CORTE Di Cassazione, Sezioni Unite civili – sentenza 12 febbraio 2019 n. 4135
Nella giurisprudenza di legittimità è acquisito – in tema di arbitrato – il principio secondo cui nell’ordinamento giuridico italiano alcune norme che regolano la clausola compromissoria (e il compromesso) si riferiscono al relativo momento genetico, statico o strutturale, ed in tal caso viene in evidenza e preminenza l’aspetto negoziale (al fine di verificare, ad esempio, la capacità delle parti, l’esistenza e i requisiti formali dell’accordo, ecc.), non essendo dubbio che, rispetto a dette norme, la clausola compromissoria sia da qualificare come negozio di diritto sostanziale; altre disposizioni, al contrario, hanno per oggetto il medesimo istituto e lo prendono in considerazione per gli effetti caratteristici e le conseguenze in tema di procedura; in tali casi la clausola compromissoria va considerata come fonte di effetti processuali e presa appunto in considerazione soltanto in questa sua qualità (Cass., sez. un., 13 dicembre 1971, n. 3620). Sulla base di questo principio, che valorizza la natura composita del fenomeno arbitrale, è possibile qualificare l’art. 829 c.p.c., comma 3, in tema di impugnazione del lodo come disposizione di natura (anche) processuale, in linea con le indicazioni di una parte della dottrina che l’ha annoverata tra le norme sostanziali con effetti sul piano processuale e ne ha valorizzato la natura ambivalente, ossia sostanziale e processuale ad un tempo, in ragione della diretta incidenza sull’esercizio del diritto di azione e, in particolare, sull’an e sul quomodo delle censure deducibili con l’impugnazione del lodo rituale, quindi sul piano della tutela che è propria della giurisdizione civile, coerentemente con l’affermata natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale (Cass., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153). Né a questa conclusione può assumersi di ostacolo la sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 2018 che ha, in sostanza, implicitamente confermato la natura composita della menzionata disposizione, rilevando la “natura sostanziale e non meramente processuale della regola posta dal novellato art. 829 c.p.c., comma 3“, in ragione del fatto che “la natura processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi“, in linea con le Sezioni Unite n. 9284, 9285 e 9341 del 2016.
È noto che l’interpretazione delle norme giuridiche da parte del Corte di cassazione e, in particolare, delle Sezioni Unite mira ad una tendenziale stabilità e valenza generale, sul presupposto, tuttavia, di una efficacia non cogente ma solo persuasiva, trattandosi di attività consustanziale all’esercizio stesso della funzione giurisdizionale, sicché un mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non soggiace al principio di irretroattività – potendo dunque anche essere retroattivo – non è assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal giudice di merito (Cass. 9 gennaio 2015, n. 174); in particolare, nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, le Sezioni Unite affermarono che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (cd. overruling) che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera – laddove il significato che la norma esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale – come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale “ora per allora“, nel senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente (e, dunque, con effetto retroattivo). Infatti, il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost., comma 2) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella relativa dimensione dichiarativa, non può rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con l’affermarsi dell’esegesi del giudice. E tuttavia, ove l’overruling si connoti del carattere dell’imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul consolidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante ex post non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che – in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost., comma 1), volto a tutelare l’effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tende, essenzialmente, alla decisione di merito – deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge del tempo, conseguendone che, in siffatta evenienza, lo strumento processuale tramite il quale realizzare la tutela della parte va modulato in correlazione alla peculiarità delle situazioni processuali interessate dall’overruling.
