Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, ordinanza 30 novembre 2021 n. 37552
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- – Preliminarmente, deve essere riconosciuta la validità della notificazione del controricorso del Procuratore Generale della Corte dei conti, effettuata telematicamente al domicilio digitale del difensore del ricorrente, corrispondente al suo indirizzo di posta elettronica certificata, dovendosi escludere la necessità, ai fini della rituale proposizione del controricorso, di una ulteriore notifica dello stesso, anche presso il domicilio eletto in Roma dal ricorrente (Cass., Sez. VI-3, 10 marzo 2014, n. 5457; Cass., Sez. VI-5, 7 ottobre 2016, n. 20307; Cass., Sez. VI-lav., 24 maggio 2018, n. 12876; Cass., Sez. II, 12 febbraio 2021, n. 3685).
Va pertanto respinta l’eccezione di inammissibilità del controricorso, sollevata dal ricorrente con la memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, per l’omessa notifica dello stesso anche al domicilio eletto dal ricorrente presso l’Avv. X.
- – Sempre in via preliminare, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente Procuratore Generale. L’eccezione è prospettata, per un verso, sul rilievo che il ricorso non rispetterebbe il dovere di sinteticità espositiva, non contenendo l’esposizione sommaria dei fatti di causa, i quali sarebbero descritti in modo lacunoso pur nel contesto di un atto di impugnazione esteso per 94 pagine; e, per l’altro verso, sulla deduzione che le censure sarebbero formulate in modo ripetitivo, confuso e a tratti anche contraddittorio.
2.1. – L’eccezione va disattesa.
2.2. – Il ricorso proposto dal D., in effetti, si dilunga per ben 94 pagine, certamente eccessive a fronte di una sentenza di 14 pagine e di un unico motivo di impugnazione; reca una esposizione dei fatti di causa sovrabbondante e ripetitiva, che si estende (da pagina 13 a pagina 33) alle vicende penali che costituiscono la premessa della “fase processuale erariale”; è affidato, anche nella parte dedicata alla articolazione del motivo, ad una tecnica espositiva prolissa. 2.3. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698; Cass., Sez. II, 20 ottobre 2016, n. 21297; Cass., Sez. V, 21 marzo 2019, n. 8009; Cass., Sez. V, 30 aprile 2020, n. 8425), ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all’art. 366, primo comma, n. 3) e 4), cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 cod. proc. civ.; l’inosservanza di tale dovere pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, secondo comma, Cost. e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.
Al dovere di chiarezza e di sinteticità non si sottrae il ricorso per eccesso di potere giurisdizionale, con cui si denuncia il superamento dei limiti della giurisdizione da parte (del Consiglio di Stato o) della Corte dei conti: anche questo ricorso deve essere intrinsecamente ammissibile, secondo le modalità redazionali di cui all’art. 366 cod. proc. civ. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. Un., 15 settembre 2020, n. 19169).
2.4. – Il Collegio rileva che il dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile e con riguardo alla redazione del ricorso per cassazione.
Si tratta di un dovere, ma anche di un valore dell’ordinamento processuale che si lega, innanzitutto, alla tutela del diritto di difesa e del contraddittorio. Inoltre, il rispetto di tale dovere è funzionale all’efficienza del processo e della giurisdizione. Il risparmio di tempo per il giudice impegnato nella lettura e nella comprensione del ricorso contribuisce, infatti, ad una più rapida conclusione del giudizio.
Sinteticità e chiarezza consentono un impiego della risorsa giurisdizionale per la singola controversia che tenga conto della necessità di riservare risorse anche per altre controversie, nell’osservanza del principio di proporzionalità. L’eccessiva ampiezza del ricorso per cassazione non determina, di per sé, l’inammissibilità dello stesso. La violazione del dovere di sinteticità può condurre ad una declaratoria di inammissibilità della impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunoso_ dei fatti di causa o pregiudichi la intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata.
La sanzione di inammissibilità scatta allorché il deficit di chiarezza e sinteticità determini la violazione dei requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 cod. proc. civ. Occorre evitare un approccio eccessivamente puntiglioso, contrastante con il diritto di accesso pratico ed effettivo alla Corte di cassazione. L’eccessiva lunghezza e una certa farraginosità del ricorso non ne comportano l’inammissibilità tutte le volte che l’interpretazione complessiva dell’atto consenta, comunque, di comprendere agevolmente lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza la portata delle censure rivolte alla sentenza impugnata.
