*Urbanistica ed edilizia – Processo – Titolo autorizzatorio edilizio, vicinitas, legittimazione ed interesse a ricorrere
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 09 dicembre 2021 n. 22
PRINCIPI DI DIRITTO
- a) Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato;
- b) L’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso;
- c) L’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d’ufficio dal giudicante, nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a.;
- d) Nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l’annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Le numerose questioni sollevate dal Consiglio di giustizia sottopongono all’esame dell’Adunanza plenaria il tema della tutela del terzo a fronte di atti ampliativi della sfera di altri soggetti, nel caso di specie al cospetto di un titolo edilizio espresso che, nella legislazione della Regione Siciliana, ancora recava alla data del 2011, vigente la l.r. 71/1978, la “vecchia” denominazione di concessione edilizia mutuata dalla “storica” legge (statale) 10/1977.
Quello dell’interesse, oppositivo, ad impedire o comunque a contrastare un atto ampliativo della sfera di altri soggetti costituisce una delle tre principali figure più comunemente discusse nello studio della legittimazione al ricorso nel processo amministrativo, per differenziare la posizione dei soggetti legittimati da quella della generalità dei consociati.
Limitando il discorso alla tutela dell’interesse legittimo e data in premessa la distinzione tra interessi oppositivi e interessi pretensivi, le altre due figure corrispondono, come noto, all’interesse, oppositivo, ad impedire un atto restrittivo nella propria sfera giuridica (esempio paradigmatico quello dei provvedimenti ablatori) e all’interesse, in questo caso pretensivo, a contestare il diniego ovvero il rifiuto di un atto ampliativo della propria sfera vanamente richiesto dallo stesso interessato (ad esempio il rifiuto di un’autorizzazione o di una concessione).
Nella seconda e nella terza figura l’individuazione di un interesse differenziato, e con essa il riconoscimento della legittimazione a ricorrere, è certamente agevolata dall’essere il soggetto “legittimato” destinatario di un provvedimento che – privandolo di un bene che prima aveva o negandogli un bene che non aveva e che aveva richiesto – lo lede direttamente e, prima ancora, parte necessaria del procedimento amministrativo che l’ha preceduto. Nel primo caso invece, laddove procedimento e provvedimento non contemplino il soggetto terzo, il problema che da sempre si pone è quello di stabilire se l’interesse di costui a contrastare un atto ampliativo della sfera altrui sia effettivamente qualificato e differenziato, rispetto all’interesse della generalità, e in base a quali criteri.
Nella casistica giurisprudenziale i criteri della qualificazione e della differenziazione, utilizzati per distinguere gli interessi legittimi dagli interessi di fatto e da quelli cd. semplici (nozioni invero non coincidenti, ricevendo i secondi protezione in via amministrativa come evidenziato da CGA, n. 851/2007), sono peraltro strettamente collegati, sebbene nell’impostazione più teorica la qualificazione discenderebbe dalla norma attributiva del potere mentre la differenziazione si coglierebbe sulla base di criteri materiali o caratteri fattuali.
Nella realtà delle cose è raro che la norma attributiva del potere, occupata a definire presupposti, forme e modi dell’esercizio del potere amministrativo, menzioni (tutti) gli interessi privati qualificabili come legittimi; sicché il criterio materiale, incentrato sulla dinamica procedimentale e sull’evidenza provvedimentale, svolge un ruolo determinante ed è quello più comunemente praticato.
- Dove procedimento e provvedimento non siano di particolare ausilio, in quanto il terzo non vi ha partecipato e l’atto finale di lui non fa menzione, può essere rilevante l’elemento fisico-spaziale della vicinitas, intesa quale stabile collegamento tra un determinato soggetto e il territorio o l’area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti dell’atto contestato.