La giurisprudenza successiva alle SSUU del 2011 ha precisato che un orientamento del giudice della nomofilachia cessa di essere retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, e può quindi parlarsi di prospective overruling, a condizione che ricorrano cumulativamente i seguenti presupposti: a) che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo, non anche su disposizioni di natura sostanziale (Cass. 13 settembre 2018, n. 22345; 18 luglio 2016, n. 14634; 24 marzo 2014, n. 6862; 3 settembre 2013, n. 20172; 11 marzo 2013, n. 5962); b) che tale mutamento sia stato imprevedibile o quantomeno inatteso e privo di preventivi segnali anticipatori del relativo manifestarsi, in ragione del carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso (Cass., sez. un., 12 ottobre 2012, n. 17402; n. 23836 del 2012 cit.), ipotesi non ravvisabile in presenza di preesistenti contrasti interpretativi (Cass. 15 dicembre 2011, n. 27086) o di incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di cassazione in assenza di un orientamento consolidato della stessa Corte (Cass. 15 febbraio 2018, n. 3782) o nel caso in cui la parte abbia confidato nell’orientamento che non è prevalso (Cass. 5 giugno 2013, n. 14214); c) che l’overruling sia causa diretta ed esclusiva di un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, ponendosi esso quale causa di sopravvenuta inammissibilità, improcedibilità, decadenze o preclusioni, in ragione della diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell’orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso, che abbia reso impossibile una decisione sul merito della pretesa azionata in giudizio (Cass., sez. un., n. 17402 del 2012 cit.; 27 dicembre 2011, n. 28967; 26 luglio 2011, n. 16365). Il mezzo per ovviare all’errore oggettivamente scusabile della parte che si sia conformata alla consolidata interpretazione delle norme regolatrici del processo, travolta dal successivo revirement giurisprudenziale dello stesso giudice di legittimità, è la rimessione in termini (Cass. 25 febbraio 2011, n. 4687), a norma dell’art. 184 bis c.p.c. (e art. 153 c.p.c., comma 2), non ostando il difetto dell’istanza di parte, atteso che la causa non imputabile è conosciuta dalla Corte di cassazione che, con la sua stessa giurisprudenza, ha dato indicazioni sull’agire processuale ex post rivelatesi inattendibili (Cass. n. 23836 del 2012 cit.; n. 16365 del 2011 cit.; 2 luglio 2010, n. 15811).
Il prospective overruling (o, più correttamente, la tutela in tali casi accordata) è un meccanismo finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti nocivi di mutamenti imprevedibili delle “regole del gioco” attraverso la sterilizzazione delle conseguenze pregiudizievoli del nuovo indirizzo interpretativo, consentendosi all’atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell’orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento, di produrre ugualmente i suoi effetti. Analogamente, l’errore della parte che sia incorsa in una decadenza per avere “omesso” di compiere un atto non dovuto secondo la giurisprudenza dominante, successivamente overruled, non ha rilevanza preclusiva entro certi limiti (Cass. 14 marzo 2018, n. 6159); a meritare la tutela, quindi, è la parte che vedrebbe frustrato il proprio legittimo affidamento nell’interpretazione resa dalla Suprema Corte nel momento in cui ha tenuto la condotta processuale, qualora fosse esposta agli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) derivanti dal successivo revirement giurisprudenziale, ma pur sempre riconducibili alle disposizioni processuali vincolanti per tutti i giudici, soggetti solo alla legge (art. 101 Cost., comma 2); è per questa ragione che la parte ha interesse a che la propria condotta processuale venga giudicata alla luce della norma come interpretata nel momento in cui quella condotta è stata tenuta, al fine di non incorrere negli effetti sfavorevoli e preclusivi determinati dalla nuova interpretazione giurisprudenziale. Alla logica dell’istituto in esame, e dunque della prospective overruling, invece è estranea l’ipotesi in cui il nuovo indirizzo giurisprudenziale sia ampliativo di facoltà e poteri processuali e sia la parte ad invocarlo perché più favorevole nei relativi confronti: se il nuovo indirizzo interpretativo èin bonam partem infatti, non vi è una lesione dell’affidamento meritevole della tutela da prospective overruling (che opera dunque nella diversa ipotesi dell’in malam partem), al fine di superare decadenze o preclusioni maturate in osservanza del precedente indirizzo, ma potrebbero ricorrere, in ipotesi, gli estremi per una rimessione in termini “ordinaria“, a norma dell’art. 153 c.p.c., comma 2. A confermare la impraticabilità, nella specie, del