2.5. – Benché caratterizzato da una, non necessaria, lunghezza, da una sovrabbondanza nell’esposizione delle vicende penali che costituiscono la premessa dell’azione erariale e da una ripetitività argomentativa nella prospettazione delle censure, il testo del ricorso permette tuttavia di cogliere e di comprendere il sorgere e il dipanarsi del processo dinanzi al giudice contabile e di avere contezza del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con il motivo di impugnazione contro di essa rivolto.
Difatti, l’atto di impugnazione per cassazione contiene i necessari riferimenti alla azione promossa nei confronti del De Monte dal Procuratore regionale (v. pagine 3 e 39-40); espone, per sommi capi, il contenuto della sentenza della Sezione giurisdizionale regionale e della pronuncia di appello della Corte dei conti (così nelle pagine 1 e 33- 34); articola (dalla pagina 41 in poi) la complessiva censura rivolta contro la sentenza del giudice speciale, senza che la prolissità dell’argomentazione ostacoli l’agevole comprensione del senso e della portata del motivo di doglianza.
2.6. – L’eccezione di inammissibilità sollevata dal Procuratore Generale con riguardo alle modalità di redazione del ricorso va, pertanto, disattesa.
- – Con l’unico, complesso motivo il ricorrente deduce una pluralità di vizi che sarebbero contenuti nella pronuncia impugnata. In primo luogo, il “rifiuto dell’Autorità erariale di esercitare la giurisdizione attraverso l’esercizio delle facoltà permesse dall’ordinamento; trascuratezza del proprio potenziale diritto al fine di cristallizzare in sede giurisdizionale ordinaria un titolo definitivo evitando la prescrizione del diritto al risarcimento del danno”.
Il De Monte denuncia, inoltre, il “diniego dell’esercizio della giurisdizione ordinaria, nonostante fosse pendente in sede giurisdizionale un procedimento penale: omissione colposa della parte offesa a partecipare al procedimento penale durante la fase delle indagini preliminari e poi, esercitata l’azione penale dal pubblico ministero, a trascurare il diritto di ottenere un titolo per il risarcimento del danno costituendosi parte civile nel processo conclusosi nel 2012”.
Sarebbero altresì violati, ad avviso del ricorrente, gli artt. 25, primo comma, 101, 102 e 103 della Costituzione “per palese rifiuto di promuovere l’azione inerente il diritto al risarcimento del danno dal 2010 e fino al 2017 per coltivarla avanti la Corte dei conti”.
Premesso che l’azione di responsabilità e l’ordinaria azione di risarcimento del danno da fatto-reato sono reciprocamente indipendenti e che il fatto delittuoso di un funzionario pubblico commesso a danno dell’erario permette all’autorità danneggiata di promuovere l’azione giurisdizionale avanti ad un giudice diverso da quello speciale, il ricorrente osserva che “l’esercizio da parte dell’ente danneggiato della giurisdizione in un processo già incardinato in sede ordinaria garantisce all’ente la conservazione della tutela, la rapida conclusione del giudizio e il raggiungimento di una sentenza di condanna che può essere munita della provvisoria esecutorietà fin dal primo grado”.
Passando ad affrontare il tema degli “errori commessi che provocarono l’estinzione del diritto”, il ricorrente deduce che il fermo amministrativo (con il quale “si intendeva compensare le ragioni di credito dell’impiegato infedele … avverso il danno all’immagine e patrimoniale scoperto”) fu “notificato il 5 giugno 2010 per un ammontare di euro 48.500” ed “ebbe certamente una sua efficacia”, la quale tuttavia non andrebbe “protratta oltre l’estinzione naturale del diritto al risarcimento del danno”. L’efficacia dell’interruzione, dunque, cessò al più tardi il 4 giugno 2015: “da quella data” – si sostiene – “il diritto ad ottenere l’indennizzo dei danni si estinse definitivamente”.
Quanto alla costituzione in mora notificata il 6 agosto 2015, essa, ad avviso del ricorrente, avvenne “per l’erronea convinzione che fino al 28 maggio 2014 il termine di prescrizione fosse sospeso a causa del processo penale e che esso riprendesse a decorrere dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza penale”. Secondo il ricorrente, “fin da marzo 2010 … per i danni patrimoniali e all’immagine iniziò a decorrere [il] termine prescrizionale”, ma “l’autorità …, pur avendone l’occasione, non solo non esercitò la giurisdizione nelle sedi ordinarie o interruppe con atti stragiudiziali recettizi la prescrizione, ma attese un lasso di tempo enorme per notificare la sua domanda e investire del giudizio la Corte dei conti veneziana”.
