Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 16 novembre 2021 n. 34778
PRINCIPIO DI DIRITTO
Le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa per cui, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non è applicabile lo jus superveniens ove più favorevole all’incolpato. Pertanto per individuare il regime della prescrizione dell’azione disciplinare bisogna prendere a riferimento la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Preliminarmente all’esame dei motivi va rilevata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Bologna e nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, spettando la qualità di contraddittore necessario al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (Cass. Sez. U. n. 28881/19, sulla linea di Cass. Sez. U. n. 26996 del 2016, n. 3670 del 2015, n. 1716 del 2013 ed altre precedenti).
Ed invero è prevista la notificazione al pubblico ministero presso la corte d’appello e il tribunale della circoscrizione alla quale l’interessato appartiene del provvedimento reso all’esito del procedimento disciplinare e della decisione del CNF (L. n. 247 del 2012, artt. 59 e 36), ma parte del procedimento giurisdizionale innanzi al CNF è soltanto il magistrato delegato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, presso la quale poi sono impugnate le decisione del CNF (L. n. 247 del 2012, art. 36). Il R.D. n. 37 del 1934, art. 68, identifica poi nel pubblico ministero presso la Corte di cassazione il soggetto che ha il potere di ricorrere alle sezioni unite della Corte di cassazione avverso le decisioni del CNF. E’ dunque il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione il contraddittore necessario in sede di impugnazione delle medesime decisioni da parte dell’interessato.
Il ricorso è stato proposto, sia pure con la formula “per quanto necessario”, anche nei confronti di Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Bologna e Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna. Non si tratta di mera litis denuntiatio, che si avrebbe con la mera notifica del ricorso, ma di proposizione dell’impugnazione anche avverso tali soggetti perchè così è formulata l’epigrafe del medesimo ricorso. Per effetto dell’impugnazione, sulla base del principio della domanda risulta instaurato il rapporto processuale anche con tali due uffici del pubblico ministero. A seguito dell’instaurazione del rapporto processuale sorge il potere/dovere del giudice di pronunciare sull’impugnazione. La pronuncia non può che essere nei termini dell’inammissibilità del ricorso avverso gli uffici del pubblico ministero in discorso in quanto non costituenti parti del procedimento giurisdizionale, relativo alla sanzione disciplinare, così come disciplinato dalla legge.
- Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6, e dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che la sentenza è nulla per violazione del principio di corrispondenza al thema decidendum perchè con il motivo di ricorso era stato affermato che la L. n. 247 del 2012, doveva trovare applicazione in base al principio tempus regit actum, per essere stato introdotto il procedimento dopo l’entrata in vigore della medesima legge, e non in base al criterio della disciplina più favorevole e che nella motivazione non viene confutato il criterio indicato dall’impugnante.
2.1. Il motivo è infondato. Il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c. – che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda – non è violato se il giudice rende la pronuncia in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante in quanto il vizio in discorso riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (ex multis da ultimo Cass. n. 1616 del 2021). Ed invero che il giudice abbia scrutinato la questione oggetto di impugnazione sulla base di una ragione giuridica diversa da quella posta a base del motivo di ricorso è la conferma che la pronuncia sulla censura vi è stata.
- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 247 del 2012, art. 56, comma 1, ai sensi dell’art. 360, comiThalic4one 16/11/2021 n. 3, c.p.c.. Osserva la parte ricorrente che, costituendo la prescrizione causa di estinzione dell’azione disciplinare, la normativa applicabile è quella del procedimento disciplinare, da identificare con quella vigente al momento dell’instaurazione del procedimento, a prescindere dall’operatività del principio del favor rei, e che pertanto, in relazione all’epoca di apertura del procedimento, trova applicazione la L. n. 247, art. 56, secondo cui il termine di prescrizione dell’azione disciplinare decorre dalla data di ipotizzata commissione del fatto addebitato e ha durata di sei anni. Aggiunge, in via subordinata, che ove ai fini della legge applicabile si faccia riferimento al giorno del fatto, anzichè a quello dell’apertura del procedimento, vi sarebbe il contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perchè si avrebbe un termine di prescrizione più ampio per l’illecito commesso prima della data entrata in vigore della L. n. 247, ma con giudicato formatosi successivamente alla detta data rispetto a quello commesso nel vigore della nuova legge.
