della III sezione della Cassazione n1465 che con la quale il Collegio chiede alle Sezioni Unite di stabilire se siano corretti i taluni principi in tema di clausole assicurative c.d. claims made e di meritevolezza di tutela ex art.1322 c.c. La III sezione chiede alle SSUU – più nel dettaglio ed a valle di un articolato percorso argomentativo – se siano corretti i seguenti due principi: a) nell’assicurazione contro i danni non è consentito alle parti elevare al rango di “sinistri” fatti diversi da quelli previsti dall’art. 1882 c.c. ovvero, nell’assicurazione della responsabilità civile, dall’art. 1917, comma primo, c.c.; b) nell’assicurazione della responsabilità civile deve ritenersi sempre e comunque immeritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., la clausola la quale stabilisca la spettanza, la misura ed i limiti dell’indennizzo non già in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui l’assicurato ha causato il danno, ma in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui il terzo danneggiato ha chiesto all’assicurato di essere risarcito.
Il 9 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11147 che si occupa di una fattispecie di mutuo di scopo, caratterizzato dal fatto che i due negozi che ne sono protagonisti, mutuo e compravendita, risultano finalizzati al perseguimento di un fine comune. Per la Corte il contratto di finanziamento è normalmente distinto e separato dal contratto di acquisto della merce finanziata, onde l’istituto di credito che eroga il finanziamento è totalmente estraneo alle vicende negoziali che scaturiscono dalla compravendita, fatta eccezione appunto per l’ipotesi di mutuo di scopo, laddove si provi il comune fine perseguito dai differenti contratti collegati.
Il 18 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 15929, alla cui stregua il mutuo di scopo è nullo in caso di mancato rispetto della destinazione dedotta nel contratto; per la Corte nel mutuo di scopo, sia esso legale o convenzionale, la destinazione delle somme mutuate entra nella struttura del negozio connotandone il profilo causale, onde la nullità di tale contratto per difetto di causa sussiste solo se la ridetta destinazione non sia stata rispettata, mentre è irrilevante che essa venga attuata prima o dopo l’erogazione del finanziamento.
Il 6 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 17718 alla cui stregua, in tema di interpretazione del contratto, è principio consolidato quello sulla base del quale il contratto medesimo deve essere interpretato avendo riguardo alla relativa ragione pratica, coerentemente con gli interessi che le parti vogliono tutelare attraverso la stipulazione di esso, con la determinazione delle regole volte a disciplinare il rapporto contrattuale.
Il 10 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.18047 che si occupa di un turista gravemente ammalato che finisce col rinunciare ad un pacchetto turistico all inclusive in precedenza prenotato, predicandone il diritto alla restituzione di quanto versato in occasione della prenotazione. Per la Corte gli articoli 1463 c.c. (impossibilità totale della prestazione) e 1256 c.c. (impossibilità sopravvenuta della prestazione) non impongono che l’impossibilità della prestazione sopravvenuta alla stipula sia necessariamente ricollegata al fatto di un terzo, avendo piuttosto la funzione di proteggere la parte impossibilitata a fruire della prestazione pattuita con la finalità di ricostruire il sinallagma contrattuale compromesso. Per la Corte il Tribunale ha fatto nel caso di specie corretta applicazione delle norme sopra richiamate, inquadrando la fattispecie in esame nell’ipotesi in cui la causa del contratto, consistente nella fruizione di un viaggio con finalità turistica, diviene inattuabile per una causa di forza maggiore, non prevedibile e non ascrivibile alla condotta dei contraenti, rammentando come al riguardo la Corte medesima abbia già avuto modo di chiarire che la causa in concreto – intesa quale scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato – conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra (vengono richiamate Cass. 8100/2013; Cass. 12069/2017 ). Pertanto, prosegue la Corte, il Tribunale – nella congiunta valutazione della causa e dei motivi che avevano indotto all’acquisto del pacchetto turistico – ha dato forma al concetto di “causa concreta del contratto” attinente all’aspetto della funzione economico – sociale del negozio giuridico posto in essere (così Cass. 26958/2007 ) e, valutando il gravissimo impedimento che non aveva consentito ai contraenti di fruirne, ha correttamente applicato il principio sopra enunciato con il quale la previsione di cui all’art. 1463 c.c. risulta perfettamente compatibile, con riferimento a tutti i contraenti. La Corte richiama poi il principio già da essa affermato onde la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione configurandosi non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il relativo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione (viene richiamata Cass. 26958/2007, arresto che, per gli aspetti fattuali, risulta sovrapponibile al caso in esame e che contiene principi ai quali la Corte dà seguito, dovendosi escludere che l’impossibilità sopravvenuta debba essere – come prospettato dal ricorrente – necessariamente ricollegata al fatto di un terzo: la non imputabilità al debitore (art. 1256 c.c.) non restringendo il campo delle ipotesi ma piuttosto consentendo di allargare l’applicazione della norma a tutti i casi, meritevoli di tutela, in cui sia impossibile, per eventi imprevedibili e sopravvenuti, utilizzare la prestazione oggetto del contratto). L’art. 1463 c.c., precisa la Corte, assume una funzione di protezione in relazione alla parte impossibilitata a fruire della prestazione pattuita e ciò è funzionale, in linea generale, proprio alla ricostituzione del sinallagma compromesso, non spostando l’ambito contrattuale della responsabilità. La Corte chiarisce poi, sotto altro profilo che l’azione generale di arricchimento ingiustificato, avendo natura sussidiaria, può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito (viene richiamata Cass. 26199/2017), mentre nel caso di specie le pretese della parte controricorrente si fondano legittimamente sull’applicazione dell’art. 1463 c.c. e trovano pertanto un fondamento specifico che non consente neanche di ipotizzare l’ipotesi di cui all’art. 2033 c.c. Per la Corte peraltro la mancata stipula nel caso di specie, da parte dei contraenti, della polizza assicurativa volta a coprire eventi imprevedibili come quello in esame non sposta i termini della decisione, tale possibilità, all’epoca in cui venne acquistato il pacchetto turistico, costituendo una mera facoltà sia per il cliente che per l’operatore turistico e non incidendo dunque sulla valutazione dell’impossibilità sopravvenuta alla prestazione; la recente Direttiva Comunitaria del 2015/2302 sui pacchetti turistici, pur richiamata dal ricorrente, è stata recentemente recepita ma – precisa la Corte – non è ancora in vigore nel nostro ordinamento, ciò rafforzando la dimostrazione che all’epoca della controversia prevaleva la disciplina correttamente applicata dal Tribunale , la cui interpretazione deve tenere conto sia del rischio generale connaturato all’attività imprenditoriale sia del dovere di solidarietà sociale universalmente applicabile (viene richiamata Cass. 14662/2015 ).
Il 4 luglio 2018 esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I Civile, n. 17498, che offre lo spunto per una disamina in merito alla validità delle clausole di “opzione put” a prezzo fisso o a consuntivo, nelle società, con riferimento alla violazione eventuale del c.d. patto leonino. Con essa i giudici di legittimità hanno stabilito due importanti principi: il socio finanziatore assume i diritti e gli obblighi del suo status, ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite; la clausola in questione è dotata di un interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art.1322 c.c., al finanziamento dell’impresa societaria, ove la meritevolezza è dimostrata dall’essere il finanziamento partecipativo correlato ad un’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario. Segnatamente, sostiene la Corte che “è lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro delle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto delle partecipazione sociale ad un prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”. Nel caso contreco, i giudici di legittimità erano chiamati a decidere una vicenda nota tra gli operatori del settore il cui esito nei giudizi di merito era stato di segno opposto a quanto stabilito nella decisione della Suprema Corte. La fattispecie riguardava la validità o meno di un patto di opzione di vendita attraverso il quale DeA Partecipazioni, società acquirente di una quota di minoranza del capitale sociale di Banca Bipielle Network (poi Banca Network Investimenti), si riservava il diritto di cedere la propria partecipazione ad altro socio, Sopaf, ad un prezzo predeterminato “a consuntivo”, ossia un prezzo pari al costo dell’investimento maggiorato degli interessi convenzionali previsti, oltre, in forza di un successivo accordo, a quanto DeA Partecipazioni avesse conferito in Banca Network Investimenti a titolo di versamento a patrimonio netto. DeA Partecipazioni esercitava il diritto di opzione ma Sopaf rifiutava di dar corso all’obbligo di acquisto della partecipazione: da qui la nascita del contenzioso con DeA Partecipazioni che agiva in giudizio per chiedere, accertato l’inadempimento di Sopaf, la condanna di questa a pagare il prezzo delle azioni così come determinato nell’accordo parasociale. Sopaf, nel resistere in giudizio, eccepiva la nullità del patto per violazione del divieto di cui all’art. 2265 c.c. posto che, per come strutturata, la clausola esonerava DeA Partecipazioni dal rischio di partecipazione alle perdite. La controversia, dopo che entrambi i giudizi di merito avevano concluso per la nullità dell’accordo stipulato tra le parti proprio per violazione dell’art. 2265 c.c., approdava innanzi alla Suprema corte che, valutata la struttura dell’accordo e la sua funzione, osservava che “lo schema causale dell’operazione complessiva, secondo i fatti accertati dal giudice di merito, non reca dunque neppure insiti in sé i rischi che sono tradizionalmente ricondotti al divieto di patto leonino. Nel negozio dai caratteri che si stanno esaminando, il socio finanziatore assume tutti i diritti e gli obblighi del suo status, ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite. Si rivela, altresì, un interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c., al finanziamento dell’impresa societaria, ove la meritevolezza è dimostrata dall’essere il finanziamento partecipativo correlato ad un’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario. Interesse che, si noti, potrebbe addirittura reputarsi generale, in quanto operazione coerente con i fini d’incentivazione economica perseguiti dal legislatore,quale strumento efficiente della finanza d’impresa”.
Il 26 luglio esce la sentenza della Cassazione sez. lavoro, n. 19863, che si pronuncia sulla nullità del licenziamento intimato in frode alla legge, comminato a più lavoratori a seguito di una scissione societaria apparente. La Corte confemando la pronuncia di merito impugnata rileva che nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato espresso ed argomentato conto di una tale preclusione e della sua ratio (al terzo e quarto capoverso di pg. 4 della sentenza), individuando correttamente i presupposti di configurazione del contratto in frode alla legge “laddove il contratto in sé lecito realizzi, anche mediante la combinazione con altri atti giuridici, un risultato vietato dalla legge”, con argomentata disamina critica della finalità (perseguita con l’operazione di scissione) vietata dalla legge, individuata nell’elusione della disciplina sui licenziamenti collettivi (artt. 4 e 5 I. 223/1991), in virtù del “collegamento negoziale fra l’operazione societaria ed i plurimi e successivi licenziamenti” (per le ragioni esposte dal primo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo capoverso di pg. 6 della sentenza). 4.3. Ed essa ha fatto esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia, secondo cui la peculiarità del contratto in frode alla legge, regolato dall’art. 1344 c.c., consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge: con la conseguenza che, nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito il risultato che attraverso l’abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1523). Sempre nell’ambito dell’illiceità della causa, non si ha invece contratto in frode alla legge (art.. 1344 c.c.), bensì in violazione di disposizioni imperative (art. 1343 c.c.), qualora le parti perseguano il risultato vietato dall’ordinamento, non già attraverso la combinazione di atti di per sé leciti, ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con disposizioni di tale natura (in particolare, urbanistiche: Cass. 7 ottobre 2008, n. 14769): e concernenti la validità del contratto, non già il comportamento dei contraenti, che può essere fonte di responsabilità (Cass. s.u. 19 dicembre 2007, n. 26724; Cass. 10 aprile 2014, n. 8462). Né la violazione di una norma imperativa produce necessariamente la nullità del contratto, ma soltanto qualora, a norma dell’art. 1418, primo comma c.c., “la legge” non “disponga diversamente” : con onere per l’interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma (Cass.4 RG 17260/216 11 dicembre 2012, n. 22625; Cass. 28 settembre 2016, n. 19196). Tuttavia, nel caso di specie non esiste una siffatta diversa previsione di legge, che non può evidentemente essere individuata, come infondatamente prospettato dalla ricorrente, nella “scissione sebbene condizionata al periodo di tempo in cui chiunque vi abbia interesse vi si opponga” (così sub b, a pg. 14 del ricorso), in quanto atto lecito e non più invalidabile, dovendosi piuttosto far riferimento alla disciplina in materia di licenziamenti collettivi: elusa, proprio attraverso la complessiva operazione negoziale, di cui la scissione societaria ha costituito una parte essenziale e che integra, per le ragioni dette, un contratto in frode alla legge…omissis…nel caso di specie ricorre piuttosto, come già ritenuto, la diversa ipotesi di frode alla legge, in funzione di clausola generale di tipizzazione delle condotte tenute in violazione di norme imperative. Ed essa è stata integrata: dalla chiara finalità di violare una norma imperativa di natura materiale (quale la disciplina regolante i licenziamenti collettivi, nella ricorrenza dei presupposti della legge 223/1991: Cass. 9 ottobre 2000, n. 13457), nel senso che sia da essa enucleabile un precetto, non esplicitato, che vieti di raggiungere risultati sostanzialmente equivalenti a quelli espressamente vietati; dall’identità di risultato fra contratto espressamente vietato e contratto mezzo di elusione; manifestazione dell’elusione da indici sintomatici (così, in motivazione: Cass.2 maggio 2006, n. 10108).