Ad avviso del ricorrente, la circostanza che “né l’Agenzia delle entrate né la Procura regionale presso la Corte dei conti si preoccuparono di esercitare il proprio diritto a costituirsi parte civile”, sarebbe “identificabile con un diniego della giurisdizione”. In ogni caso, “la prescrizione del diritto al risarcimento del danno iniziò a decorrere al più tardi allorquando il danno fu scoperto”, cioè nel marzo 2010.
Inoltre, l’autorità, “se da un lato omise e negò l’esercizio della giurisdizione avanti il giudice penale”, dall’altro, contemporaneamente, “tralasciò di predisporre quegli accorgimenti minimi idonei a interrompere la prescrizione del diritto”.
Sostiene il ricorrente che “in presenza di tale rinuncia/diniego” non sarebbe “lecito riconoscere alla stessa l’effetto di interrompere, sospendere o in qualche modo evitare l’estinzione del diritto”. Ad avviso del ricorrente, in relazione al danno all’immagine “la sospensione della prescrizione non era applicabile senza il previo esercizio della costituzione di parte civile e/o con la partecipazione o condivisione della parte danneggiata alla giurisdizione”. Il De Monte censura che “entrambi i giudici contabili collegiali di merito” abbiano “preferito aderire alla tesi secondo cui il decorso del tempo fu impedito a causa del fermo amministrativo”.
La scelta “di attendere il giudicato del procedimento penale per consentire la procedibilità o il perfezionarsi della fattispecie di danno … rappresenta una tesi che conferma la palese negazione della giurisdizione dalla conoscenza del fatto all’esercizio dello stesso nel 2017”. Infine, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia attribuito un valore decisivo all’effetto permanente del fermo emesso nel 2010.
- – Il motivo è, sotto ogni profilo, inammissibile.
- – E’ appena il caso di premettere che il ricorso per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti non è incondizionato, ma può essere proposto soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione (artt. 111, ottavo comma, Cost., 362 cod. proc. civ. e 207 del codice di giustizia contabile, approvato con il d.lgs. n. 174 del 2016) (Cass., Sez. Un., 19 marzo 2020, n. 7457; Cass., Sez. Un., 3 agosto 2021, n. 22140).
Come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare (Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8848; Cass., Sez. Un., 19 aprile 2021, n. 10245; Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 30112), l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale) o di difetto relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici); e poiché la nozione di eccesso di potere giurisdizionale non ammette letture estensive, neanche limitatamente ai casi di sentenze abnormi, anomale ovvero caratterizzate da uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento, il relativo vizio non è configurabile in relazione a denunciate violazioni di legge sostanziale o processuale riguardanti il modo di esercizio della giurisdizione speciale (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2021, n. 2605).
E’ naturale che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame.
Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111, ottavo comma, Cost. e dagli artt. 362 cod. proc. civ. e 207 del codice di giustizia contabile.
Ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire (Cass., Sez. Un., 14 settembre 2020, n. 19085).
Si è ribadito (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il propríum della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di Corte di Cassazione – copia non ufficiale giurisdizione inteso in senso dinamico – ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze (del Consiglio di Stato e) della Corte dei conti al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
- – Tanto premesso, queste Sezioni Unite escludono, condividendo la tesi sostenuta dal controricorrente Procuratore Generale, che nella specie sia configurabile un rifiuto o un diniego di giurisdizione.
6.1. – In materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice speciale, integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione – contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda – che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice; mentre, ove tale affermazione sia accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorre un’ipotesi di diniego della propria giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione soggettiva azionata (Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
6.2. – Nello specifico, nella sentenza impugnata non è riscontrabile il denunciato vizio di rifiuto o diniego di giurisdizione. Il giudice di appello contabile, decidendo sul merito del gravame interposto dal soggetto condannato in primo grado (che verteva sulla prescrizione, sul valore probatorio della sentenza di patteggiamento, sulla quantificazione del danno e sull’esercizio del potere riduttivo), ha pronunciato in una vicenda processuale caratterizzata dalla formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione della Corte dei conti, per effetto della decisione sul merito in primo grado e della mancata deduzione, con l’atto di appello, del difetto di giurisdizione (Cass., Sez. Un., 5 novembre 2021, n. 32202).
- – Il ricorrente addebita il rifiuto o il diniego di giurisdizione, non alla impugnata sentenza di appello della Corte dei conti, ma alla condotta o all’atteggiamento, a suo avviso, attendista del pubblico ministero contabile e dell’amministrazione danneggiata. Come si legge nelle pagine introduttive del ricorso (da 2 a 4), ci si duole del fatto che il pubblico ministero presso la Corte dei conti e la P.A., “pur di ottenere il risarcimento del danno all’immagine avanti il giudice contabile, accettarono di procrastinare l’esercizio della giurisdizione avanti il giudice ordinario, ma, contemporaneamente, rifiutarono e negarono la giurisdizione contabile per un settennio”. In altri termini, nella prospettiva del ricorrente, il rifiuto andrebbe inteso “quale decisione dei due enti preposti (Agenzia delle entrate e Procura regionale …) di non esercitare la giurisdizione”; mentre il diniego sarebbe “identificabile nella condotta di grave omissione dell’esercizio dell’azione di risarcimento del danno avanti il giudice ordinario con la pacifica preferenza della giurisdizione speciale”.
7.1. – Sennonché, il rifiuto o il diniego di giurisdizione è una categoria che si riferisce alla decisione del giudice, non all’attività del pubblico ministero o dell’amministrazione danneggiata. Infatti, la giurisdizione è esercitata dai giudici, non dal pubblico ministero né, tantomeno, dall’amministrazione danneggiata. Poiché il pubblico ministero contabile e l’amministrazione danneggiata non sono titolari di alcuna potestà giurisdizionale, non è configurabile, neppure in astratto, in relazione al comportamento dell’uno o dell’altra, un rifiuto o un diniego di giurisdizione.
La, ipotizzata dal ricorrente (a pagina 10 della memoria illustrativa), “trascuratezza nell’esercizio dell’attività di tutela del credito” da parte del pubblico ministero contabile non rivela né manifesta il rifiuto e il diniego della giurisdizione. Affinché si abbia rifiuto o diniego di giurisdizione, occorre che una domanda sia stata proposta e che il giudice adito, nel declinare la giurisdizione, ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia in astratto priva di tutela ovvero riconosca che, sulla stessa, la competenza giurisdizionale spetti ad un giudice appartenente ad un diverso plesso.
E’ evidente, allora, come non sia predicabile una declinatoria nelle forme del rifiuto o del diniego di giurisdizione allorché la proposizione della domanda sia stata, secondo l’assunto del ricorrente, “rinviata sine die” e ciò di cui ci si dolga sia rappresentato dalla condotta, dell’Agenzia delle entrate e della Procura regionale, di “grave omissione dell’esercizio dell’azione di risarcimento del danno avanti il giudice ordinario con la pacifica preferenza della giurisdizione speciale”.
D’altra parte, il rifiuto o il diniego di giurisdizione, compreso tra i motivi inerenti alla giurisdizione ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., riguarda le statuizioni contenute nella impugnata sentenza del giudice speciale; non può essere prospettato, viceversa, con riguardo a giudizi che, nell’impostazione del ricorrente, avrebbero dovuto essere promossi, ma non lo sono stati, innanzi al giudice ordinario, o che avrebbero potuto anche essere incardinati di fronte allo stesso giudice contabile, ma in epoca precedente rispetto alla introduzione del giudizio definito con la sentenza impugnata.
Il rifiuto o il diniego non può neppure derivare dal fatto che il pubblico ministero contabile non abbia azionato la pretesa risarcitoria del danno all’immagine e da disservizio dinanzi al giudice ordinario. Il pubblico ministero contabile, infatti, è organo abilitato a svolgere le proprie funzioni unicamente davanti al giudice presso il quale è istituito.
7.2. – Il ricorrente sostiene che il pubblico ministero contabile sarebbe titolare di una “potestà giurisdizionale”, avendo “funzioni idonee a decidere” e possedendo, “assieme all’Amministrazione danneggiata”, “una facoltà specifica per valutare come e se esercitare l’azione” (v. pagina 14 della memoria illustrativa).
Ma il disegno costituzionale è chiaro nell’escludere la riconducibilità del pubblico ministero contabile tra gli organi investiti di potestà giurisdizionali. E’ alla Corte dei conti, non all’organo requirente presso la stessa, che l’art. 103, secondo comma, Cost. attribuisce la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
A sua volta, l’art. 108, secondo comma, Cost. – nel prevedere che “La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse …” – distingue chiaramente le funzioni giudicanti (attribuite ai giudici delle giurisdizioni speciali) dalle funzioni requirenti (che sono di spettanza del pubblico ministero presso di esse).
L’assetto che scaturisce dalle fonti primarie è coerente con questa impostazione. Il codice di giustizia contabile, approvato con il d.lgs. n. 174 del 2016, all’art. 8, sotto la rubrica “Organi della giurisdizione contabile”, prevede che “La giurisdizione contabile è esercitata dalle sezioni giurisdizionali regionali, dalle sezioni giurisdizionali di appello, dalle sezioni riunite in sede giurisdizionale e dalle sezioni riunite in speciale composizione della Corte dei conti”; mentre, all’art. 12, disciplina l’ufficio del pubblico ministero, stabilendo che “Le funzioni del pubblico ministero innanzi alle sezioni giurisdizionali regionali sono esercitate dal procuratore regionale o da altro magistrato assegnato all’ufficio” e che “Le funzioni di pubblico ministero innanzi alle sezioni riunite e alle sezioni giurisdizionali d’appello della Corte dei conti sono esercitate dal procuratore generale o da altro magistrato assegnato all’ufficio”.
7.3. – Il pubblico ministero contabile è una parte imparziale a tutela di interessi generali e indifferenziati dell’ordinamento. Quando promuove l’azione, agisce nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale, in rappresentanza dello Stato-comunità nei suoi aspetti unitari, per assicurare l’integrità dell’erario globalmente inteso e l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.
E’ un organo promotore di giustizia, a tutela dei valori oggettivi posti dall’ordinamento giuridico, ma non è un giudice e non esercita funzioni giurisdizionali. Nell’ambito del giudizio di responsabilità, il pubblico ministero è parte, nel senso che è colui che promuove l’azione, in esito alla quale il giudice, la Corte dei conti, statuisce sulla responsabilità del convenuto.
7.4. – La non riconducibilità del pubblico ministero contabile tra gli organi investiti di potestà giurisdizionali trova una conferma nella giurisprudenza costituzionale. Significativa in questa direzione appare al Collegio la sentenza n. 415 del 1995. Con tale pronuncia la Corte costituzionale, dopo avere premesso che i presupposti processuali per dare ingresso ad un giudizio incidentale di legittimità costituzionale richiedono che la questione sia sollevata da un’autorità giurisdizionale nel corso di un giudizio, ha affermato che tali “requisiti e presupposti … non ricorrono per l’ufficio del procuratore regionale della Corte dei conti e che non possono essere riferiti all’attività da questo svolta ai fini del promovimento di un giudizio di responsabilità per danni cagionati da funzionari pubblici allo Stato”.
Secondo la Corte costituzionale, infatti, il pubblico ministero, che ha una sua propria e distinta configurazione ordinamentale rispetto al giudice chiamato a pronunciarsi sulla causa, ha il potere di esercitare l’azione ma non di emettere provvedimenti decisori: non può quindi sostituirsi all’autorità giurisdizionale e di conseguenza non è legittimato a promuovere il giudizio di legittimità costituzionale.
- – Il ricorrente prospetta inoltre censure in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione e al merito della domanda azionata dal pubblico ministero contabile. Tali censure, sviluppate in particolare alle pagine 46 e seguenti del ricorso, mirano ad evidenziare “gli errori commessi che provocarono l’estinzione del diritto”; muovono dall’assunto che prolungare oltre il termine di cinque anni il diritto al risarcimento del danno da reato “attribuendogli una diversa prescrizione” “significa sostituire a quel potenziale diritto un altro titolo”; contestano che al fermo possa attribuirsi “la medesima natura, efficacia temporale o dignità di un atto con cui si esercita la vocatio in ius”; evidenziano ‘”errore di diritto connesso all’interpretazione della norma e all’istituto della sospensione”.
L’obiettivo di questa complessiva doglianza si compendia nelle rassegnate conclusioni (a pagina 91), con cui si chiede a queste Sezioni Unite di “annullare la condanna per intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno o per infondatezza della domanda” e, in via subordinata, di “fare il più ampio uso del proprio potere riduttivo ridimensionando adeguatamente gli addebiti nei confronti del ricorrente”.
Si tratta di profili, illustrati anche nella memoria, che concretizzano doglianze dirette a far emergere vizi in iudicando in cui sarebbe incorsa la Corte dei conti nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, come tali non sottoponibili al controllo delle Sezioni Unite, che è limitato alla verifica del rispetto dei limiti esterni della giurisdizione erariale (Cass., Sez. Un., 5 novembre 2021, n. 32202, cit.).
E si tratta di richieste che disvelano il reale intendimento del ricorso: che è proteso, inammissibilmente, a trasformare il mezzo di impugnazione avverso la sentenza d’appello della Corte dei conti in una terza istanza, diretta a sindacare le, ipotizzate, violazioni di legge sostanziale concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale.
- – Il ricorso è inammissibile.
- – Non vi è luogo a pronuncia sulle spese nei confronti del Procuratore generale della Corte dei conti, stante la sua posizione di parte solo in senso formale. Il Procuratore generale, infatti, così come non può sostenere l’onere delle spese processuali nel caso di sua soccombenza, al pari di ogni altro ufficio del pubblico ministero, non può essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando, come nella specie, soccombente risulti il suo contraddittore. 11. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 -quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.