Tale criterio di differenziazione – che la giurisprudenza applica, anche, in materia urbanistica, ambientale, nelle attività economiche (con particolare riguardo alle autorizzazioni di commercio), con una serie di specificità – si è andato affermando in primo luogo in ambito edilizio, all’indomani della legge 765 del 1967, cd. legge ponte, che come noto rappresentò – naufragati progetti più ambizioni di riforma complessiva del sistema, che avevano suscitato fortissime resistenze – il primo tentativo legislativo di porre rimedio al dilagare del fenomeno dell’abusivismo edilizio che nel secondo dopoguerra aveva deturpato le principali città italiane (su tutte Roma, Napoli e Palermo) e che proprio l’anno prima, con la spaventosa frana di Agrigento, aveva reso non più eludibile, agli occhi della comunità nazionale e di quella internazionale, il problema della speculazione edilizia nel nostro Paese.
E’ in questo quadro storico – al quale non dovette evidentemente giovare la Plenaria n. 1 del 1966 con cui si era affermato il principio per cui fosse inammissibile il ricorso contro una licenza edilizia (altrui), per violazione delle prescrizioni del piano regolatore che vincola la zona a verde pubblico, ove l’attuazione della prescrizione fosse in linea di fatto divenuta impossibile – che si colloca (e si deve leggere) l’art. 10, comma 9, della legge ponte, che novellava l’art. 31 della legge urbanistica 1150/1942, prevedendo che: “Chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”.
Leggendo tale disposizione si era autorizzati a ritenere che in luogo del nessuno, di prima del 1967, la legge avesse ora previsto che davvero chiunque potesse ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia altrui, quando in contrasto con leggi, regolamenti e prescrizioni urbanistiche; e che il legislatore avesse inteso introdurre un’azione popolare a tutela, rafforzata, di una legalità (e di una “giustizia nell’amministrazione”) che molti comuni sino a quel momento non avevano voluto o saputo garantire.
L’azione popolare, che ha origini antichissime risalenti al diritto romano, per quanto scarsamente impiegata dal legislatore (praticamente solo nel giudizio elettorale e nella legislazione comunale), ha sempre suscitato attenzione e curiosità in dottrina, sia quando ad essa si era riconosciuta negli anni 30 del secolo scorso una forte impronta pubblicistica, giungendo ad identificare l’attore popolare addirittura in un organo dello Stato; sia quando in epoca repubblicana, in chiave diversa, è stata posta in relazione con la sovranità popolare recuperando la visione più liberale di chi già nei primi anni del Novecento aveva osservato che può essere esercitata “solo quando coincide con interessi individuali o quando sia mossa da particolari passioni”.
Neppure va dimenticato come, sempre all’alba del Novecento, la distanza tra l’azione popolare e il ricorso al giudice amministrativo potesse sembrare meno netta e profonda di oggi, se è vero che nel sistema di giustizia amministrativa francese il ricorrente pour excès de pouvoir era visto allora come una sorta di “ministère public poursuivant la répression d’une infraction”, ovvero un “collaborateur de la légalité”.
Fosse o meno questo il vero disegno del legislatore del 1967 – l’introduzione di una nuova ipotesi di azione popolare – è noto come la giurisprudenza della disposizione diede ben presto una lettura diversa, escludendo che potesse rinvenirsi nella disposizione citata un’azione popolare e richiedendo che i soggetti ricorrenti potessero considerarsi toccati in un proprio interesse all’insediamento abitativo, ossia alla “radicazione in loco” dei propri “interessi di vita”, familiari, economici o relativi ad altri “qualificati e consolidati rapporti sociali” (Cons. St., V, n. 523/1970, posizione poi consolidatasi con Cons. St., Ad. plen. n. 23/1977). Sicché dall’esclusione dell’azione popolare emergeva sin da allora un criterio o concetto, quello della vicinitas, piuttosto elastico, la cui concreta individuazione era (e sarebbe stata in seguito) rimessa al prudente apprezzamento giurisprudenziale.
Un criterio, certamente meno totalizzante di un ricorso popolare, ma pur sempre potenzialmente molto espansivo e che si sarebbe rivelato come una sorta di cerniera tra il piano sostanziale degli interessi, più o meno differenziati, e quello processuale della loro tutela, peraltro in questi ambiti essenzialmente di tipo demolitorio – ripristinatorio, in ragione della loro natura oppositiva.