Il 24 settembre esce la sentenza a SS. UU. Civili che si pronuncia sulle clausole claims made e sulla loro invalidità o meno nel contratto assicurativo. La Corte chiarisce in motivazione che “la stipulazione del contratto di assicurazione della responsabilità civile “on claims made basis” introduce l’indagine sul contenuto negoziale. 19.1. – Sotto questo profilo, non può escludersi, anzitutto, che, all’esito dell’interpretazione rimessa al giudice del merito e da condursi secondo i criteri legali (tra cui quello del comportamento delle parti che precede la genesi del vincolo contrattuale: art. 1362, secondo comma, c.c.), si possa giungere a riconoscere un’implementazione del regolamento negoziale ad opera di quelle prestazioni oggetto di informativa precontrattuale, inclini a modulare un adeguato assetto degli interessi dell’operazione economica, che non abbiano poi trovato puntuale e congruente riscontro nel contratto assicurativo concluso. 19.2. – E l’ottica di adeguatezza del contratto agli interessi in concreto avuti di mira dai paciscenti è proprio quella che costituisce il fulcro dell’indagine in esame, che veicola, per l’appunto, una verifica di idoneità del regolamento effettivamente pattuito rispetto all’anzidetto obiettivo. Verifica che transita attraverso la portata che assume la c.d. “causa concreta” del contratto, ossia quella che ne rappresenta lo scopo pratico, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso negozio è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato (per tutte, Cass., 8 maggio 2006, n. 10490). 19.3. – E’ evidente che si tratta di una verifica condizionata dalle circostanze del caso concreto, ma essa trova già su un piano di generica astrazione le proprie coordinate, selezionate, a loro volta, dalla diversità della tipologia dei rapporti assicurativi, rispetto ai quali la risposta in termini di tutela non potrà che essere diversificata. Con la precisazione, che sin d’ora si rende opportuna, che – come ricordato dalla sentenza n. 9140 del 2016 – rimane soltanto residuale la possibilità di avvalersi della tutela consumeristica somministrata dall’art. 36 del d.lgs. n. 206 del 2005 (in ragione del “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” presidiato da una nullità di protezione), giacché riservata alle persone fisiche che concludono un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata (tra le molte, Cass., 23 settembre 2013, n. 21763; Cass., 12 marzo 2014, n. 5705), ossia ai settori cui, in modo quasi assorbente, il mercato assicurativo “claims made” è rivolto. 19.4. – Sicché, ove venga in rilievo l’assicurazione della responsabilità civile sanitaria e dei professionisti, la legge (speciale) – come si è evidenziato nel precedente § 10 – ne detta ora, in regime di obbligatorietà, le coordinate di base, inderogabili in pejus, individuando in esse non solo il substrato del modello negoziale “meritevole”, ma, con ciò, la stessa “idoneità” del prodotto assicurativo a salvaguardare gli interessi che entrano nel contratto, ai quali non è estraneo quello, di natura superindividuale, di una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito, che sarebbe frustrata ove il terzo danneggiato non potesse essere risarcito del pregiudizio patito a motivo dell’incapienza patrimoniale del danneggiante, siccome, quest’ultimo, privo di “idonea” assicurazione. In tal prospettiva, la disciplina legislativa si colloca ancora sul piano astratto della standardizzazione del contenuto contrattuale che salvaguardia la garanzia minima per evitare i c.d. “buchi di copertura”, là dove, però, come del resto impone lo stesso codice delle assicurazioni – tramite l’art. 183, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005, che è norma comunque ricognitiva di un obbligo già inscritto nel principio più generale della condotta improntata a buona fede e correttezza -, il prodotto assicurativo offerto deve comunque adeguarsi alle esigenze dell’assicurato. Sicché rimane intatta, per l’appunto, l’indagine sulla causa concreta del contratto, che spazia dalla verifica di sussistenza stessa – (ossia della adeguatezza rispetto agli interessi coinvolti) a quella di liceità (intesa come lesione di interessi delle parti tutelati dall’ordinamento). 19.5. – In quest’ottica, l’analisi dell’assetto sinallagmatico del contratto assicurativo rappresenta un veicolo utile per apprezzare se, effettivamente, ne sia realizzata la funzione pratica, quale assicurazione adeguata allo scopo (tale da superare le criticità innanzi ricordate: § 17), là dove l’emersione di un disequilibrio palese di detto assetto si presta ad essere interpretato come sintomo di carenza della causa in concreto dell’operazione economica. Ciò in quanto, come già affermato da questa Corte, la determinazione del premio di polizza assume valore determinante ai fini dell’individuazione del tipo e del limite del rischio assicurato, onde possa reputarsi in concreto rispettato l’equilibrio sinallagmatico tra le reciproche prestazioni (Cass., 30 aprile 2010, n. 10596; ma, in forza di analoga prospettiva, anche Cass., S.U., 28 febbraio 2007, n. 4631). Non è, dunque, questione di garantire, e sindacare perciò, l’equilibrio economico delle prestazioni, che è profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale, ma occorre indagare, con la lente del principio di buona fede contrattuale, se lo scopo pratico del regolamento negoziale “on claims made basis” presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, giacché, nel contratto di assicurazioni contro i danni, la corrispettività si fonda in base ad una relazione oggettiva e coerente con il rischio assicurato, attraverso criteri di calcolo attuariale. Del resto, una significativa chiave interpretativa in tal senso è fornita dal considerando n. 19 della direttiva 93/13/CEE, che, sebbene abbia riguardo specificamente alla tutela del consumatore, esprime, tuttavia, un principio di carattere più generale, che trae linfa proprio dall’anzidetta relazione oggettiva rischio/premio, sterilizzando la valutazione di abusività della clausola di delimitazione del rischio assicurativo e dell’impegno dell’assicuratore “qualora i limiti in questione siano presi in considerazione nel calcolo del premio pagato dal consumatore”. 19.6. – Il regolamento contrattuale dovrà, quindi, modularsi, nell’assicurazione della responsabilità professionale, anzitutto in ragione della disciplina legale di base, che esprime un carattere imperativo, per essere non solo inderogabile in pejus, ma posta a tutela di interessi anche di natura pubblicistica, ossia la tutela del terzo danneggiato, che disvela il valore sociale dell’assicurazione. Ne deriva che lo iato tra il primo e la seconda [per aver la stipulazione ignorato e/o violato quanto dalla legge disposto, come esito al quale può approdarsi alla luce, soprattutto (ma non solo), dell’indagine sull’equilibrio sinallagmatico anzidetto] comporterà la nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1418 c.c. A tanto il giudice potrà porre rimedio, per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (Cass., S.U., n. 9140 del 2016, citata), in forza della norma di cui al secondo comma dell’art. 1419 c.c., così da integrare lo statuto negoziale (non già tramite il modello della c.d. loss occurence di cui all’art. 1917, primo comma, c.c., bensì) attingendo quanto necessario per ripristinare in modo coerente l’equilibrio dell’assetto vulnerato dalle indicazioni reperibili dalla stessa regolamentazione legislativa. Regolamentazione che, per la sua imperatività, viene a somministrare delle “regole di struttura”, siccome orientate a rendere il contratto idoneo allo scopo, tenuto conto anzitutto delle esigenze dell’assicurato, oltre che delle ricordate istanze sociali. Con la precisazione che la stessa legge di settore presenta, come si è visto, multiformi calibrature, modellando l’assicurazione “claims made” secondo varianti peculiari (ad es., la deeming clause e/o la sunset clause) anche tra loro interagenti, così da mostrare una significativa elasticità di adattamento rispetto alla concretezza degli interessi da soddisfare. 19.7. – Nondimeno, l’obbligo di adeguatezza del contratto assicurativo, come detto (con il richiamo alla citata Cass. n. 8412 del 2015) già presente nell’ordinamento in forza del principio di buona fede e correttezza (artt. 1375 c.c. e 2 Cost.) prima ancora che fosse esplicitato dalla legislazione speciale (il citato art. 183, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005), consente, fin dove reso possibile dall’operare coerente del meccanismo della nullità parziale ex art. 1419, secondo comma, c.c., l’osmosi dei rimedi innanzi illustrati anche nel contesto di rapporti assicurativi sorti prima dell’affermarsi del regime di obbligatorietà dell’assicurazione della responsabilità civile professionale. 19.8. – Del pari, la giuridica esigenza che il contratto assicurativo sia adeguato allo scopo pratico perseguito dai paciscenti (secondo quanto messo in risalto nei §§ che precedono) sarà criterio guida nell’interpretazione della stipulazione intercorsa al fine di garantire l’assicurato dalla responsabilità civile anche in settori diversi da quello sanitario o professionale e, segnatamente, in quelli che postulano l’esigenza di una copertura dai rischi per danni da eziologia incerta e/o caratterizzati da una lungolatenza. 20. – Quanto, infine, alla fase dinamica del rapporto assicurativo “on claims made basis”, si colloca su un piano di assoluta criticità – come del resto fatto palese, in guisa di ricognizione della prassi esistente, dalla normativa di settore innanzi richiamata (§ 10) – la clausola che attribuisce all’assicuratore la facoltà di recesso dal contratto al verificarsi del sinistro compreso nei rischi assicurati, la cui abusività si rivela tale in ragione della frustrazione dell’alea del contratto, che si viene a parametrare sul termine ultimo di durata della copertura assicurativa, rispetto alla quale i premi stessi sono calcolati e corrisposti. Di qui, il vulnus destrutturante la funzionalità del contratto, non emendabile con la liberazione dell’assicurato dal versamento della parte dei premi residui. 21. – Può, dunque, enunciarsi il seguente principio di diritto: «Il modello dell’assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, che è volto ad indennizzare il rischio dell’impoverimento del patrimonio dell’assicurato pur sempre a seguito di un sinistro, inteso come accadimento materiale, è partecipe del tipo dell’assicurazione contro i danni, quale deroga consentita al primo comma dell’art. 1917 c.c., non incidendo sulla funzione assicurativa il meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all’assicuratore. Ne consegue che, rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c.
Il 2 ottobre esce l’ordinanza n. 23927 della Cassazione civile, che rimette alle Sezioni Unite l’analisi della questione di diritto, prospettata, relativa alla legittimazione dell’attore in nullità relativa ad esercitare un potere di selezione degli effetti della nullità stessa (c.d. nullità “selettiva”), con riferimento ai diversi atti di acquisto di strumenti finanziari dipendenti dal medesimo contratto-quadro affetto dal vizio di forma, ed all’ipotizzabile contrasto di tale condotta processuale con il divieto di abuso del diritto. La questione viene problematicamente spiegata nella parte motiva dell’ordinanza di rimessione nel senso che segue: “Va rilevato che, con il secondo motivo di ricorso – che riveste carattere preliminare rispetto agli altri – Franco Rovinetti si duole del fatto che la Corte d’appello – muovendo dall’erroneo presupposto secondo cui la nullità del contratto quadro, una volta eccepita dall’investitore, l’unico legittimato a farla valere, ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, «si ripercuote su tutte le operazioni eseguite in base all’atto negoziale viziato» – abbia ritenuto di accogliere la domanda riconvenzionale dell’istituto di credito, volta ad ottenere, per effetto della caducazione di tutte le operazioni poste in essere in esecuzione del rapporto dichiarato nullo, la restituzione, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., di tutti i titoli compravenduti ancora in disponibilità dell’investitore, nonché la compensazione tra il credito del Rovinetti, per la restituzione delle somme indebitamente pagate, e quello della banca relativo agli «utili, dividendi e cedole e ogni altra utilità […] derivante da tutte le operazioni effettuate per il tramite della banca». Per contro, ad avviso dell’esponente, l’investitore – ai sensi degli artt. 99 e 100 cod. proc. civ. – ben potrebbe selezionare il rilievo della nullità, limitandolo ai soli contratti (di acquisto di prodotti finanziari) attuativi del contratto quadro nullo per difetto di forma, dai quali si sia ritenuto illegittimamente pregiudicato, lasciando gli altri fuori del giudizio. La banca – ad avviso del ricorrente – non sarebbe, pertanto, legittimata – attraverso la domanda riconvenzionale proposta – a richiedere che venissero considerate travolte, dall’eccezione di nullità di due sole operazioni di investimento, tutte le altre poste in essere nel corso del rapporto di intermediazione finanziaria dichiarato nullo. 2. Tanto premesso, va osservato che la questione oggetto di censura nel presente giudizio – concernente l’eccezione di nullità limitata ad alcuni ordini di acquisto, cd. nullità selettiva – ha costituito oggetto di alcune decisioni della prima sezione civile di questa Corte. 2.1. Una prima pronuncia – muovendo dal rilievo secondo cui nel contratto di intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall’investitore non soddisfa l’obbligo della forma scritta «ad substantiam», imposto, a pena di nullità, dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, questa Corte, occorrendo la sottoscrizione di entrambi i contraenti – è pervenuta alla conclusione che, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall’investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto, a mezzo dei quali è stata data esecuzione al contratto viziato (Cass., 27/04/2016, n. 8395). 2.2. Successive pronunce, hanno, peraltro, rilevato che «L’esigenza di scongiurare uno sfruttamento “opportunistico” della normativa di tutela dell’investitore potrebbe portare la Corte, come suggerito da parte della dottrina, ad affermare la possibilità per l’intermediario di opporre l’exceptio doli generalis in tutte quelle ipotesi in cui il cliente (evidentemente in mala fede) proponga una domanda di nullità “selettiva”, cosicchè l’eccezione di dolo, concepito quale strumento volto ad ottenere la disapplicazione delle norme positive nei casi in cui la rigorosa applicazione delle stesse risulterebbe – in ragione di una condotta abusiva – sostanzialmente iniqua, potrebbe in effetti rivelarsi un’utile arma di difesa contro il ricorso pretestuoso all’art. 23 menzionato». Siffatta opzione interpretativa si porrebbe, tuttavia, in palese contrasto con la soluzione – più garantistica per l’investitore, legittimato ad eccepire la nullità anche limitatamente a taluni ordini di acquisto – prescelta dalla decisione suindicata, laddove si ravvisasse, invece, nella condotta dell’investitore medesimo – che eccepisca la nullità solo di alcune operazioni, conseguente alla nullità del contratto quadro – un abuso del diritto, finalizzato a trasferire opportunisticamente sull’intermediario l’esito negativo di uno o più investimenti. In ogni caso, nella ipotizzabile violazione, da parte del cliente che operi secondo le modalità sopra descritte, degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., oltre che dell’art. 23 del d.lgs n. 58 del 1998, con la conseguente, eventuale, rilevanza attribuibile all’exceptio doli sollevata dall’intermediario per paralizzare tale uso «selettivo» della nullità del contratto quadro, è stata ravvisata – dalle pronunce in esame – la necessaria soluzione di una questione di massima di particolare importanza. La causa è stata rimessa, quindi, all’esame del Primo Presidente della Corte di Cassazione per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, ai sensi dell’art. 374 , secondo comma, ultima parte, cod. proc. civ., ai fini della risoluzione della questione, a monte, concernente l’eventuale nullità del contratto quadro recante la firma del solo investitore, nonché della ulteriore questione, a valle, attinente alla contrarietà a buona fede della cd. nullità selettiva (cfr. Cass., 17/05/2017, nn. 12388;12389 e 12390). 3. Le Sezioni Unite hanno, con diverse pronunce, affrontato la prima di dette questioni, affermando che, laddove il contratto quadro sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed esso rechi la sottoscrizione di quest’ultimo e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti, va esclusa la nullità del contratto medesimo, ai sensi degli artt. 1350 cod. civ. e 23 del d.lgs. n. 58 del 1998. E’ rimasta, per contro, assorbita la seconda delle questioni suindicate – che pure aveva costituito oggetto di rimessione – concernente l’uso selettivo, da parte dell’investitore, della nullità del contratto quadro (cfr. Cass. Sez. U., 16/01/2018, n. 898; Cass. Sez. U., 18/01/2018, n. 1200). 4. La successiva giurisprudenza di questa sezione ha, poi, affermato che, in materia di intermediazione finanziaria, allorché le singole operazioni di investimento abbiano avuto esecuzione in mancanza di un valido contratto quadro, previsto dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, all’investitore che chiede la declaratoria di nullità solo per alcune di esse, non sono opponibili l’eccezione di dolo generale fondata sull’uso selettivo della nullità e, in ragione della protrazione nel tempo del rapporto, l’intervenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso. L’una e l’altra sono, per vero, prospettabili solo in relazione ad un contratto quadro formalmente esistente, e non anche quando questo sia affetto da nullità per difetto della forma prescritta. Per effetto della nullità del contratto di investimento, i cui effetti per i principi regolanti le nullità negoziali si estendono al negozio di acquisto effettuato dall’intermediario per dare esecuzione all’ordine ricevuto, l’intermediario e l’investitore hanno, pertanto, il diritto di ripetere l’uno nei confronti dell’altro le reciproche prestazioni. Sicché è legittimamente dichiarata la compensazione tra la somma che l’investitore abbia corrisposto all’intermediario ai fini dell’investimento e la somma che l’intermediario abbia riscosso per conto dell’investitore, ed abbia corrisposto al medesimo a titolo di frutti civili (Cass., 24/04/2018, n. 10116). Non è, invero, precluso all’intermediario, sebbene non abbia proposto la domanda di nullità anche degli ordini positivamente conclusi per il proprio cliente, di sollevare l’eccezione di compensazione con riguardo all’intero credito restitutorio che gli deriva, in tesi, dal complesso delle operazioni compiute nell’ambito del contratto quadro dichiarato nullo (Cass., 16/03/2018, n. 6664). 5. Orbene, la rilevanza e la delicatezza della questione oggetto del secondo motivo di ricorso (cd. nullità selettiva), nella quale temi specifici della contrattazione finanziaria incrociano profili più generali del diritto delle obbligazioni (regime delle nullità di protezione, sanabilità del negozio nullo, opponibilità delle eccezioni di correttezza e buona fede), e la difficile ricerca di un punto di equilibrio tra le opposte esigenze, di garanzia degli investimenti operati dai privati con i loro risparmi (art. 47 Cost.) e di tutela dell’intermediario, anche in relazione alla certezza dei mercati in materia di investimenti finanziari, inducono il Collegio a condividere pienamente le ragioni che avevano indotto questa stessa sezione a rimettere la questione al Primo Presidente per l’eventuale nuova assegnazione alle Sezioni Unite. 6. La causa va, pertanto, rimessa all’esame del Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione perchè valuti la sua eventuale assegnazione alle Sezioni Unite civili, in quanto essa presuppone la necessaria soluzione di una questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, ultima parte, c.p.c.”.
2019
L’8 marzo esce la sentenza n. 6882 della Corte di Cassazione, a SS.UU. civili, che si pronuncia sulla causa del patto traslativo degli oneri tributari in capo al conduttore, previsto dalle parti come clausola di un contratto di locazione ad uso commerciale. Il caso rimesso alle Sezioni Unite era il seguente: la Corte d’Appello di Firenze aveva respinto il gravame interposto dalla società S.S.C. – Società Sviluppo Commerciale s.r.l. in relazione alla pronunzia Trib. Prato n. 365/15, di rigetto della domanda di accertamento e declaratoria del vantato diritto alla restituzione degli importi versati alla società Meteore Italy s.r.l. giusta contratto in data 18/11/2003 di locazione ad uso ufficio – per la durata di anni 18- di complesso immobiliare sito in Calenzano, asseritamente non dovuti stante la dedotta nullità della clausola prevista ex contractu, nullità asseritamente discendente dall’essere la detta clausola in realtà volta «a riversare l’onere tributario relativo all’ICI e all’IMU gravanti sull’immobile locato, su un soggetto diverso da quello passivo tenuto per legge a subire il relativo sacrificio patrimoniale, e quindi in chiaro contrasto con il principio, costituzionalmente sancito, di concorso alla spesa pubblica in ragione della (e non oltre la ) propria capacità contributiva>>, nonché «con l’art. 89 della legge n. 392/78, che non indica in alcun modo, tra gli oneri accessori a carico del conduttore, ivi tassativamente elencati, anche le imposte patrimoniali relative ai beni locati». Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la società S.S.C. – Società Sviluppo Commerciale s.r.l. proponeva ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi illustrati da memoria, cui resisteva con controricorso la società Meteore Italy s.r.I., che ha presentato anche memoria. Con ordinanza interlocutoria n. 28437 del 2017 la Terza Sezione della Corte osservava che il giudice del gravame ha nell’impugnata sentenza ritenuto valida la (sopra riportata ) clausola di cui all’art. 7.2 del contratto di locazione ad uso diverso da abitazione in argomento, non prevedendo essa un obbligo diretto della conduttrice verso il fisco di pagamento delle imposte a vario titolo gravanti sull’immobile, bensì meramente che «si faccia carico, nei confronti della locatrice, dei relativi oneri», a tale stregua tale pattuizione non determinando nella specie una traslazione in capo alla conduttrice delle imposte gravanti sull’immobile a carico della proprietaria/locatrice, bensì la mera integrazione del canone di locazione dovuto. Ha segnalato tuttavia che la «dottrina, a sua volta, non è compatta in modo assoluto» in argomento, come la giurisprudenza, ed ha dunque rimesso la questione all’esame delle SS.UU. Sostiene la Cassazione a Sezioni Unite, che la Sezione rimettente ha posto in rilievo che la «questione … sulla validità di un accordo di traslazione degli oneri fiscali … estraneo al sinallagma del contratto in cui è inserito si impernia sul comprendere se vi sia una compressione all’ [rectius, dell’] autonomia negoziale che imponga agli interessi economici un limite giuridico»; si duole non essersi dalla corte di merito considerato che «anche secondo la richiamata giurisprudenza delle Sezioni Unite una clausola avente ad oggetto la traslazione palese di un’imposta è certamente nulla per violazione degli artt. 53 e 2 Cost., non solo se diretta a sottrarre un contraente al carico tributario, ma pure se la stessa sia preordinata non a integrare il prezzo della prestazione negoziale, ma ad affiancarsi al sinallagma già perfetto, avendo ad oggetto il tributo in quanto tale (e non una somma di pari importo)». Al riguardo, si pone in particolare l’esigenza di chiarire, «tenendo ben in conto l’articolo 53 Cost. -la cui natura è stata da tempo riconosciuta come imperativa, e quindi come direttamente precettíva-», se, «a parte le ipotesi in cui vi siano espressi divieti di traslazione da parte di specifiche norme tributarie», sulla «individuazione del soggetto passivo dell’imposta possa incidere l’autonomia negoziale privata, neutralizzando così gli effetti della capacità contributiva». Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite di questa Corte hanno diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta <<è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito>>. Ipotesi che si verifica «nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, né recuperato dal sostituto medesimo, sicché effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente». Non anche, nell’ipotesi in cui «l’imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l’obbligazione di cui si stipula l’accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, né mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente», ma «riguarda … una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il “prezzo” della prestazione negoziale». Orbene, il Collegio ritiene che le doglianze mosse la ricorrente avverso l’impugnata sentenza non siano idonee a revocare in dubbio la correttezza della soluzione raggiunta nel 1985, e non inducano a dover rimeditare un orientamento interpretativo che al contrario merita di essere ulteriormente confermato. La clausola contrattuale di cui all’art. 7.2 in argomento è stata nell’impugnata sentenza intesa come prevedente un’ulteriore voce o componente (la somma corrispondente a quella degli assolti oneri tributari ) costituente integrazione del canone locativo, concorrendo a determinarne l’ammontare complessivo a tale titolo dovuto dalla conduttrice. Orbene, tale clausola risulta dalla corte di merito nell’impugnata sentenza correttamente interpretata, alla stregua dei principi posti a fondamento del suindicato consolidato orientamento. Orbene, correttamente la corte di merito ha nell’impugnata sentenza interpretato la clausola contrattuale in argomento alla luce della ragione pratica dell’accordo e del contratto, in coerenza con gli interessi che le parti hanno cioè nel caso specificamente inteso tutelare mediante lo stipulato contratto (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701 ), convenzionalmente determinando la regola volta a disciplinare il loro rapporto negoziale (art. 1372 c.c. ).
