CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE VI – 3, ORDINANZA N. 26994 DEL 05.10.2021
Il fatto*
Nel 2009 un medico, intervenendo in un giudizio, già pendente dinanzi al Tribunale di Venezia, chiese la condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, del Ministero della Salute e del Ministero dell’economia (che in quel giudizio avevano la veste di convenuti) al risarcimento del danno.
La dottoressa sosteneva che dopo avere conseguito la laurea in medicina, si era iscritta alla scuola di specializzazione in Geriatria e gerontologia, frequentandola dal 1985 al 1989 e conseguendo il relativo diploma.
Durante il periodo di specializzazione non aveva percepito alcuna remunerazione o compenso da parte della scuola stessa;
All’epoca le Dir. comunitarie n. 75/362/CEE e Dir. n. 75/363/CEE, così come modificate dalla Dir. n. 82/76/CEE, avevano imposto agli Stati membri di prevedere che ai frequentanti le scuole di specializzazione fosse corrisposta una adeguata retribuzione.
L’Italia aveva dato tardiva e parziale attuazione a tali direttive solo con la L. 8 agosto 1991, n. 257.
La signora, dunque, non percepì alcuna remunerazione durante gli anni nei quali frequentò la scuola di specializzazione però vide i suoi colleghi specializzandi remunerati dall’anno 1991.
La predetta concluse, pertanto, chiedendo la condanna delle amministrazioni convenute al risarcimento del danno sofferto in conseguenza della tardiva attuazione delle suddette direttive.
La questione di diritto che involge il caso affrontato dalla Suprema Corte e da lei dato ha percorso il seguente ragionamento: il diritto alla remunerazione è un diritto importante e, dunque, fondamentale; farlo venir meno, soprattutto per negligenza del singolo Stato che non ne dia attuazione interna, significherebbe incidere negativamente ed arbitrariamente sulla natura comunitaria del diritto alla remunerazione. Significherebbe renderlo un diritto condizionato.
L’importanza di tale diritto, data dalla natura comunitaria, trova ulteriore convalida all’interno del sistema nazionale interno italiano, a livello costituzionale, all’art. 36 della Costituzione italiana che statuisce: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente …”.
La Suprema Corte, dunque, ha deciso che essendo il diritto alla remunerazione un diritto fondamentale dell’Unione europea, questo non può essere leso, non riconoscendolo e privandone il legittimo destinatario, a causa della negligenza dello Stato membro che ne dovrebbe dare attuazione interna.
In sostanza il diritto alla remunerazione, per le ragioni fin qui indicate, non può essere un diritto condizionato, ma deve essere attuato in virtù della sua natura comunitaria nonchè, a livello nazionale, anche in virtù della sua natura costituzionale e della consequenziale sua inderogabilità. La negligenza o le scelte interne di un paese che non siano giustificate da questioni sostanziali che si bilancino, prevalendo, con quelle comunitarie, non possono avere il potere di condizionare l’attuazione di un diritto fondamentale, comunitario, come quello alla remunerazione.
Il diritto alla remunerazione è un diritto essenziale e fondamentale dei sistemi democratici; esso permette la crescita della civiltà nonché attua la dignità dell’uomo. Non è dunque difficile comprendere perché l’art. 1 della Costituzione statuisca che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro..”.
Il ragionamento della Suprema Corte è un ragionamento pregevolissimo che tiene in grande considerazione uno dei principi cardini non solo del diritto ma del sistema civile che appartiene alle nazioni dell’uomo.
Si tratta, infatti, di un diritto che ha natura incondizionata e la sua soddisfazione, nonché attuazione, non possono essere soggette ovvero dipendere da scelte discrezionali dello Stato.
Preliminare – Le ragioni della Corte d’Appello*
La Corte d’Appello faceva un ragionamento molto lontano da quello fondante il principio di diritto.
Ciò che veniva opposto dalla Corte di Appello era che “il diritto alla remunerazione per i frequentanti i corsi di specializzazione in medicina è accordato dall’ordinamento comunitario soltanto a coloro che avessero frequentato i corsi previsti dalla Dir. n. 362 del 1975, e cioè i corsi comuni a tutti gli stati membri, o ad almeno due di questi.
Per stabilire se un corso di specializzazione sia comune ad almeno due Stati membri, tuttavia, soccorrono due diversi criteri: quello nominale e quello sostanziale (o di “equipollenza”).
Il primo criterio è soddisfatto quando la specializzazione conseguita in Italia corrisponda nominalmente a quelle elencate dalla Dir. n. 362 del 1975, agli artt. 5 e 7.
Il secondo criterio è soddisfatto quando, a prescindere dalla denominazione del corso di specializzazione, esso abbia contenuti, durata e caratteristiche equipollenti in almeno due Stati membri.
Ovviamente il primo di tali criteri pone una questione unicamente di diritto, il secondo di tali criteri pone una questione mista di fatto e diritto.”
Il primo, come dice la Corte di cassazione, pone, unicamente, una questione di diritto perché essendo questo rigoroso e specifico non ammette l’estensione al di là della previsione giuridica, nel caso di specie, della Direttiva.
La Corte di Appello ha rigettato la domanda senza effettuare un’analisi di tipo sostanziale, dunque effettiva; ma si è limitata ad affermare “un criterio puramente formale, e cioè l’estraneità della specializzazione in geriatria alla previsione di cui alla Dir. n. 362 del 1975, art. 7, punto 2.”
La ricorrente, infatti, lamentava “il rigetto della domanda risarcitoria, nonostante la specializzazione da lei conseguita (geriatria) fosse compresa nell’elenco di cui alla Dir. n. 362 del 1975, art. 7. Deduceva la ricorrente che il diritto alla adeguata rimunerazione a favore dei medici specializzandi (e, di conseguenza, il diritto al risarcimento del danno nei confronti dello Stato per la mancata tempestiva attuazione delle direttive comunitarie che avevano riconosciuto quel diritto) spetta non soltanto a coloro che abbiano conseguito un diploma nominalmente corrispondente a quelli elencati dalla Dir. n. 362 del 1976, art. 7, ma anche a coloro che abbiano conseguito un diploma di specializzazione in una materia sostanzialmente equivalente a quella prevista dall’ordinamento di almeno due Stati membri.”
Per la Corte di Cassazione le doglianze della ricorrente sono fondate proprio perché la Corte di Appello “ha ritenuto che il risarcimento non spettasse all’odierna ricorrente sulla base di due argomenti: a) la specializzazione in “geriatria”, all’epoca in cui la relativa scuola fu frequentata da B.M.C., era comune a Gran Bretagna e Irlanda, “ma non all’Italia”; b) nemmeno poteva rilevare la circostanza che la scuola frequentata da B.M.C. fosse equivalente di fatto (e cioè per impegno orario, durata, insegnamenti impartiti) a quelle omologhe dagli ordinamenti di altri Stati membri, in quanto tale equivalenza di fatto sarebbe giuridicamente rilevante solo per le specializzazioni previste dal D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, insuscettibile di applicazione retroattiva”.
Dunque il primo motivo, di cui alla lettera a) non ha ragione di sussistere come motivo di rigetto proprio perché la normativa prevedeva che la specialistica dovesse essere prevista da almeno altri due stati membri, non rilevando che non fosse prevista, nello specifico dall’Italia, se già due stati membri la prevedevano.
Il secondo motivo fondante il rigetto, di cui alla lettera b), è stato risolto dalla Suprema Corte secondo il principio di diritto suindicato, mutando la regola di irretroattività del D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257.
La Suprema Corte, infatti, non solo ha valorizzato la natura di principio comunitario del diritto alla remunerazione ma ha valorizzato anche la natura sostanziale delle situazioni fattuali da valutare e che sono alla base per l’applicazione delle normative.
La specializzazione in geriatria non era inclusa formalmente nella Direttiva europea n. 362 del 1975, art. 7, punto 2, ma era sostanzialmente equipollente ad una specializzazione riconosciuta in altri due stati membri dell’Unione europea ed altresì contemplata della Direttiva suindicata quali modalità di espletamento della medesima.
Ciò che non venne rilevato dalla Corte di Appello fu il fatto che nei casi di scienza ciò che può essere utile per trovare il gemellaggio giusto è il risultato. Se questo, benchè con nome diverso, è lo stesso, non potrebbe non ammettersi l’identità degli studi specialistici fatti. E tale è un ragionamento di natura sostanziale, più che formale, perché l’iter, i suoi passaggi, è il mezzo che porta a quel determinato risultato.
La valutazione, dunque, doveva essere fatta a livello sostanziale, o meglio, effettivo.
Se “effettivamente”, e nei fatti, le mansioni fossero le stesse, la formazione fosse la medesima, le ore e così via.
Il principio di diritto di questa sentenza insegna e ribadisce l’importanza della valutazione della sostanza che sta alla base dei principi. Non sempre è possibile rifarsi ed avere come punti di riferimento degli standard, oggettivi ma soprattutto ripetibili, allorquando, con maggior fervore, si voglia sostenere che si stia comparando sistemi giuridici, e dunque anche sostanziali, comparati, distinti e diversi. Si parla di questioni che devono tenere conto di una valutazione che abbia natura comparata.