Un criterio flessibile, da misurare ogni volta sulla base della situazione di fatto, del tipo di provvedimento contestato e dei suoi concreti contenuti, dell’ampiezza e della rilevanza delle aree coinvolte, e che dunque poco si presta a teorizzazioni astratte e generali, quali quelle che riguardano il tema delle condizioni dell’azione e la distinzione o il confine tra la legittimazione al ricorso e l’interesse al ricorso, sul quale a breve si tornerà.
- E’ al lume di queste premesse che la Plenaria reputa che debba esaminarsi la completa ricostruzione del quadro giurisprudenziale offerta nella sentenza del CGA, dove si dà atto (al punto 39 della motivazione) di un orientamento maggioritario, per cui la vicinitas quale criterio idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi assorbe in sé anche il profilo dell’interesse al ricorso; e di un secondo indirizzo per cui la vicinitas da sola non basta a fondare anche l’interesse, dovendo il ricorrente fornire la prova concreta di un pregiudizio sofferto.
Del primo orientamento, in un panorama giurisprudenziale vastissimo, si rinvengono precedenti pressoché in tutte le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato che si occupano della materia (v. ad esempio, II, n. 2056/2021; IV, 4387/2021; VI, 6500/2021) e conferme anche nella giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione (18493 e 21740/2021). Ma anche l’altro orientamento trova seguito, per quanto forse meno frequentemente, nelle varie sezioni del Consiglio di Stato (v., per un esempio particolarmente efficace, Cons. St., IV, n. 962/2020, oltre a V, 4650/2021, VI, 4830/2017, CGA, 488/2020 e 62/2012, in quest’ultimo si legge che “l’interesse al ricorso del vicino contro provvedimenti ampliativi della posizione giuridica dei terzi in materia urbanistico/edilizia presuppone l’allegazione e la dimostrazione di un concreto pregiudizio che quel provvedimento reca alle facoltà dominicali del ricorrente”), sicché il contrasto sembrerebbe attraversare, per così dire, internamente le diverse sezioni.
Un contrasto probabilmente meno acuto, e quindi meno problematico, di quanto si potrebbe a prima vista ritenere, nella misura in cui, da un lato, in molti casi l’adesione al primo indirizzo fa velo della (riconosciuta o riconoscibile) presenza, nei fatti, anche del pregiudizio (come si ricava, ad esempio, dalla lettura della sentenza sopra ricordata 2056/2021); e, dall’altro, anche i precedenti più qualificanti ascrivibili al secondo indirizzo “scontano” situazioni nelle quali a mancare potrebbe essere già la stessa legittimazione (è il caso della richiamata sentenza 962/2020 in cui i ricorrenti non erano proprietari di edifici immediatamente contigui all’area oggetto dell’intervento). Quanto ai richiami alle pronunce della Suprema Corte bisogna considerare come abbiano ad oggetto giudizi di impugnazione nei confronti delle sentenze in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche e, dunque per definizione, vertano su cause che non sono di edilizia in senso stretto e in cui i temi della protezione ambientale ricevono preminente attenzione.
Si vuole quindi sottolineare come nella realtà dei fatti e nella dinamica dei giudizi la riflessione sulla legittimazione proceda non disgiunta da quella sull’interesse, e siano entrambe fortemente condizionate dalla situazione concreta allegata dalle parti e ricavabile dagli atti di causa.
- Questa prevalenza (questa “ipoteca”) delle situazioni di fatto sugli schemi concettuali può forse spiegare quel “singolare regime di liquidità” che, a giudizio di una dottrina più recente, caratterizzerebbe la materia delle condizioni dell’azione nel processo amministrativo. Una materia che ha registrato negli ultimi anni il fiorire di nuovi studi dottrinali, soprattutto in tema di legittimazione a ricorrere.