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Il 13 novembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 29365 onde il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis” è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ex art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge.
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Il 28 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 31188 che, richiamando la storica sentenza delle S.U. n. 4629 del 2015, ricorda che le contrattazioni per la compravendita di un immobile si snodano in diverse fasi.
Nella prima fase, l’esigenza delle parti è di vincolare l’operazione economica condivisa negli elementi essenziali, rinviando ad un successivo momento la verifica della praticabilità dell’operazione, attraverso la conoscenza più approfondita delle qualità personali del contraente, della regolarità urbanistica e di altri aspetti meritevoli di approfondimento. Può però accadere che, già nella prima fase, si possano ravvisare gli elementi necessari per configurare un vincolo contrattuale e l’ulteriore attività contrattuale possa rimanere irrilevante, perché le parti hanno già raggiunto un’intesa.
Ciò accade quando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare, sicchè si pone l’esigenza di tutelare le parti che, pur avendo la volontà di vincolarsi, vogliano soltanto approfondire alcuni aspetti della regolamentazione dei loro interessi attraverso puntuazioni vincolanti sui profili in ordine ai quali l’accordo è irrevocabilmente raggiunto. Non si tratta, pertanto, affermare la validità del preliminare del preliminare in via generalizzata, bensì avuto preciso riguardo alla causa concreta dell’operazione negoziale ove reputata meritevole dal giudice nel caso concreto. In altri termini, il “preliminare aperto” è valido soltanto se emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.
L’indicazione di valide ragioni atte a giustificare l’accordo procedimentale si riverbera, come sottolinea la Corte, anche in ordine al regime di responsabilità in caso di violazione del preliminare del preliminare: infatti, il rifiuto di proseguire nel procedimento di formazione del contratto può legittimarsi soltanto dinanzi a una ragione conforme a buona fede. Ove ciò non sia, al contrario, la violazione del “preliminare aperto” darà luogo a una responsabilità contrattuale — poiché si tratta, in ogni caso, di accordi negoziali — la quale determinerà un risarcimento dell’interesse negativo, simile a quello risarcibile nel caso di responsabilità da rottura ingiustificata delle trattative.
Non ci si deve fermare, pertanto, all’alternativa “preliminare o definitivo”, perché far ciò significa amputare le forme dell’autonomia privata, sia quando si vuole rintracciare ad ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando si ravvisa nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di riproduzione notarile.
Spetterà all’interprete vagliare caso per caso l’emergere dell’interesse delle parti e verificare, soprattutto nelle contrattazioni immobiliari se la proposta irrevocabile contenga gli elementi del contratto preliminare o se costituisca una mera puntazione delle trattative, perché le parti hanno omesso di verificare – e lo faranno solo in sede di preliminare – alcuni elementi essenziali del negozio.
2020
Il 20 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 4451 sul tema della risolubilità della transazione per eccessiva onerosità sopravvenuta, tema che, pur godendo di una sua classicità presso la dottrina, ha avuto poche occasioni di emersione in giurisprudenza.
La legge stabilisce l’irrescindibilità della transazione per causa di lesione (art. 1970 c.c.) e l’irresolubilità per inadempimento della transazione novativa (art. 1976 c.c.), ma non anche l’irresolubilità della transazione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Una linea dottrinale esclude la risolubilità della transazione per eccessiva onerosità sopravvenuta poiché qualifica la transazione come contratto aleatorio, sì da riportarla alla generale irresolubilità per eccessiva onerosità sopravvenuta dei contratti aleatori (art. 1469 c.c.).
Seppur autorevole, questa posizione è isolata in letteratura, e negletta dalla giurisprudenza di legittimità. Per la sua natura commutativa, e non aleatoria, la transazione è considerata soggetta al principio generale di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’irresolubilità della transazione novativa per inadempimento, sancita dall’art. 1976 c.c., quale eccezione al principio generale di risolubilità dei contratti a prestazioni corrispettive per alterazione del sinallagma funzionale, è ritenuta inestensibile all’eccessiva onerosità, oltre che all’impossibilità sopravvenuta e alla presupposizione. La commutatività della transazione può dirsi ormai acquisita, sorretta dalla “reciprocità delle concessioni” che l’art. 1965 c.c. indica a fondamento causale del negozio compositivo, sicché, se ancora si dibatte, come per la revocatoria fallimentare da notevole sproporzione, non si dibatte più sull’aleatorietà o la commutatività della transazione, ma unicamente sui parametri oggettivi del giudizio commutativo.
In base alla natura commutativa del rapporto tra aliquid datum e aliquid retentum, considerata inoltre la valenza sistematica della risoluzione per alterazione funzionale del sinallagma, viene enunciato il seguente principio di diritto: «la transazione ad esecuzione differita è suscettibile di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in base al principio generale emergente dall’art. 1467 c.c., in quanto l’irresolubilità della transazione novativa stabilita in via eccezionale dall’art. 1976 c.c. è limitata alla risoluzione per inadempimento, e l’irrescindibilità della transazione per causa di lesione, sancita dall’art. 1970 c.c., esaurisce la sua ratio sul piano del sinallagma genetico».
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Il 6 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6459 sulla forma del patto fiduciario con oggetto immobiliare. Premesso che il patto fiduciario dà luogo ad un assetto di rapporti sul piano obbligatorio in forza del quale il fiduciario è tenuto verso il fiduciante a tenere una certa condotta nell’esercizio del diritto fiduciariamente acquistato, ivi compreso il ritrasferimento del diritto al fiduciante o a un terzo da lui designato, l’interrogativo sollevato dall’ordinanza interlocutoria è se possa ritenersi rispettato il requisito della forma scritta del patto fiduciario coinvolgente diritti reali immobiliari da una dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario che risulti espressione della causa fiduciaria esistente in concreto, pur se espressa verbalmente tra fiduciante e fiduciario; più in particolare, se valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire sia soltanto un atto bilaterale e scritto, coevo all’acquisto del fiduciario, o se sia sufficiente un atto unilaterale, ricognitivo, posteriore e scritto del fiduciario, a monte del quale vi sia un impegno espresso oralmente dalle parti.
Il fenomeno fiduciario consiste in una operazione negoziale che consente ad una parte (il fiduciante) di far amministrare o gestire per finalità particolari un bene da parte di un’altra (il fiduciario), trasferendo direttamente al fiduciario la proprietà del bene o fornendogli i mezzi per l’acquisto in nome proprio da un terzo, con il vincolo che il fiduciario rispetti un complesso di obblighi volti a soddisfare le esigenze del fiduciante e ritrasferisca il bene al fiduciante o a un terzo da lui designato. Attraverso il negozio fiduciario la proprietà del bene viene trasferita da un soggetto a un altro con l’intesa che il secondo, dopo essersene servito per un determinato scopo, lo ritrasferisca al fiduciante, oppure il bene viene acquistato dal fiduciario con denaro fornito dal fiduciante, al quale, secondo l’accordo, il bene stesso dovrà essere, in un tempo successivo, ritrasferito.
Il negozio fiduciario si presenta non come una fattispecie, ma come una casistica: all’unicità del nome corrispondono operazioni diverse per struttura, per funzione e per pratici effetti. Innanzitutto perché l’investitura del fiduciario nella titolarità del diritto può realizzarsi secondo distinti moduli procedimentali: le parti possono dare origine alla situazione di titolarità fiduciaria sia attraverso un atto di alienazione dal fiduciante al fiduciario, sia mediante un acquisto compiuto dal fiduciario in nome proprio da un terzo con denaro fornito dal fiduciante. In secondo luogo perché l’effetto traslativo non è essenziale per la configurabilità di un accordo fiduciario. Accanto alla fiducia dinamica, caratterizzata dall’effetto traslativo strumentale, un modo di costituzione della titolarità fiduciaria è rappresentato dalla fiducia statica, che si ha quando manca del tutto un atto di trasferimento, perché il soggetto è già investito ad altro titolo di un determinato diritto, e il relativo titolare, che sino a un dato momento esercitava il diritto nel proprio esclusivo interesse, si impegna a esercitare le proprie prerogative nell’interesse altrui, in conformità a quanto previsto dal pactum fiduciae.
Nello schema del negozio fiduciario rientra, oltre quello di tipo traslativo, anche la fiducia statica, i cui estremi sono appunto rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo disegno del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta.
In terzo luogo perché il negozio fiduciario risponde ad una molteplicità di funzioni, di pratici intenti, essendo diversi i tipi di interessi che possono sorreggere l’operazione. Nella fiducia cum amico la creazione della titolarità è funzionale alla realizzazione di una detenzione e gestione del bene nell’interesse del fiduciante ed in vista di un successivo ulteriore trasferimento della titolarità, allo stesso fiduciante o a un terzo. Nella fiducia cum creditore, invece, il contratto fiduciario intercorre tra debitore e creditore: l’interesse del fiduciante è trasferire la proprietà di un suo bene al fiduciario, suo creditore, a garanzia del diritto di credito, con l’impegno del fiduciario a ritrasferire il bene al fiduciante, se questi adempie regolarmente al proprio debito.
Questa seconda tipologia – la fiducia cum creditore – esige una attenta valutazione nel caso concreto, onde accertare che non integri un contratto in frode alla legge e precisamente in violazione del divieto di patto commissorio.
La dottrina ha a lungo dibattuto alla ricerca di una sistemazione appagante del fenomeno fiduciario sotto il profilo del suo fondamento causale. Vi è chi, riducendo il negozio fiduciario ad un tipo negoziale, seppure innominato, lo costruisce come un contratto unitario, avente una propria causa interna, la causa fiduciae, consistente in un trasferimento di proprietà, da un lato, e nell’assunzione di un obbligo, dall’altro. In questa prospettiva, l’effetto obbligatorio non costituisce un limite dell’effetto reale, ma si trova con esso in un rapporto di interdipendenza, non già nel senso di corrispettività economica, ma nel senso che l’attribuzione patrimoniale è il mezzo per rendere possibile al fiduciario quel suo comportamento in ordine al diritto trasferitogli: l’effetto obbligatorio rappresenta dunque la causa giustificatrice dell’effetto reale.
Da parte di altri si ritiene che nell’operazione de qua siano destinati a venire in rilievo singoli negozi tipici, con causa diversa da quella fiduciae, relativamente ai quali la fiducia non opera o non è in grado di operare sul terreno della causa in senso oggettivo, ma su quello dei motivi o su quello delle determinazioni accessorie di volontà.
Altri ancora – dopo avere qualificato il contratto fiduciario come il negozio mediante il quale si persegue uno scopo diverso dalla causa del contratto prescelto, avendo il pactum fiduciae la funzione di piegare il contratto prescelto alla realizzazione dello scopo perseguito, ritengono impossibile ricondurre il fenomeno pratico ad una unitaria categoria giuridica e considerano il contratto traslativo e il patto fiduciario come contratti separati, tra loro collegati, nei quali la causa fiduciae esprime il collegamento fra i due contratti. Tale orientamento costruisce il fenomeno in forma pluralistica, vedendovi un collegamento funzionale tra trasferimenti e obblighi, in attuazione del programma fiduciario: di talché l’interno vincolo obbligatorio (con il quale il fiduciario si obbliga, nel rispetto della fiducia, al compimento del negozio che ne costituisce adempimento), non autonomamente isolabile, interagisce con l’effetto reale esterno.
Anche in giurisprudenza non mancano prese di posizione sulla natura giuridica del negozio fiduciario. Così, alcune pronunce vedono nel contratto fiduciario un caso di negozio indiretto: un negozio, cioè, con cui le parti perseguono risultati diversi da quelli tipicamente propri del negozio impiegato, e corrispondenti a quelli di un negozio diverso. Il negozio fiduciario – si afferma – rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso.
L’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae.
Altre volte si opta per un inquadramento in termini di pluralità di negozi connessi da una comune congruenza funzionale ovvero da un’unica finalità economica: nel rapporto fiduciario si ha il concorso di due negozi, l’uno di disposizione e l’altro che è anche causa del primo, di obbligazione, i quali sono distinti, pur se collegati, e non fusi unitariamente; il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, parimenti voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o al terzo.
Una terza impostazione si distacca dalle ricostruzioni che descrivono il negozio fiduciario come articolato in due negozi (uno esterno e con effetti reali, l’altro interno e obbligatorio), per sostenere che qualora tra due parti intercorra un accordo fiduciario, esso comprende l’intera operazione e la connota di una causa unitaria, quella di realizzare il programma fiduciario, mentre per la sua realizzazione possono essere posti in essere diversi negozi giuridici, che a seconda dei casi e degli obiettivi che con l’accordo fiduciario ci si propone di realizzare possono essere diversi sia nel numero che nella tipologia.
Poste tali premesse, la Corte passa in rassegna gli indirizzi giurisprudenziali che si sono manifestati sulla questione oggetto di scrutinio.
Quando l’impegno all’ulteriore trasferimento ad opera del fiduciario riguardi un bene immobile, l’orientamento dominante condiziona la rilevanza del patto fiduciario alla circostanza che i soggetti abbiano consegnato in un atto scritto il pactum. Tale indirizzo, infatti, assimila, quoad effectum, il patto fiduciario, sotto il profilo dell’assunzione dell’obbligo a ritrasferire da parte del fiduciario, al contratto preliminare, con la conseguente necessità di osservare la forma vincolata per relationem prevista dall’art. 1351 cod. civ. In base a tale orientamento, il negozio fiduciario, nel quale sia previsto l’obbligo di una parte di modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da quest’ultimo designato, richiede la forma scritta ad substantiam qualora riguardi beni immobili, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare – per il quale l’art. 1351 cod. civ. prescrive la stessa forma del contratto definitivo – in relazione all’obbligo assunto dal fiduciario di emettere la dichiarazione di volontà diretta alla conclusione del contratto voluto dal fiduciante.
In questa prospettiva, la valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire del fiduciario può essere solo un atto negoziale avente struttura bilaterale e dispositiva. Onere del fiduciante è quello di dimostrare l’esistenza dell’accordo scritto fiduciario, che ha preceduto o accompagnato la stipula del contratto di acquisto, con l’assunzione, da parte del fiduciario, dell’obbligo di retrocessione del bene immobile. La dichiarazione unilaterale del fiduciario non è ritenuta sufficiente allo scopo, giacché una ricognizione ex post di un atto solenne ab origine perfezionato informalmente non vale a supplire al difetto della forma richiesta dalla legge ai fini della validità dell’atto: ai fini del trasferimento della proprietà immobiliare (e relativi preliminari), il requisito della forma scritta prevista ad substantiam non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria dell’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quando anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo; pertanto, il requisito di forma può ritenersi soddisfatto solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove storiche, non consentite dall’art. 2725 cod. civ..
Nel ribadire la necessità dell’atto bilaterale scritto, talvolta la giurisprudenza ne mitiga le conseguenze applicando il principio secondo cui la produzione in giudizio di una scrittura, contro la parte dalla quale proviene, equivale a perfezionamento dell’accordo bilaterale. E’ ben vero che l’unilateralità della dichiarazione resa dal fiduciario contrasta con la necessaria bilateralità del negozio fiduciario, ma, poiché ad avvalersene in giudizio è il contraente del quale manca la sottoscrizione, trova applicazione il consolidato principio per cui quando la parte che non abbia sottoscritto l’atto a forma vincolata la produca in giudizio, invocandone a proprio favore gli effetti e così dando la propria adesione, se l’altra parte non abbia nel frattempo revocato il consenso prima manifestato, il requisito della necessaria consensualità deve ritenersi validamente esistente.