3.2. Il motivo è infondato. La disciplina risultante dalla L. n. 247 del 2012, art. 56, oggi vigente, comportante in sostanza un termine massimo di sette anni e sei mesi oltre il quale l’azione disciplinare si prescrive, non opera retroattivamente, cioè con riguardo ad illeciti disciplinari realizzati prima della sua entrata in vigore. Deve essere ribadito il principio consolidato nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite secondo cui le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicchè, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non è applicabile lo jus superveniens, ove più favorevole all’incolpato, il che comporta che il punto di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione dell’azione disciplinare è e resta la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza ed è a quel momento, quindi, che si deve avere riguardo per stabilire la legge applicabile, salvo restando che l’apertura del procedimento disciplinare funge da atto interruttivo della prescrizione con effetti istantanei (da ultimo Cass. Sez. U. n. 19030 del 2021; n. 20383 del 2021).
Riconosciuta così l’operatività della disciplina di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 51, occorre distinguere, sempre secondo la giurisprudenza di queste Sezioni Unite, il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale: nel primo caso, in cui l’azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo, invece, l’azione disciplinare essendo collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perchè il fatto non sussiste o perchè l’imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta (Cass. sez. U. n. 1609 del 2020; n. 11367 del 2016; n. 10071 del 2011).
Quanto al dubbio di costituzionalità sollevato in via subordinata nella censura, è agevole replicare, nel senso della manifesta infondatezza della questione, che la diversità del termine prescrizionale, in ragione dell’epoca di realizzazione dell’illecito disciplinare, resta nell’area riservata alla discrezionalità del legislatore una volta che sia riconosciuta la natura amministrativa della relativa sanzione.
- Con il terzo motivo si denuncia violazione della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che il rispetto del divieto di bis in idem, per come inteso dalla Corte Edu, impedisce che possa essere celebrato il procedimento disciplinare ove per il medesimo fatto sia stato instaurato antecedentemente un giudizio penale definito in modo irrevocabile.
4.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, per avere il provvedimento impugnato deciso la questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte e l’esame del motivo non offre elementi per mutare orientamento.
E’ costante nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo cui in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti, in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in relazione al principio del “ne bis in idem”, – secondo la giurisprudenza della Corte EDU a partire dalla sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia – in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicchè ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale (Cass. Sez. U. n. 9547 del 2021; n. 24896 del 2020; n. 29878 del 2018; Sez. II n. 2927 dl 2017, con riferimento ad un giudizio disciplinare nei confronti di un notaio).
In particolare, queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare, che la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicchè non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione (Cass. sez. U. n. 4953 del 2015). L’azione disciplinare è, invero, promossa indipendentemente dall’azione penale relativa allo stesso fatto, e ben può il procedimento disciplinare proseguire anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria, atteso che la diversità di natura delle sanzioni è confermata (anche) dalla circostanza che la pena accessoria può (come le altre sanzioni penali) estinguersi nel corso del tempo per amnistia (art. 151 c.p., comma 1) o per effetto della riabilitazione (art. 178 c.p.c.), laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne evidenzia, con particolare rilievo in relazione alla più severa di esse, la specifica afflittività (Cass. sez. U. n. 4004 del 2006, relativamente ad un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato).
- Con il quarto motivo si denuncia violazione della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6, art. 54, art. 653 c.p.p., comma 1 bis, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che l’efficacia di giudicato di cui all’art. 653 c.p.p., comma 1 bis, è limitata alla sentenza penale di condanna e che in tal modo la decisione impugnata è in contrasto con la L. n. 247, art. 54, comma 1, in base al quale “il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti”.