rimedio della rimessione in termini da prospective overruling (per consentire alla ricorrente di denunciare con motivi aggiunti errori di diritto imputabili al lodo prima non denunciati) è l’osservazione che la parte imputa il lamentato pregiudizio non al nuovo orientamento espresso dalla sentenza n. 6148 del 2012 (e dalle Sezioni Unite nel 2016) – che anzi chiede di applicare perché ampliativo delle proprie facoltà impugnatorie e quindi favorevole -, ma alla personale e limitativa interpretazione della disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. n. 40 del 2006, in materia arbitrale; quindi, la parte in un caso simile non si oppone all’applicazione di un sopravvenuto orientamento giurisprudenziale visto come causa di una ingiusta decadenza per una condotta ossequiosa del precedente orientamento, solo successivamente modificato, come nella logica dell’overruling, che non può invocarsi quando, come nella specie, è il proprio errore interpretativo che costituisce causa diretta ed esclusiva della decadenza in cui è incorsa per non avere impugnato il lodo per motivi di diritto nei termini perentori di cui all’art. 828 c.p.c., commi 1 e 2. L’esigenza di tutela insita nel suddetto istituto (prospective overruling) non sussiste infatti, né è ravvisabile in via analogica, in una situazione – qual è quella in esame – in cui la condotta processuale della parte, e cioè la relativa scelta di non impugnare il lodo per violazione di regole di diritto relative al merito della controversia, è stata determinata non dall’adesione ad un orientamento interpretativo della Corte di cassazione – che, infatti, al tempo dell’impugnazione del lodo (nel novembre 2008) non si era ancora pronunciata in materia -, ma da una personale lettura in senso restrittivo delle nuove disposizioni modificative dell’art. 829 c.p.c., introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, quanto ai motivi di impugnabilità del lodo in presenza di convenzioni arbitrali stipulate anteriormente; la prima pronuncia di legittimità è la n. 6148 del 19 aprile 2012 che alcuni anni dopo (il lodo era stato impugnato nel novembre 2008) affermò la perdurante ammissibilità dell’impugnazione per violazione di regole di diritto, in presenza di clausola compromissoria anteriore all’entrata in vigore della riforma del 2006, orientamento tra l’altro avversato da altre pronunce della medesima sezione della Corte. La constatazione che il pregiudizio lamentato dalla ricorrente nel caso di specie non è imputabile a una “innovativa esegesi interpretativa“, “imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso” (Cass., sez. un., 8 novembre 2018, n. 28575) rende non pertinente il riferimento alla teoria dell’overruling, che attiene propriamente non al rapporto tra la parte (e il suo difensore tecnico) e la legge, in relazione ai possibili e diversi significati ritraibili da quest’ultima, ma al rapporto tra la parte e la giurisprudenza di legittimità, quale unico veicolo di interpretazione del significato della legge “affidabile” per la collettività.
La rimessione in termini “ordinaria”, e dunque non da prospective overruling, tanto nella versione dell’art. 184 bis c.p.c., quanto in quella dell’art. 153 c.p.c., comma 2, presuppone la tempestività dell’iniziativa della parte che assume di essere incorsa nella decadenza per causa non imputabile, da intendere come immediatezza della reazione della parte stessa al palesarsi della necessità di svolgere un’attività processuale ormai preclusa (Cass. 29 settembre 2016, n. 19290; 26 marzo 2012, n. 4841; 11 novembre 2011, n. 23561); e se è vero che l’istituto della rimessione in termini, in entrambe le formulazioni che si sono succedute (artt. 184 bis e 153 c.p.c.), trova applicazione non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne e strumentali al processo, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (Cass. 15 aprile 2014, n. 8715; 2 marzo 2012, n. 3277), tuttavia deve trattarsi pur sempre di un errore derivante da causa non imputabile perché cagionato da un fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti il carattere dell’assolutezza e non della mera difficoltà, in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza (Cass. 6 luglio 2018, n. 17729; 27 ottobre 2015, n. 21794; 16 ottobre 2015, n. 20992; 4 aprile 2013, n. 8216; 28 settembre 2011, n. 19836), alla nozione di “causa non imputabile” palesandosi estraneo, invece, l’errore derivante dalla scelta processuale della parte, seppure determinata da una difficile interpretazione di norme processuali nuove o di complessa decifrazione, risolvendosi in un errore di diritto che, di regola, non può giustificare la rimessione in termini per evitare o superare la decadenza da un termine processuale e