Un indirizzo minoritario ritiene invece che l’accordo fiduciario non necessiti indefettibilmente della forma scritta a fini di validità, ben potendo la prescrizione di forma venire soddisfatta dalla dichiarazione unilaterale redatta per iscritto e sottoscritta con cui il fiduciario si impegni a trasferire determinati beni al fiduciante, in attuazione esplicita (ossia con expressio causae) del medesimo pactum fiduciae.
Secondo questo orientamento, a monte della dichiarazione unilaterale con cui il soggetto, riconoscendo il carattere fiduciario dell’intestazione, promette il trasferimento del bene al fiduciante, può stare anche un impegno orale delle parti, e la dichiarazione unilaterale, in quanto volta ad attuare il pactum preesistente, ha una propria “dignità”, che la rende idonea a costituire autonoma fonte dell’obbligazione del promittente, purché contenga la chiara enunciazione dell’impegno e del contenuto della prestazione.
Il nuovo indirizzo muove dalla constatazione della prassi, nella quale non è infrequente che l’accordo fiduciario non sia scritto, ma che il soggetto in quel momento beneficiario della intestazione si impegni unilateralmente a modificare in un futuro la situazione secondo gli accordi presi con l’altro soggetto; e dalla considerazione che una dichiarazione unilaterale non costituisce necessariamente ed esclusivamente una semplice promessa di pagamento, di valore meramente ricognitivo rispetto ad un impegno ad essa esterno.
Più precisamente, anche un impegno che nasce come unilaterale ha una propria dignità atta a costituire fonte di obbligazioni in quanto è volto ad attuare l’accordo fiduciario preesistente: la fiducia è la causa dell’intera operazione economica posta in essere, che si articola in diversi negozi giuridici e che colora di liceità e di meritevolezza l’impegno di ritrasferimento assunto dal fiduciario con la sottoscrizione del suo impegno unilaterale. La pronuncia che ha innovato l’orientamento tradizionale richiama, intravedendovi profili di affinità, la svolta di giurisprudenza realizzatasi in relazione al mandato senza rappresentanza all’acquisto di beni immobili, per il quale la Cassazione ha escluso la necessità della forma scritta e ha affermato che si può fare ricorso al rimedio dell’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto nei casi in cui ci sia una dichiarazione unilaterale scritta del mandatario, anche successiva all’acquisto, che contenga un preciso impegno e una sufficiente indicazione degli immobili da trasferire.
Nel complessivo panorama giurisprudenziale non possono essere tralasciate altri due indirizzi.
Dal primo si ricava il principio secondo cui deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma non anche quest’ultimo.
Il secondo si preoccupa di dare indicazioni sulla forma, nei seguenti termini: la fattispecie del negozio fiduciario si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà della forma.
L’indirizzo dominante, nel richiedere la forma scritta ad validitatem del patto fiduciario con oggetto immobiliare, muove da un’equiparazione del patto al contratto preliminare: sia per la somiglianza strutturale (obbligatorietà del futuro contrahere) tra l’uno e l’altro negozio, sia per la similitudine effettuale, che si risolverebbe nell’eadem ratio del requisito di forma imposto dall’art. 1351 cod. civ. In sostanza, si riconosce l’esistenza di un collegamento tra l’art. 1351 e l’art. 2392 cod. civ., nel senso che, riferendosi l’art. 2392 cod. civ. a tutti i contratti produttivi di un obbligo a contrarre, anche l’art. 1351 cod. civ. dovrebbe estendersi a tutti i contratti che obblighino i contraenti a stipulare un ulteriore negozio formale, con la conseguenza che la norma non riguarderebbe soltanto il contratto preliminare, ma ogni negozio fonte di successivi obblighi a contrarre, e tra questi il patto fiduciario.
La Corte, tuttavia, ritiene di non condividere tale orientamento.
Nel rapporto che si realizza per mezzo di un acquisto compiuto dal fiduciario, per conto del fiduciante, direttamente da un terzo, il pactum fiduciae è assimilabile, ad avviso del Collegio, al mandato senza rappresentanza, non al contratto preliminare.
In questo senso convergono le indicazioni della giurisprudenza e le analisi della dottrina. Quando pone l’accento sulla struttura e sulla funzione del pactum fiduciae, la giurisprudenza non esita a ricondurre al mandato senza rappresentanza (in particolare, ai rapporti interni tra mandante e mandatario) il patto di ritrasferire al fiduciante il diritto acquistato dal fiduciario. L’eventualità che la fiducia si estrinsechi attraverso il patto di ritrasferire al fiduciante il diritto acquisito dal fiduciario e che, quindi, venga ad atteggiarsi come un mandato senza rappresentanza è da ritenere perfettamente conforme alla potenziale estensione ed articolabilità del patto relativo: il mandato senza rappresentanza, infatti, costituendo lo strumento tipico dell’agire per conto (ma non nel nome) altrui, non solo può piegarsi alle esigenze di un pactum fiduciae che contempli l’obbligo del fiduciario di ritrasferire al fiduciante un diritto, ma si pone anzi come la figura negoziale praticamente meglio idonea ad assorbire, senza residui e senza necessità di ulteriori combinazioni, quel determinato intento.
La dottrina, dal canto suo, evidenzia come mandato (in nome proprio) e negozio fiduciario si presentino entrambi come espressioni della interposizione reale di persona: in particolare, con specifico riguardo all’ipotesi, che qui viene in rilievo, del soggetto che abbia acquistato un bene utilizzando la provvista di altri e per seguire le istruzioni ricevute, essa perviene alla conclusione che tale posizione può essere qualificata come mandato o come fiducia, ma che le norme applicabili sono comunque le stesse.
Sul versante del rapporto tra preliminare e patto fiduciario – al di là della affinità legata al fatto che anche nel pactum fiduciae, come nell’obbligo nascente dal contratto preliminare, è ravvisabile un momento iniziale con funzione strumentale rispetto ad un momento finale – la riflessione in sede scientifica mette in luce la diversità degli assetti d’interessi perseguiti dall’una e dall’altra figura. Nel preliminare, infatti, l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede; nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante.
Inoltre, l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706, secondo comma, cod. civ.) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perché l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina. Le differenze esistenti tra il contratto preliminare e il pactum fiduciae escludono, dunque, la possibilità di equiparare le due figure ai fini di un eguale trattamento del regime formale.
Quanto, poi, al collegamento tra la natura immobiliare del bene acquistato dal fiduciario e l’esecuzione specifica dell’obbligo di trasferimento rimasto inadempiuto, si è chiarito che il rimedio dell’esecuzione in forma specifica non è legato alla forma del negozio da cui deriva l’obbligo di contrattare, potendo l’art. 2932 cod. civ. trovare applicazione anche là dove l’obbligo di concludere un contratto riguardi cose mobili e si trovi pertanto contenuto in un contratto non formale, perché volto, appunto, al trasferimento di beni mobili.
La riconduzione allo schema del mandato senza rappresentanza del pactum fiduciae che s’innesta sull’intestazione in capo al fiduciario di un bene da questo acquistato utilizzando la provvista fornita dal fiduciante, orienta la soluzione del problema della forma dell’impegno dell’accordo fiduciario con oggetto immobiliare. Invero, al fine di stabilire se un contratto atipico sia o meno soggetto al vincolo di forma, occorre procedere – secondo l’insegnamento di autorevole dottrina – con il metodo dell’analogia, ed accertare se il rapporto di somiglianza intercorra con un contratto tipico a struttura debole (tale essendo quello strutturato dal legislatore sui tre elementi dell’accordo, della causa e dell’oggetto, senza alcun requisito di forma) o con un contratto tipico a struttura forte (nel quale invece il requisito della forma concorre ad integrare la fattispecie), perché soltanto nel secondo caso anche per il negozio atipico è configurabile il requisito di forma.
Ora, il mandato senza rappresentanza che abbia per oggetto l’acquisto di beni immobili per conto del mandante e in nome del mandatario, è un contratto a struttura debole. Superando l’orientamento, che risaliva a una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1954, n. 3861), che, considerato l’esito reale mediato, garantito da un meccanismo legale munito di forte effettività, estendeva al mandato il vincolo di forma prescritto per il contratto traslativo immobiliare, la giurisprudenza di questa Corte ha infatti statuito che, in ossequio al principio di libertà della forma, il mandato senza rappresentanza per l’acquisto di beni immobili non necessita della forma scritta e che il rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferire al mandante l’immobile acquistato dal mandatario è esperibile anche quando il contratto di mandato senza rappresentanza sia privo di forma scritta.
A tale approdo la giurisprudenza di legittimità è pervenuta rilevando che: – tra il mandante e il mandatario senza rappresentanza trova applicazione il solo rapporto interno, laddove la necessità della forma scritta si impone per gli atti che costituiscono titolo per la realizzazione dell’effetto reale in capo alla parte del negozio; – le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, sottese all’imposizione della forma scritta quale requisito di validità del contratto traslativo del diritto reale sul bene immobile, non si pongono con riferimento al mandato ad acquistare senza rappresentanza, dal quale non sorgono effetti reali, ma meramente obbligatori; – i requisiti di forma scritta concernono esclusivamente l’acquisto che il mandatario effettua dal terzo (rapporto esterno) e per quello di successivo trasferimento in capo al mandante del diritto reale sul bene immobile a tale stregua acquistato; l’art. 1351 cod. civ. è norma eccezionale, come tale non suscettibile di applicazione analogica, e neppure di applicazione estensiva, attesa l’autonomia e la netta distinzione sussistente tra mandato e contratto preliminare.
Analogamente a quando avviene nel mandato senza rappresentanza, dunque, anche per la validità dal pactum fiduciae prevedente l’obbligo di ritrasferire al fiduciante il bene immobile intestato al fiduciario per averlo questi acquistato da un terzo, non è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio. L’accordo concluso verbalmente è fonte dell’obbligo del fiduciario di procedere al successivo trasferimento al fiduciante anche quando il diritto acquistato dal fiduciario per conto del fiduciante abbia natura immobiliare. Se le parti non hanno formalizzato il loro accordo fiduciario in una scrittura, ma lo hanno concluso verbalmente, potrà porsi un problema di prova, non di validità del pactum.
L’osservanza del requisito della forma scritta è invece imposta, in base all’art. 1350 cod. civ., per gli atti traslativi: per il contratto, iniziale, di acquisto dell’immobile da parte del fiduciario e per il successivo atto di ritrasferimento ad opera del medesimo.
L’esclusione della necessità della forma scritta per il pactum fiduciae con oggetto immobiliare riconcilia la soluzione giurisprudenziale con la storia e con l’esperienza pratica del negozio fiduciario. La dottrina italiana sulla teoria generale del negozio giuridico ha infatti consegnato alla comunità degli interpreti l’affermazione che non è necessario che l’intesa fiduciaria, rivolta a limitare i poteri del fiduciario, risulti dal tenore documentale del negozio. Questo insegnamento – che corrisponde ad un’idea risalente, ossia al rilievo che il pactum fiduciae è soggetto ad una intesa segreta – non è rimasto privo di riscontro negli svolgimenti giurisprudenziali. Si è infatti statuito che il contratto fiduciario è perfettamente configurabile nel diritto vigente, in quanto con esso si ponga in essere, effettivamente, il contratto che appare dallo scritto, ma con un vincolo o con una limitazione o condizione non espressa ed affidata alla fiducia dell’altro contraente.
In questa stessa prospettiva, si è ribadito che si ha negozio fiduciario quando, oltre ai patti risultanti dallo scritto, si ponga in essere un patto non espresso affidato alla fiducia di uno dei contraenti. D’altra parte, la dimensione pratica del fenomeno fiduciario, quale emerge dal contesto complessivo delle controversie venute all’esame dei giudici, offre un quadro variegato di accordi fiduciari verbali tra coniugi, conviventi e familiari relativi alla intestazione di immobili acquistati in tutto o in parte con denaro di uno solo di essi, nel quale le parti, per motivi di opportunità, di lealtà e di fiducia reciproca, sono restie a consegnare in un atto scritto il pactum tra di esse intervenuto. Proprio rivolgendo l’analisi all’esperienza e ai modi di attuazione dei comportamenti, un’autorevole dottrina è giunta alla conclusione che condizionare all’osservanza della forma scritta la validità del patto fiduciario significherebbe praticamente escludere la rilevanza pratica della fiducia in molte ipotesi di fiducia cum amico, dato che la formalità del patto finirebbe quasi sempre per incidere sulla dimensione pratica del comportamento, escludendone la fiduciarietà dal punto di vista della morfologia del fenomeno empirico.
Fissato il principio secondo cui non è richiesta la forma scritta per la validità del patto fiduciario avente ad oggetto l’obbligazione del fiduciario di ritrasferire al fiduciante l’immobile dal primo acquistato da un terzo in nome proprio, si tratta di stabilire la rilevanza della posteriore dichiarazione scritta con cui l’interposto, riconosciuta l’intestazione fiduciaria, si impegna ad effettuare, in favore del fiduciante o di un terzo da lui indicato, il ritrasferimento finale.
Le Sezioni Unite ritengono che la dichiarazione ricognitiva dell’interposizione reale e promissiva del ritrasferimento non rappresenta il vestimentum per mezzo del quale dare vigore giuridico, con la forma richiesta dalla natura del bene, a quello che, altrimenti, sarebbe un nudo patto. Infatti, una volta ammessa la validità del patto fiduciario immobiliare anche se stipulato verbis, il fiduciario dichiarante è già destinatario di una obbligazione di ritrasferimento, e tale patto non scritto è il titolo che giustifica l’accoglimento della domanda giudiziale di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento su di lui gravante.
D’altra parte, non sussistono ostacoli ad ammettere, a tutela del fiduciante deluso, il particolare rimedio di cui all’art. 2932 cod. civ.: avendo questa Corte chiarito che l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad altro negozio, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege; ed avendo la dottrina riconosciuto la possibilità di ricorrere al meccanismo che l’art. 2932 cod. civ. tipicamente configura per ottenere in forma specifica l’esecuzione dell’obbligo, che il fiduciario si è assunto con la stipulazione del pactum, di ritrasferire al fiduciante – o a un terzo da lui designato – il bene o la posizione di titolarità.
Il fiduciante deluso che si affidi ad un patto stipulato verbis, tuttavia, potrebbe avere difficoltà di dimostrare in giudizio l’intervenuta stipulazione dell’accordo e di ottenere la sentenza costitutiva nei confronti del fiduciario infedele.
Si spiegano, allora, il ruolo e il significato della dichiarazione scritta del fiduciario. La dichiarazione ricognitiva dell’intestazione fiduciaria e promissiva del ritrasferimento è infatti un atto unilaterale riconducibile alla figura della promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., la cui funzione è quella di dispensare colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, l’esistenza di questo presumendosi fino a prova contraria. Da tale dichiarazione non dipende la nascita dell’obbligo del fiduciario di ritrasferire l’immobile al fiduciante: essa non costituisce fonte autonoma di tale obbligo, che deriva dal pactum, anche se stipulato soltanto verbalmente, ma è produttiva dell’effetto di determinare la relevatio ab onere probandi e di rafforzare così la posizione del fiduciante destinatario della dichiarazione stessa, il quale, in virtù di questa, è esonerato dall’onere di dimostrare il rapporto fondamentale.
Si è dunque in presenza di una astrazione processuale, perché il rapporto fondamentale deve bensì sempre esistere (in tal senso non vi è astrazione sostanziale o materiale), ma la sua esistenza, a seguito della dichiarazione ricognitiva e promissiva del fiduciario, è presunta iuris tantum, risolvendosi così la vicenda in un’inversione dell’onere della prova. In altri termini, rendendo la dichiarazione, il fiduciario non assume l’obbligazione di ritrasferimento, essendo egli già obbligato in forza del pactum fiduciae, ancorché stipulato verbalmente; assume, piuttosto, l’onere di dare l’eventuale prova contraria dell’esistenza, validità, efficacia, esigibilità o non avvenuta estinzione del pactum, così come dei suoi limiti e contenuto, ove difformi da quanto promesso o riconosciuto.
Tale soluzione si pone in linea con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui la promessa di pagamento non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 cod. civ., un’astrazione meramente processuale della causa debendi, da cui deriva una semplice relevatio ab onere probandi che dispensa il destinatario della dichiarazione dall’onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento o dalla promessa.
Occorre evidenziare che dall’art. 1988 cod. civ. non è richiesto che promessa di pagamento e ricognizione di debito contengano un riferimento al titolo dell’obbligazione, e che le dichiarazioni titolate sono tuttavia ammissibili e riconducibili alla disciplina dettata da tale disposizione. Si è infatti affermato che la ricognizione di debito titolata, che comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, si differenzia dalla confessione, che ha per oggetto l’ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte: ne consegue che la promessa di pagamento, ancorché titolata, non ha natura confessoria, sicché il promittente può dimostrare l’inesistenza della causa e la nullità della promessa.
Conclusivamente, vengono enunciati i seguenti principi di diritto: «Per il patto fiduciario con oggetto immobiliare che s’innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario»; «La dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e promissiva del suo ritrasferimento al fiduciante, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., un’astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronuntiatio, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria».
