Cass. pen., III, ud. dep. 17.09.2021, n. 34582
Palpeggiare l’ex convivente in assenza del suo consenso configura il reato di violenza sessuale.
In particolare, secondo la Corte di Cassazione, integra l’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa (Sez. 3, n. 22127 del 23/06/2016, dep. 2017, S., Rv. 270500).
Nella fattispecie concreta l’uomo, pur se allontanato con il gomito dalla donna impegnata al telefono con il proprio datore di lavoro, l’ha palpeggiata.
La vicenda, dunque, non può essere ricostruita come caratterizzata da consenso implicito al compimento di atti sessuali, come contrariamente asserito dall’imputato, ma la stessa va qualificata anche tenendo in considerazione il contesto di prevaricazione, minaccia e violenza che ha connotato la relazione e che anche il giorno stesso della vicenda in esame, era sorretta da un rifiuto implicito da parte della donna al compimento di atti sessuali.
Nella sentenza d’Appello è stato riconosciuto il dolo dell’imputato, essendo stata esclusa la plausibilità di un dubbio, da parte sua, sulla sussistenza del dissenso (cfr. Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018, P., Rv. 274417) e dovendosi osservare come sia al proposito sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, essendo conseguentemente irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa (Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016, S., Rv. 268186).
Inoltre, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (Sez. 4, n. 16122 del 12/10/2016, L., Rv. 269600; Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015, dep. 2016, D., Rv. 266272; Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015, K., Rv. 263821). In particolare, per il riconoscimento della circostanza attenuante deve potersi ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n. 23913 del 14/05/2014, C., Rv. 259196; Sez. 3, n. 19336 del 27/03/2015, G., Rv. 263516), dovendosi escludere che la sola tipologia dell’atto possa essere sufficiente per ravvisare o negare tale attenuante (Sez. 3, n. 39445 del 01/07/2014, S., Rv. 260501).
Quanto al delitto di maltrattamenti la abituale condotta vessatoria tenuta dall’imputato nel pur breve periodo in cui durò la convivenza more uxorio (che la persona offesa fu costretta ad interrompere proprio per sottrarsi ad una insostenibile situazione di sofferenza pur dopo essere rimasta in stato interessante, ciò che rende assolutamente generico il rilievo circa il fatto che sarebbe mancata una prospettiva di stabilità). Quanto al rilievo che, nella sostanza, la convivenza durò soltanto cinque mesi, va ribadito che il reato di cui all’art. 572 c.p., non richiede che gli atti vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Sez. 3, n. 6724 del 22/11/2017, dep. 2018, D.L., Rv. 272452, relativa a fattispecie in cui la condotta contestata era stata attuata nel corso di tre mesi di convivenza frammezzata da periodi di quiete). Lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, C., Rv. 274519) e neppure rileva che la persona offesa, dopo aver interrotto la convivenza, abbia deciso di riprendere i rapporti, anche sessuali, con l’imputato, finendo poi con il subire nuove aggressioni come quelle anche in questo giudizio contestate e ritenute.