per giustificare impugnazioni tardive (Cass. 8 marzo 2017, n. 5946; 22 aprile 2015, n. 8151; Cass. 19 settembre 2017, n. 21674, quest’ultima nel senso che l’applicazione di una novella processuale non può integrare un errore scusabile da parte dell’avvocato). Ora la perdita del potere impugnatorio “pieno” in capo alla parte nel caso di specie è riconducibile ad una causa ad essa imputabile, cioè ad un errore di diritto che, di regola, non giustifica la rimessione in termini; la scelta rinunciataria della stessa e del relativo difensore (a novembre 2008) non fu dovuta ad alcun orientamento della giurisprudenza di legittimità, intervenuta in materia sorto alcuni anni dopo (ad aprile 2012), ma a una autonoma e personale valutazione basata sull’interpretazione limitativa di alcune disposizioni del D.Lgs. n. 40 del 2006 (in particolare artt. 24 e 27). L’interpretazione giudiziale, pur essendo uno “strumento percettivo e recettivo, non correttivo e/o sostitutivo della voluntas legis” (Cass. 14 giugno 2016, n. 12144), consente alla disposizione legislativa di divenire “norma” e di assumere il significato attribuitole dall’interprete tra i diversi e plausibili significati traibili dal testo, secondo le variabili dello spazio e del tempo nel quale il momento esegetico si realizza. Diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, che sembra implicitamente evocare il metodo sillogistico-deduttivo postulante la univocità e unicità del prodotto dell’interpretazione giuridica, la “norma” non è il presupposto o l’oggetto ma piuttosto il risultato dell’interpretazione che si alimenta di tecniche discorsive di tipo argomentativo e persuasivo ispirate al principio di ragionevolezza. Il riferito “affidamento” riposto nel significato “letterale” della disposizione, cui conseguirebbe un’unica risposta decisionale considerata “esatta“, quindi prevedibile in senso proprio, si scontra con la constatata complessità dei processi interpretativi, il cui esito è il prodotto della funzione nomopoietica distribuita tra tutti i soggetti dell’ordinamento, continuamente alimentata dal dibattito processuale del giudice con e tra le parti.
L’avvocato difensore è tenuto ad adempiere all’obbligazione inerente all’esercizio del proprio mandato con la diligenza necessaria in relazione alla natura e all’importanza dell’attività professionale esercitata in concreto (art. 1176 c.c., comma 2), compendiando non un mero consulente legale con il compito di pronosticare l’esito della lite e di informarne il cliente, né un giudice cui spetta la decisione; egli ha piuttosto l’obbligo di proporre soluzioni favorevoli agli interessi del cliente, anche nelle situazioni che richiedono la soluzione di problemi interpretativi complessi, di attivarsi concretamente nel giudizio con gli strumenti offerti dal diritto processuale, indicando strade interpretative nuove, portando argomenti che facciano dubitare delle soluzioni giurisprudenziali correnti e anche della giustizia della legge, sollevando eccezioni di incostituzionalità e di contrarietà con il diritto sovranazionale, ecc. (è significativo in proposito che l’art. 360 bis c.p.c., n. 1, nel prevedere l’inammissibilità del ricorso per cassazione che ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, imponga alla Corte di cassazione di valutare se “l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa“, confermandosi in tal modo il ruolo attivo e propositivo dell’avvocato per la più efficace tutela degli interessi del cliente nel processo). L’avvocato è anche tenuto ad osservare il fondamentale dovere di precauzione, cioè ad “adottare la condotta più idonea a salvaguardare gli interessi del cliente” (Cass. 27 novembre 2012, n. 20995, con riferimento ad altro professionista legale, il notaio): ciò significa che, nella pluralità dei significati plausibili inclusi nel potenziale semantico del testo legislativo, deve scegliere quello più rigoroso, ovvero il senso che ponga la parte assistita quanto più possibile al riparo da decadenze e preclusioni; e ciò tanto più può dirsi in presenza di un “pur larvato dibattito dottrinale” (Cass., sez. un., n. 17402 del 2012 cit.), come quello emerso ben presto dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, circa la plausibilità di un’applicazione immediata della riforma anche alle parti di convenzioni arbitrali stipulate anteriormente: è sul punto significativo che la soluzione fatta propria dalla Corte di legittimità nel richiamato (e invocato) precedente del 2012 (sentenza n. 6148) era stata a suo tempo propiziata dal difensore della parte che, vittoriosa già dinanzi alla Corte d’appello adita, aveva proposto un’originale interpretazione costituzionalmente orientata del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, (tra