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Il 30 aprile esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 8434 che viene chiamata a pronunciarsi sulla forma che deve avere un contratto che con cui il proprietario di un lastrico solare intenda cedere ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico, con il diritto per il cessionario di mantenere la disponibilità ed il godimento dell’impianto, ed asportare il medesimo alla fine del rapporto. La Corte ritiene di dover chiarire, in primo luogo, l’esatta qualificazione di tale contratto.
In effetti, alla luce del disposto dell’articolo 1108, comma 3, c.c., è proprio la qualificazione del menzionato contratto – e quindi, in definitiva, la verifica se esso concerna la costituzione di un diritto reale di superficie oppure la concessione di un diritto personale di godimento lato sensu riconducibile al tipo negoziale della locazione – ad orientare la soluzione della questione relativa alla necessità del consenso di tutti i partecipanti al condominio per la relativa approvazione.
Viene preliminarmente evidenziato che non può trovare seguito l’opinione, avanzata in dottrina, secondo cui la collocazione di un ripetitore sul tetto di un fabbricato esulerebbe, di per se stessa, dal concetto di innovazione o di modificazione in senso proprio.
Tale opinione si fonda sul rilievo che il ripetitore non inciderebbe sulla consistenza materiale del tetto e non sarebbe funzionale alla utilità del medesimo o all’uso che esso consente ai condomini, cosicché lo stesso non risulterebbe diretto al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento (art. 1120, primo comma, c.c.) del tetto, del quale lascerebbe inalterata la consistenza e la conformazione ed al quale verrebbe ad aggiungersi.
Per contro, la giurisprudenza ha sempre, costantemente, affermato che costituisce innovazione ex art. 1120 c.c. la modificazione della cosa comune che alteri l’entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l’esecuzione delle opere.
Sulla scorta di tali principi di diritto risulta inevitabile concludere che la collocazione sul lastrico condominiale di un manufatto stabilmente infisso nell’impiantito va considerata una “innovazione”, nel senso di cui all’articolo 1120 c.c., in quanto determina una parziale trasformazione della destinazione del medesimo lastrico. Un lastrico solare sul quale venga realizzato un manufatto mantiene, ciò non di meno, la propria funzione di copertura del fabbricato e di protezione del medesimo dalle intemperie, ma tuttavia perde, per la parte della sua estensione su cui il manufatto insiste, la sua destinazione al calpestio.
La ragione per cui la cessione temporanea a terzi di un lastrico condominiale, finalizzata all’installazione sul medesimo di un ripetitore di segnale, non è riconducibile alla disciplina delle innovazioni dettata dall’articolo 1120 c.c. non va, dunque, rinvenuta nelle caratteristiche oggettive dell’opera, bensì nella considerazione che l’immutatio loci derivante dall’ancoraggio dell’impianto al lastrico solare viene realizzata non su disposizione, a spese e nell’interesse del condominio, bensì su disposizione, a spese e nell’interesse del terzo cessionario del godimento del lastrico. Non si tratta, in altri termini, dell’installazione, ad opera del condominio, di un impianto tecnologico destinato all’uso comune, del quale il medesimo condominio abbia deciso di dotarsi (e le cui spese, per il principio maggioritario, gravino anche sui dissenzienti, salva la specifica disciplina dettata dall’articolo 1121 c.c.), ma dell’installazione, ad opera ed a spese di un terzo, di un impianto tecnologico destinato all’utilizzo esclusivo di tale terzo.
La vicenda va quindi guardata non nella prospettiva dell’approvazione di una innovazione ai sensi dell’articolo 1120 c.c., bensì nella prospettiva dell’approvazione di un atto di amministrazione (il contratto con il terzo) ai sensi dell’articolo 1108, terzo comma, c.c.. Si tratta dunque, in sostanza, di verificare se l’atto di amministrazione costituito da un contratto di cessione totale o parziale del lastrico condominiale ad una impresa di telefonia ai fini della installazione di un ripetitore – per un tempo determinato e con la conservazione in capo al concessionario dell’esclusiva disponibilità dell’impianto (col conseguente jus tollendi) – rientri tra quelli che il terzo comma dell’articolo 1108 c.c. sottrae al potere dell’assemblea e, quindi, alla regola maggioritaria.
Esclusa, quindi, la rilevanza del disposto dell’articolo 1120 c.c., la prima considerazione svolta è che, secondo il consolidato orientamento, quando non risulti possibile l’uso diretto della cosa comune per tutti i partecipanti al condominio, in proporzione delle rispettive quote millesimali (promiscuamente o con turnazioni temporali o con frazionamento degli spazi), la compagine condominiale può deliberare l’uso indiretto della cosa comune e tale deliberazione, quando si tratti di atto di ordinaria amministrazione (come nel caso della locazione di durata non superiore a nove anni), può essere adottata a maggioranza.
Il nodo si risolve, allora, nello stabilire se un contratto con cui il proprietario di un lastrico solare attribuisca all’altro contraente, a titolo oneroso, il diritto di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore e di asportarlo al termine del rapporto debba qualificarsi come contratto ad effetti reali o come contratto ad effetti obbligatori; nella prima ipotesi, infatti, ove il lastrico solare appartenga ad un condominio, l’approvazione del contratto richiede, ai sensi dell’articolo 1108, terzo comma, c.c., il consenso di tutti i condomini.
La questione sopra delineata si connota, in primo luogo, come questione di ermeneusi negoziale, la cui soluzione compete al giudice di merito. Come è stato segnalato da avvertita dottrina, infatti, al fine di attribuire al contratto di cui si discute effetti reali o effetti obbligatori, bisogna innanzi tutto valutare l’effettiva volontà delle parti, desumibile, oltre che dal nomen juris (di per se stesso non determinante, ma nemmeno del tutto trascurabile nel processo interpretativo), anche da altri elementi testuali, quali la previsione relativa alla durata, la disciplina negoziale della sorte del manufatto al momento della cessazione del rapporto, la determinazione del corrispettivo come unitario o come canone periodico, la regolazione degli obblighi del cessionario in ordine alla manutenzione della base della installazione, l’eventuale richiamo a specifici aspetti della disciplina delle locazioni non abitative; nonché da elementi extratestuali, quali la forma dell’atto e il comportamento delle parti.
A quest’ultimo riguardo può, ad esempio, evidenziarsi come la stipula del contratto per atto pubblico può essere valorizzata a favore della qualificazione dell’atto come contratto a effetti reali ed altrettanto può dirsi, ai sensi dell’articolo 1326, secondo comma, c.c., in relazione al comportamento delle parti, successivo alla conclusione del contratto, consistente nella decisione di trascrivere l’atto nei registri immobiliari pur quando il diritto di utilizzazione del lastrico solare sia stato concesso per una durata inferiore a nove anni.
Il tema posto dalla Sezione remittente si colloca, tuttavia, a monte dell’ermeneusi negoziale concernente il singolo contratto dedotto in giudizio, in quanto investe la stessa possibilità astratta di qualificare il contratto di concessione di un lastrico solare per l’installazione di un ripetitore di segnale come contratto costitutivo di un diritto reale di superficie o come contratto ad effetti obbligatori; ipotesi, la prima, non percorribile ove si neghi ai ripetitori di segnale la qualifica di beni immobili e, la seconda, non sempre riconosciuta dalla giurisprudenza di merito.
La prima questione da risolvere, ai fini dello scioglimento della questione di ermeneusi negoziale consiste, allora, nello stabilire se i ripetitori di segnale debbano considerarsi beni immobili (e, più specificamente, costruzioni) o beni mobili; in questa seconda ipotesi, infatti, la possibilità di qualificare il contratto di cui si tratta come atto costitutivo di un diritto di superficie non potrebbe porsi nemmeno in astratto.
Le Sezioni Unite ritengono che i menzionati ripetitori debbano essere considerati beni immobili, rientrando essi tra le «altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio» secondo il disposto dell’articolo 812, comma 2, c.c.. Un bene è immobile, in senso giuridico, in quanto gli interessi che esso soddisfa sono determinati proprio dalla sua staticità, nel senso che esso assolve a determinate esigenze in quanto insiste su un certo luogo. Ciò che, appunto, può dirsi di un ripetitore di segnale.
Viene aggiunto che i ripetitori telefonici devono altresì considerarsi – oltre che, genericamente, beni immobili ai sensi dell’articolo 812 c.c. – anche “costruzioni” agli specifici effetti tanto dell’articolo 934 c.c. (e, dunque, suscettibili di accessione), quanto dell’articolo 952 c.c. (e, dunque, suscettibili di costituire oggetto di un diritto di superficie). Supportano tale conclusione le indicazioni, che si desumono, per un verso, dal testo unico dell’edilizia (D.P.R. n. 380/2001), il quale, nell’articolo 3, comma 1, lett. e), punto 4, ricomprende espressamente, fra gli interventi di “nuova costruzione” la «istallazione … di ripetitori per i servizi di telecomunicazione»; per altro verso, dal codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. n. 259/2003), il quale, nell’articolo 86, comma 3, espressamente assimila alle opere di urbanizzazione primaria le «infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli articoli 87 e 88», ossia, a mente dell’articolo 87, comma 1, D.P.R. n. 259/2003, le «infrastrutture per impianti radioelettrici … e, in specie, l’installazione di torri, di tralicci, di impianti radio-trasmittenti, di ripetitori di servizi di comunicazione elettronica, di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche mobili GSM/UMTS, per reti di diffusione, distribuzione e contribuzione dedicate alla televisione digitale terrestre, per reti a radiofrequenza dedicate alle emergenze sanitarie ed alla protezione civile, nonché per reti radio a larga banda punto-multipunto nelle bande di frequenza all’uopo assegnate».
Se, dunque, un ripetitore di segnale può essere considerato un bene immobile e, più specificamente, una costruzione, si deve concludere che il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda concedere ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, con il diritto per il cessionario di mantenerne la disponibilità ed il godimento e di asportarlo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito attraverso un contratto ad effetti reali e, precisamente, attraverso un contratto costitutivo del diritto reale di superficie.
Non può dunque condividersi l’opinione, avanzata in dottrina, secondo la quale il concetto di costruzione di cui all’articolo 952 c.c. evocherebbe una nozione tradizionale di costruzione che richiamerebbe pur sempre l’idea di un manufatto stabilmente destinato a circoscrivere lo spazio e, quindi, a distinguere uno spazio interno dallo spazio esterno, in tal modo generando un volume. La suddetta opinione, infatti, non soltanto non risulta sorretta da evidenze esegetiche che autorizzino ad assegnare alla nozione di costruzione contemplata nell’ articolo 952 c.c. un significato diverso da quello alla stessa correntemente assegnato dalla giurisprudenza civile ma risulta incompatibile anche con gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza penale, amministrativa e costituzionale.
Per completezza argomentativa viene escluso espressamente che la situazione soggettiva di vantaggio generata dalla cessione del godimento di un lastrico solare finalizzata alla installazione di un ripetitore da parte del cessionario possa essere riferita a diritti reali diversi dalla superficie.
In primo luogo, va esclusa la utilizzabilità del modello della servitù volontaria (anche industriale, ex art. 1028, ultima parte, c.c.), per l’assorbente considerazione che la servitù presuppone una utilitas per il fondo dominante e, quindi, l’esistenza di un fondo dominante, nella specie non configurabile.
Parimenti va esclusa la utilizzabilità del modello del diritto reale di uso disciplinato dall’articolo 1021 c.c.. E’ vero, infatti, che l’edificazione sul fondo rientra tra le facoltà dell’usuario (fermo restando l’obbligo di quest’ultimo di restituire la cosa, al momento dell’estinzione del diritto per decorso del termine di durata, nello stato in cui l’ha ricevuta e salva la regolamentazione convenzionale degli effetti determinati dalla realizzazione della costruzione). Ed è parimenti vero che, in linea di principio, non vi sono ragioni che escludono che tale diritto possa sorgere in capo alle persone giuridiche (salvo che, come segnalato da risalente ed autorevole dottrina, le facoltà di queste ultime si limitano all’utilizzazione e non comprendono la raccolta dei frutti, anche quando si tratti di cose fruttifere, non verificandosi, nei loro riguardi, la condizione a cui è subordinato il diritto ai frutti, ossia la sussistenza di bisogni personali da soddisfare). Tuttavia, la non riferibilità al diritto reale di uso della situazione soggettiva dell’impresa di telecomunicazioni che si renda cessionaria di un lastrico al fine di installarvi un ripetitore discende dal rilievo che l’unica facoltà che contrattualmente compete alla cessionaria è, appunto, quella di installare sul lastrico un ripetitore. Laddove la Cassazione ha chiarito che l’ampiezza del potere dell’usuario di servirsi della cosa traendone ogni utilità ricavabile, se può incontrare limitazioni derivanti dalla natura e dalla destinazione economica del bene, non può soffrire condizionamenti maggiori o ulteriori derivanti dal titolo (Cass. n. 5034/2008, dove si è altresì precisato che la differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto).
Donde la non utilizzabilità del paradigma del diritto reale di uso, giacché il principio del numerus clausus dei diritti reali non consente di ritenere che il nucleo di poteri e di modalità di godimento che connotano l’utilità che il titolare di un determinato diritto reale può trarre dal bene che ne forma oggetto possa essere conformato dall’autonomia privata; quest’ultima, infatti, può conformare, ai sensi dell’articolo 1322 c.c., i rapporti obbligatori, ma non le situazioni reali, in ciò sostanziandosi, in ultima analisi, la differenza tra “tipo contrattuale” e “tipo di diritto reale”.
Lo schema negoziale attraverso il quale il proprietario di un lastrico solare può concedere ad altri, a titolo oneroso, il diritto reale di installarvi un ripetitore, mantenerne la disponibilità ed il godimento per un certo tempo ed asportarlo al termine del rapporto va allora individuato nel contratto costitutivo di un diritto reale di superficie.
Perché il diritto conferito al cessionario del lastrico solare -comprensivo delle facoltà di installarvi l’impianto, di utilizzare e manutenere quest’ultimo e, infine, di asportarlo al momento dell’estinzione del diritto per il decorso del termine pattuito – possa essere configurato come un diritto reale di superficie sarà peraltro necessario riscontrare che le parti abbiano inteso attribuire al suddetto diritto le caratteristiche tipiche della realità; vale a dire, l’ efficacia erga omnes (ossia la possibilità di farlo valere nei confronti di tutti e non solo del concedente), la trasferibilità a terzi, l’assoggettabilità al gravame ipotecario.
Acclarato che la concessione a titolo oneroso della facoltà di installare e mantenere per un certo tempo un ripetitore su un lastrico solare, con il diritto per il cessionario di mantenere la disponibilità ed il godimento del ripetitore, ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere realizzata attraverso un contratto ad effetti reali e, specificamente, un contratto costitutivo del diritto di superficie, va ora verificata la possibilità che analogo risultato socio-economico possa essere conseguito, mutatis mutandis, anche mediante un contratto ad effetti obbligatori.
Le Sezioni Unite ritengono che debba riconoscersi al proprietario di un lastrico solare la possibilità di attribuire ad altri, mediante un contratto ad effetti obbligatori, il diritto personale di installarvi un ripetitore, o altro impianto tecnologico, con facoltà per il beneficiario di mantenere la disponibilità ed il godimento dell’impianto e di asportare il medesimo alla fine del rapporto.
Non vi è infatti ragione per negare alle parti la possibilità di scegliere, nell’esercizio dell’autonomia privata riconosciuta dall’articolo 1322 c.c., se perseguire risultati socio-economici analoghi, anche se non identici, mediante contratti ad effetti reali o mediante contratti ad effetti obbligatori; come si verifica, ad esempio, in relazione all’attribuzione del diritto di raccogliere i frutti dal fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo del diritto di usufrutto o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di godimento, lato sensu riconducibile al modello del contratto di affitto) o in relazione all’attribuzione del diritto di attraversare il fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo di una servitù di passaggio o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di passaggio).
L’accordo con cui il proprietario di un’area conceda ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa e rinunci agli effetti dell’accessione e, così, consenta alla controparte di godere e disporre del fabbricato e di asportarlo alla cessazione del rapporto è riconducibile allo schema del contratto atipico di concessione dello jus ad aedificandum ad effetti obbligatori.
E’ quindi giuridicamente configurabile un negozio ad effetti obbligatori, qualificabile come tipo anomalo di locazione, in cui al locatario si concede il godimento di un terreno, con facoltà di farvi delle costruzioni di cui godrà precariamente come conduttore e che, alla fine del rapporto, dovranno essere rimosse a sua cura.
Viene quindi conclusivamente affermato che il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda concedere ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, con il diritto per il cessionario di mantenere la disponibilità ed il godimento del ripetitore, ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito tanto attraverso un contratto ad effetti reali quanto attraverso un contratto ad effetti obbligatori.
Al fine quindi di individuare un criterio idoneo ad orientare la concreta ermeneusi negoziale, viene ancora osservato che, in linea generale, nel contratto costituivo di un diritto reale di superficie, l’interesse prevalente del beneficiario dell’attribuzione, che connota la funzione economico-sociale (astratta) tipica di tale contratto, ha ad oggetto la possibilità del superficiario di realizzare e tenere opere edilizie sul fondo altrui, anche ricostruendole; mentre restano sullo sfondo, come è stato osservato da attenta dottrina, gli altri elementi che conformano il concreto regolamento di interessi voluto dalle parti, come le caratteristiche della costruzione dedotta in contratto (stabile o instabile, di maggiore o minore entità), l’eventuale esistenza di limitazioni del diritto nel tempo, il rapporto intercorrente fra disponibilità del fondo e godimento delle costruzioni o addizioni poste in essere.