5.1. Il motivo è inammissibile. Il CNF ha affermato che “di esaustivo rilievo risultano le dichiarazioni di tenore univoco rese dai testi sentiti, nella adunanza del 18 giugno 2018, che depongono per la conferma, con autonoma valutazione, del giudizio di colpevolezza dell’incolpato”, avendo tutti i testi “confermato il comportamento negativo dell’incolpato diretto al tentativo di estorsione ai danni di S.P. mediante la diffusione di foto intime in possesso dell’incolpato stesso”. L’autonoma valutazione delle risultanze del procedimento disciplinare è idonea, alla luce della evidenziata ratio decidendi, a sostenere il giudizio di responsabilità ai fini della irrogata sanzione disciplinare. La censura in termini di violazione della norma sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare lascia ferma tale ratio decidendi ed è dunque priva di decisività.
- Con il quinto motivo si denuncia violazione della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6, dell’art. 111 Cost., art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), n. 1, L. n. 247 del 2012, art. 59, comma 1, lett. n), art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che la sentenza è affetta da motivazione apparente per l’assenza di specifici riferimenti alle risultanze istruttorie poste a fondamento della formulazione del giudizio, senza che possa cogliersi l’iter logico perseguito, laddove il ricorrente aveva invece evidenziato che tutti i testimoni hanno escluso di avere ricevuto alcun ricatto estorsivo dall’incolpato e di avere constatato la disponibilità da parte dell’incolpato di fotografie della supposta vittima del ricatto, e che inoltre tutti i testimoni hanno reso dichiarazioni contraddittorie.
6.1 Il motivo è inammissibile. L’anomalia motivazionale, rilevante sul piano dell’inottemperanza al precetto costituzionale, che abbia le caratteristiche dell’apparenza di motivazione, si manifesta come motivazione del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Come affermato da queste Sezioni Unite, è denunciabile in cassazione l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. sez. U. n. 8053 del 2014).
La denuncia di assenza di riferimenti alle risultanze istruttorie viene posta in relazione a quanto il ricorrente avrebbe evidenziato innanzi al CNF in termini di inidoneità delle testimonianze a supportare il giudizio di responsabilità disciplinare. In tal modo, per un verso si censura l’apprezzamento delle risultanze probatorie che ha compiuto il CNF, reputandole confermative dell’incolpazione, censura come è noto non consentita nella presente sede di legittimità, per l’altro si denuncia l’apparenza di motivazione non per la sua intima struttura, ma per il contrasto con l’elemento esterno costituito dal contenuto delle testimonianze. La denuncia di motivazione apparente resta così estranea al paradigma fissato dalla giurisprudenza di questa Corte.
- Con il settimo motivo si denuncia violazione della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6, dell’art. 111 Cost., art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), n. 1, L. n. 247 del 2012, art. 59, comma 1, lett. n), art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che con riferimento alla necessità di valutare l’effetto afflittivo già prodotto dalla pregressa sospensione cautelare di nove mesi dall’esercizio della professione la sentenza si esaurisce nella mera conferma della valutazione di gravità del fatto e che nessuna valutazione risulta svolta con riferimento alla compatibilità della percezione pubblica della encomiabile difesa svolta dall’incolpato di soggetti deboli e la permanenza del medesimo incolpato nell’ordine professionale. Conclude che risulta oscuro l’iter logico della decisione.
7.1. Il motivo è inammissibile. Sotto le spoglie di una denuncia di carenza motivazionale, quale requisito costituzionalmente rilevante, si mira in realtà al conseguimento di uno scrutinio di merito precluso nella presente sede di legittimità. Va infatti ribadito il principio per cui, in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità sicchè è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che tenda ad ottenere un sindacato sulle scelte discrezionali del CNF in ordine al tipo e all’entità della sanzione applicata (da ultimo Cass. Sez. U. n. 19030 del 2021).
- Nulla per le spese del giudizio di cassazione.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 – quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.