l’altro in senso sostanzialmente difforme da Cass. 16 febbraio 2007, n. 3696) e analoghe considerazioni possono farsi per i precedenti di legittimità che al suddetto indirizzo si adeguarono. Nel rapporto professionale con il cliente la responsabilità dell’avvocato è esclusa nei casi di risoluzione di questioni interpretative di particolare difficoltà o opinabili (art. 2236 c.c.), a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave (Cass. 11 agosto 2005, n. 16846; 18 novembre 1996, n. 10068), ma non per questo la parte ha diritto alla rimessione in termini nel compimento di attività precluse o per le quali è decaduta, occorrendo pur sempre l’esistenza di uno stato di fatto configurabile come causa non imputabile cui la decadenza o la preclusione siano immediatamente riconducibili, a norma dell’art. 153 c.p.c., comma 2: deve trattarsi di un “fatto incolpevole che si collochi del tutto al di fuori della sua sfera di controllo e che avrebbe, altrimenti, un effetto lesivo del suo diritto di difesa in violazione dell’art. 24 Cost.” (Cass. 29 luglio 2010, n. 17704), situazione non configurabile nella specie; la tesi sostenuta dalla ricorrente implicherebbe infatti che ildictum interpretativo offerto dalle Sezioni Unite nel 2016, confermativo dell’indirizzo inaugurato da Cass. n. 6148 del 2012, fosse così imprevedibile da oltrepassare il “limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale” (Cass., sez. un., n. 27341 del 2014 cit.), rendendolo impredittibile per qualunque operatore del diritto; ed una simile obiezione – come si è detto – presupporrebbe che la parte si dolesse di quel dictum perché inopinatamente sfavorevole nei relativi confronti e si battesse per farlo modificare in questa sede, mentre nella specie lo considera pienamente legittimo e corretto, al punto di invocarlo a fondamento della richiesta restitutoria del potere impugnatorio non esercitato a suo tempo, avendo riposto erroneo affidamento in una personale interpretazione limitativa (o autolimitativa) delle disposizioni in tema di impugnazione del lodo arbitrale (in ogni caso, l’interpretazione invalsa nella giurisprudenza della Corte di cassazione, costituente diritto vivente, è stata giudicata “pienamente conforme alla disciplina transitoria di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4“, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 2018, che ha fugato i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice rimettente anche in relazione ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza).
Anche nella giurisprudenza amministrativa il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile, previsto dall’art. 37 c.p.a., riveste carattere eccezionale nella misura in cui si risolve in una deroga al principio fondamentale dei perentorietà dei termini processuali, ed è soggetto a regole di stretta interpretazione, essendo i termini stabiliti dal legislatore per ragioni di interesse generale (Cons. di Stato, sez. 3^, 25 gennaio 2018, n. 529; sez. 4^, 28 aprile 2017, n. 1965; analogamente, secondo Cass. 29 settembre 2004, n. 19576, i termini di impugnazione sono strumentali all’esigenza di assicurare la certezza e stabilità delle situazioni giuridiche). Un uso eccessivamente ampio della discrezionalità del giudice che l’istituto presuppone, lungi dal rafforzare l’effettività della tutela giurisdizionale, potrebbe alla fine risolversi in un grave vulnus del pariordinato principio di parità delle parti sul versante del rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge processuale (Cons. di Stato, sez. 4^, 14 maggio 2015, n. 2458; sez. 5^, 23 febbraio 2015, n. 889). Non si esclude – d’altra parte – la possibilità di ammettere la rimessione in termini per errore di diritto, sempre che tale errore di diritto sia determinato da stati di fatto cui la parte rimanga del tutto estranea, imputabili alla controparte (specie se si tratti di soggetti in via di principio affidabili, come le pubbliche amministrazioni) o a terzi, essendosi ritenuto, ad esempio, che sia meritevole della rimessione in termini la parte decaduta dal termine per proporre opposizione ad atti (ordinanza-ingiunzione, cartella di pagamento, preavviso di fermo, ecc.) che contengano una erronea o omessa indicazione del relativo termine o dell’autorità cui ricorrere (Cass. 27 ottobre 2017, n. 25667; 21 maggio 2015, n. 10520; 21 gennaio 2013, n. 1372; 5 maggio 2010, n. 10822; 31 maggio 2006, n. 12895); alcuni settori dell’ordinamento sono poi governati da normative speciali che danno rilievo a situazioni di “incertezza normativa oggettiva” anche sul versante del diritto sostanziale (ad es., in materia tributaria, Cass. 13 giugno 2018, n. 15452; 17 maggio 2017, n. 12301; 23 novembre 2016, n. 23845).