Nel contratto volto a consentire la installazione di un ripetitore sul lastrico di un palazzo condominiale l’interesse principale del beneficiario non cade, per contro, sull’acquisizione di una generica possibilità di costruire, bensì sull’acquisizione della disponibilità di un luogo ove installare il ripetitore. Va sottolineato, infatti, che l’utilità che un ripetitore fornisce non discende dalla sua natura di costruzione, ma dalla sua posizione topografica; esso viene fissato al lastrico per ovvie ragioni di stabilità e sicurezza, ma potrebbe svolgere la propria funzione anche se fosse semplicemente poggiato sull’impiantito.
Può quindi affermarsi che, nell’accordo con cui una compagnia di telecomunicazioni acquisisce il diritto di collocare per un certo tempo un proprio ripetitore sul lastrico di copertura di un edificio, il profilo di interesse principale del beneficiario del diritto cade, in sostanza, sul godimento dell’area (di quella specifica area, che si trova in quel determinato punto dello spazio che risulta funzionale alla ripetizione del segnale); cosicché vengono in primo piano, nello schema negoziale, proprio quegli elementi che nel contratto costitutivo del diritto reale di superficie sono destinati a restare sullo sfondo, vale a dire le caratteristiche della costruzione dedotta in contratto (il contratto è funzionale all’ installazione di un ripetitore, non di altri manufatti, e le caratteristiche tecniche del ripetitore sono vincolate dalle previsioni del titolo abilitativo di cui all’art. 87 D.Lgs. n. 259/2003); la determinazione della durata del rapporto; il diritto del beneficiario di asportare il ripetitore alla cessazione del rapporto contrattuale.
Dalle considerazioni fin qui svolte discende quindi, in definitiva, che il contratto avente ad oggetto la concessione totale o parziale, a titolo oneroso, del godimento del lastrico solare di un fabbricato, allo scopo di consentire al concessionario l’installazione di un ripetitore di segnale, del quale il medesimo concessionario abbia la facoltà di godere e disporre nel corso del rapporto e di asportarlo al termine del rapporto, va ricondotto – in mancanza di indicazioni di segno contrario suggerite dall’interpretazione del singolo contratto -allo schema del contratto atipico di concessione ad aedificandum ad effetti obbligatori; concessione soggetta, oltre che ai patti negoziali, alle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, alle norme sul contratto tipico di locazione.
Tale conclusione appare altresì supportata dalla considerazione che qualificare la concessione del diritto di godimento del lastrico solare finalizzato all’installazione di un ripetitore come attribuzione di un diritto reale di superficie implicherebbe la necessità di riconoscere alla compagnia telefonica concessionaria la qualità di condomina (con conseguente necessità di revisione della tabella millesimale); il che sembra un effetto tendenzialmente eccedente l’intenzione delle parti, almeno secondo l’id quod plerumque accidit, e sempre in mancanza di evidenze ermeneutiche da cui emerga che, nella specifica situazione dedotta in giudizio, i contraenti abbiano inteso conferire al concessionario del godimento del lastrico proprio un diritto reale di superficie, sia pure temporaneo.
Evenienza, quest’ultima, che potrebbe verificarsi ove il soggetto che intende installare il ripetitore abbia interesse a disporre di un diritto sul quale inscrivere l’ipoteca destinata a garantire il finanziamento dell’iniziativa o, comunque, a disporre di un diritto che, quand’anche di durata inferiore a nove anni, possa essere alienato secondo le regole di circolazione previste dal sistema della pubblicità immobiliare per porre l’acquirente al riparo dagli effetti del principio resoluto jure dantis, resolvitur et jus accipientis (art. 2652 c.c.).
Con riferimento all’applicabilità della disciplina della locazione al contratto atipico di concessione ad aedficandum di natura obbligatoria, la Corte sottolinea che, come evidenziato dalla dottrina, la demarcazione tra concessione ad aedficandum atipica ad effetti obbligatori e contratto tipico di locazione corre lungo una linea troppo sottile per assicurare una separazione netta tra i due modelli negoziali.
In linea di massima la differenza tra tali modelli va ravvisata nella maggior ampiezza dell’uso attivo del bene altrui consentito dal contratto tipico di locazione rispetto all’uso limitato al diritto di appoggio di una costruzione, che costituisce il nucleo della concessione atipica ad aedficandum. Si tratta tuttavia di una differenza, come detto, di massima, giacché anche nella locazione tipica il diritto di godimento della cosa attribuito al conduttore può essere convenzionalmente limitato ad una sua particolare utilità, senza il trasferimento della detenzione del bene in via esclusiva.
In ogni caso la questione della differenza tra concessione atipica ad aedificandum di natura obbligatoria e contratto tipico di locazione non presenta significative ricadute sull’individuazione della disciplina applicabile giacché, come già precisato dalla giurisprudenza, ai contratti atipici, o innominati, possono legittimamente applicarsi, oltre alle norme generali in materia di contratti, anche le norme regolatrici dei contratti nominati, quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalla norme dettate per i contratto tipici.
Dalla evidenziata applicabilità della disciplina della locazione al contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale discende che a tale contratto si applica tanto l’articolo 1599 c.c., in tema di opponibilità del contratto al terzo acquirente, quanto l’articolo 2643 n. 8 c.c., in tema di trascrizione dei contratti di locazione immobiliare di durata superiore ai nove anni.
Per quanto in particolare riguarda l’articolo 1599 c.c., va precisato che la sua applicabilità al contratto atipico di concessione ad aedificandum non trova ostacolo nell’affermazione, contenuta in diversi precedenti, che la disciplina dal medesimo dettata ha natura eccezionale. Tali precedenti, infatti, sono stati tutti pronunciati in materia di contratto di comodato ed affermano l’eccezionalità delle disposizioni di cui all’articolo 1599 c.c. al fine di escludere che le stesse possano applicarsi, appunto, al contratto di comodato, il quale si differenzia radicalmente dalla locazione perché, per il disposto del secondo comma dell’articolo 1803 c.c. è essenzialmente gratuito.
Per contro, qualora il contratto atipico di concessione ad aedificandum avente ad oggetto l’installazione temporanea di un ripetitore di segnale su un lastrico solare sia a titolo oneroso, come nel caso dedotto nel presente giudizio, non vi è ragione di regolarne il regime di opponibilità all’acquirente dell’immobile coperto da tale lastrico con una disciplina diversa da quella dettata dall’articolo 1599 c.c. per il contratto tipico di locazione.
E’ altresì opportuno precisare – ancora sulla applicabilità dell’articolo 1599 c.c. al contratto atipico di concessione ad aedificandum avente ad oggetto l’installazione temporanea, a titolo oneroso, di un ripetitore di segnale su un lastrico solare – che l’opponibilità di tale contratto all’acquirente dell’immobile secondo il regime, e nei limiti, dell’articolo 1599 c.c. copre non soltanto la pattuizione relativa alla concessione dell’occupazione del lastrico ma anche la pattuizione che attribuisca incondizionatamente lo jus tollendi, al termine del rapporto, alla compagnia di telecomunicazioni.
Come la giurisprudenza non ha mancato di sottolineare, infatti, la regola emptio non tollit locatum dettata dall’art. 1599 c.c. implica una cessione legale del contratto, con la continuazione dell’originario rapporto e l’assunzione, da parte dell’acquirente, della stessa posizione del locatore. D’altra parte il patto con cui le parti escludono il diritto del proprietario del lastrico di ritenere, al termine del rapporto, i manufatti ivi installati, pur divergendo dalla disciplina dettata dall’articolo 1593 c.c., non determina, proprio in ragione della natura non imperativa di tale disciplina, alcuna radicale inconciliabilità con il modello tipico della locazione.
Va peraltro evidenziato come la tendenziale attrazione della disciplina del rapporto fondato su una concessione ad aedificandum di natura personale nel corpus delle regole dettate dal codice civile per il contratto di locazione non pone in discussione la validità della pattuizione che sottragga al proprietario del lastrico il diritto di ritenere le addizioni (il ripetitore) alla cessazione del rapporto e, specularmente, attribuisca lo jus tollendi alla compagnia di telecomunicazioni concessionaria del godimento del lastrico (salvo l’obbligo di ripristino del lastrico medesimo in caso di eventuali danneggiamenti derivanti dalle operazioni di rimozione); il disposto del primo comma dell’articolo 1593 c.c. – che attribuisce al locatore lo jus retinendi in ordine alle addizioni eseguite dal conduttore – è infatti norma non imperativa.
Viene infine ancora aggiunto, per una compiuta ricostruzione del sistema, che la locazione costituisce titolo idoneo ad impedire l’accessione.
Pertanto, nel caso che la costruzione su suolo altrui sia stata oggetto di espressa convenzione fra il proprietario del suolo e il costruttore, non può il giudice di merito ritenere senz’altro avverata l’accessione senza prima esaminare – secondo criteri di corretta ermeneutica – il contenuto di tale convenzione, al fine di escludere che con essa si fosse inteso costituire sia un diritto di superficie, sia una concessione ad aedificandum quale rapporto ad effetti meramente obbligatori, che può trovare sua fonte e sua disciplina in un contratto atipico non soggetto a requisiti di forma e di pubblicità».
Viene altresì precisato, per evitare ogni equivoco, che nessun contrasto sussiste tra quanto appena affermato e la recente sentenza queste stesse Sezioni Unite n. 3873/2018, in tema di accessione dell’opera costruita su un’area in comproprietà da uno dei comproprietari. La sentenza n. 3873/2018 ha, infatti, superato il tradizionale orientamento secondo cui presupposto indefettibile dell’accessione sarebbe la qualità di “terzo” del costruttore, ma a tale conclusione essa è giunta con riferimento al tema della operatività dell’accessione nei rapporti tra comproprietari. La sentenza n. 3873/2018, per contro, non tratta il tema dell’operatività dell’accessione nei rapporti tra il proprietario del suolo e colui che al medesimo sia legato da un rapporto contrattuale. Anch’essa, peraltro, sottolinea che l’art. 934 c.c. fa salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla “legge” o dal “titolo” e include, tra le prime, quelle relative alle addizioni eseguite dal locatore.
La Cassazione, del resto, ha già persuasivamente affermato, nella sentenza n. 2501/2013, che il contratto di locazione vale a impedire l’accessione finché vige il contratto medesimo e che il diritto del conduttore sul bene costruito è un diritto non reale che si estingue al venir meno del contratto e con il riespandersi del principio dell’accessione. Va poi considerato che è vero che la deroga alla regola dell’accessione derivante dalla “legge”, in ordine alle addizioni del conduttore, subordina lo jus tollendi di quest’ultimo al duplice presupposto che il relativo esercizio non rechi nocumento alla cosa e che il proprietario non preferisca ritenere le addizioni (art. 1593 c.c.); ma è vero pure che la norma dettata dall’articolo 1593 c.c. non ha natura imperativa e pertanto può essere convenzionalmente derogata; e la convenzione derogatoria costituisce, appunto, il “titolo” a cui fa riferimento l’articolo 934 c.c..
Le Sezioni Unite ritengono, quindi, di dover dare continuità all’orientamento che l’art. 934 c.c. – là dove prevede che il principio superficies solo cedit possa essere derogato dal titolo, non esclude, proprio per l’indeterminatezza della menzione del “titolo” – che le parti, nell’esercizio della autonomia contrattuale loro riconosciuta dall’art. 1322 c.c., possano, anziché addivenire alla costituzione di un diritto reale di superficie, derogare al principio dell’accessione dando vita ad un rapporto meramente obbligatorio.
Non vi sono, del resto, ragioni per ritenere non meritevole di tutela l’interesse che il locatore e il conduttore vogliano realizzare attribuendo al conduttore del fondo locato, in deroga al principio dell’accessione, il diritto personale di godere delle costruzioni ivi da lui realizzate e di asportarle al termine del rapporto; anche, eventualmente, nel caso in cui l’asportazione rechi nocumento al fondo, salva l’obbligazione di ripristino, e con esclusione dello jus retinendi del locatore.
Arrivando quindi alla soluzione della questione sottoposta alle Sezioni Unite, osserva il Collegio che, ai sensi dell’articolo 1108, terzo comma, c.c., per la costituzione di un diritto reale di superficie sul lastrico condominiale è necessario il consenso di tutti i condomini; per contro, per il rilascio di una concessione ad aedificandum di durata non superiore a nove anni è sufficiente la maggioranza prevista per gli atti di ordinaria amministrazione dagli articoli secondo e terzo comma c.c., a seconda che si tratti di prima o di seconda convocazione dell’assemblea condominiale.
Vengono quindi enunciati i seguenti principi di diritto.
- I) Il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda cedere ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico, con il diritto per il cessionario di mantenere la disponibilità ed il godimento dell’impianto, ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito sia attraverso un contratto ad effetti reali, sia attraverso un contratto ad effetti personali. La riconduzione del contratto concretamente dedotto in giudizio all’una o all’altra delle suddette categorie rappresenta una questione di interpretazione contrattuale, che rientra nei poteri del giudice di merito.
- II) Lo schema negoziale a cui riferire il contratto con il quale le parti abbiano inteso attribuire al loro accordo effetti reali è quello del contratto costitutivo di un diritto di superficie, il quale attribuisce all’acquirente la proprietà superficiaria dell’impianto installato sul lastrico solare, può essere costituito per un tempo determinato e può prevedere una deroga convenzionale alla regola che all’estinzione del diritto per scadenza del termine il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione. Il contratto con cui un condominio costituisca in favore di altri un diritto di superficie, anche temporaneo, sul lastrico solare del fabbricato condominiale, finalizzato alla installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, richiede l’approvazione di tutti i condomini.
III) Lo schema negoziale a cui riferire il contratto con il quale le parti abbiano inteso attribuire al loro accordo effetti obbligatori è quello del contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale, con rinuncia del concedente agli effetti dell’accessione. Con tale contratto il proprietario di un’area concede ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa, di godere e disporre dell’opera edificata per l’intera durata del rapporto e di asportare tale opera al termine del rapporto. Detto contratto costituisce, al pari del diritto reale di superficie, titolo idoneo ad impedire l’accessione ai sensi dell’articolo 934, primo comma, c.c. Esso è soggetto alla disciplina dettata, oltre che dai patti negoziali, dalle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, dalle norme sulla locazione, tra cui quelle dettate dagli artt. 1599 c.c. e 2643 n. 8 c.c. II contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale stipulato da un condominio per consentire ad altri la installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, sul lastrico solare del fabbricato condominiale richiede l’approvazione di tutti i condomini solo se la relativa durata sia convenuta per più di nove anni.
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Il 29 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 20552 alla cui stregua il mutuo di scopo risponde alla funzione di procurare al mutuatario i mezzi economici destinati al raggiungimento di una determinata finalità, comune al finanziatore, la quale, integrando la struttura del negozio, ne amplia la causa rispetto alla sua normale consistenza, sia in relazione al profilo strutturale, perché il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo concordato, mediante l’attuazione in concreto del programma negoziale, sia in relazione al profilo funzionale, perché nel sinallagma assume rilievo essenziale proprio l’impegno del mutuatario a realizzare la prestazione attuativa. La destinazione delle somme mutuate alla finalità programmata assurge pertanto a componente imprescindibile del regolamento di interessi concordato, incidendo sulla causa del contratto fino a coinvolgere direttamente l’interesse dell’istituto finanziatore, ed è perciò l’impegno del mutuatario a realizzare tale destinazione che assume rilevanza corrispettiva, non essendo invece indispensabile che il richiamato interesse del finanziatore sia bilanciato in termini sinallagmatici, oltre che con la corresponsione della somma mutuata, anche mediante il riconoscimento di un tasso di interesse agevolato al mutuatario. Secondo la Suprema Corte, inoltre, poiché nel mutuo di scopo, sia esso legale o convenzionale, la destinazione delle somme mutuate entra nella struttura del negozio connotandone il profilo causale, la nullità di un tale contratto per mancanza di causa sussiste solo se quella destinazione non sia rispettata, mentre è irrilevante che sia attuata prima o dopo l’erogazione del finanziamento, tanto più in mancanza, specificamente per il mutuo di scopo convenzionale, cui sia collegato il cd. contratto di ausilio, di alcuna norma imperativa dal contrasto con la quale possa derivarne una nullità sotto quest’ultimo profilo.
Questioni intriganti
Che cosa si intende per autonomia negoziale?
- si tratta di un principio cardine del diritto privato;
- i privati possono auto-regolamentare i propri interessi, sia di natura personale che patrimoniale;
- in particolare, possono determinare il contenuto del contratto tipico già previsto dal legislatore, nei limiti imposti dalla legge (art.1322, comma 1, c.c.);
- possono concludere contratti atipici, non previsti dalla legge, ma in questo caso per potere essere poi tutelati occorre che gli interessi che essi vanno a disciplinare siano, per l’appunto, meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art.1322, comma 2, c.c.): deve trattarsi di contratti leciti (come peraltro già si evince dalle norme che assumono nullo il contratto per illiceità della causa) e, almeno secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, anche socialmente utili ed apprezzabili (come si evince anche dalla relazione al codice civile, laddove parla di interessi in qualche modo coincidenti con interessi superiori di carattere sociale);
Cosa occorre ricordare in generale della causa del contratto?
- si tratta di un elemento essenziale del contratto, come tale imprescindibile anche laddove il contratto sia atipico;
- è strettamente connessa al concetto di spostamento patrimoniale, che è ammissibile solo se ha giustificazione causale;
- uno spostamento patrimoniale è causalmente giustificato se chi lo opera punta a soddisfare un proprio interesse;
- secondo il principio c.d. causalistico, non può esistere una riconoscibile autonomia privata senza uno scopo, che è appunto la causa in funzione della quale il soggetto manifesta la propria volontà di operare uno spostamento patrimoniale;
- la stretta connessione tra causa e scopo implica che laddove lo scopo non sia raggiunto vi siano delle ripercussioni sulla causa, come nelle ipotesi della eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, della impossibilità sopravvenuta della prestazione, ovvero del semplice inadempimento della controparte che ha beneficiato dell’attribuzione patrimoniale senza consentire al creditore di raggiungere il suo scopo;
- la causa serve allora anche ad interpretare e a qualificare il contratto, che va letto sulla base della causa che lo fonda, siccome ricavabile dagli interessi delle parti da soddisfare (scopi) e che sono il motore dell’autonomia privata.
Quale è la natura giuridica della causa del contratto?
- si tratta dei motivi che inducono le parti a contrarre (teoria c.d. soggettiva): in realtà detti motivi, pur essendo in qualche modo avvinti all’interesse che le parti intendono soddisfare spendendo autonomia privata, non si identificano con essi, tanto da essere esplicitamente assunti irrilevanti (come dimostra l’art.1345 c.c.);
- si tratta della funzione economico-sociale del contratto (teoria c.d. oggettiva): la pratica sociale e quella commerciale fanno affiorare delle esigenze ricorrenti e, con esse, degli interessi ricorrenti che le parti tendono a comporre attraverso un modello di contratto che viene poi tipizzato dal legislatore. Se, una volta saliti dalla causa al contratto ed alla conquistata tipicità normativa dello stesso, si ridiscende alla causa stessa, ecco che essa tende a compendiarsi nella funzione economico-sociale che quel contratto tende ad assolvere, e che ne ha appunto consentito la tipizzazione; muovendo da questa premessa, ogni contratto tipico (tipizzato) presenta una causa necessariamente lecita, avendolo il legislatore “raccolto” dalla prassi (e dai bisogni ed interessi che vi si esprimono) per farlo assurgere a contratto normativamente idoneo a svolgere una determinata funziona sociale; discorso diverso invece va fatto per i contratti atipici, che vengono forgiati dall’autonomia privata ma in relazione alla cui funzione economico sociale non vi è ancora stata una presa di posizione “tipizzante” (un crisma) del legislatore, e che dunque potrebbero presentare una causa illecita. Si tratta di una opzione interpretativa che mette in secondo piano gli interessi delle parti, i quali svolgono un ruolo solo nella fase ascendente della tipizzazione, per valorizzare piuttosto proprio tale tipizzazione e dunque il ruolo del legislatore: quando il contratto è divenuto tipico, la relativa funzione economico sociale si cristallizza e non può più parlarsi di potenziale illiceità della causa stante la positiva valutazione fatta a monte (ed a priori) dal legislatore. Senonché il sistema conoscerebbe ipotesi di contratto tipico con causa illecita nulla: è l’ipotesi del contratto di lavoro subordinato (sulla cui effettiva tipicità peraltro si potrebbe discutere), che all’art.2126 viene previsto con possibile causa illecita;
- si tratta dello scopo pratico che le parti perseguono, ovvero della funzione economico individuale (e non sociale) del contratto (teoria mista, ormai prevalente): sia che le parti facciano appello ad uno schema contrattuale già tipizzato dal legislatore, sia che ne forgino esse uno nuovo, bisogna guardare alla funzione che esse intendono concretamente realizzare attraverso il contratto (e dunque, in sostanza, ai concreti interessi che esse vogliono soddisfare) per trovare la causa del contratto. E’ vero che tutti i contratti di un medesimo tipo (e dunque ormai tipizzati) perseguono una funzione economico sociale, ma quest’ultima è appunto connessa al tipo contrattuale – che è concetto strutturale e statico – mentre la causa del contratto ne concerne l’ambito funzionale e dinamico, volendo le parti attraverso il contratto realizzare reciprocamente i propri interessi (al di là degli interessi, talvolta omologhi, che altre parti hanno inteso o intenderanno realizzare stipulando contratti del medesimo tipo): possono farlo aderendo ad uno schema tipo previsto dal legislatore (e dunque inserendosi nella scia della funzione economico sociale propria del tipo, nel mentre assolvono anche alla propria funzione economico individuale); ma possono farlo anche dissociandosi dai tipi predefiniti, ed affidando il soddisfacimento concreto dei rispettivi interessi ad uno schema nuovo ed atipico, con la conseguenza che solo in caso di meritevolezza degli interessi in concreto perseguiti potrà parlarsi della sussistenza di una causa (lecita). Per quanto concerne i motivi, essi – che sovente giacciono nel foro interno di chi li porta – restano comunque irrilevanti e collaterali agli interessi che le parti intendono perseguire, rectius che manifestano di voler perseguire e che rifluiscono nella causa “concreta” (e non già nel tipo contrattuale, che è invece astratto, quale sorta di recezione legislativa di uno schema che ha avuto successo nella prassi).
Come si colloca il giudizio di meritevolezza degli interessi in relazione alla causa in astratto e quella in concreto?
- causa in astratto come funzione economico sociale del contratto (schema astratto): se il contratto prescelto dalle parti è tipico, esso si inserisce in uno schema (tipo) già previsto dal legislatore, ed ha dunque una sua causa tipica, onde una volta individuato il tipo contrattuale prescelto, l’indagine sulla causa si ferma, e gli interessi sono presunti meritevoli di tutela; se il contratto prescelto dalle parti è atipico, il giudice deve verificare se gli interessi perseguiti dalle parti sono meritevoli di tutela, forgiando in caso positivo un “tipo” pretorio con arresto di ogni ulteriore indagine sulla causa. In sostanza, la meritevolezza degli interessi (presunta nei contratti tipici, o accertata in quelli atipici) blocca ogni ulteriore indagine sulla causa;
- causa in concreto, come funzione economico individuale del contratto: sia nel caso del contratto tipico (meritevolezza di tutela degli interessi presunta) che in quello del contratto atipico (meritevolezza di tutela degli interessi eventualmente accertata), l’indagine sulla causa non può fermarsi, dovendo andare a verificare in concreto se gli interessi perseguiti dalle parti abbiano un rilievo economico-individuale apprezzabile e lecito. In sostanza, l’avvento della causa in concreto reca seco la distinzione tra meritevolezza degli interessi in astratto (presunta nei contratti tipici ed accertata nei contratti atipici) e meritevolezza degli interessi in concreto (da accertarsi tanto per i contratti tipici che per quelli atipici).
Muovendo dalla c.d. causa in concreto, quali sono allora i controlli ai quali vanno assoggettati i singoli contratti?
- contratti tipici: la meritevolezza degli interessi astratti delle parti è presunta e dunque occorre accertare soltanto a.1) esistenza di una causa in concreto: quali sono gli interessi concreti che le parti perseguono attraverso lo schema astratto prescelto?; a.2) liceità della causa riscontrata: il perseguimento di tali interessi in concreto è lecito?;
- contratti atipici: b.1) meritevolezza degli interessi perseguiti (che nei contratti tipici è stata acclarata una volta per tutte dal legislatore attraverso la fissazione del tipo): in cosa consiste lo schema contrattuale nuovo prescelto dal punto di vista astratto? E’ meritevole di tutela giuridica?; b.2) esistenza di una causa in concreto: quali sono gli interessi concreti che le parti perseguono attraverso lo schema astratto prescelto?; b.3) liceità della causa riscontrata: il perseguimento di tali interessi in concreto è lecito?
In cosa consiste il c.d. principio causalistico?
- nessuno spostamento patrimoniale è ammissibile se non è sostenuto da una causa lecita e dunque, sostanzialmente, da un interesse meritevole di tutela del soggetto a carico del quale lo spostamento avviene (ragione giustificatrice causale dello spostamento);
- nei contratti ad effetti reali, il controllo causale deve intendersi più rigoroso stante l’immediatezza dei relativi effetti, reali appunto, rispetto ai contratti ad effetti obbligatori, che si limitano a creare un obbligazione;
- va allora esclusa la validità dei negozi c.d. astratti in senso assoluto, che cioè presentano una marcata scissione dalla loro causa, tanto da fare ritenere che con essi si fa luogo a spostamenti patrimoniali non giustificati.
Quali figure occorre rammentare quando si parla di negozi astratti, come tali in potenziale frizione con il principio causalistico?
- il negozio (atipico) di accertamento e quelli ad esso affini come la confessione e la transazione: sotto l’apparenza dichiarativa (di accertamento) possono talvolta nascondere effetti costitutivi (con connesso spostamento patrimoniale) privi di causa;
- i titoli di credito, che consacrano documentalmente una prestazione (letteralità) senza indicare da quale causa discende e per quale causa è dovuta dal debitore (autonomia); deve tuttavia sempre sussistere un rapporto fondamentale (c.d. extracartolare) che giustifica lo spostamento patrimoniale consacrato nel titolo, onde il debitore emittente (o cedente), laddove il rapporto extracartolare sottostante in realtà non vi sia, può sempre agire con l’azione di indebito arricchimento nei confronti del soggetto portatore del titolo stesso (si parla in proposito di c.d. astrattezza relativa dei titoli di credito),
- le ipotesi di astrazione meramente processuale, che si risolve in una inversione dell’onere della prova, come la promessa di pagamento e la ricognizione di debito, in cui la causa dello spostamento patrimoniale deve comunque essere presente ed il problema è solo quello di vedere chi deve provarla;
- le fattispecie con causa c.d. variabile o incompleta: si tratta di quegli schemi quali la cessione del credito, la delegazione, l’espromissione, l’accollo, la cessione del contratto, che apparentemente si presentano senza causa o con una causa monca, ma che in realtà – pur palesandosi privi di una causa in astratto, ovvero di una funzione economico sociale tipica, essendo asservibili agli interessi più disparati delle parti – hanno invece (e non possono non avere) una impreteribile causa in concreto, soddisfacendo di volta in volta specifici interessi delle parti contrattuali che vi fanno luogo e rispondendo alla logica, tipica della causa in concreto, della c.d. funzione economico individuale;
- le fattispecie gratuite in cui lo spostamento patrimoniale non risponde né ad una causa giustificativa di scambio (compravendita) né di liberalità (donazione): in questi casi, come è accaduto per i negozi a causa variabile o incompleta, il mutamento di prospettiva della giurisprudenza ed il connesso spostamento del baricentro causale dall’astratto (funzione economico sociale, tipo) al concreto (funzione economico individuale, interessi concreti in rapporto alla singola operazione negoziale) ritiene ormai questi negozi ammissibili perché idonei – sulla scorta appunto delle concrete scelte operate di volta in volta dalle parti – a sottendere una causa gratuita atipica non donativa: l’attribuzione patrimoniale è giustificata da un interesse patrimoniale (e non personale, come nel caso della donazione) del debitore, come ad esempio avviene nel caso della sponsorizzazione; da questo punto di vista, nel genus della onerosità si riscontra la species, a livello causale, dello scambio, mentre nel parallelo genus della gratuità si riscontra, sempre a livello causale, la species della liberalità (interesse personale del debitore/trasferente) e quella dell’atto gratuito atipico non liberale (interesse patrimoniale del debitore/trasferente);
- le fattispecie in cui la causa esiste, ma è fondamentalmente esterna rispetto all’atto giuridico considerato, come nelle fattispecie di c.d. pagamento traslativo laddove si assiste ad un adempimento (spostamento patrimoniale) la cui giustificazione causale si rinviene in un altro negozio a monte, collegato (tipico il caso dell’art.1706, comma 2, c.c.: ritrasferimento al mandante dell’immobile acquistato per suo conto dal mandatario senza rappresentanza); si dice in questi casi che il pagamento traslativo compendia attuazione vincolata di un negozio esterno ad esso. In queste fattispecie è il collegamento e la complessiva operazione negoziale ad illuminare la causa, palesando come la causa sussista anche con riguardo a spostamenti patrimoniali che a tutta prima parrebbero esserne privi. Si ha un negozio a monte (titulus) che programma il trasferimento di un diritto reale attuato da un negozio a valle (modus adquirendi), onde quest’ultimo non è privo di causa, ma la rinviene appunto nel negozio a monte, dovendosi riguardare l’operazione economica voluta dalle parti nel suo complesso e non in modo atomistico. In questa prospettiva, mentre normalmente, ex art.1376 c.c., in un solo atto negoziale si concentrano lo scambio dei consensi e la “giustificata” attribuzione patrimoniale, l’art.1322 c.c. consente talvolta alle parti di derogare a tale schema (proprio della compravendita e della donazione ad effetti reali), ponendo lo scambio dei consensi e la connessa giustificazione causale in un atto a monte, e l’attribuzione patrimoniale attuativa (obbligatoria) in un successivo e collegato atto a valle. In questa ipotesi derogatoria (negozio atipico con connotazione solutoria rispetto ad un obbligo ex lege ovvero cristallizzato dalle parti in un precedente negozio a monte), si distingue poi chi richiede nell’atto a valle la c.d. expressio causae (va menzionato il titulus, ovvero la legge in caso di fonte legale, da cui discende l’obbligazione che si va adempiendo) da chi invece – ed è la giurisprudenza maggioritaria – non ritiene necessaria una specifica indicazione della causa, potendosi verificare la sussistenza della causa medesima ricavandola dalla volontà delle parti e dal collegamento che si instaura tra il pagamento traslativo ed il relativo negozio “a monte” (titulus).
Quali vicende possono coinvolgere la causa lecita del contratto?
- la causa manca totalmente (esempio: acquisto di cosa propria): il contratto è nullo; può trattarsi di difetto genetico o originario (la causa manca fin dall’inizio) o di difetto sopravvenuto o funzionale, come nelle ipotesi in cui l’interesse di una delle parti non può essere soddisfatto perché una parte è inadempiente (art.1218 c.c.), perché la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa (art.1467 c.c.), perché la prestazione di una delle parti è divenuta totalmente impossibile (art.1463 c.c.), ovvero – seguendo la più recente giurisprudenza – perché pur essendo la prestazione ancora possibile, essa non è più utilizzabile dal creditore;
- la causa manca parzialmente: esiste una sproporzione tra le attribuzioni patrimoniali e gli interessi che con esse si intendono rispettivamente soddifare; se è originaria, il contratto è rescindibile ai sensi degli articoli 1447 e 1148 c.c.; se è sopravvenuta la parziale impossibilità di una delle prestazioni, si applica il relativo regime (art.1464 c.c.);
Quali sono i problemi che pone la parziale mancanza originaria di causa, laddove non si configurino i presupposti della rescissione?
- è un problema legato al sinallagma e all’equilibrio tra le prestazioni divisate dalle parti, e dunque è un problema fondamentalmente di convenienza economica dell’affare, tradizionalmente appannaggio delle parti stesse che si muovono nel mercato;
- tuttavia la sempre maggior rilevanza attribuita al principio di buona fede, da un lato, e la maturata presa di coscienza di situazioni di squilibrio contrattuale di fatto in presenza di contraenti particolarmente deboli (a cagione di asimmetrie informative e di disparità di tipo professionale ed economico), convergono verso scelte legislative intese a garantire alla parte debole – in via diretta o attribuendo poteri al giudice – una tutela sempre più efficace nell’ottica del riequilibrio.
Cosa accade se la causa è presente nella fase genetica, e viene meno nella fase funzionale del contratto, al di fuori dei casi normati dell’inadempimento, della eccessiva onerosità sopravvenuta o della impossibilità sopravvenuta?
- secondo la tesi tradizionale la presenza della causa è essenziale solo al momento della conclusione del contratto, in termini di eventuale nullità del contratto stesso per difetto di un elemento essenziale; le sopravvenienze rilevano solo nei termini indicati dal legislatore, e non rilevano al di fuori di essi;
- secondo la tesi più recente, il sopravvenuto difetto di causa può produrre non l’invalidità del contratto che ne risulti affetto, quanto piuttosto la relativa inefficacia sopravvenuta.
Quando la causa del contratto, presente, può dirsi illecita così affettandolo di nullità?
Tanto in caso di contratto tipico (astrattamente recepito come schema dal legislatore) quanto in caso di contratto atipico (forgiato dall’autonomia negoziale delle parti), il reciproco relazionarsi degli interessi che le parti intendono in concreto soddisfarsi è illecito e dunque nullo (ex art.1418, comma 2, e 1343 c.c.) in tre casi:
- quando è contrario a norme imperative e dunque, secondo le ultime acquisizioni, quando si pone in frizione con norme di interesse pubblico, sicché il perseguimento di interessi privati diviene illecito perché in contrasto con disposizioni che hanno come scopo quello di realizzare un interesse pubblico. Il contratto è nullo e le prestazioni già eseguite sono ripetibili;
- quando è contrario all’ordine pubblico, e dunque non tanto a norme imperative specifiche singolarmente prese, quanto piuttosto a quei principi che fondano l’ordinamento giuridico e che hanno, di norma, dignità costituzionale. Proprio perché non si tratta di parametrare la divisata operazione contrattuale con singole e specifiche norme, quanto piuttosto con principi basilari ricavabili (anche per implicito) dalla Costituzione, la nullità del contratto per causa contraria all’ordine pubblico è figura maggiormente duttile ed adattabile ai valori di volta in volta ritraibili dall’ordinamento, siano essi di consistenza etica, economica o sociale; Il contratto è nullo e le prestazioni già eseguite sono ripetibili;
- quando è contrario (anche inconsapevolmente) al buon costume, ovvero a quel complesso di principi etici che fondano la morale sociale: in un determinato contesto storico ed ambientale, la generalità delle persone in buona fede, corrette e di sani principi informa il proprio comportamento a questi canoni che compendiano per l’appunto la morale sociale. Il contratto è nullo e le prestazioni già eseguite sono tuttavia ripetibili.
Cosa distingue il motivo dalla causa?
- il motivo è di natura soggettiva e resta relegato nel foro interno di chi lo porta, compendiando perché la parte decide di voler soddisfare un proprio interesse;
- la causa è di natura oggettiva, e si palesa nel dinamico intrecciarsi degli interessi che le parti (negli atti bilaterali o plurilaterali) dichiarano l’una all’altra di volersi reciprocamente soddisfare, in disparte i personali motivi per i quali decidono di voler vedere soddisfatti tali interessi attraverso il negozio.
Cosa occorre rammentare in particolare dei motivi?
- i motivi non sono elementi essenziali del contratto e dunque, di regola, non spiegano incidenza sulla relativa validità ed efficacia, come invece accade per la causa; in alcune fattispecie il motivo può rifluire negativamente sulla causa e spiegare incidenza sulla validità del negozio, come nel caso del motivo illecito comune ad entrambe le parti nel contratto (art.1345 c.c.), ovvero del motivo erroneo o illecito nella donazione e nel testamento: in queste ipotesi il motivo (erroneo o illecito) affetta la causa, in quanto lambisce, colorandolo in negativo, l’interesse o gli interessi che la parte o le parti dichiarando di voler perseguire con il singolo negozio; in altri casi il motivo rifluisce in senso positivo (o comunque non negativo) sulla causa, come nel caso degli elementi accidentali del contratto (primo tra tutti la condizione), o come nel caso della c.d. presupposizione (per chi la riconnette ai motivi);
- i motivi vanno sceverati rispetto alla causa laddove le parti non facciano luogo ad uno schema contrattuale atipico ex art.1322 c.c., ma perseguano piuttosto i loro interessi attraverso quella che è stata definita una “manipolazione funzionale” o comunque un collegamento tra schemi tipici, come nelle ipotesi del negozio misto, del negozio collegato, di quello indiretto e di quello complesso: in queste ipotesi, solo dividendo attentamente gli interessi perseguiti dai motivi per i quali si decide di perseguirli è possibile qualificare l’operazione complessiva, la relativa causa per come essa concretamente si atteggia e dunque il complessivo scopo negoziale.
In cosa consiste la presupposizione?
- soddisfa un’esigenza di giustizia sostanziale;
- il contratto non la prevede esplicitamente;
- è esterna al contratto;
- ne costituisce un presupposto oggettivo;
- si compendia in una situazione di fatto o di diritto;
- tale situazione può essere passata, presente o futura;
- le parti non l’hanno connessa ad una loro specifica obbligazione;
- essa esiste, si verifica o cessa di operare in modo del tutto indipendente dalla volontà delle parti o da una qualche loro attività;
- non vi si ritrova alcun espresso riferimento nel corpo testuale del contratto;
- si ritiene ragionevolmente che le parti la abbiano considerata quando hanno formato la loro volontà di contrarre;
- la assumono – come tale – determinante per l’esistenza del contratto o per l’ulteriore produzione dei relativi effetti, considerandola quale presupposto imprescindibile del loro consenso.;
- laddove manchi, finisce col caducare il contratto (o comunque col privarlo di efficacia);
- eventi oggettivi sottraggono a tale contratto l’assetto inizialmente impressogli dalle parti, ponendo nel nulla l’evento imprescindibile che esse hanno presupposto per formare e manifestare la loro volontà.
Quali istituti vengono richiamati dalla dottrina in relazione alla presupposizione?
- rileva l’interpretazione del contratto secondo buona fede ex art.1366 c.c., attraverso la quale può essere adeguatamente valorizzato il fatto oggettivo presupposto dalle parti, ma non esplicitato in contratto;
- per altri, occorre fare riferimento ai motivi dei contraenti, che come noto sono irrilevanti, con la conseguenza onde la stessa presupposizione è irrilevante (i motivi restano tuttavia nel foro interno del singolo contraente, mentre nel caso della presupposizione si tratta di un motivo quanto meno comune, appuntantesi su un presupposto che le parti giudicano essenziale per la vita del contratto);
- per altri ancora, rileva la disciplina della impossibilità sopravvenuta ex art.1463 c.c., onde in caso di mancata realizzazione dell’evento oggettivo presupposto, la prestazione o le prestazioni debbono intendersi come ormai impossibili, con conseguente risoluzione del contratto;
- secondo altri, rileva l’art.1467 c.c. laddove disciplina la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta: si tratta di una norma che consente di applicare ai contratti la clausola rebus sic stantibus con la conseguenza onde, stante la essenzialità e la impreteribilità del presupposto oggettivo per entrambe le parti, il relativo venire meno a cagione di sopravvenienze giustifica la risoluzione del contratto, anche se non si tratta di una risoluzione automatica (non vi è impossibilità della prestazione o delle prestazioni) ma di una eccessiva onerosità che potrebbe spingere le parti medesime a riequilibrare le sorti del contratto (tuttavia l’art.1467 concerne i soli contratti a prestazioni corrispettive mentre lo spettro applicativo della presupposizione è assai più vasto; inoltre l’eccessiva onerosità sopravvenuta ha a che fare con un evento sopravvenuto imprevedibile, mentre all’opposto nella presupposizione si “pre-suppone” talvolta come già realizzatosi un fatto essenziale per la vita del contratto, che poi si scopre non essere reale);
- per altri, infine, rileva la condizione, da assumersi come tacita quando assume la foggia della presupposizione, sicché laddove non si realizzi l’evento presupposto il contratto è da assumersi inefficace (in realtà la condizione è evento futuro ed incerto, mentre nel caso della presupposizione il fatto oggettivo presupposto, essenziale per la vita del contratto, o è passato o presente – e dunque certo – ovvero è futuro, qualificandosi in tal caso comunque come altamente probabile).
Che cosa è il negozio indiretto e che problemi pone?
- ogni negozio ha un suo risultato tipico che le parti perseguono nel farvi luogo (causa);
- talvolta si fa luogo ad un negozio per perseguire, oltre al risultato tipico che lo peculiarizza, anche un risultato ulteriore, quello appunto proprio di un negozio indiretto; le parti vogliono il negozio A (e dunque non vi è simulazione assoluta) ma per raggiungere gli effetti di un negozio indiretto B (non essendovi dunque neppure simulazione relativa, in quanto le parti vogliono proprio A, ben sapendo che produce loro anche l’effetto B, senza che si faccia luogo ad un diverso e dissimulato negozio B);
- in qualche caso, per perseguire il risultato ulteriore occorre far luogo a più negozi diretti collegati tra loro, discorrendosi in questo caso di procedimento indiretto (quale species del genus collegamento negoziale).
- ne è discussa la natura: d.1) è un negozio diretto che ha una sua causa astratta, onde gli scopi ulteriori (ed indiretti) sono da riconnettersi ai motivi, come tali irrilevanti; non è isolabile una autonoma categoria di negozio indiretto; d.2) è un negozio diretto che ha una sua causa astratta, ma anche una sua causa concreta ed indiretta, sicché i motivi non c’entrano nulla e la natura indiretta va piuttosto ricondotta alla causa in concreto, onde il negozio indiretto fa categoria causale a sé (secondo alcuni, è negozio atipico); d.3) è un particolare tipo di collegamento negoziale in cui le parti avvincono da nesso teleologico – giusta sequenza procedimentale – due o più negozi per raggiungere, ponendoli in essere, un effetto ulteriore ed indiretto.
In cosa consiste il fenomeno del c.d. collegamento negoziale?
- talune operazioni economiche complesse richiedono una duttilità di azione che non può essere cristallizzata in schemi rigidi, altrimenti diviene difficile per le parti perseguire gli interessi che si propongono di soddisfare;
- il programma negoziale predisposto dalle parti è allora unico, e dunque la causa deve intendersi unica, compendiandosi negli interessi connessi alla complessiva operazione economica divisata dalle parti;
- i contratti in campo sono tuttavia diversi e molteplici, ciascuno con una sua struttura ed una sua causa tipica ed autonoma;
- essi sono collegati sia sul crinale oggettivo (assetto economico unitario e conseguente nesso teleologico tra i vari negozi avvinti tra loro) sia su quello soggettivo (le parti si prefigurano e vogliono non solo gli effetti tipici dei vari negozi avvinti tra loro, ma anche l’effetto complessivo che discende dal loro collegamento); ciò che li unisce è proprio la causa dell’operazione complessivamente considerata;
- un classico esempio è quello del credito al consumo: il finanziatore vuole prestare denaro per riscuotere un interesse; il venditore vuole vendere un bene riscuotendone subito il prezzo; l’acquirente vuole acquistare subito il bene avvalendosi del denaro che gli fornisce il finanziatore;
- la causa è allora complessiva, e risulta dal collegamento delle singole ed autonome cause di negozi che restano autonomi, seppure avvinti tra loro da un nesso strutturale o funzionale, mentre nel contratto misto le cause tendono a fondersi in un’unica causa, al cospetto di segmenti negoziali dell’uno e dell’altro tipo (es: vendita mista con donazione; in ambito pubblicistico, almeno in origine il Global service, in cui i servizi si mescolano con il lavori); parimenti nel contratto complesso la causa che ne esce alfine è unica, seppure essa rappresenti la sintesi non già di segmenti negoziali, quanto piuttosto di veri e propri negozi tipici; nel collegamento negoziale, supponendo che i negozi collegati siano solo due, le cause sono invece 3, vale a dire quella del negozio A, quella del negozio B, e quella della complessiva operazione C scaturente dal collegamento tra A e B. Ciò consente talvolta in giurisprudenza di affermare l’applicabilità dell’art.1419 c.c. sulla nullità parziale (struttura), e dell’art.1460 c.c. sulla eccezione di inadempimento (funzione), purché tuttavia in questo ultimo caso sia ravvisabile un nesso di corrispettività tra la prestazione di cui al negozio A (esempio: vendita) e quella del negozio collegato B (esempio: mutuo finalizzato all’acquisto).
Quali sono i diversi modelli possibili di collegamento negoziale?
- unilaterale: la sorte del negozio A (principale) influenza quella del negozio B (secondario), ma non viceversa, onde solo in caso di vizio del negozio A (nullo, annullabile, rescindibile, risolubile) vale la regola simul stabunt, simul cadent;
- bilaterale: la sorte del negozio A influenza quella del negozio B, e viceversa, dovendosi entrambi assumere principali l’uno rispetto all’altro, onde sia in caso di vizio del negozio A che di vizio del negozio B vale la regola simul stabunt, simul cadent;
- genetico: si manifesta – ex ante – sin da quando i negozi collegati vengono posti in essere (tipico il caso del preliminare e del definitivo);
- funzionale: si manifesta – ex post – con riguardo agli effetti dei negozi collegati (tipico il caso della ratifica rispetto negozio senza rappresentanza, o della convalida rispetto al negozio annullabile), ovvero – più avanti ancora – nel solo ambito della rispettiva esecuzione;
- necessario: vi sono negozi che non possono che essere collegati ad altri, come il negozio di accertamento, il negozio risolutivo, quello preparatorio, quello accessorio e così via;
- volontario: il collegamento tra il negozio A e il negozio B non sarebbe necessario, ma la volontà delle parti lo manifesta tale, onde far sì che il complesso dell’operazione economica posta in essere consenta di soddisfare interessi che i singoli ed autonomi negozi, isolatamente considerati, non permetterebbero di conseguire; da questo punto di vista, la giurisprudenza assume configurabile un collegamento negoziale volontario quando siano ad un tempo presenti tanto l’elemento oggettivo (i negozi sono avvinti da un nesso teleologico) quanto quello soggettivo (le parti vogliono non solo l’effetto tipico dei singoli negozi autonomante assunti, ma anche quello ulteriore e complessivo che discende dal relativo collegamento). A seconda di ciò che le parti hanno in concreto voluto, in termini di unilateralità o bilateralità del collegamento divisato, si applicherà in diversa foggia la regola simul stabunt, simul cadent;
- necessario: il collegamento è previsto ex lege e si applica sempre la regola simul stabunt, simul cadent, come accade ormai alla fattispecie del credito al consumo dopo le prese di posizione del legislatore e del giudice europeo.
In cosa si compendia la figura del c.d. contratto misto?
- si parte da una struttura contrattuale unica e complessa;
- essa sfocia dalla commistione di diverse tipologie contrattuali tipiche (esempio classico, il contratto misto cum donatione);
- ha una causa unitaria e mista, che è la sintesi delle varie cause tipiche (a differenza di quanto accade nel collegamento negoziale, in cui ciascun contratto tipico conserva una propria autonoma causa, che si avvince tuttavia a quelle degli altri negozi collegati);
- non è un contratto misto quello già disciplinato dal legislatore come contratto a struttura mista, ma avente una sua propria tipicità, come nel caso della locazione di cassette di sicurezza;
- non è un contratto misto quello nella cui economia si rintraccia, accanto ad una prestazione principale, un’altra accessoria e secondaria, in quanto continua a campeggiare la sola causa del contratto tipico, mentre esclusivamente nel caso di convergenza di più cause tipiche in un’unica struttura contrattuale a causa mista si può davvero discorrere di contratto misto; da questo punto di vista, si discute ormai se sia un contratto misto il c.d. Global service in tema di manutenzione di immobili pubblici, laddove è proprio ormai l’oggetto principale del contratto, ai sensi dell’art.28 del decreto legislativo n.50.16, a qualificare – anche in termini di causa – il contratto stesso come appalto di lavori ovvero di servizi, rivestendo le prestazioni non rientranti nell’oggetto principale ridetto una posizione ancillare ed accessoria.
Quale disciplina si applica al contratto misto?
- si seleziona la tipologia contrattuale prevalente e si applica all’intero contratto direttamente la disciplina di tale contratto prevalente (c.d. teoria dell’assorbimento, maggioritaria);
- si seleziona la tipologia contrattuale prevalente e si applica all’intero contratto – per analogia – la disciplina di tale contratto prevalente (c.d. tesi dell’analogia, minoritaria);
- si guarda al singolo elemento del contratto misto che rileva nel caso di specie e gli si applica la disciplina contrattuale prevista per il relativo tipo (teoria della combinazione, minoritaria);
Cosa compendia il contratto misto con donazione?
- un contratto in cui la causa di liberalità si intreccia con quella del diverso contratto (normalmente oneroso) cui accede: nell’ipotesi della compravendita mista a donazione, la causa di liberalità (che soddisfa un interesse personale del donante) si intreccia con quella di scambio (che soddisfa un interesse patrimoniale dell’alienante, coincidente con il conseguimento di un prezzo, seppure modico);
- un contratto, dunque, che potrebbe essere rescindibile per lesione a cagione della sproporzione delle prestazioni, ma che attraverso la presenza di una causa di liberalità “mescolata” a quella tipica del contratto medesimo, lo rende valido ed efficace;
- secondo la tesi più accreditata, un negozio indiretto: le parti utilizzando lo schema tipico della compravendita al fine di perseguire una finalità e, dunque, di soddisfare (almeno in parte) un interesse ulteriore, che è quello tipico della donazione: da questo punto di vista, mentre sul crinale strutturale l’atto è disciplinato dalle disposizioni che regolano lo schema tipico (vendita), il successivo rapporto è invece disciplinato sul crinale funzionale dalle disposizioni che regolano la causa ulteriore (donazione), sicché potranno ad esempio dirsi operative le disposizioni in tema di ingratitudine, collazione, o di azione di riduzione, o la revocatoria per atto gratuito e così via;
- secondo taluni, una fattispecie negoziale unitaria in cui confluiscono, senza tuttavia mescolarsi tra loro, due cause distinte ed incompatibili, come appunto lo scambio e la liberalità; da questo punto di vista, a seconda se – oggettivamente o soggettivamente – prevalga l’una o l’altra causa, si applica il relativo regime all’intera fattispecie negoziale unitaria, onde se prevale sul crinale soggettivo l’intento di liberalità dell’alienante, si applica la disciplina della donazione, mentre in caso di sproporzione tra prestazioni oggettivamente non troppo marcata, si applica la disciplina della vendita;
- secondo altri, se le cause sono distinte ed incompatibili, non può parlarsi di fattispecie negoziale unitaria, ma di operazione economica unitaria che si compendia tuttavia in due negozi distinti e collegati tra loro.
Cosa è – e che limiti di operatività ha – il negozio in frode alla legge ex art.1344 c.c.?
- le parti stipulano un negozio lecito;
- combinano tale negozio lecito con altri atti o negozi, del pari leciti;
- realizzano un risultato (concreto assetto di interessi) che elude l’applicazione di una norma imperativa, e che è dunque vietato, attraverso tale combinazione tra negozio lecito e atti o negozi collegati leciti;
- causa astratta: ogni contratto corrispondente a un tipo ha, per ciò solo, una causa ed una causa lecita, onde la causa può essere illecita proprio quando il contratto è in frode alla legge; l’art.1344 c.c. ha un più ampio margine di operatività;
- causa concreta: ogni contratto corrispondente ad un tipo (come quelli atipici) non è detto che abbia una causa, e non è detto che abbia una causa lecita, sicché potrebbe avere anch’esso (come un contratto atipico) una causa illecita ex art.1343 c.c.; l’art.1344 c.c. ha un più basso margine di operatività, anche se non se ne esclude la autonoma rilevanza e configurabilità, specie quando la frizione del contratto con la legge sia non già patente e macroscopica (si applica l’art.1343), quanto piuttosto subdola ed indiretta (si applica appunto l’art.1344).