Di questa categoria gli studiosi sono tornati ad indagare le differenze con il suo omologo nel processo civile, interrogandosi se sia ancora giustificato da parte della giurisprudenza amministrativa impostare il problema nei termini tradizionali di una effettiva titolarità di tale posizione anziché di semplice affermazione della stessa, come avviene nel giudizio civile. Sono state poi evidenziate le tendenze in atto nella legislazione degli ultimi dieci anni a costruire legittimazioni speciali, in capo a talune Amministrazioni indipendenti (quali AGCM, ART e ANAC), a presidio di determinati beni pubblici (in particolare la tutela della concorrenza), tendenze che si legano e seguono i casi, divenuti più frequenti nello Stato policentrico delle autonomie, in cui a proporre ricorso davanti al giudice amministrativo siano soggetti pubblici (i comuni in particolare) nella loro veste di enti esponenziali che si contrappongono ad altri livelli di governo. Su un piano diverso, e si direbbe anzi opposto, la legittimazione a ricorrere è da altri messa in relazione con il principio di sussidiarietà in senso orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, Cost., trovandovi il fondamento per nuovi “diritti civici” sui quali costruire una cittadinanza attiva che nella tutela dinanzi al giudice amministrativo troverebbe una delle sue possibili forme di espressione e manifestazione. Nella stessa direzione la legittimazione al ricorso “rivisitata” è collegata alla teoria dei cd. beni comuni e diventerebbe uno strumento per controllare, anche in forme giurisdizionali, i governanti e i poteri pubblici, come in parte sembrerebbe confermare la recente disciplina sull’accesso civico di cui al d.lgs. 33/2013 dove all’art. 5, comma 2 riappare, a distanza di molti decenni, la parola “chiunque”. Ancora, sempre nel quadro della tutela degli interessi meta-individuali, si invoca una sorta di “liberazione” della vicinitas dal suo perimetro originario, sino a ritenerla esistente anche quando la relazione di prossimità tra il soggetto ed il bene protetto non sia fisica ma assiologica.
Molte di queste riflessioni hanno riguardo naturalmente alla legittimazione delle associazioni e dei gruppi, oltre che a quella molecolare dei singoli, e al ruolo “suppletivo” che associazioni portatrici di interessi super-individuali, in questo agevolate anche dalle norme di derivazione europea, sono venute svolgendo, prima nella giurisprudenza e in seguito nella legislazione nazionali (nei termini, di complementarietà e non di alternatività, già posti in luce da questa Plenaria nella recente sentenza n. 6/2020).
L’insieme di queste tendenze per così dire espansive, sul terreno della legittimazione al ricorso, denunciano la (o muovono dalla denuncia della) “crisi” dei controlli amministrativi e i limiti sempre maggiori, di tempo e di spazio, che incontra l’autotutela amministrativa, nella convinzione che molto spesso, complice anche l’oblio dei ricorsi amministrativi e l’assenza di validi rimedi alternativi, la sola via per rimediare agli errori, anche gravi, delle amministrazioni pubbliche sia quella giurisdizionale.
Si potrebbe allora osservare che non a caso, dove l’amministrazione pubblica è considerata più efficace ed efficiente, come ad esempio in Germania, si registra da sempre un approccio assai più cauto al tema della legittimazione ad agire nel processo. Se non fosse che nell’esperienza francese, del pari contrassegnata da un’amministrazione pubblica tradizionalmente di buona qualità, la legittimazione ad agire è stata invece riconosciuta con maggiore larghezza, per quanto nel quadro di una concezione in origine fortemente oggettiva del sindacato giurisdizionale e che progressivamente è poi venuta modificandosi, come dimostra, a proposito dell’interesse ad impugnare un permesso di costruire, la pronuncia del Conseil d’État, 17 marzo 2017, n. 396362.
L’analisi comparata dei principali sistemi nazionali di giustizia amministrativa registra piuttosto da qualche tempo, sotto l’influenza del diritto europeo, una convergenza su talune linee di fondo; si possono fare gli esempi dell’estensione della legittimazione ad agire in materia ambientale, realizzatasi un po’ ovunque, come anche del riconoscimento, nel contenzioso sui contratti pubblici e sotto l’influenza della Corte di giustizia UE, di interessi meritevoli di tutela diversi ed ulteriori rispetto a quello, cd. finale, più direttamente preordinato all’aggiudicazione della procedura.
- Sempre nella riflessione dottrinale sulle condizioni dell’azione l’autonomia della nozione dell’interesse al ricorso, rispetto a quella della legittimazione, è un dato oramai acquisito, nonostante i dubbi di carattere teorico sollevati in passato (quando l’interesse ad agire era stato definito persino come “la quinta ruota del carro” o considerato, nel processo amministrativo, “ridondante”). Il suo fondamento è rinvenuto, come noto, nell’art. 100 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., ed è caratterizzato dalla “prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato” (v. Cons. St., Ad. plen. n. 4/2018, al punto 16.8).
Su tale nozione riposa, anche (se non soprattutto), la concezione soggettiva della tutela propria anche del processo amministrativo (sulla quale v. soprattutto Cons. St. Ad. plen. n. 4/2011 e più di recente Corte cost., n. 271/2019), e ad esso è attribuita una funzione di filtro processuale, sino a farne (ma il tema è tra i più sensibili) uno strumento di selezione degli interessi che chiedono tutela secondo la loro “meritevolezza” (per uno spunto, in questo senso, v. Cons. St. Ad. plen. 9/2014, al punto 8.3.4), in una logica non lontana da quella che fonda il divieto degli atti emulativi nel codice civile (art. 833).
Il codice del processo amministrativo fa più volte riferimento, direttamente o indirettamente, all’interesse a ricorrere: all’art. 35, primo comma, lett. b) e c), all’art. 34, comma 3, all’art. 13, comma 4-bis e, in modo più sfumato, all’art. 31, primo comma, sembrando confermare, con l’accentuazione della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo e l’arricchimento delle tecniche di tutela, la necessità di una verifica delle condizioni dell’azione (più) rigorosa. Verifica tuttavia da condurre pur sempre sulla base degli elementi desumibili dal ricorso, e al lume delle eventuali eccezioni di controparte o dei rilievi ex officio, prescindendo dall’accertamento effettivo della (sussistenza della situazione giuridica e della) lesione che il ricorrente afferma di aver subito. Nel senso che, come è stato osservato, va verificato che “la situazione giuridica soggettiva affermata possa aver subito una lesione” ma non anche che “abbia subito” una lesione, poiché questo secondo accertamento attiene al merito della lite.
- Con specifico riferimento alla vicinitas, in ambito edilizio-urbanistico, dove la “qualificazione” dell’interesse del terzo può farsi discendere in ultimo dall’art. 872 c.c., dopo l’abrogazione dell’art. 31 della legge urbanistica ad opera dell’art. 136, comma 1, lett. a) del d.p.r. 380/2001, il discorso va ora ricondotto entro gli schemi generali ricavabili dal c.p.a..
Il ragionamento intorno all’interesse al ricorso, inteso come uno stato di fatto, si lega quindi necessariamente all’utilità ricavabile dalla tutela di annullamento e dall’effetto ripristinatorio; utilità che a sua volta è in funzione e specchio del pregiudizio sofferto. Tale pregiudizio, riprendendo quanto in precedenza accennato al punto 2, a fronte di un intervento edilizio contra legem è rinvenuto in giurisprudenza, non senza una serie di varianti, nel possibile deprezzamento dell’immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero nella compromissione dei beni della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata. Si può discutere se tali beni siano il risultato della scomposizione di un unico interesse per così dire riassuntivo, quello alla qualità dell’insediamento abitativo (espressione presente già nella ricordata sentenza 523/1970), o se debbano essere considerati per forza atomisticamente, sull’assunto che non sarebbe dato un interesse inerente all’insediamento abitativo come tale.
Il riferimento al godimento dell’immobile in uno con il richiamo a salute e ambiente è peraltro un piano di indagine già sufficientemente ampio ed è su di esso che la giurisprudenza ha fatto leva per ravvisare il pregiudizio sofferto dal terzo non solo ad esempio nella diminuzione di aria, luce, visuale o panorama, ma anche nelle menomazioni di valori urbanistici e nelle degradazioni dell’ambiente in conseguenza dell’aumentato carico urbanistico in termini di riduzione dei servizi pubblici, sovraffollamento, aumento del traffico (v., ancora da ultimo, Cons. St., IV, n. 6130/2021).
Un’indagine naturalmente strettamente legata – va detto una volta di più – al tipo di provvedimento contestato e all’entità e alla destinazione dell’immobile edificando o edificato, come dimostra il peculiare caso dal quale ha tratto origine l’odierna remissione.
E’ questo un caso nel quale la vicinitas è in termini di stretto collegamento tra la (proprietà di) parte ricorrente e l’area oggetto dell’intervento edilizio, trattandosi di immobili direttamente e immediatamente confinanti, sebbene la violazione, ossia il mancato rispetto delle distanze, come ricordato in premessa, si abbia non nei confronti dell’edificio di parte ricorrente ma di quello di chi a sua volta confina dall’altro lato con quello confinante. Non di meno si deve anche considerare come la costruzione del signor O si è andata incastonando tra quella di parte ricorrente e quella dei signori G e C, dove in precedenza non c’era nulla, inserendosi per così dire “tra di loro”, diminuendone aria e luce, visuale e panorama.
Se poi dal pregiudizio passiamo all’utilità, si deve considerare ancora come l’accoglimento del ricorso dei signori B condurrebbe all’annullamento, almeno in parte, della concessione edilizia del 2011, il che produrrebbe oltre all’effetto giuridico legato al venir meno retroattivamente del titolo, conseguenze conformative al momento non prevedibili poiché legate all’applicazione, a valle dell’annullamento giurisdizionale, dell’art. 38 del t.u. 380/2021 che come noto contempla diversi scenari possibili quali la rimozione dei vizi amministrativi, la riduzione in pristino, l’applicazione di una sanzione pecuniaria alternativa (ma alle condizioni ribadite da ultimo da Cons. St., Ad. plen. n. 17/2020); e dove quanto meno la riduzione in pristino, anche solo parziale, sarebbe misura certamente utile e vantaggiosa nella prospettiva demolitoria-ripristinatoria di parte ricorrente.
- Tornando a ragionare sul piano generale, l’interesse ad agire dovrebbe ad esempio escludersi nei casi in cui il titolo edilizio impugnato fosse affetto da vizi solamente formali o procedurali, sicuramente emendabili, quand’anche ne fosse possibile l’annullamento, quindi senza che a tale annullamento possa seguire l’applicazione di una qualunque sanzione; o, ancora più in radice, laddove al rilascio illegittimo del titolo edilizio non fosse poi seguita alcuna attività e nel frattempo fosse maturato il termine di decadenza del permesso.
Ulteriori esempi sono prospettabili, magari più legati al tipo di violazione denunciato e alla sua concreta incidenza, in una materia nella quale l’estrema varietà dei casi rende pressoché impossibile fornirne una classificazione o anche solo una ricognizione appena soddisfacente. Con riferimento all’impugnazione di titoli edilizi correlati ad autorizzazioni commerciali, assume rilevanza anche la nozione di bacino d’utenza, che deve essere ricostruita tenendo conto della natura e delle dimensioni dell’opera.
- Tirando le fila di tutto questo ragionamento, ricostruite le linee generali della materia, questa Adunanza ritiene che al primo dei quesiti (di cui alla lettera a) debba rispondersi nel senso che, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra legittimazione e interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario in via di principio che ricorrano entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di differenziazione, valga da solo ed in automatico a soddisfare anche l’interesse al ricorso.
Dopodiché, ai quesiti di cui alle lettere b) e c), si deve rispondere nel senso che lo specifico pregiudizio derivante dall’intervento edilizio che si assume illegittimo, e che è necessario sussista, può comunque ricavarsi, in termini di prospettazione, dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso, suscettibili di essere precisate e comprovate laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o dai rilievi del giudicante, essendo questione rilevabile d’ufficio nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e quindi nel contraddittorio tra le parti.
Venendo poi al (sotto)tema della violazione delle distanze, posto con il quesito di cui alla lettera d), si ritiene che, traendo anche spunto dalla vicenda che ha originato la rimessione, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione possa essere rilevante, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l’annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo.
- Sulla base di tutto quanto finora considerato possono quindi essere formulati i principi di diritto sulle questioni deferite ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm. all’Adunanza plenaria dal Consiglio di giustizia, al quale la causa va restituita ai sensi del comma 4 della medesima disposizione:
- a) Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato;
- b) L’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso;
- c) L’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d’ufficio dal giudicante, nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a.;
- d) Nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l’annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo.