Massima
Tornato di recente alla ribalta della cronaca giudiziaria, uno dei principi cardine del moderno diritto penale è quello di c.d. “materialità”: esso impone al Legislatore di punire condotte del soggetto agente capaci di estrinsecarsi all’esterno giusta verificabili epifanie comportamentali del soggetto agente medesimo; un principio che va tuttavia letto in “combinato disposto” con gli altri due basilari canoni della necessaria “offensività” del reato, da un lato, e della imprescindibile rimproverabilità “soggettiva” del soggetto agente ridetto, dall’altro. Il tutto nel prisma della c.d. concezione unitaria – quantunque analiticamente scomposta – del reato medesimo, ed in un contesto nel quale affiorano – quale peculiare e problematico banco di prova per gli operatori del settore – i c.d. reati associativi ed i pertinenti meccanismi di individua affiliazione, siccome di volta in volta previsti ed imbastiti sulla base di ciascun singolo “statuto” associativo criminale.
Crono-articolo
Muovendo dalla storia giuridica di Roma, rileva senz’altro ratione materiae la nota orazione di Catone il Censore “pro Rhodiensibus”, avvinta alla c.d. “questione rodiese” risalente al 167 a.C.
Il Praetor Peregrinus M. Giuvenzio Thalna ha condotto davanti ai comizi tributi, senza la preventiva auctoritas del Senato, una rogatio de bello Rhodiis, accusando i cittadini di Rodi di aver tradito l’amicizia che li lega a Roma sin dall’ultima guerra sannitica; la questione viene dunque sottoposta al Senato (in precedenza pretermesso) e, nell’accesa discussione che ne segue, prende la parola Catone che cerca di dissuadere i Senatori dal dichiarare guerra ai Rodiesi; ciò assumendo difettare nel caso di specie una giusta causa bellica, dacché i cittadini di Rodi hanno solo avuto “l’intenzione” di muovere guerra: la semplice volontà – lasciata senza effetti “materiali” – non può tuttavia costituire per i Romani un reale “casus belli”.
Venendo al profilo più schiettamente giuridico, nel diritto romano, il principio di materialità del reato trova – come peraltro raramente accade con simile puntualità – un referente assai preciso nelle Fonti: si tratta di Digesto, 48.19.18, Ulp. 3 ad ed., laddove si rinviene il noto brocardo “cogitationis poenam nemo patitur” (contenuto nel Titolo “de poenis”).
Si tratta di una astratta regula iuris che ab origine afferisce ad una fattispecie concreta e tutt’affatto peculiare, legata a quella che oggi verrebbe identificata come “responsabilità del giudice”.
Muovendo dal canone alla cui stregua “quod tibi fieri non vis, alii ne feceris”, ovvero “non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, viene infatti applicato al iudex romano il c.d. editto di ritorsione, onde laddove egli – nell’esercizio della propria iurisdictio – abbia preso provvedimenti ingiusti nei confronti di taluno, siccome non previsti né nell’Editto né, tampoco, dal puro ius civile, questo novum ius lesivo viene applicato, per ritorsione appunto, a lui stesso.
E’ sempre Ulpiano nondimeno, in un frammento tratto dal terzo commentario edittale rintracciabile ancora nel Digesto, D. 2.2.1.2, a chiarire che tale ritorsione non si applica laddove il iudex, pur volendo provvedere nel senso divisato, e dunque con “novum ius” ingiusto, non abbia poi in effetti adottato alcun decreto; il magistrato giusdicente, in base all’editto “Quod quisque iuris”, è dunque tenuto a rispondere – subendo ritorsione – solo per quei provvedimenti che abbiano eventualmente integrato gli estremi dell’iniuria consummata, e non anche per quelli che abbia pensato di adottare senza poi concretamente riuscirvi, costituenti soltanto iniuria coepta, “incominciata”.
Il termine cogitatio, di importanza centrale per l’interpretazione del frammento ulpianeo (D. 2.2.1.2) in connessione con il principio di materialità, indica una mera volontà interna diversa dal tentativo che, piuttosto, presuppone una volontà criminosa la quale si manifesta esteriormente in atti cui non segue tuttavia l’evento “finale” lesivo.
Ulpiano afferma senza esitazione che il magistrato voleva statuire, ma ne fu impedito (dall’intercessio del collega o dal relativo difetto di giurisdizione), con conseguente difetto di qualsivoglia epifania materiale successiva al perpetrato “pensiero” criminoso. Il ‘voler stabilire’ (velle statuere) esprime difatti proprio (e solo) l’intenzione, lo stato d’animo interiore rimasto non esternato, la cogitatio non materializzatasi in episodi concreti.
In base all’editto “Quod quisque iuris”, non può dunque essere punita la semplice intenzione, la mera cogitatio del magistrato che, tuttavia, non abbia poi in concreto posto in essere alcun diritto “nuovo” e iniquo nei confronti del destinatario, giusta decreto effettivamente emanato; l’editto in parola presuppone dunque un pregiudizio realmente sofferto per l’iniqua e parziale condotta del magistrato, punendo colui da cui abbia origine il diritto iniquo, ossia il magistrato, insieme alla parte (terza) che ne abbia fatto istanza.
Nel XIV secolo è poi con Bartolo, il più autorevole esponente della scuola dei commentatori, che comincia a prendere nettamente corpo, muovendo proprio dalla tradizione romanistica, l’idea della non punibilità della mera (ed astratta) intenzione cui non segua, concretamente e materialmente, l’effetto.
Il giureconsulto francese Giacomo Cuiacio è colui che alfine scolpisce il canone, poi recepito nella tradizione dottrinale romanistica, onde la semplice cogitatio, e dunque il mero disegno criminoso, non è di per sé punibile («voluntas aut cogitatio nuda hoc edicto non punitur»), giusta esplicito collegamento del passo del Digesto sulla ritorsione al magistrato (D. 2.2.1.2) con quello, successivo (D. 48.19.18), dal quale affiora il cosiddetto principio di materialità del fatto (cogitationis poenam nemo patitur).
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale che, influenzato sul punto dal codice napoleonico, all’art. 61 punisce “colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione», così collocando la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l’agente abbia cominciato appunto l’esecuzione dell’azione, così esteriorizzando il proposito criminoso.
Di qui la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili, classificazione non sempre agevole che, in ogni caso, sembra indirettamente centrarsi proprio su una certa qual “materialità” del comportamento penalmente sanzionabile.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale (Rocco), nel cui contesto il principio di materialità – al pari di quello di offensività – trova un riconoscimento indiretto nelle norme sul tentativo inidoneo (art.56) e sul reato impossibile (art.49), ed uno – esplicito e diretto – nell’accordo finalizzato a commettere un reato poi non commesso e nell’istigazione non accolta (art.115).
Più in particolare, stando all’art.49 (rubricato “reato supposto erroneamente e reato impossibile”) non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea (cogitatio) che esso costituisca reato (comma 1), la punibilità venendo altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso (comma 2); nei casi preveduti dalle ridette disposizioni peraltro, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso (comma 3); infine nel caso indicato nel primo capoverso (inidoneità dell’azione o inesistenza del pertinente oggetto), il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza (comma 4).
Alla stregua del successivo art.56 sul delitto tentato, chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, ed è dunque punito, anche se l’azione non si compie o l’evento non si verifica (comma 1), avendo il proposito criminoso raggiunto una soglia apprezzabile di esteriorizzazione.
Il colpevole di delitto tentato è difatti punito: con la reclusione da 24 a 30 anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte; con la reclusione non inferiore a 12 anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi (comma 2); se poi il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli “atti compiuti”, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso (comma 3), mentre se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà (comma 4).
Ai sensi dell’art.115 (Accordo per commettere un reato. Istigazione), salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo (comma 1), rimasto senza specifica epifania criminosa; nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza (comma 2); le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso (comma 3); nondimeno, qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza (comma 4).
Proprio dalla lettura dell’art. 115 c.p. affiora come un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non sia di per sé punibile (salva l’applicazione della misura di sicurezza), compendiando l’estremo opposto del delitto consumato.
È fra questi due estremi – ossia fra semplice “cogitatio” o accordo (non punibile) e delitto consumato – che si colloca la problematica del delitto tentato e l’individuazione del momento in cui un’azione, avendo superato la soglia della mera intenzione, pur non avendo raggiunto il pertinente scopo criminoso, va comunque perseguita e punita.
Di sicuro interesse sono poi, ratione materiae, gli articoli 47, comma 1, secondo il cui incipit l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente; e l’art.59, comma 3, secondo il cui incipit se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena (le scriminanti), queste sono sempre valutate a relativo favore.
In sede di parte speciale, affiorano infine fattispecie “associative” come l’associazione sovversiva di cui all’art.270 e l’associazione per delinquere di cui all’art.416, in relazione alle quali si pongono potenziali problemi di “materialità” legati alla effettiva esteriorizzazione della condotta criminosa da parte di chi aderisca, più o meno “idealmente”, alla divisata compagine.
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana che, all’art.25, comma 2, nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del “fatto commesso”: deve trattarsi dunque di un fatto non già meramente ideato, quanto piuttosto concretamente “commesso”, così fondando la legislazione ordinaria penale sulla “materialità” del fatto inadempimento reato, con sostanziale marginalizzazione del c.d. principio di soggettività della condotta criminosa (che, all’opposto, punta tutto sul soggetto autore del reato stesso).
Il successivo art.27 – proprio in ambito soggettivo – prevede poi la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena: il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi in presenza di fattispecie in cui la condotta (azione od omissione) non è in nessun modo concretamente e “materialmente” riconducibile al pertinente autore.
1975
Il 3 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.236 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 3, primo comma, anche in relazione all’art. 24, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dal pretore di Prato.
La Corte principia rammentando come sia stato impugnato, nel caso di specie, l’articolo 707 del codice penale nel relativo testo vigente (a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità pronunciata con sentenza n. 14 del 1971), in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 3, primo comma, e 27, secondo comma, oltreché al ridetto art. 3 in relazione all’art. 24, secondo comma, della Costituzione.
Quanto all’art. 25, secondo comma, Cost., è agevole per la Corte obiettare che, nella specie, la materialità del reato consiste nel possesso non giustificato di chiavi alterate o contraffatte ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare una serratura. È questo il comportamento illecito e, come tale, punibile, analogamente ad altri comportamenti previsti e puniti dal codice e da leggi speciali.
Il reato che potrebbe commettersi con gli oggetti e gli strumenti indicati nell’art. 707 cod. pen. è del tutto estraneo alla materialità del fatto contestato, il quale viene assunto come ipotesi di reato solo perché il prevenuto non è in grado di giustificare l’attuale destinazione di detti oggetti o strumenti.
Contrariamente all’interpretazione che ne dà il giudice a quo, l’argomento addotto nella citata sentenza n. 14 del 1971, rammenta la Corte, è che la condotta presupposta dal reato di cui all’art. 707 consiste nell’antecedente logico e imprescindibile del possesso degli oggetti o strumenti di cui trattasi. Viene comunemente ritenuto in dottrina che il possesso concreta già una condotta o, comunque, fa seguito ad una condotta, tanto è vero che se il possesso non è volontario (come nel caso che gli arnesi siano stati collocati da altri presso il soggetto ignaro), il reato non sussiste.
Sempre a proposito dell’art. 25, secondo comma, Cost., è da ricordare – riprende la Corte – che con sentenza n. 44 del 1964 si è precisato che, “nell’indicare i fatti tipici costituenti reato, la legge a volte fa una descrizione minuta di essi, ma spesso si limita a dare un’ampia nozione del fatto, senza scendere a particolari di esecuzione“. Orbene, la norma denunziata è, appunto, di quelle – precisa il Collegio – che contengono una descrizione sufficientemente delimitata della fattispecie.
Così, a fronte di identica censura mossa al parallelo articolo 708 cod. pen., sotto il profilo della violazione della riserva di legge, la Corte, con sentenza n. 110 del 1968, rammenta di avere assunto che la norma “offre una indicazione precisa del fatto punibile e pone il soggetto nella condizione di conoscere il divieto che forma oggetto della disposizione incriminatrice, tenuto conto, altresì, della possibilità che gli è offerta di dare una soddisfacente spiegazione del possesso (…)”.
E, con la medesima sentenza, la Corte ha precisato che la giustificazione – la quale deve essere valutata dal giudice secondo i comuni principi del libero convincimento – è concetto giuridicamente distinto dalla prova.
Si ponga mente – chiosa ancora il Collegio – che la discrezionalità del magistrato non si limita all’applicazione in concreto della pena (artt. 132 e 133 cod. pen.), ma si estende, previamente, al giudizio sull’esistenza stessa del reato. Ed essendo a lui attribuito il più largo potere in ordine alle cause generali di giustificazione (i cosiddetti elementi negativi del reato), quali sono la legittima difesa, lo stato di necessità, l’uso legittimo di armi, ecc., non può negarsi che rientri nel sistema la sussunzione ad elemento oppure a condizione del reato della mancata giustificazione del possesso di determinati oggetti.
L’art. 3 Cost. – riprende a questo punto il Collegio – vieta una disparità di trattamento tra situazioni personali omogenee e non tra soggetti diversi, quali sono i già condannati per “delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio“, rispetto ai non condannati per quei delitti o per quelle contravvenzioni.
Anche per chi è colto in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico (senza distinzione tra ubriachezza piena e semipiena e tra ubriachezza volontaria e colposa), è prevista una pena diversa e maggiore se il colpevole aveva già riportato condanne per delitti non colposi contro la vita o l’incolumità individuale (art. 688, cpv., cod. pen.); e la Corte rammenta di avere già dichiarato manifestamente infondata la relativa questione con ordinanza n. 155 del 1971 (cfr. anche l’art. 692, cpv., cod. pen.).
Né l’art. 3 può essere addotto a paradigma di incostituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza, dappoiché, all’opposto, è logico ed è razionale che la legge penale tenga conto della eventualità che stia per commettere un reato chi, colto in possesso di grimaldelli, chiavi ecc., sia stato già condannato per i reati specificati nell’art. 707.
Non è consistente poi per la Corte la censura di incostituzionalità per pretesa violazione dell’art. 3 Cost. in relazione all’art. 24, secondo comma: tra i diritti della difesa vi è, bensì, la facoltà di non rispondere all’interrogatorio in qualsiasi fase del procedimento (preistruttoria, istruttoria, giudizio: art. 367, secondo comma, cod. proc. pen.; art. 1 legge 5 dicembre 1969, n. 932); ma se è pur vero che la giustificazione circa le cose indicate nell’art. 707 cod. pen. implica che una risposta sia data, è altrettanto vero che anche la giustificazione è, essa stessa, un mezzo di difesa offerto dalla legge, al quale l’interessato può liberamente rinunciare qualora ritenga che, ai fini difensivi, sia preferibile il silenzio.
È lasciato, ovviamente, al giudice di valutare aliunde il fatto, sulla scorta di prove (documentali, testimoniali ecc.), che potrebbero essere fornite e addotte sia da chi si è rifiutato di fornire la giustificazione verbale, sia dalla relativa difesa tecnica (che resta piena, incondizionata ed autonoma) o che potrebbero essere introdotte od ammesse ex officio.
Ciò dimostra – conclude la Corte – che nella norma non esiste un’inversione dell’onere della prova e, quindi, non appare fondato il presupposto in base al quale il giudice ha fatto riferimento all’art. 27, secondo comma, della Costituzione.
1980
Il 6 febbraio viene varata la legge n.15, il cui art.3 innesta nel codice penale una nuova fattispecie criminosa associativa, l’art.270 bis in tema di associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, che sarà in seguito più volte ritoccata (con riferimenti al c.d. terrorismo internazionale) e che pone i consueti, potenziali problemi di “esteriorizzazione materiale della condotta” già riscontrabili negli articoli 270 c.p. e 416 c.p.
1982
Il 13 settembre viene varata la legge n.646, il cui art.1 innesta nel codice penale una nuova fattispecie criminosa associativa, l’art.416 bis in tema di associazioni di tipo mafioso, che sarà anch’essa in seguito più volte ritoccata e che pone i consueti, potenziali problemi di “esteriorizzazione materiale della condotta” già riscontrabili negli articoli 270 c.p., 270 bis c.p. e 416 c.p.
1985
Il 22 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7462, Arslan, che si propone lo scopo di superare i limiti di un’impostazione che – in tema di condotta di “partecipazione” ad associazione criminale – tutta imperniata sul profilo soggettivo dell’affectio societatis si disinteressa del fatto tipico e mortifica le relative esigenze probatorie di garanzia e di tenuta epistemica, si è proponendo un modello causale di partecipazione destinato in seguito a prendere corpo in giurisprudenza.
La Corte individua il partecipe all’associazione (nella specie dedita al traffico internazionale di stupefacenti) in colui che realizza “un contributo causale minimo, ma non insignificante alla vita della struttura associativa“: con tale pronuncia, si evidenzia la coessenzialità, rispetto all’accertamento dell’a ffectio societatis, del riscontro probatorio dell’incidenza eziologica del contributo del partecipe all’attuazione degli scopi delittuosi dell’associazione, dandosi così rilievo al compimento di atti empiricamente valutabili.
Una simile ricostruzione concettuale, capace di realizzare un indiscutibile miglioramento della qualità connotativa del reato nei rapporti con il diritto penale del fatto attraverso la valorizzazione del paradigma oggettivo-causale, non consente tuttavia – osserverà la dottrina – di circoscrivere in maniera univoca il novero delle condotte atte ad integrare la disposizione incriminatrice.
Infatti, la nozione di partecipazione, così enucleata, non fornisce all’interprete parametri predeterminati su cui fondare il giudizio di tipicità della condotta, risolvendosi, al contrario, in un criterio flessibile, e perciò variabile in ragione della situazione concretamente considerata.
La fluidità e la scarsa selettività della nozione introduce così il rischio di interpretazioni estensive tali da attrarre nell’area di operatività della fattispecie l’intera gamma delle condotte in astratto funzionali alla vita dell’associazione. Inoltre, una prospettiva esclusivamente (o prevalentemente) incentrata sull’apporto causale finisce comunque per collidere con il dato letterale della disposizione che, incriminando “chi fa parte” dell’associazione, sembra presupporre una piena compenetrazione del soggetto nella compagine criminosa della consorteria e non solo una condotta di ausilio al perseguimento degli obiettivi delittuosi.
1986
Il 7 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.171, che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, siccome relative al combinato disposto dei commi quarto e sesto dell’art. 5 della legge 18 aprile 1975 n. 110 (in tema di armi giocattolo), in riferimento all’art. 3 Cost.
Il Collegio, nel caso di specie, invita il Legislatore a tener conto, nella determinazione delle fattispecie tipiche di reato, non soltanto della struttura e della pericolosità astratta dei fatti che va ad incriminare, ma anche della «concreta esperienza nella quale quei fatti si sono verificati e dei particolari inconvenienti provocati in precedenza dai fatti stessi, in relazione ai beni che intende tutelare», dovendo considerare «anche e soprattutto dell’uso concreto» che dell’oggetto materiale del fatto oggetto di incriminazione «l’esperienza mostra»
1987
Il 10 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8952, Angelini, onde un’idea, anche se di natura eversiva, se non accompagnata da programmi e comportamenti violenti, riceve tutela dall’assetto costituzionale, che ha consacrato il metodo democratico e pluralistico e che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere.
1988
Il 16 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.3492, Altivalle, che assume, per aversi partecipazione ad associazione criminosa, non essere sufficiente che l’agente aiuti o si attivi in favore dell’associazione, essendo necessario che ne faccia parte.
Per il Collegio dunque il nucleo strutturale indispensabile per integrare la condotta punibile di tutti i reati di associazione non si riduce ad un semplice accordo della volontà, ma richiede un quid pluris che con esso deve saldarsi e che consiste, nel momento della costituzione dell’associazione, nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti e, successivamente, da quel minimo, ma causalmente apprezzabile, contributo effettivo richiesto dalla norma incriminatrice ed apportato dal singolo per la realizzazione degli scopi dell’associazione.
Da qui – prosegue la Corte – la necessità, per la punibilità dell’agente a titolo di partecipazione, di verificare dimostrativamente la ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, è da ritenersi che, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta «messa a disposizione» delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.), va riscontrato in concreto il «fattivo inserimento» nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione – sia pure per indizi – di un «ruolo» svolto dall’agente o comunque di singole condotte che – per la loro particolare capacità dimostrativa – possano essere ritenute quali «indici rivelatori» dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo.
1994
Il 07 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3663, Graci, che si colloca in un quadro di fondo sulla “partecipazione” ad associazione criminale capace di rendere incerta e instabile la demarcazione con la figura del concorso esterno, anch’essa costruita sul requisito dell’attitudine causale a potenziare il sodalizio, preconizzando sul punto i termini dell’orientamento qualificabile come “organizzatorio” (oppure puro o strutturale).
Per la Corte, nella nozione di partecipazione all’associazione di tipo mafioso non possono farsi rientrare tutte quelle condotte atipiche che potrebbero far configurare il concorso eventuale e, in particolare, non basta un consapevole apporto causale (dunque, anche oggettivo) ad alcune attività dell’associazione per integrare una condotta di partecipazione.
* * *
Il 28 dicembre esce – ancora in tema di partecipazione a compagine criminale, in questo caso mafiosa – la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16, Demitry, onde, per la configurabilità della partecipazione ridetta, si richiede «un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato»: dal paradigma di una fattispecie monosoggettiva causalmente orientata e priva di ogni tipizzazione della condotta punibile si passa dunque ad un reato-accordo, a carattere bilaterale, che incrimina la stabile compenetrazione del soggetto nella rete dei rapporti di intraneità associativa, con l’assunzione di un ruolo funzionale alla vita dell’organizzazione.
La condotta partecipativa, frutto dell’accordo individuo-associazione, si inserisce per la Corte in una dinamica necessariamente “relazionale“, in cui la dimensione individuale si fonde con quella collettiva e questo particolare rapporto simbiotico consente di distinguere l’intraneo dal concorrente esterno che la sentenza “Demitry” definisce come «colui che non vuole far parte della associazione e che l’associazione non chiama a “far parte“, la cui condotta può risolversi pure in un solo contributo purché quell’unico contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter proseguire i propri scopi».
Pertanto, gli indici di rilevanza della partecipazione punibile, che si elevano ad elementi costitutivi della fattispecie, vengono individuati: nell’effettivo ingresso nel sodalizio, anche se non accompagnato da un particolare rituale; nel riconoscimento dell’associato da parte del gruppo e nella speculare accettazione da parte dei sodali; nell’adesione alle regole dell’accordo associativo e nella conseguente assunzione dello status di membro da parte del neo-entrato.
La condizione di associato, a propria volta, genera: l’obbligo di obbedienza gerarchica e di omertà; l’impegno, nella forma della “messa a disposizione“, a realizzare il programma associativo, nonché il potere di impartire ordini secondo una prospettiva di funzionalità agli interessi del gruppo.
Non risulta pertanto, prosegue la Corte, configurabile la partecipazione ad associazione mafiosa in assenza del succitato rapporto sinallagmatico, ovverosia allorquando la partecipazione attribuisce solo vantaggi – di qualsiasi tipo – all’aderente, svincolandolo da ogni azione od obbligo oppure allorquando la partecipazione si esaurisce in un contributo fattivo a favore di un singolo associato e non dell’intera consorteria, salve le ipotesi in cui l’azione eterodiretta risponda ancora una volta ad esigenze funzionali del gruppo.
Un orientamento che non si spinge, tuttavia, fino al punto di pretendere che il partecipe abbia piena contezza dell’intero programma criminoso o che conosca singolarmente ciascuno dei sodali, ritenendo sufficiente che si possa scorgere quel vincolo funzionale in senso operativo che lega ogni adepto alla struttura associativa in forza del quale l’aderente abbia la consapevolezza e la volontà di far parte del consorzio criminale e quest’ultimo ne sfrutti la manifestata disponibilità.
1995
Il 14 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.30, Mannino, che – nel descrivere il dolo del concorrente esterno in associazione mafiosa – individua, a contrariis, il differente elemento soggettivo del partecipe “interno”.
La Corte riconosce in particolare come «il concorrente esterno non può avere il dolo specifico proprio del partecipe, dolo che consiste nella consapevolezza di fare parte dell’associazione, di esserne partecipe, e nella volontà di contribuire a tenere in vita l’associazione e a farle raggiungere gli obiettivi, gli scopi, che si è prefissa», affermando altresì che «il concorso esterno, proprio perché postula che l’associazione esista e abbia, quindi, i suoi partecipi con il necessario dolo specifico, fa sì che il concorrente possa avere anche il semplice dolo generico, cioè la semplice coscienza e volontà di dare il proprio contributo, disinteressandosi della strategia complessiva dell’associazione, degli obiettivi che la stessa persegue e, pertanto, della maggiore o minore o, addirittura, insignificante efficacia del proprio contributo ai fini del mantenimento in vita e del conseguimento degli scopi dell’associazione».
1996
Il 18 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2040, Brusca, che palesa l’acquisita consapevolezza della giurisprudenza in ordine alla insufficienza dei due modelli alternativamente proposti da altrettanti filoni pretori a fornire una nozione esaustiva e sufficientemente determinata della condotta di partecipazione ad associazione mafiosa.
Il Collegio configurare dunque, innovativamente, un modello intermedio o “misto” della partecipazione associativa in cui il profilo dello stabile inserimento dell’individuo nell’associazione si coniuga imprescindibilmente con un apporto causale anche minimo, ma attivo ed effettivo.
Più nel dettaglio, nell’assunzione della qualifica di “uomo d’onore” – significativa non già di una semplice adesione morale, ma di una formale affiliazione alla cosca mercé apposito rito – va ravvisata non soltanto l’accertata “appartenenza” alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo, specificamente contraddistinto, cui l’associato viene ad appartenere sotto il profilo della totale soggezione alle pertinenti regole ed ai relativi comandi, ma altresì la prova del contributo causale che, seppur mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece, nell’obbligo solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca accrescendo così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale anche mercé l’aumento numerico dei membri.
2000
Il 6 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5343, Oliveri, che riafferma il principio “mediano” già presente nella sentenza “Brusca” in tema di partecipazione ad associazione mafiosa.
In particolare, il Collegio riconosce come nell’assunzione della qualifica di “uomo d’onore” vada ravvisata non soltanto l’appartenenza – tendenzialmente permanente e difficilmente revocabile – alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo con soggezione alle pertinenti regole e comandi, ma altresì la prova del contributo causale, che è immanente nell’obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento nel tessuto sociale anche mercé l’aumento numerico dei relativi membri.
La Corte precisa inoltre che la condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere, per essere punibile, non può esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di aderire al sodalizio che si sia già formato, occorrendo invece la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa: contributo che, nel caso dell’associazione di tipo mafioso, può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all’associazione da parte del singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire, quale “uomo d’onore“, ai fini anzidetti.
2003
Il 21 maggio la sentenza delle SSUU della Cassazione n.22327, Carnevale, alla cui stregua la partecipazione ad associazione mafiosa, lungi dal poter essere ricostruita come atto “unilaterale” di adesione all’associazione, è «tanto nel momento iniziale quanto in tutto il suo svolgimento, destinata a combinarsi con le condotte degli altri associati, in un’unione di forze per imprese che generalmente trascendono le capacità individuali»: si è, quindi, in presenza di un reato a concorso necessario in quanto, per la sua configurazione, è richiesta «sempre e necessariamente la volontà e l’agire di una pluralità di persone».
Ancora una volta, si chiarisce da parte della Corte come l’appartenenza alla societas sceleris dipenda non solo dalla volontà dell’aderente, ma anche da quella inclusiva di chi già partecipa all’associazione e l’accordo di adesione, sotto il profilo probatorio, è sì dimostrabile sulla base delle regole del sodalizio, ma può essere anche ricavato dai comportamenti di fatto.
Si riconosce altresì che la tipologia della condotta di partecipazione si caratterizza necessariamente nell’impegno di prestare un contributo alla vita del sodalizio avvalendosi (o sapendo di potersi avvalere) della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti.
2005
Il 17 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.669, Ragoubi, onde occorre affermare il principio secondo cui la costituzione di un sodalizio criminoso avente la caratteristiche di cui all’art. 270-bis cod. pen. non può dirsi esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più attorno a nuclei culturali che si rifanno all’integralismo religioso islamico perché, al contrario, i rapporti ideologico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza con finalità terroristiche, lo rendono ancor più pericoloso, potendo esso costituire un collante più forte di molti altri vincoli tra sodali.
* * *
Il 20 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.33748, Mannino, che, in piena aderenza ai principi costituzionali, valorizza – in tema di partecipazione ad associazione criminale – la proiezione fattuale dell’inserimento organico nel sodalizio, mediante comportamenti espressivi del ruolo svolto dal soggetto: ruolo che deve manifestarsi mediante il compimento di atti di militanza associativa eziologicamente rilevanti per il perseguimento degli scopi dell’associazione, risultando insufficiente un mero ingresso formale nell’associazione.
Per la Corte può definirsi partecipe «colui che si trovi in un rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo»: ciò rende evidente che la condotta tipica deve essere intesa nei termini di una “partecipazione fattiva“, che si realizza mediante il compimento di “atti di militanza associativa“.
La stessa non deve necessariamente possedere – di per sé – una carica elevata di apporto causale alla vita dell’intera associazione o di un suo particolare settore, come richiesto per il concorrente esterno, ma deve in ogni caso porsi come comportamento concreto, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi ritenere condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo.
Le SSUU analizzano, innanzitutto, la condotta del partecipe sotto due profili, quello sostanziale e quello processuale (inteso, quest’ultimo, come dimensione probatoria).
Sotto il profilo sostanziale, il Collegio si prende cura di definire la figura del “partecipe” nel soggetto che, inserito stabilmente e organicamente nella struttura, non solo è, ma fa parte (o meglio, prende parte) alla stessa. In relazione al profilo soggettivo, il partecipe deve non solo voler contribuire causalmente al rafforzamento dell’associazione, ma deve volere anche la realizzazione del programma criminoso, escludendosi così l’applicazione del dolo eventuale, nel senso della mera accettazione del rischio di realizzazione dell’evento.
Sotto il profilo probatorio, invece, la Corte individua una serie di indicatori fattuali «dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio»: in tal senso, vengono indicati, a scopo meramente esemplificativo, «indizi gravi e precisi, dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso», tra i quali vengono annoverati «i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova“, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore“, la commissione di delitti-scopo oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia».
Il paradigma organizzatorio puro viene, pertanto, sviluppato nella relativa formulazione sincretistico-additiva; da una caratterizzazione “statico-formale” della condotta, si passa, quindi, ad una sua dimensione “dinamico-funzionale“.
Scaturisce da questa sentenza – nella sostanza – un fenotipo della partecipazione che postula l’esigenza di atti espressivi dello status di partecipe, intesi come condotte di militanza associativa: con la conseguenza che la fattispecie criminosa non può configurarsi in presenza della sola qualifica formale (e alla condizione statica) di componente dell’associazione, in assenza di alcuna forma di agere associativo successivo al formale ingresso all’interno della consorteria.
Nel tracciare il criterio discretivo tra le rispettive categorie concettuali della partecipazione interna e del concorso esterno ad associazione mafiosa, il Collegio definisce dunque “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa.
Locuzione questa – precisa la Corte – da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima.
2006
Il 19 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.24994, Bouhrama, onde il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen. va assunto integrato da una struttura organizzata di carattere anche solo rudimentale e da una condotta di adesione meramente ideologica.
Ciò purché, precisa il Collegio, essa risulti connotata da una minima serietà di propositi criminali terroristici, senza che sia necessario, data la natura di reato di pericolo presunto, che si abbia l’inizio di materiale esecuzione del programma criminale.
* * *
Il 19 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.30824, Tartag, che assume insufficiente l’adesione ad un’astratta ideologia jihadista ai fini della configurabilità del reato di cui all’art.270 bis c.p.
Più nel dettaglio, per la Corte va ribadito che il reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen. è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma – comune fra i partecipanti – finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza: con la conseguenza che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato.
2007
*Il 17 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.1072, Bouyahia Maher, che ribadisce che il reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen. è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma – comune fra i partecipanti – finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza: con la conseguenza che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato.
2008
L’11 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.1470, Addante, onde l’inserimento di socius nella compagine criminale mafiosa prescinde da formalità o riti che lo ufficializzino, potendo risultare per facta concludentia, attraverso cioè un comportamento che sul piano sintomatico sottolinei la partecipazione alla vita dell’associazione.
* * *
Il 25 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.31389, Bouyahia, alla cui stregua – in tema di associazione terroristica ex art.270 bis c.p. – è sufficiente che i modelli di aggregazione tra sodali integrino il “minimum” organizzativo richiesto a tale fine.
Possono in proposito essere individuati i pertinenti caratteri associativi nel caso di strutture “cellulari” proprie delle associazioni di matrice islamica, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che, di volta in volta, si presentano, ed in condizioni di operare anche contemporaneamente in più Stati, ovvero anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti spesso connotati da marcata sporadicità, considerato che i soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta, con una sorta di adesione progressiva ed entrano, comunque, a far parte di una struttura associativa già costituita.
L’organizzazione terroristica transnazionale di matrice islamica assume, in tale ottica, le connotazioni non già di una struttura statica, bensì di una vera e propria “rete” in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare e di fungere da catalizzatore dell’affectio societatis, costituendo in tal modo lo “scopo sociale” del sodalizio.
2010
L’8 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9091, Di Gati, alla cui stregua vanno assunti “partecipi” di un’associazione mafiosa quei soggetti non formalmente affiliati (i c.d. avvicinati) i quali, senza aver ancora posto in essere condotte causalmente dirette a favore dell’associazione e pur non compartecipando ancora al patrimonio di conoscenze dell’organizzazione e non disponendo di alcun potere deliberativo, si mettono a disposizione del sodalizio mafioso per svolgere una sorta di apprendistato.
L’attribuzione ad un soggetto della qualifica di “avvicinato“, in quanto espressiva dell’essersi la persona posta sostanzialmente a disposizione dell’associazione, assume, anche di per sé, il significato dell’esistenza di un ruolo associativo, così anticipando la celebrazione del rito dell’affiliazione.
2011
Il 23 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.25242, Baratto, che si colloca nel solco pretorio secondo il quale – con riguardo all’art.416 bis c.p. – la caratterizzazione in termini oggettivi dell’uso del metodo mafioso impone di qualificare la consorteria mafiosa quale associazione che “delinque” e non “per delinquere“, dovendosi apprezzare l’offesa nel relativo contenuto di danno e non di pericolo.
In una simile prospettiva, la semplice condotta adesiva per la Corte è del tutto insufficiente ai fini della configurabilità del delitto, in quanto il profilo di danno deve necessariamente essere riconnesso al compimento materiale di atti o alla tenuta di comportamenti recanti un effettivo contributo alla vita dell’associazione e solo la loro realizzazione determina la consumazione del reato.
Conseguentemente, si sottolinea che la qualificazione di un sodalizio come mafioso dipende dalla relativa capacità di sprigionare autonomamente una carica intimidatrice reale e obiettivamente riscontrabile capace di piegare ai propri fini la volontà dei destinatari, sì che occorrerà rilevare, sul piano statico, l’attualità e non la sola potenzialità, della capacità intimidatrice dell’organizzazione alla quale dovrà corrispondere un alone di intimidazione diffuso effettivo ed obiettivamente riscontrabile, e, sul piano dinamico, quale elemento indefettibile della fattispecie, una condotta espressiva della volontà di realizzare il programma sociale perseguito, di servirsi cioè dell’acquisita capacità intimidatrice, ricorrendo nel caso, ove necessario, al compimento di concreti atti di violenza o di minaccia.
In tale ottica pertanto, conclude la Corte, l’utilizzo della forza d’intimidazione deve assumere una pregnanza concreta così rilevante ed intensa da creare nella comunità un timore diffuso, volto a limitare la libertà dei consociati. Il metodo mafioso finisce così con l’assumere connotazioni di carattere oggettivo, idonee a designare non solo il “modo d’essere” dell’associazione, ma anche il “modo di esprimersi” della stessa.
2012
Il 15 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5888, Garcea, che si rifà ad un indirizzo onde l’art. 416-bis cod. pen. integra un reato di pericolo presunto, poiché la mera esistenza di un’organizzazione plurisoggettiva funzionale all’attuazione di un programma delinquenziale sarebbe sufficiente ad integrare l’esposizione a pericolo dell’ordine pubblico. La rilevanza del bene giuridico da tutelare legittimerebbe, pertanto, un arretramento della soglia di punibilità.
Le superiori possibilità di successo dei propositi criminali derivanti dalla possibilità di sfruttare l’apporto di tutti gli accoliti, la maggiore efficacia intimidatoria di un gruppo costituito da un maggior numero di soggetti e l’organizzazione strutturale (certamente più elaborata) dell’associazione varrebbero a legittimare – precisa la Corte – la deroga all’art. 115 cod. pen., non venendo sanzionata una mera intesa priva di manifestazioni esteriori, bensì la costituzione fattuale di un’associazione che, per la sua sola esistenza, determina minaccia per la sicurezza collettiva.
La qualificazione del delitto in termini di reato di mero pericolo, che prescinde dall’accertamento di una lesione effettiva dei beni giuridici tutelati, non può che determinare un’importante refluenza sull’individuazione del momento consumativo del delitto e sulla definizione della condotta di partecipazione: l’esposizione a pericolo dell’ordine pubblico si realizzerebbe per effetto del mero ingresso nella compagine e la consumazione del reato si perfezionerebbe nel momento dell’adesione.
Al fine di qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale, è difatti necessaria la relativa capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua stessa esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all’organismo criminale, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori.
Ne consegue per il Collegio che il controllo del territorio e delle attività possono rappresentare una conseguenza anche solo eventuale dell’agire dell’associazione: attualità, effettività e permanenza, connotanti di regola la forza di intimidazione, divengono, in tale prospettiva, elementi eventuali non necessariamente produttivi (nella loro materialità) dello stato di soggezione e di omertà, che sarebbero consequenziali alla sola esistenza dell’organizzazione.
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Il 7 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.43061, Commisso, onde va assunto configurabile il reato di partecipazione ad associazione mafiosa nei confronti del soggetto che abbia partecipato al rito di affiliazione altrui, assumendo in esso un ruolo attivo, e ciò in base al rilievo che solo a un soggetto intraneo all’associazione è consentito officiare tali riti.
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Il 29 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.46308, Chabchoub, onde integra il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete“, con operatività, anche transnazionale e diacronica, flessibile e discontinua nei contatti tra aderenti (fisici, telefonici ovvero informatici), che realizzi anche una soltanto delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali (proselitismo, diffusione di documenti di propaganda, assistenza agli associati, finanziamento, predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, arruolamento, addestramento).
Nella fattispecie, il Collegio assume sussistente la prova dell’operatività di una cellula e della relativa funzionalità al perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell’attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti della jihad all’estero.
2013
Il 31 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4937, Modafferi, onde va assunto configurabile il reato di partecipazione ad associazione mafiosa nei confronti del soggetto che abbia partecipato a più riunioni del sodalizio e dimostrato di conoscerne la pertinente “sede“, non essendo ipotizzabile che un estraneo possa essere più volte ammesso a tali consessi.
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*Il 27 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.22719, Lo Turco, che ribadisce che il reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen. è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma – comune fra i partecipanti – finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza: con la conseguenza che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato.
* * *
*Il 19 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.26684, De Paola, onde va assunto configurabile il reato di partecipazione ad associazione mafiosa nei confronti del soggetto che abbia partecipato a più riunioni del sodalizio e dimostrato di conoscerne la pertinente “sede“, non essendo ipotizzabile che un estraneo possa essere più volte ammesso a tali consessi.
* * *
Il 10 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.49793, Spagnolo, che assume l’impossibilità di ritenere integrato il reato di partecipazione all’associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di intervenuta prova del mero accordo di ingresso cui non segua un qualsiasi indicatore di avvenuta attivazione del soggetto in attuazione dell’accordo medesimo.
Qualora si reputasse la sufficienza del semplice riscontro dell’avvenuta celebrazione di un rituale di affiliazione, si finirebbe per la Corte per reprimere l’accrescimento delle mere astratte “potenzialità operative” del gruppo criminoso e non l’ausilio effettivamente prestato al perseguimento dei relativi fini. Inoltre, si potrebbe compiere l’errore di una “sopravvalutazione” della condotta in tutte le ipotesi in cui i rituali si compiono solo per rispetto dei vincoli di parentela o di affinità di alcuni sodali, in ossequio a prassi familiari, senza che a tale formalismo venga simbolicamente accordato il valore di condivisione delle finalità e la reciproca volontà di attuazione.
Infine, lo stesso riferimento ad una “comunanza ideologica” tra i sodali ed il neo affiliato si pone in evidente antinomia con i suddetti canoni di materialità ed offensività del fatto tipico, per approdare ad indefinite logiche di incriminazione avversative di una semplice “volontà ribelle“, o di “tipo d’autore“, in aperta violazione anche dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza. Su questi presupposti, si afferma che, se da un lato, la qualità di “uomo d’onore“, sul piano storico ed esperienziale, tende ad implicare un’avvenuta attivazione in favore dell’organizzazione e, dunque, può esprimere – in senso probatorio – la concreta sintesi di un percorso associativo, non altrettanto può dirsi per “l’affiliazione” rituale: quest’ultima, infatti, dimostra esclusivamente un profilo statico di volontà di “far parte“, cui non necessariamente fa seguito l’effettiva assunzione di un ruolo in seno alla consorteria.
In questo caso, chiosa ancora il Collegio, il riconoscimento della configurabilità del reato si fonderebbe su una massima di esperienza fallace, perché destinata a scontrarsi con una sostenibile ipotesi alternativa rappresentata dal fatto che, pur dopo l’accordo di ingresso, il soggetto può rimanere in realtà inattivo.
L’affiliazione pertanto, rappresenta ancora la Corte, quale mero indizio, deve necessariamente essere valutata, sulla base di comprovate massime d’esperienza, congiuntamente ad altri facta concludentia, in grado di fornire nel loro complesso la prova che taluno non solo sia formalmente entrato nell’associazione, ma si sia anche attivato, fornendo il proprio contributo, per attuarne il programma criminoso.
* * *
Il 23 dicembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.51716, Amodio, che si colloca nel solco pretorio onde la condotta di partecipazione ad un’organizzazione criminale prescinde da qualsiasi atto di “investitura formale“, conformemente alla più recente giurisprudenza in materia di reati associativi.
2014
*Il 16 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1703, Sapienza, alla cui stregua vanno assunti “partecipi” di un’associazione mafiosa quei soggetti non formalmente affiliati (i c.d. avvicinati) i quali, senza aver ancora posto in essere condotte causalmente dirette a favore dell’associazione e pur non compartecipando ancora al patrimonio di conoscenze dell’organizzazione e non disponendo di alcun potere deliberativo, si mettono a disposizione del sodalizio mafioso per svolgere una sorta di apprendistato.
L’attribuzione ad un soggetto della qualifica di “avvicinato“, in quanto espressiva dell’essersi la persona posta sostanzialmente a disposizione dell’associazione, assume, anche di per sé, il significato dell’esistenza di un ruolo associativo, così anticipando la celebrazione del rito dell’affiliazione.
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*Il 24 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.48676, Calce, che si colloca nel solco pretorio onde la condotta di partecipazione ad un’organizzazione criminale prescinde da qualsiasi atto di “investitura formale“, conformemente alla più recente giurisprudenza in materia di reati associativi.
2015
Il 18 febbraio viene varato il decreto legge n.7, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione.
Importante soprattutto ratione materiae l’art.1, comma 1, laddove introduce nell’art.270 quater del c.p. un nuovo secondo comma che punisce – fuori dei casi di cui all’art.270 bis c.p. e salvo il caso di addestramento – la persona meramente “arruolata”, così conferendo rilievo penale autonomo alla semplice affiliazione all’organizzazione terroristica.
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Il 17 aprile viene varata la legge n.43 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.7
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*Il 27 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.22124, Borraccino, che si colloca nel solco pretorio onde la condotta di partecipazione ad un’organizzazione criminale prescinde da qualsiasi atto di “investitura formale“, conformemente alla più recente giurisprudenza in materia di reati associativi.
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Il 20 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.46070, Alcaro, che – pur collocandosi nell’ambito dell’indirizzo interpretativo orientato a non conferire un ruolo imprescindibile al rituale di affiliazione ad una compagine mafiosa – palesa tuttavia ambiguità sul piano applicativo.
Il Collegio afferma infatti che il dato dell’investitura formale, non seguita da altri comportamenti materiali, potrebbe assumere tutt’altro significato probatorio, quando involge le posizioni di soggetti che, per il ruolo sociale o i compiti istituzionali che li connotano, costituiscano, già solo per il conferimento della qualifica, possibili o consapevoli strumenti di potenziamento dell’associazione.
Si tratta di una lettura che appare contraddittoria e che di fatto ripropone, seppure con riferimento alle sole posizioni più qualificate, quella logica presuntiva legata al possesso di uno status, censurata nelle stesse premesse.
2016
Il 21 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.2651 che si pone nel solco della giurisprudenza orientata, di volta in volta, ad individuare condotte concrete dalle quali poter desumere i caratteri associativi e di configurabilità del reato di associazione con finalità terroristiche, ex art.270 bis c.p.
Nel caso di specie, la Corte giudica su una fattispecie di offerta di ospitalità ai “fratelli” pericolosi, di propaganda nei luoghi di culto, di preparazione di documenti falsi.
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Il 22 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.6882, Caccamo, onde le forme della partecipazione ad una associazione criminale possono essere le più diverse, possono essere non appariscenti e possono assumere connotati coincidenti – all’apparenza – con le normali esplicazioni della vita quotidiana e lavorativa, essendo l’associazione mafiosa una realtà “dinamica” che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo sociale e all’evoluzione dei rapporti di forza tra gli aderenti.
Per questo, precisa il Collegio, la ricerca di un “ruolo” stabile e predefinito dell’associato all’interno del sodalizio, quasi si trattasse di definirne il profilo criminale (killer, cassiere, autista, mazziere, ecc.), comporterebbe uno sforzo vano e, comunque, non necessario per qualificare la posizione del singolo, giacché ciò che rileva, per potersi parlare di “partecipazione” ad un organismo mafioso, è la compenetrazione col tessuto organizzativo del sodalizio, ovvero la messa a disposizione – in via tendenzialmente durevole e continua – delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio.
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Il 14 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.43632, Capuano, alla cui stregua – dimostrata l’esistenza di una associazione per delinquere e individuati gli elementi concreti, sulla base dei quali possa ragionevolmente affermarsi la cointeressenza di taluno nelle attività dell’associazione stessa, e quindi la partecipazione alla vita di quest’ultima – non occorre anche la dimostrazione del ruolo specifico svolto da quel medesimo soggetto nell’ambito dell’associazione, potendosi la partecipazione al sodalizio criminoso, per propria medesima natura, realizzarsi nei modi più svariati, con una condotta libera, la cui specificazione non è richiesta dalla norma incriminatrice.
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Il 14 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.48001, Hosni, onde, per la configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale ex art.270 bis c.p., è necessaria la sussistenza di una struttura criminale che si prefigga la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità ed abbia la capacità di dare agli stessi effettiva realizzazione, non essendo sufficiente una mera attività di proselitismo ed indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del martirio per la causa islamica e ad acquisire una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti in suo nome.
Nella specie, la Corte assume insussistente il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen. pur a fronte della limitata operatività del gruppo criminale, desunta da alcuni indici concreti, sottolineando come l’attività di mero proselitismo e indottrinamento, in tal caso, potendo costituire precondizione ideologica per la costituzione di un’associazione terroristica, è valutabile ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione.
Il Collegio chiarisce nell’occasione che l’attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non consente di ravvisare quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell’associazione in esame.
In passato – nota la Corte – la stessa giurisprudenza di legittimità ha sì attribuito significatività, ai fini della ravvisabilità del reato, alla c.d. “vocazione al martirio” ma ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l’adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata “aliunde” riconosciuta l’effettiva operatività (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, (dep. 2005), Ragoubi, Rv. 230431), e, comunque, a condizione che le attività di indottrinamento e reclutamento siano affiancate da quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, cit.) in modo da attribuire all’esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l’associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, «si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo».
Al fine di accertare l’adesione al programma criminoso – al di là della semplice condivisione ideologica – possono dunque costituire, soprattutto in fase cautelare, elementi rilevanti anche i propositi eversivi degli aderenti, espressi con reiterate manifestazioni di disponibilità a partire per “fare jihad“, a condizione che detti propositi non siano astratti, cioè espressione di un’aspirazione personale o di una condivisione ideologica, quanto, piuttosto, sorretti da elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo reale tra il singolo e la “struttura” che consenta di tradurre in pratica i propositi di morte.
* * *
Il 30 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.55359, Pesce, che – in tema di partecipazione ad associazione mafiosa – evidenzia il concreto rischio che la fattispecie criminosa pertinente, laddove si faccia centrale riferimento al rituale di affiliazione, finisca col riconnettersi alla mera qualifica formale (o statica) di componente dell’associazione e, che in presenza della prova del solo ingresso cui non segua lo svolgimento di compiti espressivi del ruolo assunto, si finisca per determinare la medesima lesione dei principi di offensività e materialità imputata ai fautori della concezione psicologica.
L’evidente arretramento della soglia di punibilità e il contestuale allontanamento dai sunnominati principi di materialità ed offensività sospinge piuttosto nel senso di elaborare, sulla base di istanze più garantiste, una diversa ricostruzione tesa ad evidenziare l’insufficienza del compimento del solo rituale di affiliazione.
Nella consapevolezza dell’esigenza di distinguere e superare i ricorrenti fenomeni di sovrapposizione tra tipo legale e proiezione probatoria, va riconosciuto per la Corte che, se “il far parte” potrebbe implicare in via logica un accordo di ingresso, per la punibilità si rendono successivamente necessari specifici ulteriori indicatori di effettiva attivazione (in una qualsiasi forma) del soggetto formalmente entrato nel gruppo, a concreta dimostrazione dell’intraneità.
In tale ottica – precisa la Corte – il “far parte” individua una condotta causalmente orientata capace di sostanziarsi in un contributo apprezzabile e concreto all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione; non assume il significato di mera condivisione psicologica del programma e delle metodiche, ma quello, più pregnante, della concreta assunzione di un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa; infine, non si trasforma nell’assunzione di uno status, non rilevando la posizione di aderente assunta, ma si caratterizza per il contributo arrecato al sodalizio da parte di chi è stabilmente incardinato nella struttura associativa con determinati, continui compiti anche per settori di competenza.
Il Collegio propende dunque per la necessità di coniugare il modello organizzatorio/strutturale (o puro) con l’evoluzione funzionalistica, innestandone una caratterizzazione dinamica; la Corte riconosce che, mentre le condotte di promozione, direzione, organizzazione offrono già sul piano intrinseco un più elevato grado di tassatività descrittiva, la condotta partecipativa impone l’individuazione in concreto del comportamento o dei compiti assegnati o svolti dal partecipante.
In particolare, la sentenza argomenta che, per la punibilità dell’agente a titolo di partecipazione, si rende necessaria la verifica dimostrativa della ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo, l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, il «fattivo inserimento» nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione di un «ruolo» svolto dall’agente o, comunque, di singole condotte che, per la loro particolare capacità dimostrativa, possono essere ritenute quali «indici rivelatori» dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta «messa a disposizione» delle proprie energie, dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.
Pertanto, conclude il Collegio, per integrare la condotta punibile, non è sufficiente un semplice accordo della volontà, ma si richiede un quid pluris che con esso deve saldarsi e che consiste nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti, oltre ad un minimum di contributo effettivo, ma causalmente apprezzabile apportato dal singolo per la realizzazione degli scopi dell’associazione.
2017
Il 22 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.25452, Beniamino, onde, quanto alla prova della “partecipazione” all’associazione con finalità di terrorismo, va precisato che la dichiarazione di responsabilità penale presuppone la dimostrazione dell’effettivo inserimento nella struttura organizzata attraverso condotte sintomatiche consistenti anche solo nello svolgimento di attività preparatorie rispetto alla esecuzione del programma oppure nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale.
Ne segue per la Corte che la partecipazione può concretarsi anche in condotte strumentali e di supporto logistico alle attività dell’associazione che, tuttavia, inequivocamente rivelino l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione.
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Il 31 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.27394, Pontari, onde – in tema di partecipazione ad associazione criminale – va riproposto il binomio affiliazione rituale-partecipazione punibile.
Ciò sul presupposto, precisa il Collegio, “che la sola dichiarata adesione all’associazione da parte di un singolo […] accresce, per ciò solo, la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione“.
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*Il 01 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.27428, Serratore, onde va assunto configurabile il reato di partecipazione ad associazione mafiosa nei confronti del soggetto che abbia partecipato al rito di affiliazione altrui, assumendo in esso un ruolo attivo, e ciò in base al rilievo che solo a un soggetto intraneo all’associazione è consentito officiare tali riti.
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Il 3 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.50189, Bakaj, che palesa una tendenza giurisprudenziale a valorizzare l’assunto secondo cui la modalità di creazione “dell’affectio societatis” tra i sodali della singola cellula e la struttura internazionale terroristica ISIS “è essa stessa peculiare, influenzata da una propaganda di adesione improntata ad un modello spontaneista e privo di formalismi, spesso avulso da qualsiasi contatto fisico tra soggetti che siano esponenti riconosciuti dell’organizzazione terroristica islamistica di riferimento e persone aderenti ai gruppi o cellule che compiono poi gli attentati“.
Per il Collegio, più nel dettaglio, la partecipazione ad una associazione terroristica di ispirazione jiahadista può dunque manifestarsi anche attraverso modalità di adesione “aperte” e spontaneistiche, che non implicano l’accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi (fattispecie in cui si è ritenuta partecipe dell’associazione terroristica una “cellula“operativa autonoma composta di più soggetti attivi sul territorio italiano).
Secondo l’incipit motivazionale imbastito dal Collegio, per rispondere alle ragioni difensive enunciate nel caso di specie, è necessario premettere un breve quadro di sintesi della giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione al reato di cui all’art. 270-bis cod. pen., fattispecie senza dubbio di complessa natura e suscettibile di svariate declinazioni pratiche, influenzate dalla tipologia di manifestazione dell’attività terroristica di volta in volta in esame e dalla natura della fattispecie, pacificamente ritenuta reato di pericolo presunto o astratto (Sez. 2, n. 24994 del 25/5/2006, Bouhrama, Rv. 234345).
Il delitto è integrato in presenza di una struttura organizzativa con grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminoso, pur non richiedendo la fattispecie, ai fini della pertinente configurabilità, anche la predisposizione di un programma di azioni terroristiche (cfr. Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015, dep. 2016, Nasr Osama, Rv. 265924; Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, dep. 2007, Bouyahia Maher, Rv. 235289).
Sez. 5, n. 12252 del 23/2/2012, Bortolato, Rv. 251920 – prosegue il Collegio – rafforza l’interpretazione secondo cui non è necessario che sussista un progetto di azioni terroristiche concrete per ritenere sussistente il reato, individuando correttamente la cifra del carattere “terroristico” dell’associazione (tale da renderla speciale rispetto a quella prevista dall’art. 270 cod. pen.) non già nella finalità perseguita, nonostante la dizione normativa letterale, bensì nelle modalità e nella natura terroristica della violenza che il sodalizio intende esercitare o si prefigura (conforme sul punto anche Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547).
Ed ancora, con affermazione condivisa, la Corte rammenta come si sia detto che il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen., è integrato da una struttura organizzata di carattere anche solo rudimentale e da una condotta di adesione meramente ideologica, purché connotata da una minima serietà di propositi criminali terroristici, senza che sia necessario, data la natura di reato di pericolo presunto, che si abbia l’inizio di materiale esecuzione del programma criminale (Sez. 2, n. 24994 del 25/5/2006, Bouhrama, Rv. 234345).
Nello stesso senso, quanto alla sufficienza di un’organizzazione associativa con finalità terroristiche anche solo di natura rudimentale, purchè capace di concretezza ed effettività di azione, si esprimono Sez. 6, n. 25863 del 8/5/2009, Scherillo, Rv. 244367 e Sez. 1, n. 22673 del 22/4/2008, Di Nucci, Rv. 240085.
In relazione, poi, alle specifiche modalità di manifestazione della condotta associativa, e con particolare riguardo al terrorismo di matrice ideologica islamica, la giurisprudenza di legittimità, che il Collegio afferma di condividere, ha da tempo indicato la necessità di guardare oltre gli ordinari paradigmi interpretativi legati alla fenomenologia della struttura e degli schemi organizzativi criminali del terrorismo “storico” operante nel nostro Paese (a prescindere dall’ideologia di riferimento), ovvero plasmati sul concreto atteggiarsi dell’associazione a delinquere “classica“, semplice o mafiosa che sia.
In tale prospettiva, è parso sufficiente (Sez. 5, n. 31389 del 11/6/2008, Bouyahia, Rv. 241175) che i modelli di aggregazione tra sodali integrino il “minimum” organizzativo richiesto a tale fine e si sono individuati i caratteri associativi nel caso di strutture “cellulari” proprie delle associazioni di matrice islamica, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che, di volta in volta, si presentano, ed in condizioni di operare anche contemporaneamente in più Stati, ovvero anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti spesso connotati da marcata sporadicità, considerato che i soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta, con una sorta di adesione progressiva ed entrano, comunque, a far parte di una struttura associativa già costituita.
L’organizzazione terroristica transnazionale di matrice islamica assume, in tale ottica, le connotazioni non già di una struttura statica, bensì di una vera e propria “rete” in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare e di fungere da catalizzatore dell’affectio societatis, costituendo in tal modo lo “scopo sociale” del sodalizio.
Seguendo detta scia giurisprudenziale, riprende il Collegio, Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chabchoub, Rv. 253944 ha affermato che integra il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete“, con operatività, anche transnazionale e diacronica, flessibile e discontinua nei contatti tra aderenti (fisici, telefonici ovvero informatici), che realizzi anche una soltanto delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali (proselitismo, diffusione di documenti di propaganda, assistenza agli associati, finanziamento, predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, arruolamento, addestramento).
Nella fattispecie, riprende la Corte, quel Collegio ritenne sussistente la prova dell’operatività di una cellula e della relativa funzionalità al perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell’attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti della jihad all’estero.
All’attenzione verso tali nuove forme di fenomenologia della criminalità terroristica internazionale ed alla volontà di coprirne la rilevanza penale con gli strumenti normativi esistenti – se applicabili e configurabili secondo lo schema di relazione logico-giuridica che lega la fattispecie concreta a quella astratta – ha fatto, peraltro, sempre riscontro – precisa a questo punto il Collegio – una doverosa attenzione della giurisprudenza della Suprema Corte ad evitare torsioni del precetto penale previsto dall’art. 270-bis cod. pen., tenendo sempre presente che, pur configurandosi il delitto con natura di pericolo presunto, l’anticipazione della soglia di punibilità non può sfuggire alla valutazione di offensività in concreto, pur sempre demandata al giudice per tali tipologie di reato (in coerenza con i principi espressi dalla Corte costituzionale sul tema: cfr. sentenze n. 62 del 1986 e n. 333 del 1991, nonché nn. 263 del 2000 e 225 del 2008; da ultimo cfr. anche Corte cost. n. 172 del 2014).
Tantomeno tale anticipata tutela può comportare la criminalizzazione di condotte che rimangano confinate sul piano della mera ideazione o adesione psicologica ad un’ideologia pur violenta ed estrema.
Così, Sez. 5, n. 48001 del 14/7/2016, Hosni, Rv. 268164 ha ritenuto che, per la configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale è necessaria la sussistenza di una struttura criminale che si prefigga la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità ed abbia la capacità di dare agli stessi effettiva realizzazione, non essendo sufficiente una mera attività di proselitismo ed indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del martirio per la causa islamica e ad acquisire generica disponibilità ad unirsi ai combattenti nel relativo nome.
Nella specie, rammenta il Collegio, la Corte ha ritenuto insussistente il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen. per la limitata operatività del gruppo criminale, desunta da alcuni indici concreti, sottolineando come l’attività di mero proselitismo e indottrinamento, in tal caso, potendo costituire precondizione ideologica per la costituzione di un’associazione terroristica, è valutabile ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione.
Per l’insufficienza dell’adesione ad un’astratta ideologia jihadista ai fini della configurabilità del reato in esame, il Collegio richiama anche Sez. 1, n. 30824 del 15/6/2006, Tartag, Rv. 234182.
D’altra parte, prosegue la Corte, è pur vero – e va in questa sede ribadito rispetto al caso di specie, che ne costituisce un esempio – il principio secondo cui la costituzione di un sodalizio criminoso avente la caratteristiche di cui all’art. 270-bis cod. pen. non può dirsi esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più attorno a nuclei culturali che si rifanno all’integralismo religioso islamico perché, al contrario, i rapporti ideologico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza con finalità terroristiche, lo rendono ancor più pericoloso (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, dep. 2005, Ragoubi, Rv. 230432), potendo esso costituire un collante più forte di molti altri vincoli tra sodali.
Di volta in volta quindi, riprende la Corte, si sono individuate condotte concrete dalle quali poter desumere i caratteri associativi e di configurabilità del reato di associazione con finalità terroristiche (Sez. 5, n. 2651 del 2016, cit., Rv. 265925, con riferimento ad offerta di ospitalità ai “fratelli” pericolosi, alla propaganda nei luoghi di culto, alla preparazione di documenti falsi).
Da tali condivisi approdi interpretativi si deve, dunque, partire per la Corte per analizzare i fatti oggetto dei ricorsi proposti nel caso ad essa sottoposto, non senza trarre alcune conseguenze. Ciò che emerge è sicuramente l’esistenza di una sottile linea di confine fenomenologica tra la libertà di manifestazione, anche collettiva, di una ideologia, in forme legittime o eventualmente sussumibile nel reato di apologia di cui all’art. 414, comma 4, cod. pen. (cfr. Sez. 1, n. 47489 del 6/1062015, Halili, Rv. 265264), e la partecipazione ad un’associazione con finalità terroristica a prescindere o prima della commissione di reati-fine, in presenza di una struttura organizzativa rudimentale, flessibile e a volte del tutto spontaneistica rispetto al collegamento con esponenti dell’ISIS o di altre organizzazioni terroristiche internazionali.
In tale seconda ipotesi, infatti, la valutazione di rilevanza penale passa per un’analisi rigorosa della configurazione degli elementi, pur se minimi, di manifestazione della composizione organizzativa di uomini e attività prodromiche alla commissione di eventuali reati fine.
Passando, quindi, ad analizzare la vicenda oggetto di impugnazione, deve anzitutto evidenziarsi, seguendo la linea giurisprudenziale della Corte di cassazione (cfr., in particolare, Rv. 241175, cit.), l’incremento negli ultimi decenni – in particolare dal sorgere dell’organizzazione denominata ISIS, poi proclamatasi anche Stato Islamico – di episodi gravissimi di criminalità terroristica che non rispondono più ai consueti e noti caratteri di ideazione, preparazione ed attuazione di un attentato stragista, ma vengono condotti da “cellule” o gruppi minimali di combattenti, più o meno ricollegabili direttamente o indirettamente alla propaganda islamica estremista ed antioccidentale, ma sicuramente ad essa ispirati.
La loro capacità criminale sovente non è più riconducibile alla predisposizione di un progetto di attentato che preveda l’utilizzo di armi vere e proprie o la realizzazione delittuosa attraverso l’ideazione di condotte singole ben individuate e frutto di un accordo preciso, magari avente ad oggetto anche ruoli organizzativi e tempi. La stessa struttura organizzativa mostrata dai gruppi che hanno condotto tali operazioni criminali ha confermato la linea giurisprudenziale che la descrive flessibile, snella, caratterizzata dal minimo di contatti e di predisposizione di strumenti idonei all’attuazione del programma criminoso terroristico, nonché formata anche da consessi di persone molto limitati nella composizione numerica.
In aggiunta, deve anche per il Collegio rappresentarsi come la modalità di creazione dell’affectio societatis tra i sodali e la struttura internazionale terroristica ISIS sia essa stessa peculiare, influenzata da una propaganda di adesione improntata ad un modello spontaneista e privo di formalismi, spesso avulso da qualsiasi contatto fisico tra soggetti che siano esponenti riconosciuti dell’organizzazione terroristica islamistica di riferimento e persone aderenti ai gruppi o cellule che compiono poi gli attentati.
In sostanza, l’ISIS, e in generale le moderne organizzazioni terroristiche di matrice islamica radicale, propongono una formula di adesione alla struttura sociale che può definirsi “aperta” e “in progress“, sempre disponibile ad accogliere le vocazioni criminali provenienti da singoli e gruppi. Tale premessa appare necessaria ad inquadrare le condotte attualmente all’esame del Collegio ed a valutarle correttamente nello schema normativo del reato di cui all’art. 270-bis cod. pen..
La ricostruzione dei fatti operata dal giudice del riesame e, prima ancora, dal giudice per le indagini preliminari di Venezia, evidenzia, a dispetto delle molteplici aporie segnalate dai ricorsi degli indagati, un percorso motivazionale, invece, affidabile e privo di vizi logici; dotato di coerenza giuridica rispetto ai principi sin qui richiamati come patrimonio giurisprudenziale in tema di reato di associazione con finalità di terrorismo; ciò in particolar modo – chiosa la Corte – se si tiene mente alla fluidità della fase cautelare e del carattere indiziario degli elementi da valutare.
Ebbene, risulta che tutti gli indagati – i tre attuali ricorrenti ed il minore M., nei confronti del quale si è proceduto separatamente – di origini kosovare, avevano dato vita ad una cellula estremista islamica, pronta effettivamente a commettere azioni terroristiche sul territorio italiano. Essi si incontravano costantemente e vivevano abitualmente nella medesima abitazione di S. Marco a Venezia, divenuta base d’appoggio, luogo di incontro e di preghiera, non solo per gli aderenti alla cellula terroristica, ma anche per numerosi altri soggetti di religione islamica, come risulta dall’attività di intercettazione ambientale ivi condotta e dai servizi di osservazione e pedinamento nel corso delle indagini.
In particolare, prosegue la Corte, in modo sistematico, pressoché quotidiano, e duraturo, nel corso dei mesi da gennaio a marzo 2017, essi:
- a) erano dediti ad attività di addestramento ed autoaddestramento finalizzate al compimento di azioni terroristiche, sia direttamente allenandosi fisicamente, sia mediante la visione di video promozionali diffusi dall’ISIS, da loro tutti, collettivamente, scaricati e commentati, nei quali venivano spiegate tecniche di aggressione ed uccisione utilizzando armi da taglio, venivano fornite istruzioni specifiche per la fabbricazione e l’uso di esplosivi home made (in alcune intercettazioni B., M. ed altri presenti commentano le immagini di un soggetto che veniva fatto esplodere piazzando una bomba all’interno di uno zaino), erano riprodotte immagini di combattimenti e di azioni di guerra condotti dai miliziani nei territori di guerra nelle aree mediorientali;
- b) esprimevano collettivamente, in discorsi e ragionamenti quotidiani, la loro adesione all’ideologia jihadista, inneggiando al martirio ed agli attentati, frequenti e recenti, contro i Paesi occidentali e le loro popolazioni, ed ipotizzando in un’occasione la possibile commissione di un’azione terroristica proprio a Venezia, mediante l’esplosione di una bomba con obiettivo il ponte di Rialto;
- c) mostravano una suddivisione, pur se “embrionale“, di ruoli all’interno della “leggera” e flessibile struttura organizzativa criminale, in base alla quale: B. ed H. svolgevano reiterata e continuativa attività di istigazione pubblica diretta ad emulare le gesta criminali dei miliziani dell’ISIS, mediante i profili dei social network a loro riferibili (soprattutto quelli facebook e telegram; su uno di quelli in uso a B. venivano registrati dagli inquirenti contatti con utenti vicini all’organizzazione terroristica denominata UCK o con utenti a loro volta caratterizzati da connotati integralistici), nei quali venivano diffusi messaggi promozionali ed immagini relative alla jihad violenta antioccidentale, condividendoli nelle finalità e modalità ed esprimendo la volontà di mettere in pratica quanto appreso e visionato, recandosi eventualmente anche nei territori di guerra mediorientali;
- (come risulta da numerose intercettazioni puntualmente richiamate nel provvedimento impugnato) fungeva da vera e propria guida spirituale del gruppo, diffondendo e spiegando i sermoni degli imam salafiti sostenitori della jihad estremista e violenta, incitando all’arruolamento nelle file dell’ISIS, dando loro indicazioni su come raggiungere i luoghi di guerra siriani, dimostrando su tale tema estrema informazione, e fornendo loro istruzioni sull’addestramento fisico necessario (sono richiamate dall’ordinanza del riesame numerose intercettazioni, dalle quali si evince la diretta pratica del B. di tali tecniche di combattimento, citandosi un episodio relativo alla sua cattura da parte dei servizi segreti del Kosovo).
Egli contribuiva, altresì, alla formazione religiosa del gruppo di sodali, nonché di altri soggetti che di volta in volta frequentavano la casa di S.Marco.
Tali elementi oggettivi, lungi dal rappresentare una mera adesione psicologica all’ideologia estremistica jihadista, configurano, invece, come correttamente ritenuto dai giudici cautelari, la struttura di un vero e proprio reato associativo con finalità terroristica di matrice islamica, essendosi realizzata una cellula organizzata volta alla possibile, effettiva e concreta messa in atto di azioni terroristiche.
Numerosissimi – prosegue la Corte – sono gli elementi indiziari dai quali è possibile desumere tali conclusioni in punto di configurabilità del reato di associazione con finalità di terrorismo di cui all’art. 270-bis cod. pen., che non devono in sede di legittimità essere riesaminati in fatto, dovendosi mettere in risalto, invece, la già affermata coerenza della ricostruzione complessiva operata dal giudice del merito, solo valorizzando alcune risultanze maggiormente significative.
Tra tutte, si evidenzia la mole di intercettazioni tra gli indagati, dal contenuto inequivoco e sulla cui interpretazione, in sede di legittimità, trattandosi di un apprezzamento di merito, non è dato disquisire, se il giudicante ha prodotto, al proposito, come nel caso in esame, congrua motivazione (ex plurimis Sez. 5, n. 3643 del 14/7/1997, Ingrosso, Rv. 209620; Sez. 6, n. 15396 del 11/12/2007, Sitzia, Rv. 239636 e Sez. U, n. 22471 del 26/2/2015, Sebbar, Rv. 263715).
Peraltro, riprende il Collegio, non può non evidenziarsi che la maggior parte di esse, e sicuramente quelle riportate nella motivazione del provvedimento impugnato, hanno una portata esplicita e chiara nel senso dell’istigazione alla violenza stragista, nella volontà di partire per i territori mediorientali di guerra e prendervi parte, nella condivisione e propaganda del credo estremista islamico, nei propositi di commettere attentati e singoli omicidi di “infedeli” direttamente (si parla spesso in prima persona plurale o singolare), anche a Venezia.
In tali conversazioni, infatti, si ragiona concretamente (in particolare B.) di “obbligo di distruggere le chiese” e trasformarle in moschee, si mostra odio verso le altre religioni diverse da quella islamica, si indica l’Italia come obiettivo necessario dell’attività terroristica, si mostra rammarico (in particolare B. e H.) per non aver ancora potuto raggiungere i territori di guerra mediorientali, invidia per una persona a loro nota che era riuscita invece in tale intento come foreign fighters, desiderio di “tagliare la testa agli “infedeli”” (definizione comune nell’islam radicale per indicare i popoli con religione differente).
Da ultimo, in due conversazioni registrate il 2 e 22 marzo 2017 (all’esito delle quali vi è stata un’accelerazione nelle indagini), nella prima, B., commentando alcuni attacchi terroristici condotti in Turchia, condivideva la sollecitazione del M. a realizzare un attentato a Venezia, ritenendo l’Italia coinvolta nell’attività di contrasto al terrorismo svolta dall’ONU; nella seconda, B., H. e B. F. aderiscono sostanzialmente al proposito, manifestato dal M. apertamente, circa la necessità di compiere un attentato avente come obiettivo il ponte di Rialto a S.Marco.
Infine, in molte conversazioni, tutti gli indagati esaltano gli attentati già sino a quel momento commessi in Europa e si mostrano determinati quanto all’esigenza di compierli anche in Italia e in particolare a Venezia (con la quale – si dice – “si guadagna subito il paradiso“), pianificando anche nel dettaglio l’eventuale loro partenza per i luoghi di combattimento vero e proprio in medioriente.
Ancora, riveste estrema importanza la condotta di addestramento fisico, alla quale erano dediti gli indagati, che si comprende essere palesamente proiettata verso l’allenamento terroristico e non connotata da mera finalità sportiva così come sostenuto in uno dei motivi di ricorso di H.: le intercettazioni del 12 marzo 2017, richiamate in motivazione dell’ordinanza del riesame, provano chiaramente che l’attività è finalizzata alla partecipazione alla “guerra” islamica.
Infine, la costante visualizzazione e condivisione collettiva di video con istruzioni per la costruzione di esplosivi home made costituisce senza dubbio un elemento di per sè gravemente indiziario a carico dei ricorrenti, che chiude il cerchio, in una lettura complessiva, intorno alla configurabilità del reato contestato a loro carico.
Se i passaggi di fatto sinora citati delineano l’elemento oggettivo del reato, a fronte di una corretta valutazione di palese implausibilità delle ipotesi di lettura alternative evidenziate dai ricorrenti, l’elemento soggettivo è stato desunto, nel provvedimento impugnato e nella richiamata ordinanza genetica, da una serie di indicatori evidenti, non soltanto rappresentati dal tenore e dal contenuto delle conversazioni intercettate aventi ad oggetto l’attività concreta di addestramento, proselitismo, progettazione di partenze come foreign fighters e condivisione di video che mostrano la costruzione di ordigni ed esplosivi di fabbricazione anche artigianale, ma anche forniti da alcune conversazioni nelle quali alcuni dei sodali si dicono preoccupati di poter essere scoperti, sia nel corso dei mesi che subito dopo essere stati fermati dalla polizia incaricata di eseguire la misura cautelare, ovvero lamentano comportamenti poco accorti di B., in particolare nell’uso dei relativi profili social, ovvero ancora rappresentano la necessità di cambiare spesso utenze telefoniche per ragioni di evidente segretezza delle conversazioni.
Dunque, i ricorrenti si dimostrano ben consapevoli della illiceità del loro comportamento, sicché, dal complesso degli elementi di fatto richiamati, appare evidente la sussistenza dei caratteri del dolo specifico della finalità terroristica e del fine “jiahadista” del loro operare: essi sono ben consci di proporre e perseguire l’imposizione violenta della dottrina islamica integralista attraverso la guerra santa contro il nemico infedele.
E’ evidente pertanto, chiosa ancora la Corte, come i ricorrenti non abbiano costituito un consesso velleitario di uomini, incapaci di assumere iniziative incidenti sul mondo esterno e legati solo dal comune sentire ideologico, per quanto estremista, bensì abbiano soddisfatto già di per sé lo schema normativo di cui all’art. 270-bis cod. pen. che, come per qualsiasi altro reato associativo, prevede, quali condizioni necessarie e sufficienti: il numero delle persone, la scopo di commettere una serie indeterminata di delitti (ovviamente, di natura terroristica) ed un “nocciolo” di struttura organizzativa.
E ciò anche a prescindere dal riferimento operato dalla contestazione al loro inserimento nella compagine terroristica denominata ISIS ed a prescindere dai caratteri storicocriminali di quest’ultima, autoproclamatasi Stato autonomo con dichiarate aspirazioni, dunque, politiche.
Può, pertanto, affermarsi che configura il reato di cui all’art. 270-bis cod. pen. la costituzione di una “cellula” organizzativa di matrice jihadista, pur in presenza di uno schema di aggregazione minimo ed avulso dal riferimento a modelli associativi ordinari, in relazione alla quale, dalla valutazione complessiva di concreti elementi investigativi, emergano non soltanto l’ideologia eversiva di ispirazione, ma anche l’adozione della violenza terroristica come metodo di lotta che il sodalizio intende esercitare o si prefigura (cfr. Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547 e Sez. 5, n. 12252 del 23/2/2012, Bortolato, Rv. 251920) e l’effettiva possibilità di attuare anche una sola delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali la realizzazione di attentati terroristici contro obiettivi nel territorio dello Stato, la propaganda ed il proselitismo, l’addestramento e l’autoaddestramento dei sodali alla guerra.
Non c’è dubbio – afferma il Collegio – che costituiscano tali concreti elementi indiziari quelli che si presentano nel caso di specie: la condivisione reiterata di files-video che inneggiano alla jihad e mostrano scene di uccisioni e di guerra, diffusi da organizzazioni terroristiche internazionali, come tali riconosciute, ovvero illustrano le istruzioni per la preparazione di ordigni home made, nonché l’accertamento di attività di proselitismo e propaganda da parte dei sodali mediante i propri profili social, di addestramento e autoaddestramento alla guerra e di programmazione, per quanto embrionale, della realizzazione di attentati veri e propri sul territorio dello Stato e, in particolare, nel luogo di loro residenza effettiva.
Del resto, le ultime, micidiali azioni compiute da gruppi di consistente o minimale composizione numerica in alcuni Paesi europei mostrano il segno di una sostanziale imprevedibilità delle aggressioni criminali poste in essere quanto agli obiettivi presi di mira ed all’utilizzo di armi ed esplosivi, utilizzo che a volte è stato determinante per la finalità stragista, in altri casi è stato del tutto ignorato, con stragi compiute, a dispetto di ogni prevedibile potenzialità offensiva dei mezzi utilizzati, attraverso l’uso di veicoli lanciati a tutta velocità contro la folla. In molti dei casi, inoltre, l’esplosivo utilizzato, per quanto altamente pericoloso, poteva essere stato fabbricato artigianalmente, data la sostanza utilizzata.
E tuttavia, nell’ipotesi di specie, la cellula di ispirazione jihadista non soltanto costituisce di per sé un’autonoma e sufficiente struttura idonea a configurare il reato di cui all’art. 270-bis cod. pen., ma realizza – soprattutto nella fase cautelare in esame, caratterizzata dalla fluidità del panorama indiziario di riferimento – la contestata fattispecie di partecipazione all’associazione criminale terroristica di riferimento, denominata ISIS.
Deve, infatti, precisarsi che appare comunque sostenibile – e deve essere, pertanto, affermata – la possibilità di partecipare ad un’associazione con finalità terroristiche caratterizzata da modalità di adesione “aperte” e spontaneistiche, che non implicano un’accettazione formale del negozio sociale da parte dell’apparato del sodalizio, bensì propongono l’inclusione in progress di individui o “cellule“, che condividono l’obiettivo terroristico e la relativa dimensione di matrice religiosa estremista, attraverso il richiamo e l’ispirazione a “disvalori” di propaganda, proclamati su scala internazionale ed “attivizzati” mediante diffusione di video, immagini e comunicati diretti a tale scopo.
Del resto, prosegue la Corte, la condotta di partecipazione ad un’organizzazione criminale prescinde da qualsiasi atto di “investitura formale” secondo la più recente giurisprudenza in materia di reati associativi (Sez. 3, n. 22124 del 29/4/2015, Borraccino, Rv. 263662; Sez. 4, n. 51716 del 16/10/2013, Amodio, Rv. 257905; Sez. 5, n. 48676 del 14/5/2014, Calce, Rv. 261909), in coerenza, peraltro, con i principi e le categorie generali per primi stabiliti da Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231670 e con il ruolo “dinamico” e “funzionale“, e non più statico, riconosciuto alla figura del partecipe.
In tal senso, si è già in passato affermato che, in tema di delitti associativi di matrice terroristica, può costituire prova di partecipazione (la cui nozione va rapportata alla natura ed alle caratteristiche strutturali del sodalizio) anche un contributo causale immanente al mero inserimento nella struttura associativa, poiché già il solo inserimento nella compagine criminale rafforza e consolida l’associazione terroristica di riferimento, sotto il profilo dell’affidamento sulla persistente disponibilità di adepti, al pari della proclamata condivisione dell’ideologia estremista e religiosa radicale (cfr., in ipotesi di gruppi terroristici di ispirazione politica, Sez. 5, n. 4105 del 12/11/2010, dep. 2011, Papini, Rv. 249242).
Tale principio ben si attaglia anche alla fattispecie concreta all’esame del Collegio, con la specificazione che, nel caso della cellula di ispirazione jihadista, l’inserimento nel sodalizio criminale si manifesta con le modalità fluide e “per adesione“, tipiche delle moderne organizzazioni terroristiche di matrice jihadista estremista.
Evidentemente, resta ferma la necessità di verificare i caratteri di concretezza ed effettiva possibilità di azione della “cellula” terroristica dal punto di vista dell’offensività in concreto che deve pur sempre caratterizzare la fattispecie a pericolo presunto di partecipazione ad associazione criminale di qualsivoglia natura, e, dunque, anche di quella con finalità terroristiche.
Tale verifica, tuttavia, opera su di un piano diverso, casistico e concreto, appunto, ma non incide sulla configurabilità astratta della fattispecie e risponde non soltanto ai principali motivi difensivi, ma anche alle preoccupazioni della giurisprudenza di legittimità, qui condivise, di evitare qualsiasi sottovalutazione del dato strutturale e organizzativo insito nel delitto associativo, per scongiurare il rischio che l’anticipazione della repressione penale (connaturata ai reati a pericolo presunto) finisca per reprimere idee piuttosto che fatti e per sanzionare la semplice adesione ad un’astratta ideologia che, pur aberrante per l’esaltazione della indiscriminata violenza e per la diffusione del terrore, non sia accompagnata dalla possibilità di attuazione del programma.
Nel caso di specie, prosegue il Collegio, la citata verifica porta ad esiti favorevoli circa la configurabilità di una condotta partecipativa all’associazione terroristica riconosciuta ed individuata con la denominazione di ISIS, non potendosi dubitare che il contributo di proclamata condivisione e propaganda dell’ideologia estremista religiosa jihadista, sommato alla adesione e disponibilità alla “guerra santa” ed a compiere attentati sul territorio italiano ed estero dei componenti della “cellula” individuata integrino una partecipazione al reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen. sotto il profilo del rafforzamento e consolidamento del sodalizio terroristico di ispirazione.
Deve, quindi, concludersi nel senso che la dimensione plausibile di partecipazione “per adesione” ad un modello di associazione terroristica costruito su scala internazionale, secondo canoni tanto precisi nella loro finalizzazione alla jihad, quanto inneggianti all’attivismo spontaneista delle singole “cellule” operative, può dirsi configurata, nella fase cautelare, a carico dei ricorrenti, ferma la sussistenza nei loro confronti – e la sufficienza, dal punto di vista della rilevanza penale – di uno schema organizzativo “minimo“, caratterizzato da grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminoso attraverso la violenza terroristica.
Alla luce di tali principi, risulta infondato il primo motivo di ricorso proposto da B. e riferito proprio all’impossibilità di configurare la condotta di partecipazione ad un’associazione terroristica islamica quale è l’ISIS, benché strutturata “a rete” e con un livello minimo e fluido di organizzazione, mediante una modalità di affiliazione orizzontale, priva di effettivi riscontri sul legame con l’associazione di riferimento e di qualsiasi rito di iniziazione.
Quanto sinora esposto – prosegue il Collegio – conduce a ritenere privo di pregio anche il motivo riferito all’impossibilità di ipotizzare un’associazione con finalità terroristiche che abbia ad oggetto unicamente condotte di propaganda e proselitismo. Il Collegio medesimo infatti condivide e ribadisce, come già detto, la giurisprudenza (Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chabchoub, Rv. 253944) secondo cui il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale può dirsi integrato, in presenza di strutture organizzative “cellulari” o “a rete” con concreta potenzialità operativa, nel caso in cui esso realizzi anche una soltanto delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quale è la propaganda.
E tuttavia, nel caso di specie, le condotte di supporto realizzate vanno ben oltre il limite dell’unità pur ammesso ai fini della configurabilità della fattispecie e si mostrano molteplici (sono volte, infatti, non solo alla propaganda ed al proselitismo, ma anche all’addestramento e autoaddestramento alla guerra vera e propria per la jihad ed alla eventuale fabbricazione di esplosivi artigianali per compiere attentati in Italia).
Non è fondato, prosegue la Corte, ai fini di escludere la sussistenza del reato di cui all’art. 270-bis cod. pen., neppure il rilievo riferito alla mancanza di qualsiasi rinvenimento di armi (all’interno del quarto motivo di ricorso del B.).
Da un lato, il delitto associativo, anche quello con finalità terroristiche, non prevede la necessità che il sodalizio si costituisca utilizzando armi per il raggiungimento dei propri scopi; dall’altro, come si è chiarito, le “cellule” terroristiche, operanti secondo le constatate, moderne modalità di azione criminale, sovente non hanno usato armi “convenzionali” ed “ordinarie” per raggiungere i propri obiettivi stragisti.
Dalla ricostruzione effettuata, che riconosce validità logico-motivazionale al provvedimento impugnato, connotato da una puntuale analisi dei dati di indagine e da una ampia esposizione delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali si basa, emerge la palese infondatezza dei vizi motivazionali lamentati nei ricorsi e, in particolare, la non rispondenza al vero della doglianza circa l’utilizzo della fonte confidenziale e dei relativi contenuti dichiarativi come supporto al ragionamento del Tribunale del Riesame.
Invero, correttamente i giudici cautelari si sono attenuti alla regola di non porre a fondamento della propria ricostruzione, e, dunque, del provvedimento con cui si è disposta la misura restrittiva della libertà personale, elementi di fatto desunti da fonte confidenziale o anonima, i quali, ai sensi dell’art. 203 cod. proc. pen., sono privi di qualsiasi efficacia probatoria ed inutilizzabili, qualora non siano seguiti dal disvelamento della fonte e dall’assunzione testimoniale di quest’ultima nelle forme legali previste per ciascuna fase del procedimento penale (cfr. Sez. 6, n. 1482 del 1378/1986, Marando, Rv. 173669 e, sotto un aspetto diverso ma collegato, Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Marino, Rv. 192466).
Tuttavia, i giudici hanno comunque, opportunamente, dato atto della relativa esistenza poiché essa ha costituito uno degli spunti – non l’unico, come detto – per dar luogo alle intercettazioni iniziali e ad alcune attività di investigazione “classica“.
Infine, rappresenta ancora la Corte, quanto alle doglianze riferite alla motivazione circa la sussistenza delle esigenze cautelari, egualmente esse risultano infondate. Il Tribunale ha fornito idonea motivazione in merito alla sussistenza delle esigenze cautelari, rifacendosi alla presunzione di cui al terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen.
Deve ribadirsi, infatti, la giurisprudenza in base alla quale, anche all’esito dell’intervento riformatore di cui alla legge n. 47 del 2015, nel caso dei delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, l’art. 275 comma 3 cod. proc. pen. continua a prevedere una doppia presunzione: di ordine relativo, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, ed assoluto con riguardo all’adeguatezza della misura carceraria (Sez. 2, n. 19283 del 3/2/2017, Cocciolo, Rv. 270062).
Pertanto, qualora sussistano i gravi indizi di colpevolezza del delitto di associazione con finalità di terrorismo e non ci si trovi in presenza di una situazione nella quale fa difetto una qualunque esigenza cautelare, deve trovare applicazione in via obbligatoria la misura della custodia in carcere.
Sul piano pratico, tale disciplina si traduce, da un lato, in un’inversione dell’onere probatorio in favore della pubblica accusa, che è sollevata dal dovere di dimostrare l’esistenza dei pericula libertatis e l’idoneità della sola custodia in carcere, aspetti presupposti dalla valutazione “bloccata” del legislatore; dall’altro lato, in una semplificazione dell’impianto argomentativo dei provvedimenti de libertate ed in una marcata attenuazione dell’onere di motivazione (Sez. 5, n. 44644 del 28/6/2016, Leonardi, Rv. 268197).
La presunzione relativa di pericolosità sociale prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., si è, inoltre, efficacemente sottolineato, inverte gli ordinari poli del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis, ma deve soltanto apprezzare le ragioni di esclusione, eventualmente evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto della presunzione (Sez. 1, n. 45657 del 6/10/2015, Varzaru, Rv. 265419; Sez. 1, n. 5787 del 21/10/2015, Calandrino, Rv. 265986).
L’obbligo di motivazione può così ritenersi compiutamente assolto allorquando il giudice abbia dato atto dei gravi indizi in merito all’ipotesi di reato sopra menzionata e dell’assenza delle condizioni per ritenere del tutto assenti detti pericula, così da vincere la presunzione, con il corollario che spetta all’indagato confutare i presupposti e dunque dimostrare l’inesistenza in radice delle esigenze cautelari. Soltanto nel caso in cui l’indagato o la relativa difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, il giudicante sarà tenuto a giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare la presunzione (cfr. Sez. 6 n. 23012 del 20/4/2016, Notarianni, in motivazione).
E’ dunque – conclude la Corte – onere della difesa evidenziare gli elementi idonei a superare la presunzione di pericolosità, onere che, nel caso di specie, i ricorrenti non hanno assolto, essendosi limitati ad eccepire ragioni astratte di illogicità della motivazione senza aggiungere alcun elemento concreto e specifico di contestazione della sussistenza delle esigenze cautelari, che impongono per legge, nel caso di specie, la misura della custodia in carcere.
* * *
Il 15 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.56088, Agostino, onde – in tema di partecipazione ad associazione mafiosa – va operato di necessità un richiamo ad una sorta di “comunanza ideologica” tra il nuovo associato ed il sodalizio criminale, che renderebbe del tutto irrilevante pretendere di individuare compiti e ruoli di ciascuno ed attendere, per la punibilità del soggetto, il momento in cui lo stesso diventi operativo, in quanto «chi entra in un’associazione mafiosa, vi entra perché ne condivide i valori su cui si fonda […] per i quali egli si impegna a mettere a disposizione tutte le proprie energie, le proprie capacità e le proprie competenze, quando sarà il momento e quando ne sarà richiesto per il bene, la potenza ed il successo dell’organizzazione»; per converso, l’assunzione fattuale di tale ruolo, in altro modo desunta, può rendere superflua la prova del compimento del rituale d’ingresso.
La Corte osserva, sulla base di un’ampia casistica, che l’affiliazione – preceduta dal rito della c.d. decontaminazione – si compie a seguito di un vero e proprio rituale al quale partecipano i maggiorenti dell’associazione, l’affiliando ed il suo padrino: nel corso dell’affiliazione, vengono lette formule sacramentali, all’esito delle quali il capo chiede il consenso dei presenti all’ammissione dell’affiliando “all’onorata società“, ricevuto il quale, quest’ultimo, dopo avere prestato giuramento, viene “battezzato“.
Indi, il nuovo affiliato viene presentato a tutti coloro che fanno già parte dell’associazione: da questo momento l’affiliato, entrando a far parte dell’associazione, diventa automaticamente un “uomo d’onore“, sintagma questo che non indica il ruolo ricoperto nell’ambito associativo, bensì lo “status” che si acquisisce per il semplice fatto di far parte dell’associazione e che, tendenzialmente, lo impegna per tutta la vita.
Ed è proprio per l’alta simbologia di cui è permeata la cerimonia di affiliazione che – per i sostenitori della teoria organizzatoria – non appare condivisibile ritenere che – in assenza di una qualche condotta che indichi quale sia il ruolo che l’affiliato ricopre nell’ambito associativo – la suddetta affiliazione abbia una valenza neutra ai fini della partecipazione all’associazione mafiosa.
Con l’affiliazione nasce e si costituisce dunque per il Collegio un vero e proprio pactum sceleris idoneo a configurare la condotta partecipativa punibile. In forza di questo patto, che fa nascere vantaggi sia per il singolo (che realizza un profitto personale e riceve benefici di carattere non solo economico oltre che protezione per sé e per il suo nucleo familiare) sia per l’associazione (che si rafforza quantomeno sotto il profilo numerico in vista del raggiungimento dei propri scopi, accrescendone in ogni caso la potenzialità operativa e la capacità d’intimidazione), l’affiliato mette automaticamente a disposizione dell’associazione le proprie energie ed i propri servizi, viene a conoscenza di una serie di dinamiche interne non quale neutrale e passivo osservatore, bensì quale già attivo nuovo componente del gruppo, s’impegna al silenzio, all’obbedienza agli ordini impartiti e a non contrastare altri “uomini d’onore“; a sua volta, l’associazione s’impegna a sostenere l’affiliato e la sua famiglia e ad intervenire con forme di aiuto economico in caso di bisogno (per esempio, in caso di arresto o latitanza).
Conclusioni che appaiono corroborate dalla qualificazione del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. in termini di reato a condotta libera e pericolo presunto, per la cui consumazione è dirimente il momento in cui il soggetto entra a far parte della consorteria, mediante la sua “messa a disposizione“, di per sé idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale, divenendo del tutto irrilevante il compimento, da parte dell’adepto, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata.
Diversamente opinando – si afferma – si finirebbe per tramutare surrettiziamente la natura del delitto di associazione mafiosa, convertendolo da fattispecie di pericolo presunto a reato di evento e di danno, con la consequenziale necessità di fornire prova del nesso di causalità insistente tra la condotta (partecipazione associativa) e l’evento (rafforzamento della consorteria) e si rischierebbe altresì di determinare una sovrapposizione tra la condotta “di associazione“, legata all’assunzione del ruolo di partecipe, con quella “dell’associazione“, diretta ad attuare il programma delinquenziale che si traduce nell’esecuzione dei delitti scopo.
Con riferimento al tenore letterale della norma, si osserva inoltre da parte del Collegio che le diverse locuzioni adoperate negli artt. 416 cod. pen. (“partecipare“) e 416-bis cod. pen. (“fa parte“) hanno il medesimo significato, sicché sarebbe del tutto arbitrario voler trarre da tale (solo apparente) diversità la conclusione che il “far parte” indichi un’attività avente natura dinamica e che il “partecipare” indichi un’attività statica: tanto nell’art. 416 che nell’art. 416-bis è prevista la punibilità per la sola partecipazione, senza che sia utilizzata alcuna aggettivazione né “attiva” né “passiva“.
2018
Il 29 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.14503, che premette – sempre in tema di associazione terroristica ex art.270 bis c.p. – come si colga in giurisprudenza una tendenza ad allargare l’ambito applicativo del reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo.
La ragione di tale tendenza è normalmente rinvenuta – precisa la Corte – nella esigenza di adeguare in termini di efficienza ed effettività la risposta penale a condotte, comportamenti, azioni compiute da nuclei terroristici strutturati ‘a cellula’ o ‘a rete‘, che sono in grado di operare a distanza attraverso elementari organizzazioni di uomini e mezzi, facendo rientrare, in tale contesto, anche l’operato di coloro che, per la totale autonomia organizzativa, sono comunemente definiti “lupi solitari“.
La pericolosità di tali nuovi fenomeni di terrorismo, riconducibili ad organizzazioni sostanzialmente militari con localizzazione centrale all’estero, è stata fronteggiata con plurimi interventi normativi che hanno implicato la necessità di doversi cimentare con nuove questioni di diritto penale, derivanti dall’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici di comportamenti prodromici e finalizzate ad attribuire rilevanza al proselitismo, alla preparazione, al supporto ed al finanziamento delle azioni delle organizzazioni coinvolte.
Si è assistito ad una progressiva anticipazione della soglia della rilevanza penale, anche della condotta di “partecipazione“, con conseguente corrispettiva anticipazione, sul piano processuale, del momento d’inizio delle indagini e della applicazione di misure cautelari.
A ciò – chiosa ancora il Collegio – è conseguita, in dottrina ma anche nella giurisprudenza, una diffusa operazione di elaborazione, di riflessione e di adattamento di alcuni principi, per molto tempo affermati.
Le più recenti pronunce di legittimità sulla configurabilità del reato di cui all’art. 270- bis, comma 2, cod. pen. richiamano principi giuridici consolidati in tema di reato associativo, reinterpretandoli, tuttavia, in modo, almeno in parte, nuovo e, soprattutto, “elastico” in ragione della necessità di adattarli e conformarli alle nuove manifestazioni criminali; si valorizzano, al fine della configurazione della “partecipazione” all’associazione terroristica, condotte di mera propaganda, di proselitismo o arruolamento, purché supportate dall’adesione psicologica al programma criminoso dell’associazione medesima.
È obiettivamente avvertito il rischio che dall’ampliamento dell’ambito applicativo della condotta partecipativa derivi uno svuotamento, una limitazione, una compressione del controllo giurisdizionale della necessaria ed effettiva materialità della stessa e della relativa, concreta incidenza causale in ordine alla realizzazione della finalità perseguita nel programma criminoso dell’associazione.
Tale rischio si rivela concretamente e si coglie ove si consideri la parallela elaborazione giurisprudenziale in tema di partecipazione in associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis, comma 1, cod. pen.) e di concorso esterno nella associazione medesima, nel cui contesto è invece diffusa l’affermazione secondo cui “si definisce partecipe colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo è ma fa parte della (meglio ancora: prende parte alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima” (Sez. U, n. 33748 del 12 luglio 2005, Mannino, Rv. 231673).
La questione è oltremodo complessa perché, come sottolineato in dottrina, involge anche il rapporto tra condotta di partecipazione e le altre numerose condotte di sostanziale agevolazione dell’associazione terroristica ed attiene al come la progressiva, tendenziale, a volte sommersa, smaterializzazione della condotta di partecipazione si coniughi con la incriminazioni delle singole condotte di “agevolazione“.
Non potendo la condotta di partecipazione consistere in una mera adesione psicologica al programma criminale dell’associazione, essa presuppone il rigoroso accertamento: a) della esistenza e della effettiva capacità operativa di una struttura criminale, su cui si innesta il contributo partecipativo; b) della consistenza materiale della condotta individuale ovvero del contributo prestato, che non può essere smaterializzato, meramente soggettivizzato, limitato alla idea eversiva, privo di valenza causale ovvero ignoto all’associazione terroristica alla cui attuazione del programma criminoso si intende contribuire. Si tratta di snodi fondamentali che non possono discendere sul piano probatorio da accertamenti sincopati o sbrigativi.
Quanto al primo profilo, è consolidata nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo cui l’idea, anche se di natura eversiva, se non accompagnata da programmi e comportamenti violenti, riceve tutela proprio dall’assetto costituzionale, che ha consacrato il metodo democratico e pluralistico e che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere (Sez. 1, n. 8952 del 7/4/1987, Angelini, Rv. 176516).
Tale principio è stato riaffermato più recentemente dalla medesima Corte di cassazione; si è ribadito che il reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen. è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma – comune fra i partecipanti – finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza: con la conseguenza che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato. (Sez. 1, n. 22719 del 22/3/2013, Lo Turco, Rv. 256489; Sez. 1, n. 30824 del 15/6/2006, Tartag, Rv. 234182; Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289).
Dunque, è necessaria una condotta del singolo che si innesti in una struttura organizzata, anche elementare, che presenti un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l’attuazione del programma criminoso, mentre non è necessaria anche la predisposizione di un programma di concrete azioni terroristiche (Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015, (dep. 2016), Nasr Osama, Rv. 265924; nello stesso senso, Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub, Rv. 253943).
Quanto al secondo dei profili indicati, prosegue la Corte, occorre considerare che un fenomeno obiettivamente complesso e disarticolato, in cui ogni individuo può da sé commettere attentati in ragione della volontà di dare attuazione al programma di un’organizzazione terroristica, pone la difficoltà nell’individuazione del limite inferiore a partire dal quale possa dirsi che un soggetto – che pure compie atti che possono coincidere con quelli attuativi del programma di un’associazione con finalità di terrorismo – “partecipa” alla stessa, ai sensi dell’art. 270 bis, comma 2, cod. pen.
Sul tema è utile considerare che, dimostrata l’esistenza di una associazione per delinquere e individuati gli elementi concreti, sulla base dei quali possa ragionevolmente affermarsi la cointeressenza di taluno nelle attività dell’associazione stessa, e quindi la partecipazione alla vita di quest’ultima, non occorre anche la dimostrazione del ruolo specifico svolto da quel medesimo soggetto nell’ambito dell’associazione, potendosi la partecipazione al sodalizio criminoso, per propria medesima natura, realizzarsi nei modi più svariati, con una condotta libera, la cui specificazione non è richiesta dalla norma incriminatrice (in tal senso, Sez. 2, n. 43632 del 28/09/2016, Capuano, Rv. 268317).
Con riferimento a strutture organizzative “cellulari” o “a rete“, flessibili, che, come detto, possono operare in più paesi contestualmente, in tempi diversi e attraverso contatti a loro volta sparuti, sommersi, ovvero attraverso la rete, si è affermato che la fattispecie associativa è integrata anche da «un sodalizio che realizza condotte di supporto all’azione terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi, alla predisposizione o acquisizione di documenti falsi, all’arruolamento, all’addestramento, ossia a tutte quelle attività funzionali all’azione terroristica, alcune della quali integranti anche fattispecie delittuose autonome» (Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub, Rv. 253944).
Non diversamente, prosegue il Collegio, quanto alla prova della “partecipazione” all’associazione con finalità di terrorismo, Sez. 2, n. 25452 del 21/02/2017, Beniamino, Rv. 270171 ha precisato che la dichiarazione di responsabilità penale presuppone la dimostrazione dell’effettivo inserimento nella struttura organizzata attraverso condotte sintomatiche consistenti anche solo nello svolgimento di attività preparatorie rispetto alla esecuzione del programma oppure nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale.
Ne segue che la partecipazione può concretarsi anche in condotte strumentali e di supporto logistico alle attività dell’associazione che, tuttavia, inequivocamente rivelino l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione.
La questione allora attiene al quando è possibile affermare che sia stata raggiunta la prova dell’effettivo inserimento del singolo nella struttura associativa, e, in particolar modo, dell’associazione internazionale.
In tale contesto si colloca Sez. 5, n.48001 del 14/7/2016, Hosni, Rv. 268164. La Corte di cassazione ha chiarito che l’attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non consente di ravvisare quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell’associazione in esame. Si è notato come in passato la stessa giurisprudenza di legittimità avesse sì attribuito significatività, ai fini della ravvisabilità del reato, alla c.d. “vocazione al martirio” ma ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l’adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata “aliunde” riconosciuta l’effettiva operatività (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, (dep. 2005), Ragoubi, Rv. 230431), e, comunque, a condizione che le attività di indottrinamento e reclutamento siano affiancate da quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, cit.) in modo da attribuire all’esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l’associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, «si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo».
Con lucidità si è specificato che, al fine di accertare l’adesione al programma criminoso al di là della semplice condivisione ideologica, possono costituire, soprattutto in fase cautelare, elementi rilevanti anche i propositi eversivi degli aderenti, espressi con reiterate manifestazioni di disponibilità a partire per “fare jihad“, a condizione che detti propositi non siano astratti, cioè espressione di un’aspirazione personale o di una condivisione ideologica, quanto, piuttosto, sorretti da elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo reale tra il singolo e la “struttura” che consenta di tradurre in pratica i propositi di morte.
Dunque, chiosa ancora il Collegio, i propositi di partire per combattere “gli infedeli“, la vocazione al martirio, l’opera di indottrinamento possono costituire elementi da cui desumere, quantomeno in fase cautelare, i gravi indizi di colpevolezza per il reato di “partecipazione” all’associazione di cui all’art. 270 bis cod. pen. a condizione che vi siano elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo che consenta di tradurre in pratica i propositi di morte.
È necessario che la condotta del singolo si innesti nella struttura, cioè che esista un legame, anche flessibile, ma concreto e consapevole tra la struttura e il singolo.
Non paiono condivisibili al Collegio costruzioni giuridiche che, ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione, ritengono sufficiente l’adesione del singolo a proposte “in incertam personam“- quelle del sodalizio internazionale – anche nel caso in cui l’adesione non sia accompagnata dalla necessaria conoscenza, anche solo indiretta, mediata, riflessa, di essa da parte della “struttura” internazionale.
Per configurare la partecipazione alla associazione internazionale con finalità di terrorismo, è necessario che questa, anche indirettamente, sappia di avere a disposizione, di “poter contare” su un determinato soggetto.
Esiste, anche nella giurisprudenza di legittimità, una tendenza invece a valorizzare l’assunto secondo cui la modalità di creazione “dell’affectio societatis” tra i sodali della singola cellula e la struttura internazionale terroristica ISIS “è essa stessa peculiare, influenzata da una propaganda di adesione improntata ad un modello spontaneista e privo di formalismi, spesso avulso da qualsiasi contatto fisico tra soggetti che siano esponenti riconosciuti dell’organizzazione terroristica islamistica di riferimento e persone aderenti ai gruppi o cellule che compiono poi gli attentati” (Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bakaj, Bakaj, Rv. 271647 così massimata “la partecipazione ad una associazione terroristica di ispirazione jiahadista può manifestarsi anche attraverso modalità di adesione “aperte” e spontaneistiche, che non implicano l’accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi (fattispecie in cui si è ritenuta partecipe dell’associazione terroristica una “cellula”operativa autonoma composta di più soggetti attivi sul territorio italiano”).
E tuttavia, prosegue la Corte, se è certamente vero che l’Isis e, in generale, le moderne organizzazioni terroristiche di matrice islamica radicale, propongono una formula di adesione alla struttura sociale che può definirsi “aperta” e “in progress“, sempre disponibile ad accogliere le vocazioni criminali provenienti da singoli e gruppi, è altrettanto vero che ciò che deve essere verificato è se, alla stregua delle singolarità del caso concreto e, soprattutto, delle condotte prodromiche poste in essere da chi si assume essere “partecipe“, siano individuabili in concreto contatti con associazioni criminose terroristiche internazionali e se tali contatti costituiscano espressione della concretizzazione del proposito del singolo di attuare azioni delittuose strumentali al perseguimento del programma del gruppo internazionale.
Dalla prova della partecipazione ad un gruppo che opera sul territorio nazionale con finalità di terrorismo non discende dunque automaticamente la prova della partecipazione all’associazione internazionale (in senso diverso, Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bakaj, cit.).
Diversamente, si rischia di considerare “partecipi” all’associazione internazionale Isis anche coloro che con lo Stato Islamico non hanno nessun contatto – la cui esistenza è ignota al gruppo “madre“- i cui rapporti con questa sono limitati alla mera condivisione di informazioni mediante i più diffusi socialnetwork; la “partecipazione” all’associazione internazionale non può prescindere dalla esistenza di un contatto reale, non putativo, non eventuale, non meramente interiore, con chi a quella associazione è stabilmente legato perché partecipe della cellula madre.
In astratto, la chiamata al jihad può essere onorata anche attraverso condotte individuali, autonome e scisse da ogni contatto, anche solo informativo, con qualsiasi struttura ovvero sulla base di un gruppo che opera sul territorio ma che, tuttavia, non abbia rapporti con quello “madre” internazionale; in tale ultimo caso si può in astratto configurare la partecipazione, ai sensi dell’art. 270 bis cod. pen., ad una organizzazione con finalità di terrorismo, quella – per cosi dire – “locale“, ma da tale partecipazione non può farsi discendere automaticamente la partecipazione all’associazione internazionale Isis, in assenza di accertamenti ulteriori.
Si è affermato condivisibilmente in dottrina – prosegue il Collegio – che la legge penale non può che limitarsi a punire la partecipazione alle associazioni criminali, poiché sono queste ultime, in base a come operano, a stabilire il quomodo della partecipazione; ma si deve comunque adottare un criterio valutativo che rispetti le esigenze di coerenza intrasistematica e l’architettura fondante della teoria del reato associativo.
Dunque, una struttura organizzata, anche se elementare ed una condotta materiale, diversa dalla mera adesione psicologica o ideologica al programma criminale, che presupponga la dimostrazione di un inserimento nella struttura organizzata, anche attraverso il compimento di condotte sintomatiche.
Non occorre uno stabile inserimento nell’apparato dell’associazione, né l’attribuzione di specifiche funzioni: per partecipare e rafforzare una siffatta associazione è sufficiente che il partecipe si metta ‘a disposizione’ della “rete” per attuare il disegno terroristico, che questa sappia dei progetti criminosi .
Il Tribunale della libertà – riprende a questo punto la Corte con riguardo al caso di specie – non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati e ha rigettato l’appello del Pubblico ministero attraverso una motivazione gravemente viziata.
È consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite. (Sez. U., n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D’Andrea, Rv. 268389).
Rispetto al quadro indiziario descritto dallo stesso Tribunale, sono fondati per il Collegio gli assunti del Pubblico Ministero: la valutazione di numerose conversazioni intercettate è caratterizzata da una interpretazione irragionevole perché parziale in quanto non ha tenuto conto delle dichiarazioni assunte nel corso del procedimento.
Non è chiara la ragione per cui il dialogo intervenuto il 24/01/2017 (conv. n. 1016) tra l’indagato e tale O., in cui, secondo gli stessi assunti del Tribunale, pure emergerebbe la volontà dell’indagato di recarsi in Siria per rispondere al Jihad, avrebbe in realtà una valenza scherzosa. Quella del Tribunale è un’affermazione da cui emerge la omessa valutazione sul piano probatorio di un tema costitutivo del procedimento, quello relativo al se l’indagato fosse effettivamente in contatto con persone intranee al circuito islamista, con le quali aveva instaurato rapporti a seguito del periodo di detenzione sofferto con essi in Marocco.
Si tratta di un tema di assoluto rilievo, alla luce dei principi diritto enunciati, la cui esistenza si evince non solo dalle conversazioni intercettate, ma, soprattutto, dalle dichiarazioni rese da B., amico dell’indagato, che aveva riferito della contiguità di quest’ultimo con i componenti di una cellula terroristica attiva in Marocco, del viaggio compiuto dall’indagato in Turchia – dove era stato arrestato-, dell’opera di proselitismo; non diversamente, nessuna considerazione è stata data alle dichiarazioni di T. che, a propria volta, aveva fatto riferimento ai contatti dell’indagato con soggetti presenti sul territorio siroiracheno, appartenenti a gruppi jihadisti, o, ancora, a quelle di B., che aveva riferito espressamente, seppure per averlo appreso dall’indagato, dei rapporti di questi con soggetti operativi sui territori ed “appartenenti ad un gruppo del quale non mi ha fatto il nome“.
Sulle dichiarazioni in questione – ravvisa il Collegio – nessuna valutazione è stata fornita, non è stato spiegato perché quanto riferito sarebbe inattendibile, perché dette dichiarazioni non dovrebbero colorare sul piano indiziario il contenuto di quelle conversazioni, sbrigativamente considerate priva di valenza probatoria perché scherzose.
Rispetto a tale rilevante tema di prova, la motivazione è strutturalmente assente, essendosi il Tribunale limitato ad affermare a pag. 11 del provvedimento che “anche dalle dichiarazioni …. emerge che gli interlocutori dell’indagato hanno sempre decisamente manifestato allo stesso … la propria disapprovazione“. La motivazione è gravemente carente perché, da una parte, omette di valutare una serie di elementi rilevanti ed ulteriori rispetto al contenuto delle conversazioni, e, dall’altra, sulla base di tale grave omissione, attribuisce un assertivo significato demolitorio della prospettazione d’accusa al contenuto di quelle conversazioni.
Ciò che non è chiaro al Collegio è la ragione per cui si sia sostanzialmente escluso che l’indagato, durante il periodo di detenzione in Marocco abbia davvero avuto contatti diretti con soggetti appartenenti all’organizzazione internazionale terroristica Isis, e, quindi, perché, nel corso di quelle conversazioni, non avrebbe potuto seriamente – e non per scherzo – fare riferimento alla possibilità di utilizzare detti contatti. Il Tribunale avrebbe dovuto valutare che M. in quei dialoghi intercettati non manifestava solo la propria aspirazione a recarsi a combattere per l’Islam, ad immolarsi per la causa religiosa, non cercava solo di indottrinare le persone con cui si relazionava al solo fine di diffondere un’idea, ancorché eversiva: avrebbe dovuto considerare, al fine di perimetrare correttamente il giudizio sulla gravità indiziaria, gli elementi probatori che erano stai portati alla sua cognizione e cioè che l’indagato:
- a) era stato detenuto in carcere con persone partecipi dell’Isis;
- b) a seguito di quelle frequentazioni, aveva mutato profondamente il proprio modo di vivere;
- c) era andato via dal Marocco per timore di essere coinvolto nelle operazioni di polizia che avevano smantellato una cellula terroristica;
- d) in Turchia era stato arrestato;
- e) aveva, secondo più fonti dichiarative, contatti reali con soggetti siro-iracheni, appartenenti a gruppi jihadisti.
All’esito di tale attività valutativa, il Tribunale avrebbe poi dovuto fare corretta applicazione dei principi di diritto, di cui si è detto, e verificare se le condotte attribuibili all’indagato fossero o meno penalmente neutre perché espressione di mere aspirazioni personali ovvero di idee soggettive, oppure, in ragione della esistenza di contatti reali con esponenti dell’associazione internazionale denominata Isis, fossero sintomatiche dell’inserimento dell’indagato nella struttura del sodalizio.
Inesistente è, sotto altro profilo, la motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine al contenuto delle conversazioni intercorse tra il fratello e la sorella dell’indagato ed intercettate immediatamente dopo il fermo di questi, delle quali pure il Tribunale ha dichiarato (pag. 5) di averne avuta la disponibilità, e che, secondo la prospettazione d’accusa, avrebbero fatto ancora una volta esplicito riferimento ai contatti tra il M. e soggetti appartenenti ad associazioni terroristiche internazionali (conv. n. 2542 del 6.4.2017).
Rispetto a tale quadro di riferimento, è irragionevole e quindi viziata la motivazione nella parte in cui ha attribuito rilevante valenza alla conversazione n. 1620, in cui l’indagato, nel corso di un dialogo con una donna, allorchè questa pronunciò la parola “Daesch“, ebbe una reazione stizzita negando di far parte dell’Isis (in tal senso si valorizza anche la conversazione n. 5514 del 20/12/2016); si tratta di una conversazione che si presta a letture diverse, rispetto alla quale il Tribunale fornisce una motivazione sul significato prescelto che sbrigativamente consente di demolire la portata degli assunti accusatori ma che non considera il contesto nel cui ambito quella affermazione fu compiuta.
Sotto ulteriore profilo, è fondato per la Corte l’assunto del Pubblico Ministero secondo cui il Tribunale avrebbe compiuto una verifica parcellizzata e atomistica dei numerosi ed ulteriori elementi indiziari portati alla sua cognizione. Anche in questo caso si tratta di un modo di procedere che è inficiato da un duplice vizio di presupposizione.
Il primo è costituito, come detto, dall’aver omesso di motivare su un tema cardine del procedimento, e cioè se M. avesse o meno rapporti reali con soggetti direttamente o indirettamente riconducibili all’Isis, attesa la potenziale capacità di tale profilo di condizionare la valutazione delle altre risultanze investigative.
Il secondo attiene alle modalità con cui il Tribunale ha proceduto alla valutazione degli altri elementi, considerati scissi tra loro, ed esaminati come se, appunto, non vi fosse il tema probatorio del rapporto tra Messaoudi e i soggetti appartenenti all’organizzazione internazionale. Esemplificativa è la valutazione fornita:
- a) rispetto al tema delle esternazioni non pubbliche – compiute in occasione della diffusione delle notizie degli attentati terroristici, in cui, a dire del Tribunale, M. si sarebbe limitato a “commentare eventi ed a ripetere frasi inneggianti ad Allah per come pronunciate dagli attentatori” (pag. 9 ordinanza);
- b) in relazione ai dialoghi avuti con le donne che, secondo l’ordinanza, non “avrebbero mai avuto quei connotati di concreta idoneità anche solo a convincerle della bontà del pensiero sull’Islam“, atteso che i dialoghi sarebbero stati tenuti con “toni più o meno scherzosi” (pag. 11); a) sul materiale di interesse investigativo rinvenuto sul telefono dell’indagato al momento del fermo.
Al cospetto delle nuove forme di manifestazione del terrorismo globale e specialmente del terrorismo islamista, l’uso della parola, al di là del tema del contenuto apologetico, assume un ruolo – correttamente definito in dottrina- “costitutivo“, perché può non essere limitato alla semplice divulgazione, alla mera manifestazione del pensiero: incitamento, propaganda, apologia o anche solo manifestazioni di simpatia possono essere componenti di un più ampio raggio di azione finalizzato ad indottrinare, a prospettare cambiamenti di vita, ad infondere idee e senso di potenza nei “fedeli“, ad incrementare l’arruolamento tra le fila radicali, soprattutto nei casi, come quello in esame, in cui l’oggetto della comunicazione non riguarda uno specifico evento, un singolo attentato, quanto piuttosto, la vocazione al martirio, e, soprattutto, la partecipazione ad un gruppo terroristico.
L’esaltazione di un’organizzazione terroristica, l’invito ad aderirvi, la “militanza ideologica” hanno – precisa significativamente la Corte – una valenza diversa se compiuti da un soggetto che abbia davvero rapporti con l’associazione terroristica di cui parla, ovvero, viceversa, da una persona del tutto slegata da contesti di criminalità organizzata; si tratta di condotte che possono rendere complessa la distinzione tra la libera posizione ideologica ed il fatto penalmente rilevante, a propria volta astrattamente riconducibile a diverse fattispecie eterogenee, che vanno dai comuni reati d’opinione, al delitto d’associazione con finalità di terrorismo, passando per un nutrito catalogo di ipotesi intermedie.
Rispetto a tali complesse tematiche, la motivazione – precisa il Collegio – resta silente. Di tutto ciò il Tribunale ha mostrato di non avere tenuto conto; si è limitato ad escludere la configurabilità del reato di apologia di cui all’art. 414 cod. pen., sul presupposto che i discorsi dell’indagato non fossero pubblici; si è affermato sbrigativamente che il tono scherzoso, che sarebbe stato usato, proverebbe la innocuità dei dialoghi, senza tuttavia considerare che quel tono, ove davvero esistente, avrebbe potuto essere usato in funzione strumentale e strategica da parte di chi, magari, aveva davvero i propri contatti con il gruppo terroristico internazionale e fosse interessato a verificare innanzitutto il grado di interesse dell’interlocutore e, quindi, la possibilità di intraprendere una fidelizzazione progressiva della persona con cui aveva deciso di relazionarsi. 1
L’ordinanza, dunque, deve per il Collegio essere annullata con rinvio per un nuovo esame. Il Tribunale, facendo rigorosa applicazione dei principi di diritto indicati: a) ricostruirà il perimetro cognitivo entro il quale formulare la valutazione della gravità indiziaria; b) specificherà la condotta in concreto attribuita all’odierno indagato; c) verificherà se la condotta in questione sia penalmente rilevante ed eventualmente, posto che lo sia, se sia giuridicamente qualificabile in termini di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo ovvero sia riconducibile ad altra fattispecie di reato; d) riformulerà, sulla base delle verifiche indicate, l’eventuale giudizio sulle esigenze cautelari.
2019
*Il 3 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18559, Zindato, onde – in tema di partecipazione ad associazione mafiosa – va operato di necessità un richiamo ad una sorta di “comunanza ideologica” tra il nuovo associato ed il sodalizio criminale, che renderebbe del tutto irrilevante pretendere di individuare compiti e ruoli di ciascuno ed attendere, per la punibilità del soggetto, il momento in cui lo stesso diventi operativo, in quanto «chi entra in un’associazione mafiosa, vi entra perché ne condivide i valori su cui si fonda […] per i quali egli si impegna a mettere a disposizione tutte le proprie energie, le proprie capacità e le proprie competenze, quando sarà il momento e quando ne sarà richiesto per il bene, la potenza ed il successo dell’organizzazione»; per converso, l’assunzione fattuale di tale ruolo, in altro modo desunta, può rendere superflua la prova del compimento del rituale d’ingresso.
La Corte osserva, sulla base di un’ampia casistica, che l’affiliazione – preceduta dal rito della c.d. decontaminazione – si compie a seguito di un vero e proprio rituale al quale partecipano i maggiorenti dell’associazione, l’affiliando ed il suo padrino: nel corso dell’affiliazione, vengono lette formule sacramentali, all’esito delle quali il capo chiede il consenso dei presenti all’ammissione dell’affiliando “all’onorata società“, ricevuto il quale, quest’ultimo, dopo avere prestato giuramento, viene “battezzato“.
Indi, il nuovo affiliato viene presentato a tutti coloro che fanno già parte dell’associazione: da questo momento l’affiliato, entrando a far parte dell’associazione, diventa automaticamente un “uomo d’onore“, sintagma questo che non indica il ruolo ricoperto nell’ambito associativo, bensì lo “status” che si acquisisce per il semplice fatto di far parte dell’associazione e che, tendenzialmente, lo impegna per tutta la vita.
Ed è proprio per l’alta simbologia di cui è permeata la cerimonia di affiliazione che – per i sostenitori della teoria organizzatoria – non appare condivisibile ritenere che – in assenza di una qualche condotta che indichi quale sia il ruolo che l’affiliato ricopre nell’ambito associativo – la suddetta affiliazione abbia una valenza neutra ai fini della partecipazione all’associazione mafiosa.
Con l’affiliazione nasce e si costituisce dunque per il Collegio un vero e proprio pactum sceleris idoneo a configurare la condotta partecipativa punibile. In forza di questo patto, che fa nascere vantaggi sia per il singolo (che realizza un profitto personale e riceve benefici di carattere non solo economico oltre che protezione per sé e per il suo nucleo familiare) sia per l’associazione (che si rafforza quantomeno sotto il profilo numerico in vista del raggiungimento dei propri scopi, accrescendone in ogni caso la potenzialità operativa e la capacità d’intimidazione), l’affiliato mette automaticamente a disposizione dell’associazione le proprie energie ed i propri servizi, viene a conoscenza di una serie di dinamiche interne non quale neutrale e passivo osservatore, bensì quale già attivo nuovo componente del gruppo, s’impegna al silenzio, all’obbedienza agli ordini impartiti e a non contrastare altri “uomini d’onore“; a sua volta, l’associazione s’impegna a sostenere l’affiliato e la sua famiglia e ad intervenire con forme di aiuto economico in caso di bisogno (per esempio, in caso di arresto o latitanza).
Conclusioni che appaiono corroborate dalla qualificazione del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. in termini di reato a condotta libera e pericolo presunto, per la cui consumazione è dirimente il momento in cui il soggetto entra a far parte della consorteria, mediante la sua “messa a disposizione“, di per sé idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale, divenendo del tutto irrilevante il compimento, da parte dell’adepto, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata.
Diversamente opinando – si afferma – si finirebbe per tramutare surrettiziamente la natura del delitto di associazione mafiosa, convertendolo da fattispecie di pericolo presunto a reato di evento e di danno, con la consequenziale necessità di fornire prova del nesso di causalità insistente tra la condotta (partecipazione associativa) e l’evento (rafforzamento della consorteria) e si rischierebbe altresì di determinare una sovrapposizione tra la condotta “di associazione“, legata all’assunzione del ruolo di partecipe, con quella “dell’associazione“, diretta ad attuare il programma delinquenziale che si traduce nell’esecuzione dei delitti scopo.
Con riferimento al tenore letterale della norma, si osserva inoltre da parte del Collegio che le diverse locuzioni adoperate negli artt. 416 cod. pen. (“partecipare“) e 416-bis cod. pen. (“fa parte“) hanno il medesimo significato, sicché sarebbe del tutto arbitrario voler trarre da tale (solo apparente) diversità la conclusione che il “far parte” indichi un’attività avente natura dinamica e che il “partecipare” indichi un’attività statica: tanto nell’art. 416 che nell’art. 416-bis è prevista la punibilità per la sola partecipazione, senza che sia utilizzata alcuna aggettivazione né “attiva” né “passiva“.
* * *
Il 20 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.27672, Geraci, onde il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. in termini di reato a condotta libera e pericolo presunto, per la cui consumazione è dirimente il momento in cui il soggetto entra a far parte della consorteria, mediante la realtiva “messa a disposizione“.
Ciò risulta giù di per sé idoneo a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale, divenendo del tutto irrilevante il compimento, da parte dell’adepto, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata.
La pronuncia, rivelandosi espressione del c.d. modello misto in tema di partecipazione ad associazione mafiosa, afferma dunque il principio onde se l’investitura della qualifica di “uomo d’onore” è di per sé indice rivelatore della partecipazione ad una delle mafie storiche, non vale tuttavia il contrario, nel senso che non occorre necessariamente l’investitura formale al fine di integrare la condotta punita dall’art. 416-bis cod. pen., poiché la permanente “disponibilità” al servizio dell’organizzazione mafiosa è indipendente dalla prova di una formale iniziazione.
2021
Il 09 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.5071, che rimette alle Sezioni Unite la soluzione del quesito circa l’attitudine della mera affiliazione a un’associazione a delinquere di stampo mafioso cosiddetta storica (nella specie: la ‘ndrangheta) – operata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa – a costituire fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato da tale norma previsto.
* * *
Il 16 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.6090 alla cui stregua le condotte in concreto contestate, consistenti – nel caso di specie- nella detenzione e nel porto di un’arma comune da sparo, soddisfano pienamente il crisma della «materialità», realizzando quella modificazione della realtà fenomenica che ne costituisce il portato essenziale.
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Il 24 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7177, Crea, che richiama – in tema di partecipazione ad associazione mafiosa – il modello c.d. misto, assumendo non sufficiente la mera affiliazione del soggetto attivo e richiedendo la prova di condotte che offrano un contributo all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione criminale.
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L’11 ottobre esce la sentenza delle SSUU n.36958 in tema di associazione mafiosa, affiliazione rituale, messa a disposizione della consorteria, pericolo presunto e offensività del reato, alla cui stregua da un lato la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione, inserimento che deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi; dall’altro, e proprio nel rispetto del principio di materialità, oltre che di offensività, della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione.
La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite – principia il Collegio – è la seguente: «Se la mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso (nella specie ‘ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis cod. pen. e della struttura del reato».
Preliminarmente, con riferimento alle produzioni difensive in lingua tedesca effettuate in sede di proposizione e discussione del ricorso ex art. 309 cod. proc. pen., asseritamente comprovanti la titolarità di domicilio e lavoro in Germania da parte dei ricorrenti in epoca successiva al preteso evento di affiliazione, il Collegio assume di condividere le valutazioni dei giudici di merito che hanno omesso di considerarne i contenuti, senza procedere ad alcuna preventiva traduzione in lingua italiana dei documenti prodotti.
Sul punto va riaffermato per la Corte il costante insegnamento della propria giurisprudenza onde, nel procedimento di riesame, caratterizzato da tempi assai ristretti e da adempimenti il cui mancato rispetto può comportare l’inefficacia della misura, è esclusivo onere della parte e non del giudice provvedere alla traduzione formale in lingua italiana della documentazione prodotta in un idioma straniero (cfr., Sez. 1, n. 51847 del 01/10/2015, dep. 2016, Milenkovic, Rv. 268543-01; Sez. 5, n. 40909 del 22/10/2010, Arcadi, Rv. 248503-01; Sez. 3, n. 15380 del 03/03/2010, Reznic, Rv. 246607-01).
Tanto premesso, il Collegio osserva nel merito che la questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite non afferisce alla possibilità di ricondurre al dettato normativo nuove forme di militanza associativa o peculiari modalità di interazione cooperativa tra gli associati, bensì evoca la necessità di fissare i contorni della stessa nozione di partecipazione, manifestazione primaria di adesione al sodalizio mafioso.
Il tema, apparentemente delimitato, involge, in realtà, precisa il Collegio, ambiti ben più complessi, che attengono alla stessa formulazione della fattispecie incriminatrice e alla descrizione dei relativi elementi costitutivi, nonché alla difficoltà di pervenire ad una definizione puntuale della condotta di partecipazione associativa penalmente rilevante.
A tal proposito si registrano significative oscillazioni interpretative, ritenute espressive di una “tipicità incompiuta” della previsione normativa più che di un fisiologico contrasto esegetico attinente ad aspetti del tipo. Il nodo problematico dei requisiti strutturali richiesti per la contestazione della condotta partecipativa emerge in tutta la relativa portata nel momento in cui il compendio probatorio acquisito non fornisce elementi univocamente idonei ad attestare l’apporto di un contributo causale alla consorteria mafiosa, ma comprova soltanto il mero compimento di formalismi rituali.
L’ordinanza di rimessione esplicita chiaramente il timore di una duplice deriva ermeneutica: a) la sufficienza, attraverso indebiti automatismi probatori, della sola adesione formale ad una cosca criminale ai fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa; b) la necessità della realizzazione di condotte causali strumentalmente orientate verso gli obiettivi dell’associazione ai fini della punibilità.
Da qui la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale, che precludono accuse fondate su responsabilità da status o da posizione o che si traducano in un’elusione delle garanzie poste a presidio della libertà individuale.
Due sono i temi di indagine da esplorare: il primo – attinente al profilo della tipicità – concerne l’individuazione del minimum della condotta di partecipazione punibile; il secondo – relativo al profilo della prova – ha riguardo al valore da attribuire agli indici sintomatici della partecipazione, tra cui si colloca, in primis, l’avvenuto compimento di un rituale di affiliazione.
Per definire i confini dei requisiti minimi di riconoscibilità e di punibilità della condotta di partecipazione ad una associazione di stampo mafioso, procede la Corte, è necessario partire dalla nozione normativa dell’art. 416-bis, primo comma, cod. pen. e dalla relativa concretizzazione giurisprudenziale, tesa, in aderenza ai principi costituzionali di tipicità, materialità, offensività, nonché all’ulteriore principio di proporzionalità tra pena e previsione legale di punibilità (art. 49, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), a rendere più chiaro e percepibile il contenuto del precetto: il tutto, in coerenza con i contenuti degli artt. 25 e 27 della Costituzione e dei moniti del giudice delle leggi il quale ha riconosciuto che «spetta al legislatore l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale far riferimento, purché, peraltro, l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali e arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit» (Corte cost. n. 333/1991); appartengono altresì alla discrezionalità del legislatore i profili della tipizzazione e dell’offensività (Corte cost. n. 225/2008) in aggiunta a quello della proporzionalità della pena (Corte cost. n. 236/2016).
La Corte Costituzionale ha invitato, inoltre, il legislatore a tener conto, nella determinazione delle fattispecie tipiche di reato, non soltanto della struttura e della pericolosità astratta dei fatti che va ad incriminare, ma anche della «concreta esperienza nella quale quei fatti si sono verificati e dei particolari inconvenienti provocati in precedenza dai fatti stessi, in relazione ai beni che intende tutelare», dovendo considerare «anche e soprattutto dell’uso concreto» che dell’oggetto materiale del fatto oggetto di incriminazione «l’esperienza mostra» (Corte cost. n. 171/1986).
L’art. 416-bis – riprende a questo punto la Corte – è stato introdotto nel codice penale dalla legge 13 settembre 1982, n. 646. La sollecitazione introdotta dalla relazione in data 7 agosto 1963, con la quale la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, poco prima istituita, invocava una modifica della relativa legislazione penale e delle misure di prevenzione veniva recepita solo in relazione a queste ultime attraverso l’emanazione della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella quale per la prima volta viene usato il sintagma “associazione mafiosa“.
Nel lungo periodo che precede il varo dell’art. 416-bis, la partecipazione alla consorteria mafiosa non era però rimasta del tutto impunita, dal momento che sia la dottrina che la giurisprudenza avevano tentato di ricondurre nell’alveo dell’art. 416 cod. pen. talune delle ipotesi di aggregazione mafiosa. L’operazione ermeneutica era stata comunque contestata da chi evidenziava che nella consorteria mafiosa non era indispensabile il perseguimento di fini illeciti e, nel contempo, metteva in luce la difficoltà di ricondurre nell’area del penalmente rilevante tutte le eterogenee, e spesso mascherate, forme di manifestazione della criminalità organizzata. Il fine lecito dell’attività svolta o il mancato ricorso alla violenza o alla minaccia rischiavano, così, di creare zone franche all’interno delle quali la criminalità poteva continuare ad operare indisturbata.
Nella relazione alla proposta di legge n. 1581 (presentata il 31 marzo 1980 dai deputati Pio La Torre ed altri), a proposito delle finalità perseguite con la novella, rammenta emblematicamente il Collegio, si legge: «Con questa previsione si vuole colmare una lacuna legislativa già evidenziata da giuristi e operatori del diritto, non essendo sufficiente la previsione dell’art. 416 del codice penale (associazione per delinquere) a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 del codice penale, affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e in Calabria raggiunge i suoi effetti anche senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale».
L’introduzione della norma, il cui novum è rappresentato dal fulcro dell’incriminazione, incentrato sul metodo utilizzato dagli adepti, ha obbligato dottrina e giurisprudenza ad una complessa attività ermeneutica con forti sollecitazioni “evolutive” in ragione della relativa imperfezione terminologica, influenzata dalla dimensione sociologica del fenomeno e dalla realtà empirico-criminologica di volta in volta interessata.
In tale prospettiva, si è affermato che, se da un lato, è connaturato alla stessa ratio legis della disposizione l’intento di enucleare un precetto più elastico, in grado di attagliarsi a tutte le forme di criminalità organizzata idonee a sprigionare le medesime condizioni di assoggettamento ed omertà derivanti dall’impiego del metodo mafioso, dall’altro, occorre scongiurare interpretazioni riduttive dei requisiti oggettivi della fattispecie, che conducano ad un’applicazione eccessivamente lata dell’incriminazione.
Pur esprimendo evidenti attitudini plurioffensive – minaccia alla libertà morale dei consociati, all’ordine democratico, alla libertà di mercato e d’iniziativa economica, all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione – l’aggressione più diretta è quella rivolta all’ordine pubblico in una duplice dimensione: quella “oggettiva“, quale complesso delle condizioni che garantiscono la sicurezza e la tranquillità comune, e quella “soggettiva“, intesa come libertà morale della popolazione di determinarsi liberamente nelle decisioni e nelle scelte, al riparo dalla costrizione indotta da qualsivoglia organismo stabilmente costituito per infrangere la legge penale e per trarre da ciò profitto.
Nell’analisi descrittiva della natura del reato e dei beni giuridici tutelati non possono obliterarsi – prosegue la Corte – i temi dell’individuazione del momento consumativo del delitto associativo e della relativa proiezione offensiva: l’inquadramento di tali aspetti, lungi dall’assumere una portata meramente classificatoria, incide, infatti, in maniera sostanziale sulla configurazione della condotta partecipativa e consente di comprendere le argomentazioni addotte a sostegno dai vari indirizzi giurisprudenziali.
Pur se ai fini dell’individuazione di un sodalizio di tipo mafioso devono ritenersi determinanti la ricorrenza dell’elemento personale con la distribuzione gerarchica dei ruoli, l’esistenza di una specifica struttura organizzativa e logistica, l’ambito territoriale di operatività e la tipologia dei reati-fine, la tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416-bis cod. pen. risiede nelle modalità attraverso cui l’associazione si manifesta e non già negli scopi (alternativi) che s’intendono perseguire.
Del resto, la compresenza di finalità lecite ed illecite finisce per conferire al metodo il ruolo di elemento cardine della fattispecie, quale spartiacque volto a circoscrivere la nozione penalmente rilevante di “associazione mafiosa“.
In particolare, quanto al metodo, si definisce mafiosa l’associazione nella quale i partecipanti “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e dell’assoggettamento e omertà che ne deriva“; quanto alle finalità, si spazia dalla realizzazione di un programma intrinsecamente illecito (come la commissione di delitti o l’ottenimento di profitti e vantaggi ingiusti o ancora il condizionamento della libertà di voto), fino al perseguimento di obiettivi in sé leciti, quali “acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici” o, ancora, “procurare voti a sé o ad altri in consultazioni elettorali“.
Rispetto all’associazione a delinquere semplice, chiosa ancora la Corte, nell’associazione di stampo mafioso si attua un’inversione del rapporto tra mezzi e fini. Infatti, mentre per l’associato comune il compimento dei delitti costituisce il fine dell’associarsi, per l’associato mafioso l’attività delinquenziale rappresenta il mezzo per il perseguimento di un obiettivo più ambizioso, consistente nel controllo stabile di un segmento della vita sociale onde garantirsi l’arricchimento parassitario.
Ciò implica la possibilità che alcuni soggetti aderiscano all’associazione mafiosa non direttamente in vista del compimento dell’attività delinquenziale, bensì soltanto per partecipare alla suddivisione dei profitti (è il caso non infrequente dell’imprenditore colluso) ovvero per realizzare una duratura supremazia territoriale su ogni genere di attività, offrendo in modo stabile un contributo per il mantenimento in vita dell’associazione ed ottenendone in cambio vantaggi di vario genere.
Da qui la capacità della mafia di estendere, in guisa via via più ampia, l’area dei propri aderenti, a differenza delle associazioni di tipo comune che si segnalano, di regola, per essere costituite da un numero limitato di associati. Inoltre, con l’art. 416 cod. pen. il legislatore individua un reato associativo “puro“, dal momento che per la relativa configurazione è necessaria esclusivamente una organizzazione funzionale alla realizzazione del programma criminoso; con l’art. 416-bis cod. pen., invece, attraverso la caratterizzazione del metodo e delle finalità dell’associazione, si finisce per costituire un reato a struttura “mista” o “complessa” del tutto peculiare e che richiede, per la propria configurabilità, la ricorrenza di un quid pluris rispetto alla sola organizzazione pluripersonale e al programma criminoso.
L’analisi di tale requisito strutturale ha sollecitato – chiosa la Corte – una riflessione sull’effettiva natura, di danno o di pericolo, del delitto.
Diverse sono le teorie classificatorie proposte dalla dottrina e fatte proprie dalla giurisprudenza. Un primo orientamento ha riconosciuto la natura esclusiva di reato di pericolo, definendo l’art. 416-bis cod. pen. come una species di un più ampio genus, individuato nell’art. 416 cod. pen., in cui l’elemento peculiare è il metodo mafioso (l’intimidazione), che può essere solo rappresentato e voluto, ma non necessariamente estrinsecato (cfr., Sez. 2, n. 25360 del 15/05/2015, Concas, Rv. 264120-01; Sez. 5, n. 38412 del 25/06/2003, Di Donna, Rv. 227361-01): si determina così un’estensione della fattispecie, dal momento che non ci sarebbe bisogno di verificare e, dunque, di dimostrare il concreto pericolo cui sarebbe esposto il bene giuridico tutelato dalla norma.
Un secondo orientamento ritiene, invece, che la componente di danno si estrinseca rispetto ai beni giuridici dell’ordine pubblico e della libertà morale, mentre la componente di pericolo si rileva solo con riferimento all’ordine economico, al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione: il danno viene individuato proprio nell’utilizzo del metodo mafioso che deve essere interpretato nella relativa dimensione oggettiva, ossia deve essere riconoscibile dall’esterno e suscettibile di una concreta e fattuale verifica (Sez. 6, n. 1793 del 03/06/1993, dep. 1994, De Tommasi, Rv. 198577-01) ed essere così in grado di dar luogo al fenomeno aggregativo a prescindere dal fatto che ogni partecipante realizzi uno specifico programma criminoso.
Un terzo orientamento riconosce la caratterizzazione “mista” all’interno del reato, nel senso che quest’ultimo assume contemporaneamente natura di pericolo, in relazione alla preordinazione di una serie indeterminata di delitti e, per altro verso, di danno, in relazione allo sfruttamento della capacità intimidatoria in ragione dell’ormai compiuta immanenza lesiva della libertà di quanti si relazionano con l’associazione.
La questione che si pone in via consequenziale è – riprende a questo punto la Corte – la modalità in cui dovrebbe estrinsecarsi la forza di intimidazione.
Secondo i sostenitori della prevalente “versione forte” dell’orientamento che considera il reato a struttura mista e valorizza la componente dannosa, la forza di intimidazione richiede singoli, determinati, ripetuti atti di minaccia o di violenza, chiaramente riconoscibili (Sez. 2, n. 18773 del 31/03/2017, Lee, Rv. 269747-01; Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, Amurri, Rv. 253457-01).
Coloro, invece, che propugnano la sufficienza della messa in pericolo, considerano il fenomeno mafioso nel relativo complesso prescindendo dalle conseguenze delle condotte e riconoscono che l’intimidazione si configura anche con la semplice instaurazione di un “clima di timore” dettato dalla “fama” del gruppo, finendo così per valorizzare una componente astratta che non necessariamente deve concretizzarsi o rivelarsi all’esterno, ben potendo svolgersi nel silenzio e all’oscuro nell’ambito delle relazioni interpersonali e nell’apprestamento delle condizioni necessarie all’operatività del sodalizio, sebbene, in determinate situazioni contingenti, l’associazione possa ritenerne necessaria una doverosa attivazione (Sez. 5, n. 6882 del 06/11/2015, dep. 2016, Morabito, non mass.).
Sulla base di tali premesse teoriche, chiarisce a questo punto il Collegio, si sono formati due orientamenti esegetici contrapposti.
Secondo un primo indirizzo, l’art. 416-bis cod. pen. integra un reato di pericolo presunto, poiché la mera esistenza di un’organizzazione plurisoggettiva funzionale all’attuazione di un programma delinquenziale sarebbe sufficiente ad integrare l’esposizione a pericolo dell’ordine pubblico. La rilevanza del bene giuridico da tutelare legittimerebbe, pertanto, un arretramento della soglia di punibilità.
Le superiori possibilità di successo dei propositi criminali derivanti dalla possibilità di sfruttare l’apporto di tutti gli accoliti, la maggiore efficacia intimidatoria di un gruppo costituito da un maggior numero di soggetti e l’organizzazione strutturale (certamente più elaborata) dell’associazione varrebbero a legittimare la deroga all’art. 115 cod. pen., non venendo sanzionata una mera intesa priva di manifestazioni esteriori, bensì la costituzione fattuale di un’associazione che, per la sua sola esistenza, determina minaccia per la sicurezza collettiva.
E’ evidente che la qualificazione del delitto in termini di reato di mero pericolo, che prescinde dall’accertamento di una lesione effettiva dei beni giuridici tutelati, non può che determinare un’importante refluenza sull’individuazione del momento consumativo del delitto e sulla definizione della condotta di partecipazione: l’esposizione a pericolo dell’ordine pubblico si realizzerebbe per effetto del mero ingresso nella compagine e la consumazione del reato si perfezionerebbe nel momento dell’adesione.
In questa prospettiva, si argomenta che, al fine di qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale, è necessaria la relativa capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua stessa esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all’organismo criminale, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori (cfr., Sez. 1, n. 5888 del 10/01/2012, Garcea, Rv. 252418-01).
Ne consegue che il controllo del territorio e delle attività possono rappresentare una conseguenza anche solo eventuale dell’agire dell’associazione: attualità, effettività e permanenza, connotanti di regola la forza di intimidazione, divengono, in tale prospettiva, elementi eventuali non necessariamente produttivi (nella loro materialità) dello stato di soggezione e di omertà, che sarebbero consequenziali alla sola esistenza dell’organizzazione.
Secondo un diverso indirizzo, la caratterizzazione in termini oggettivi dell’uso del metodo mafioso impone di qualificare la consorteria mafiosa quale associazione che “delinque” e non “per delinquere“, dovendosi apprezzare l’offesa nel relativo contenuto di danno e non di pericolo. In una simile prospettiva, la semplice condotta adesiva è del tutto insufficiente ai fini della configurabilità del delitto, in quanto il profilo di danno deve necessariamente essere riconnesso al compimento materiale di atti o alla tenuta di comportamenti recanti un effettivo contributo alla vita dell’associazione e solo la loro realizzazione determina la consumazione del reato.
Conseguentemente, si sottolinea che la qualificazione di un sodalizio come mafioso dipende dalla pertinente capacità di sprigionare autonomamente una carica intimidatrice reale e obiettivamente riscontrabile capace di piegare ai propri fini la volontà dei destinatari, sì che occorrerà rilevare, sul piano statico, l’attualità e non la sola potenzialità, della capacità intimidatrice dell’organizzazione alla quale dovrà corrispondere un alone di intimidazione diffuso effettivo ed obiettivamente riscontrabile, e, sul piano dinamico, quale elemento indefettibile della fattispecie, una condotta espressiva della volontà di realizzare il programma sociale perseguito, di servirsi cioè dell’acquisita capacità intimidatrice, ricorrendo nel caso, ove necessario, al compimento di concreti atti di violenza o di minaccia (Sez. 1, n. 25242 del 16/05/2011, Baratto, Rv. 250704-01).
In tale ottica, pertanto, l’utilizzo della forza d’intimidazione deve assumere una pregnanza concreta così rilevante ed intensa da creare nella comunità un timore diffuso, volto a limitare la libertà dei consociati. Il metodo mafioso finisce così con l’assumere connotazioni di carattere oggettivo, idonee a designare non solo il “modo d’essere” dell’associazione, ma anche il “modo di esprimersi” della stessa.
Il Collegio ritiene a questo punto che, pur non potendosi mettere in dubbio la natura di reato di pericolo, atteso che le finalità programmatiche del sodalizio costituiscono la fonte di un pericolo incombente per l’ordine pubblico, l’ordine economico e la collettività intera in sé considerata e nell’esercizio dei propri diritti, sia necessario prendere le mosse da una corretta ermeneusi della locuzione normativa “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo“.
Invero, chiosa il Collegio, premesso che la tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416-bis cod. pen. risiede nelle modalità (che si esprimono nel concetto di metodo mafioso) attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente e non negli scopi che essa intende perseguire, quali delineati nel terzo comma dell’art. 416- bis cod. pen. in modo alternativo, per l’integrazione del tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale “forza” e di essersene avvalso. Si supera così l’interpretazione volta a conferire alla locuzione un rilievo solo sul piano soggettivo, ossia come mera intenzione di “avvalersi” e si attribuisce rilievo all’oggettività del metodo mafioso in ossequio ai già menzionati principi di oggettività ed offensività.
Forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà costituiscono altrettanti elementi necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. associativo, come del resto si desume senza possibilità di dubbio dall’uso della congiunzione “e” impiegata nel testo normativo.
Cardine della fattispecie è la forza di intimidazione: ciò che viene in rilievo non è, dunque, un qualunque atteggiamento, pur se sistematico, di sopraffazione o di prevaricazione, ma una vis che, promanante dal vincolo associativo, è capace di generare una condizione di assoggettamento e di omertà. Il profilo relativo alla necessità che la capacità intimidatrice sia formata, esternata ed obiettivamente percepita va tenuto distinto da quello relativo alle modalità (del tutto “libere“) con cui tale capacità si esteriorizza, potendo prescindere da “contenuti” di violenza e minaccia.
Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale“, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l’organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro. Geneticamente, quindi, la forza deve essere riferita all’associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (Sez. 6, n. 2402 del 23/06/1999, D’Alessandro, Rv. 214923-01).
Ai fini della consumazione del reato, chiosa allora il Collegio, non è necessario che i suddetti strumenti siano utilizzati in concreto dai singoli associati, ma si richiede tuttavia che costoro siano effettivamente nelle condizioni e nella consapevolezza di poterne disporre. La consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la relativa capacità di sopraffazione, che rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione.
Diviene così necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione, sino a estendere intorno a sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere da singoli atti di intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato; peraltro, qualora emergano prove di concreti atti di intimidazione e di violenza, esse possono utilmente riflettersi anche sulla prova della forza intimidatrice del vincolo associativo, ma vi si riflettono solo in via derivata, poiché ciò che conta è che, anche mancando la prova di tali atti, l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della relativa, terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale (Sez. F, n. 44315 del 12/09/2013, Cicero, Rv. 258637-01).
L’assoggettamento e l’omertà, pur essendo in concreto difficilmente scindibili in quanto il primo costituisce la naturale premessa della seconda, assumono in astratto una precisa autonomia concettuale: per assoggettamento, infatti, deve intendersi lo stato di sottomissione alla volontà del gruppo e al suo potere; per omertà, invece, il rifiuto, dettato essenzialmente dal timore di vendette e di ritorsioni, a collaborare con gli organi dello Stato in situazioni che non necessariamente devono assumere i caratteri dell’assolutezza e dell’invincibilità.
Un simile atteggiamento, che deve essere sufficientemente diffuso, anche se non generale, può derivare non soltanto dalla paura di danni alla propria persona, ma anche dall’attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti; in modo tale che sia oggettivamente percepibile la convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria – mediante la denuncia del singolo – non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose, per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione dell’associazione, della sua efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi (Sez. 6, n. 1612 del 11/01/2000, Ferone, Rv. 216634-01).
Le condizioni di assoggettamento e di omertà – prosegue la Corte – devono evincersi dalle condotte di terzi estranei che subiscono l’azione illecita, sebbene sia stato riconosciuto che le stesse non sarebbero altro che due modi di essere in cui si esprime il vincolo associativo non solo all’esterno, ma anche al relativo interno: tesi, quest’ultima, che viene avversata da chi evidenzia il rischio di fraintendere la reale dimensione del fenomeno che vede il legame tra gli associati fondato sulla comune adesione ad una specifica subcultura e agli scopi associativi piuttosto che ad un senso, spesso impalpabile, di timore e soggezione in conseguenza della collocazione subordinata del singolo rispetto ai propri vertici gerarchici in relazione agli ordini ricevuti e, più in generale, ai comportamenti tenuti.
Se, pertanto, occorre che il sodalizio mafioso, nel contesto di riferimento, abbia realizzato una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile, ciò significa che la natura di pericolo della fattispecie implica che l’organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica, non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi.
Il reato di associazione mafiosa – conclude sul punto la Corte – non può ritenersi integrato escludendo la dimensione del danno, che deve configurarsi come concreto ed effettivo, proprio in relazione all’utilizzo del metodo mafioso inteso nel relativo senso oggettivo: quest’ultimo, infatti, non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche. In questo senso deve riconoscersi che il pericolo astratto non integra la fattispecie, rimanendo incerto e solo ipotetico il concreto passaggio dal pericolo al danno (cfr., Sez. 6, n. 9001 del 02/07/2019, dep. 2020, Demasi, Rv. 278617-01, nella quale si riconosce che l’associazione mafiosa non è strutturata sulle “intenzioni“, ma su una rete di effettive derivazioni causali).
La nozione di partecipazione ad associazione mafiosa – puntualizza a questo punto la Corte – è oggetto anch’essa di oscillazioni giurisprudenziali.
L’oggettiva carenza definitoria del disposto normativo di cui al primo comma dell’art. 416-bis cod. pen. ha reso più complessa l’attività interpretativa volta a chiarire i presupposti di rilevanza penale della condotta punibile. Infatti, a differenza delle attività di direzione, promozione e organizzazione, incriminate al secondo comma dell’art 416-bis, capaci di manifestare, sul piano descrittivo, una maggiore attitudine connotativa della condotta punibile, l’espressione “far parte” ha dato adito a più di un dubbio interpretativo in presenza di un paradigma normativo che individua un delitto a forma libera, la condotta del partecipe può consistere nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purché non occasionale e, in ogni caso, apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale, con riferimento all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione.
Detto contributo deve essere corredato dalla consapevolezza dell’esistenza della consorteria criminale e dalla volontà di associarsi ad essa, onde perseguire gli scopi tipici del sodalizio mediante l’utilizzo del metodo mafioso, pur potendosi prescindere dall’effettivo raggiungimento di tali scopi.
Nasce così la ineludibile esigenza di una corretta esegesi della nozione di partecipazione in coerenza con il dettato costituzionale e i richiami della Corte costituzionale che ha affermato che spetta al legislatore «l’individuazione delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo (nonché) della soglia di pericolosità alla quale far riferimento purché […] l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali ed arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit» (Corte cost. n. 333/1991), sia sotto il profilo della tipizzazione che dell’offensività (Corte cost. n. 225/2008), contemperando la circostanza che la condotta prevista entri in conflitto con altri valori costituzionalmente protetti (Corte cost. n. 65/1970), oltre che con la proporzionalità della pena (Corte cost. n. 236/2016).
Invero, ferma la distinzione tra il piano interpretativo della norma e quello probatorio della fattispecie, si osserva in giurisprudenza una costante tendenza a declinare la nozione di partecipazione in termini diversi a seconda del compendio probatorio disponibile.
Gli eterogenei indirizzi sviluppati in merito all’individuazione dei requisiti strutturali della condotta partecipativa hanno imposto – rammenta il Collegio – plurimi interventi delle stesse Sezioni Unite.
Nella ricostruzione diacronica dei principali paradigmi ricostruttivi, si coglie la transizione da un diritto penale di stampo soggettivo ad una più moderna impostazione oggettivistica, di maggiore aderenza al dettato costituzionale. Le prime elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali in tema di condotta di partecipazione conferivano assoluta centralità e rilevanza all’elemento soggettivo dell’adesione psichica dell’intraneo alla consorteria: la deliberata volontà di aderire al sodalizio, accrescendone le potenzialità criminali, configura ex se la condotta partecipativa, rimanendo del tutto irrilevante il compimento di atti espressivi di tale intendimento.
Secondo tale teoria, la nozione di partecipazione finisce con il coincidere con la mera affectio societatis e, dunque, con la volontà di rendersi disponibili all’attuazione del programma criminoso. Una simile conclusione, che considera la volontà interiore punibile anche in assenza di estrinsecazione, portava con sé una pluralità di problemi di non agevole soluzione, quali l’impossibilità di accertare l’avvenuta maturazione della scelta di adesione nel foro interno dell’associato, il rischio di attribuire rilevanza penale ad una mera manifestazione di volontà ed il concreto vulnus ai principi di personalità della responsabilità penale (imputandosi al sodale – rimasto concretamente estraneo – i crimini perpetrati dalla consorteria), di offensività e di materialità.
Allo scopo di superare i limiti di un’impostazione che si disinteressa del fatto tipico e mortifica le relative esigenze probatorie di garanzia e di tenuta epistemica, si è affacciato progressivamente il modello causale di partecipazione che ha preso corpo in giurisprudenza con la sentenza “Arslan” (Sez. 1, n. 7462 del 22/04/1985, Rv. 170229-01).
Tale decisione individua il partecipe all’associazione (nella specie dedita al traffico internazionale di stupefacenti) in colui che realizza “un contributo causale minimo, ma non insignificante alla vita della struttura associativa“: con tale pronuncia, si evidenzia la coessenzialità, rispetto all’accertamento dell’a ffectio societatis, del riscontro probatorio dell’incidenza eziologica del contributo del partecipe all’attuazione degli scopi delittuosi dell’associazione, dandosi così rilievo al compimento di atti empiricamente valutabili.
Una simile ricostruzione concettuale, capace di realizzare un indiscutibile miglioramento della qualità connotativa del reato nei rapporti con il diritto penale del fatto attraverso la valorizzazione del paradigma oggettivo-causale, non consente tuttavia – chiarisce la Corte – di circoscrivere in maniera univoca il novero delle condotte atte ad integrare la disposizione incriminatrice.
Infatti, la nozione di partecipazione, così enucleata, non fornisce all’interprete parametri predeterminati su cui fondare il giudizio di tipicità della condotta, risolvendosi, al contrario, in un criterio flessibile, e perciò variabile in ragione della situazione concretamente considerata.
La fluidità e la scarsa selettività della nozione introduce così il rischio di interpretazioni estensive tali da attrarre nell’area di operatività della fattispecie l’intera gamma delle condotte in astratto funzionali alla vita dell’associazione. Inoltre, una prospettiva esclusivamente (o prevalentemente) incentrata sull’apporto causale finisce comunque per collidere con il dato letterale della disposizione che, incriminando “chi fa parte” dell’associazione, sembra presupporre una piena compenetrazione del soggetto nella compagine criminosa della consorteria e non solo una condotta di ausilio al perseguimento degli obiettivi delittuosi.
In questo contesto, che rende incerta e instabile la demarcazione con la figura del concorso esterno, anch’essa costruita sul requisito dell’attitudine causale a potenziare il sodalizio, è maturato – chiosa ancora la Corte – l’orientamento qualificabile come organizzatorio (oppure puro o strutturale).
Ne preconizza i termini la sentenza “Graci” (Sez. Feriale, n. 3663 del 01/09/1994), secondo cui nella nozione di partecipazione all’associazione di tipo mafioso non possono farsi rientrare tutte quelle condotte atipiche che potrebbero far configurare il concorso eventuale e, in particolare, che non basti un consapevole apporto causale ad alcune attività dell’associazione per integrare una condotta di partecipazione.
Tale sentenza precede di poco la prima pronuncia delle Sezioni Unite in materia (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, Rv. 199386-01) secondo cui, per la configurabilità della partecipazione, si richiede «un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato»: dal paradigma di una fattispecie monosoggettiva causalmente orientata e priva di ogni tipizzazione della condotta punibile si passa ad un reato-accordo, a carattere bilaterale, che incrimina la stabile compenetrazione del soggetto nella rete dei rapporti di intraneità associativa, con l’assunzione di un ruolo funzionale alla vita dell’organizzazione.
La condotta partecipativa, frutto dell’accordo individuo-associazione, si inserisce in una dinamica necessariamente “relazionale“, in cui la dimensione individuale si fonde con quella collettiva e questo particolare rapporto simbiotico consente di distinguere l’intraneo dal concorrente esterno che la sentenza “Demitry” definisce come «colui che non vuole far parte della associazione e che l’associazione non chiama a “far parte“, la cui condotta può risolversi pure in un solo contributo purché quell’unico contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter proseguire i propri scopi».
Pertanto, gli indici di rilevanza della partecipazione punibile, che si elevano ad elementi costitutivi della fattispecie, vengono individuati: nell’effettivo ingresso nel sodalizio, anche se non accompagnato da un particolare rituale; nel riconoscimento dell’associato da parte del gruppo e nella speculare accettazione da parte dei sodali; nell’adesione alle regole dell’accordo associativo e nella conseguente assunzione dello status di membro da parte del neo-entrato.
La condizione di associato, a sua volta, genera: l’obbligo di obbedienza gerarchica e di omertà; l’impegno, nella forma della “messa a disposizione“, a realizzare il programma associativo, nonché il potere di impartire ordini secondo una prospettiva di funzionalità agli interessi del gruppo.
Non risulta, pertanto, configurabile la partecipazione ad associazione mafiosa in assenza del succitato rapporto sinallagmatico, ovverosia allorquando la partecipazione attribuisce solo vantaggi – di qualsiasi tipo – all’aderente, svincolandolo da ogni azione od obbligo oppure allorquando la partecipazione si esaurisce in un contributo fattivo a favore di un singolo associato e non dell’intera consorteria, salve le ipotesi in cui l’azione eterodiretta risponda ancora una volta ad esigenze funzionali del gruppo.
L’orientamento descritto non si spinge fino al punto di pretendere che il partecipe abbia piena contezza dell’intero programma criminoso o che conosca singolarmente ciascuno dei sodali, ritenendo sufficiente che si possa scorgere quel vincolo funzionale in senso operativo che lega ogni adepto alla struttura associativa in forza del quale l’aderente abbia la consapevolezza e la volontà di far parte del consorzio criminale e quest’ultimo ne sfrutti la manifestata disponibilità.
Sostanzialmente adesivi alla sentenza “Demitry” sono gli altri pronunciamenti delle Sezioni Unite.
La prima successiva sentenza (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202904-01), nel descrivere il dolo del concorrente esterno, individua, a contrariis, il differente elemento soggettivo del partecipe, riconoscendo come «il concorrente esterno non può avere il dolo specifico proprio del partecipe, dolo che consiste nella consapevolezza di fare parte dell’associazione, di esserne partecipe, e nella volontà di contribuire a tenere in vita l’associazione e a farle raggiungere gli obiettivi, gli scopi, che si è prefissa», riconoscendo altresì che «il concorso esterno, proprio perché postula che l’associazione esista e abbia, quindi, i suoi partecipi con il necessario dolo specifico, fa sì che il concorrente possa avere anche il semplice dolo generico, cioè la semplice coscienza e volontà di dare il proprio contributo, disinteressandosi della strategia complessiva dell’associazione, degli obiettivi che la stessa persegue e, pertanto, della maggiore o minore o, addirittura, insignificante efficacia del proprio contributo ai fini del mantenimento in vita e del conseguimento degli scopi dell’associazione».
Sempre nella prospettiva fissata dalla sentenza “Demitry“, proseguono le SSUU, si pone un’ulteriore pronuncia (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002, dep. 2003, Carnevale, Rv. 224181-01) secondo cui la partecipazione, lungi dal poter essere ricostruita come atto “unilaterale” di adesione all’associazione, è «tanto nel momento iniziale quanto in tutto il suo svolgimento, destinata a combinarsi con le condotte degli altri associati, in un’unione di forze per imprese che generalmente trascendono le capacità individuali»: si è, quindi, in presenza di un reato a concorso necessario in quanto, per la sua configurazione, è richiesta «sempre e necessariamente la volontà e l’agire di una pluralità di persone».
Ancora una volta, si chiarisce come l’appartenenza dipende non solo dalla volontà dell’aderente, ma anche da quella inclusiva di chi già partecipa all’associazione e l’accordo di adesione, sotto il profilo probatorio, è sì dimostrabile sulla base delle regole del sodalizio, ma può essere anche ricavato dai comportamenti di fatto.
Si riconosce altresì che la tipologia della condotta di partecipazione si caratterizza necessariamente nell’impegno di prestare un contributo alla vita del sodalizio avvalendosi (o sapendo di potersi avvalere) della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti.
Una sintesi dei modelli prefigurati viene attuata con un ulteriore intervento delle Sezioni Unite (sent. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670-01) che, in piena aderenza ai principi costituzionali, ha valorizzato la proiezione fattuale dell’inserimento organico nel sodalizio, mediante comportamenti espressivi del ruolo svolto dal soggetto: ruolo che deve manifestarsi mediante il compimento di atti di militanza associativa eziologicamente rilevanti per il perseguimento degli scopi dell’associazione, risultando insufficiente un mero ingresso formale nell’associazione.
La giurisprudenza di legittimità, precisa la Corte, già a partire dalla sentenza Sez. 1, n. del 13/06/1987, dep. 1988, Altivalle, Rv. 177895-01, aveva riconosciuto che, per aversi partecipazione, non basta che l’agente aiuti o si attivi in favore dell’associazione, essendo necessario che ne faccia parte; aveva, quindi, precisato che il nucleo strutturale indispensabile per integrare la condotta punibile di tutti i reati di associazione non si riduce ad un semplice accordo della volontà, ma richiede un quid pluris che con esso deve saldarsi e che consiste, nel momento della costituzione dell’associazione, nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti e, successivamente, da quel minimo, ma causalmente apprezzabile, contributo effettivo richiesto dalla norma incriminatrice ed apportato dal singolo per la realizzazione degli scopi dell’associazione.
Da qui la necessità, per la punibilità dell’agente a titolo di partecipazione, di verificare dimostrativamente la ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, è da ritenersi che, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta «messa a disposizione» delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.), va riscontrato in concreto il «fattivo inserimento» nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione – sia pure per indizi – di un «ruolo» svolto dall’agente o comunque di singole condotte che – per la loro particolare capacità dimostrativa – possano essere ritenute quali «indici rivelatori» dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo.
La sentenza “Mannino“, ancora più esplicitamente, statuisce che può definirsi partecipe «colui che si trovi in un rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo»: ciò rende evidente che la condotta tipica deve essere intesa nei termini di una “partecipazione fattiva“, che si realizza mediante il compimento di “atti di militanza associativa“.
La stessa non deve necessariamente possedere – di per sé – una carica elevata di apporto causale alla vita dell’intera associazione o di un suo particolare settore, come richiesto per il concorrente esterno, ma deve in ogni caso porsi come comportamento concreto, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi ritenere condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo.
La pronuncia in parola – proseguono le SSUU – analizza, innanzitutto, la condotta del partecipe sotto due profili, quello sostanziale e quello processuale (inteso, quest’ultimo, come dimensione probatoria).
Sotto il profilo sostanziale, si prende cura di definire la figura del “partecipe” nel soggetto che, inserito stabilmente e organicamente nella struttura, non solo è, ma fa parte (o meglio, prende parte) alla stessa. In relazione al profilo soggettivo, il partecipe deve non solo voler contribuire causalmente al rafforzamento dell’associazione, ma deve volere anche la realizzazione del programma criminoso, escludendosi così l’applicazione del dolo eventuale, nel senso della mera accettazione del rischio di realizzazione dell’evento.
Sotto il profilo probatorio, invece, la sentenza individua una serie di indicatori fattuali «dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio»: in tal senso, vengono indicati, a scopo meramente esemplificativo, «indizi gravi e precisi, dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso», tra i quali vengono annoverati «i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova“, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore“, la commissione di delitti-scopo oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia».
Il paradigma organizzatorio puro viene, pertanto, sviluppato nella relativa formulazione sincretistico-additiva; da una caratterizzazione “statico-formale” della condotta, si passa, quindi, ad una sua dimensione “dinamico-funzionale“.
Scaturisce dalla sentenza “Mannino” – prosegue la Corte – un fenotipo della partecipazione che postula l’esigenza di atti espressivi dello status di partecipe, intesi come condotte di militanza associativa: con la conseguenza che la fattispecie criminosa non può configurarsi in presenza della sola qualifica formale (e alla condizione statica) di componente dell’associazione, in assenza di alcuna forma di agere associativo successivo al formale ingresso all’interno della consorteria.
Lo sforzo della sentenza “Mannino” – prosegue a questo punto la Corte – di contrastare ogni tentativo di automatismo probatorio non è stato colto appieno da una parte della successiva giurisprudenza che, pur con diverse sfumature, riprendendo le varie teorie classificatorie, approda a conclusioni spesso diametralmente opposte, pur affermando a priori di aderire ai dicta della stessa.
Gli equivoci, precisa ancora il Collegio, sono sorti soprattutto sull’utilizzo ed il rilievo degli “indicatori” da interpretarsi alla luce delle massime d’esperienza e, prima ancora, sulla malintesa loro collocazione tra gli elementi della tipicità criminosa, piuttosto che tra i materiali della prova.
E’, infatti, sul terreno della prova che acquisisce rilievo il compimento di formalismi rituali di inserimento nella consorteria, fenomeno esemplificativo di quella tendenza giurisprudenziale a definire l’ambito applicativo della partecipazione punibile in funzione della tipologia e delle peculiari dinamiche di funzionamento dell’organizzazione criminale.
La genesi del principio di sufficienza del giuramento di mafia si rinviene nei più importanti processi di mafia celebrati a partire dagli anni ’70, ove i collaboratori di giustizia sovente erano in grado di testimoniare la sola avvenuta affiliazione rituale dell’imputato non riuscendo ad indicare in maniera specifica quali contributi il singolo associato avesse reso a favore della consorteria.
Nell’alveo di tale orientamento, numerose pronunce di merito hanno evidenziato come la qualifica di “uomo d’onore“, acquisita con l’ingresso nella consorteria, non è espressiva di un’adesione morale meramente passiva ed improduttiva di effetti, ma si traduce automaticamente in una permanente ed incondizionata offerta di contributo, anche materiale, e nella profusione di ogni energia e risorsa per l’attuazione dei fini criminosi dell’associazione.
Detto ingresso non avviene “per caso” o “contro la volontà” dell’aderente, ma sulla base di una reciproca scelta fondata – anche se non solo – sull’indiscutibile presupposto dell’implicita condivisione di un disegno criminoso da attuare con particolari modalità comportamentali (tra cui, la prevaricazione, la tracotanza, il mancato rispetto delle regole, la violenza e la minaccia come metodo contro i recalcitranti, la capacità infiltrante e mistificatrice).
Nella medesima ottica, prosegue la Corte, una parte della giurisprudenza di legittimità afferma che le forme della partecipazione possono essere le più diverse, possono essere non appariscenti e possono assumere connotati coincidenti – all’apparenza – con le normali esplicazioni della vita quotidiana e lavorativa (Sez. 5, n. 6882 del 06/11/2015, dep. 2016, Caccamo, Rv. 266064-01), essendo l’associazione mafiosa una realtà “dinamica” che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo sociale e all’evoluzione dei rapporti di forza tra gli aderenti.
Per questo, ritiene che la ricerca di un “ruolo” stabile e predefinito dell’associato all’interno del sodalizio, quasi si trattasse di definirne il profilo criminale (killer, cassiere, autista, mazziere, ecc.), comporterebbe uno sforzo vano e, comunque, non necessario per qualificare la posizione del singolo, giacché ciò che rileva, per potersi parlare di “partecipazione” ad un organismo mafioso, è la compenetrazione col tessuto organizzativo del sodalizio, ovvero la messa a disposizione – in via tendenzialmente durevole e continua – delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio.
In questa scia, precisa ancora la Corte, talune pronunce ripropongono il vecchio binomio affiliazione rituale-partecipazione punibile, sul presupposto “che la sola dichiarata adesione all’associazione da parte di un singolo […] accresce, per ciò solo, la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione” (Sez. 2, n. 27394 del 31/05/2017, Pontari, Rv. 271169-01).
Altre decisioni – proseguono le SSUU – operano un richiamo ad una sorta di “comunanza ideologica” tra il nuovo associato ed il sodalizio criminale, che renderebbe del tutto irrilevante pretendere di individuare compiti e ruoli di ciascuno ed attendere, per la punibilità del soggetto, il momento in cui lo stesso diventi operativo, in quanto «chi entra in un’associazione mafiosa, vi entra perché ne condivide i valori su cui si fonda […] per i quali egli si impegna a mettere a disposizione tutte le proprie energie, le proprie capacità e le proprie competenze, quando sarà il momento e quando ne sarà richiesto per il bene, la potenza ed il successo dell’organizzazione» (così, Sez. 2, n. 56088 del 12/10/2017, Agostino, Rv. 271698-01; nello stesso senso, Sez. 2, n. 18559 del 13/03/2019, Zindato, Rv. 276122-01); per converso, l’assunzione fattuale di tale ruolo, in altro modo desunta, può rendere superflua la prova del compimento del rituale d’ingresso.
Tale indirizzo esegetico osserva, sulla base di un’ampia casistica, che l’affiliazione – preceduta dal rito della c.d. decontaminazione – si compie a seguito di un vero e proprio rituale al quale partecipano i maggiorenti dell’associazione, l’affiliando ed il suo padrino: nel corso dell’affiliazione, vengono lette formule sacramentali, all’esito delle quali il capo chiede il consenso dei presenti all’ammissione dell’affiliando “all’onorata società“, ricevuto il quale, quest’ultimo, dopo avere prestato giuramento, viene “battezzato“.
Indi, il nuovo affiliato viene presentato a tutti coloro che fanno già parte dell’associazione: da questo momento l’affiliato, entrando a far parte dell’associazione, diventa automaticamente un “uomo d’onore“, sintagma questo che non indica il ruolo ricoperto nell’ambito associativo, bensì lo “status” che si acquisisce per il semplice fatto di far parte dell’associazione e che, tendenzialmente, lo impegna per tutta la vita.
Ed è proprio per l’alta simbologia di cui è permeata la cerimonia di affiliazione che – per i sostenitori della teoria organizzatoria – non appare condivisibile ritenere che – in assenza di una qualche condotta che indichi quale sia il ruolo che l’affiliato ricopre nell’ambito associativo – la suddetta affiliazione abbia una valenza neutra ai fini della partecipazione all’associazione mafiosa.
Alla stregua di questo orientamento quindi, chiosa ancora la Corte, con l’affiliazione nasce e si costituisce un vero e proprio pactum sceleris idoneo a configurare la condotta partecipativa punibile. In forza di questo patto, che fa nascere vantaggi sia per il singolo (che realizza un profitto personale e riceve benefici di carattere non solo economico oltre che protezione per sé e per il suo nucleo familiare) sia per l’associazione (che si rafforza quantomeno sotto il profilo numerico in vista del raggiungimento dei propri scopi, accrescendone in ogni caso la potenzialità operativa e la capacità d’intimidazione), l’affiliato mette automaticamente a disposizione dell’associazione le proprie energie ed i propri servizi, viene a conoscenza di una serie di dinamiche interne non quale neutrale e passivo osservatore, bensì quale già attivo nuovo componente del gruppo, s’impegna al silenzio, all’obbedienza agli ordini impartiti e a non contrastare altri “uomini d’onore“; a sua volta, l’associazione s’impegna a sostenere l’affiliato e la sua famiglia e ad intervenire con forme di aiuto economico in caso di bisogno (per esempio, in caso di arresto o latitanza).
Secondo le decisioni in precedenza richiamate, queste conclusioni appaiono corroborate dalla qualificazione del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. in termini di reato a condotta libera e pericolo presunto, per la cui consumazione è dirimente il momento in cui il soggetto entra a far parte della consorteria, mediante la sua “messa a disposizione“, di per sé idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale, divenendo del tutto irrilevante il compimento, da parte dell’adepto, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata (Sez. 5, n. 27672 del 03/06/2019, Geraci, Rv. 276897-01).
Diversamente opinando – si afferma – si finirebbe per tramutare surrettiziamente la natura del delitto di associazione mafiosa, convertendolo da fattispecie di pericolo presunto a reato di evento e di danno, con la consequenziale necessità di fornire prova del nesso di causalità insistente tra la condotta (partecipazione associativa) e l’evento (rafforzamento della consorteria) e si rischierebbe altresì di determinare una sovrapposizione tra la condotta “di associazione“, legata all’assunzione del ruolo di partecipe, con quella “dell’associazione“, diretta ad attuare il programma delinquenziale che si traduce nell’esecuzione dei delitti scopo.
Con riferimento al tenore letterale della norma, si osserva inoltre che le diverse locuzioni adoperate negli artt. 416 cod. pen. (“partecipare“) e 416-bis cod. pen. (“fa parte“) hanno il medesimo significato, sicché sarebbe del tutto arbitrario voler trarre da tale (solo apparente) diversità la conclusione che il “far parte” indichi un’attività avente natura dinamica e che il “partecipare” indichi un’attività statica: tanto nell’art. 416 che nell’art. 416-bis è prevista la punibilità per la sola partecipazione, senza che sia utilizzata alcuna aggettivazione né “attiva” né “passiva“.
Del resto, il concetto di “partecipazione attiva” rappresenta un vero e proprio “pleonasmo“, laddove si consideri che il verbo “partecipare“, secondo l’uso corrente, significa già “prendere parte attiva“, con il proprio contributo, ad un’attività svolta da più persone: contributo che, sotto il profilo giuridico, può essere anche di sola adesione morale secondo i consolidati principi in materia di concorso di persone nel reato (cfr., Sez. 2, n. 42525 del 02/05/2017, Agostino, non mass.; Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310-01; Sez. 5, n. 12591 del 10/11/1995, Sibilla, Rv. 203948- 01; Sez. 1, n. 2148 del 16/12/1987, dep. 1988, Mambro, Rv. 177662-01).
Si è poi affermato che la configurabilità della partecipazione punibile conseguente al rituale dell’affiliazione appare coerente con altri principi espressi dalla giurisprudenza: la ritenuta sussistenza del reato nei confronti del soggetto che abbia partecipato al rito di affiliazione altrui, assumendo in esso un ruolo attivo, in base al rilievo che solo a un soggetto intraneo all’associazione è consentito officiare tali riti (cfr., Sez. 2, n. 27428 del 03/03/2017, Serratore, Rv. 270315-01; Sez. 1, n. 43061 del 25/09/2012, Commisso, Rv. 253624-01); la responsabilità penale del soggetto che abbia partecipato a più riunioni del sodalizio e dimostrato di conoscerne la sua “sede“, non essendo ipotizzabile che un estraneo possa essere più volte ammesso a tali consessi (cfr., Sez. 1, n. 26684 del 12/04/2013, De Paola, Rv. 256045-01; Sez. 1, n. 4937 del 19/12/2012, dep. 2013, Modafferi, Rv. 254915-01).
Parimenti, detta compatibilità è stata ritenuta anche con riferimento alle condotte di quei soggetti non formalmente affiliati (i c.d. avvicinati) i quali, senza aver ancora posto in essere condotte causalmente dirette a favore dell’associazione e pur non compartecipando ancora al patrimonio di conoscenze dell’organizzazione e non disponendo di alcun potere deliberativo, si mettono a disposizione del sodalizio mafioso per svolgere una sorta di apprendistato (Sez. 5, n. 1703 del 24/10/2013, dep. 2014, Sapienza, Rv. 258955-01, secondo cui l’attribuzione ad un soggetto della qualifica di “avvicinato“, in quanto espressiva dell’essersi la persona posta sostanzialmente a disposizione dell’associazione, assume, anche di per sé, il significato dell’esistenza di un ruolo associativo; nello stesso senso, Sez. 1, n. 9091 del 18/02/2010, Di Gati, Rv. 246493-01), così anticipando la celebrazione del rito dell’affiliazione.
L’orientamento sinora illustrato è stato oggetto di critiche da altra parte della giurisprudenza che ha evidenziato il concreto rischio che la fattispecie criminosa, così interpretata, si colleghi alla mera qualifica formale (o statica) di componente dell’associazione e, che in presenza della prova del solo ingresso cui non segua lo svolgimento di compiti espressivi del ruolo assunto, si finisca per determinare la medesima lesione dei principi di offensività e materialità imputata ai fautori della concezione psicologica.
E così, segnalano le SSUU, l’evidente arretramento della soglia di punibilità e il contestuale allontanamento dai sunnominati principi di materialità ed offensività ha indotto questo diverso indirizzo ad elaborare, sulla base di istanze più garantiste, una diversa ricostruzione tesa ad evidenziare l’insufficienza del compimento del solo rituale di affiliazione.
Nella consapevolezza dell’esigenza di distinguere e superare i ricorrenti fenomeni di sovrapposizione tra tipo legale e proiezione probatoria, si è riconosciuto che, se “il far parte” potrebbe implicare in via logica un accordo di ingresso, per la punibilità si rendono successivamente necessari specifici ulteriori indicatori di effettiva attivazione (in una qualsiasi forma) del soggetto formalmente entrato nel gruppo, a concreta dimostrazione dell’intraneità (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269040-01).
In tale ottica – precisa la Corte – si argomenta che, il “far parte” individua una condotta causalmente orientata capace di sostanziarsi in un contributo apprezzabile e concreto all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione; non assume il significato di mera condivisione psicologica del programma e delle metodiche, ma quello, più pregnante, della concreta assunzione di un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa; infine, non si trasforma nell’assunzione di uno status, non rilevando la posizione di aderente assunta, ma si caratterizza per il contributo arrecato al sodalizio da parte di chi è stabilmente incardinato nella struttura associativa con determinati, continui compiti anche per settori di competenza.
Nel pertinente sviluppo motivazionale, la sentenza “Pesce“, capofila di un orientamento che propende per la necessità di coniugare il modello organizzatorio/strutturale (o puro) con l’evoluzione funzionalistica, innestandone una caratterizzazione dinamica, riconosce che, mentre le condotte di promozione, direzione, organizzazione offrono già sul piano intrinseco un più elevato grado di tassatività descrittiva, la condotta partecipativa impone l’individuazione in concreto del comportamento o dei compiti assegnati o svolti dal partecipante.
In particolare, la sentenza argomenta che, per la punibilità dell’agente a titolo di partecipazione, si rende necessaria la verifica dimostrativa della ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo, l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, il «fattivo inserimento» nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione di un «ruolo» svolto dall’agente o, comunque, di singole condotte che, per la loro particolare capacità dimostrativa, possono essere ritenute quali «indici rivelatori» dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta «messa a disposizione» delle proprie energie, dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.
Pertanto, per integrare la condotta punibile, non è sufficiente un semplice accordo della volontà, ma si richiede un quid pluris che con esso deve saldarsi e che consiste nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti, oltre ad un minimum di contributo effettivo, ma causalmente apprezzabile apportato dal singolo per la realizzazione degli scopi dell’associazione.
Secondo altre decisioni che si collocano nella medesima prospettiva interpretativa, prosegue la Corte, l’inserimento prescinde da formalità o riti che lo ufficializzino, potendo risultare per facta concludentia, attraverso cioè un comportamento che sul piano sintomatico sottolinei la partecipazione alla vita dell’associazione (v. Sez. 1, n. 1470 del 11/12/2007, dep. 2008, Addante, Rv. 238839-01).
Da qui l’impossibilità di ritenere integrato il reato di partecipazione all’associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di intervenuta prova del mero accordo di ingresso cui non segua un qualsiasi indicatore di avvenuta attivazione del soggetto in attuazione dell’accordo medesimo (Sez. 5, n. 49793 del 05/06/2013, Spagnolo, Rv. 257826-01).
Qualora si reputasse la sufficienza del semplice riscontro dell’avvenuta celebrazione di un rituale di affiliazione, si finirebbe per reprimere l’accrescimento delle mere astratte “potenzialità operative” del gruppo criminoso e non l’ausilio effettivamente prestato al perseguimento dei relativi fini. Inoltre, si potrebbe compiere l’errore di una “sopravvalutazione” della condotta in tutte le ipotesi in cui i rituali si compiono solo per rispetto dei vincoli di parentela o di affinità di alcuni sodali, in ossequio a prassi familiari, senza che a tale formalismo venga simbolicamente accordato il valore di condivisione delle finalità e la reciproca volontà di attuazione.
Infine, lo stesso riferimento ad una “comunanza ideologica” tra i sodali ed il neo affiliato si pone in evidente antinomia con i suddetti canoni di materialità ed offensività del fatto tipico, per approdare ad indefinite logiche di incriminazione avversative di una semplice “volontà ribelle“, o di “tipo d’autore“, in aperta violazione anche dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza. Su questi presupposti, si afferma che, se da un lato, la qualità di “uomo d’onore“, sul piano storico ed esperienziale, tende ad implicare un’avvenuta attivazione in favore dell’organizzazione e, dunque, può esprimere – in senso probatorio – la concreta sintesi di un percorso associativo, non altrettanto può dirsi per “l’affiliazione” rituale: quest’ultima, infatti, dimostra esclusivamente un profilo statico di volontà di “far parte“, cui non necessariamente fa seguito l’effettiva assunzione di un ruolo in seno alla consorteria.
In questo caso, il riconoscimento della configurabilità del reato si fonderebbe su una massima di esperienza fallace, perché destinata a scontrarsi con una sostenibile ipotesi alternativa rappresentata dal fatto che, pur dopo l’accordo di ingresso, il soggetto può rimanere in realtà inattivo.
L’affiliazione pertanto, rappresenta ancora la Corte, quale mero indizio, deve necessariamente essere valutata, sulla base di comprovate massime d’esperienza, congiuntamente ad altri facta concludentia, in grado di fornire nel loro complesso la prova che taluno non solo sia formalmente entrato nell’associazione, ma si sia anche attivato, fornendo il proprio contributo, per attuarne il programma criminoso.
Tuttavia, anche nell’ambito di un simile indirizzo interpretativo si sono perpetuate ambiguità sul piano applicativo, come allorquando si afferma che il dato dell’investitura formale, non seguita da altri comportamenti materiali, potrebbe assumere tutt’altro significato probatorio, quando involge le posizioni di soggetti che, per il ruolo sociale o i compiti istituzionali che li connotano, costituiscano, già solo per il conferimento della qualifica, possibili o consapevoli strumenti di potenziamento dell’associazione (Sez. 6, n. 46070 del 21/07/2015, Alcaro, Rv. 265536-01): una lettura che, evidentemente, appare contraddittoria e che di fatto ripropone, seppure con riferimento alle sole posizioni più qualificate, quella logica presuntiva legata al possesso di uno status, censurata nelle stesse premesse.
L’acquisita consapevolezza dell’insufficienza dei due modelli proposti a fornire una nozione esaustiva e sufficientemente determinata della condotta di partecipazione, ha indotto un’ulteriore parte della giurisprudenza – riprende a questo punto la Corte – a configurare un modello intermedio o “misto” della partecipazione associativa in cui il profilo dello stabile inserimento dell’individuo nell’associazione si coniughi imprescindibilmente con un apporto causale anche minimo, ma attivo ed effettivo.
La più risalente teorizzazione del modello misto si legge in Sez. 4, n. 2040 del 27/08/1996, Brusca, Rv. 206319-01, secondo cui nell’assunzione della qualifica di “uomo d’onore” – significativa non già di una semplice adesione morale, ma di una formale affiliazione alla cosca mercé apposito rito – va ravvisata non soltanto l’accertata “appartenenza” alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo, specificamente contraddistinto, cui l’associato viene ad appartenere sotto il profilo della totale soggezione alle pertinenti regole ed ai relativi comandi, ma altresì la prova del contributo causale che, seppur mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece, nell’obbligo solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca accrescendo così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale anche mercé l’aumento numerico dei membri.
Successive pronunce della Suprema Corte hanno riaffermato il principio della sentenza “Brusca” (tra queste, Sez. 2, n. 5343 del 28/01/2000, Oliveri, Rv. 215908-01 e Sez. 6, n. 26119 del 09/05/2003, Cottone, Rv. 228303-01).
In particolare, la sentenza “Oliveri” riconosce come nell’assunzione della qualifica di “uomo d’onore” va ravvisata non soltanto l’appartenenza – tendenzialmente permanente e difficilmente revocabile – alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo con soggezione alle pertinenti regole e comandi, ma altresì la prova del contributo causale, che è immanente nell’obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento nel tessuto sociale anche mercé l’aumento numerico dei relativi membri.
Ha, inoltre, precisato che la condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere, per essere punibile, non può esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di aderire al sodalizio che si sia già formato, occorrendo invece la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa: contributo che, nel caso dell’associazione di tipo mafioso, può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all’associazione da parte del singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire, quale “uomo d’onore“, ai fini anzidetti.
Nell’ambito del modello c.d. misto, che risente delle tensioni tipiche delle logiche combinatorie, una parte della dottrina tende a valorizzare al massimo il profilo causale, osservando che un’adesione monosoggettiva non dà la prova della partecipazione e che occorre, oltre alla dimostrazione dell’inserimento organico, quella di un effettivo contributo, non necessariamente materiale, alla consorteria (c.d. modello misto forte).
Altri Autori, invece, esaltano il profilo organizzatorio: dimostrata l’affiliazione, è sufficiente sul piano causale un contributo minimo, anche episodico, pur potendosi paventare il rischio di creare una pericolosa sovrapposizione con il concorso esterno (c.d. modello misto debole).
In realtà, al netto di ogni disquisizione teorica, da siffatte premesse discende per il Collegio, in concreto, una sorta di semplificazione probatoria in favore dell’accusa, sollevata dall’onere di dimostrare l’efficacia causale della condotta dell’autore una volta provata la relativa affiliazione, realizzando questa, in conformità al modello organizzatorio puro, una partecipazione in sé penalmente rilevante.
Proprio per questo motivo, la dottrina maggioritaria non attribuisce un’autonoma consistenza al modello in parola, che viene criticamente ricondotto al modello organizzatorio.
Il modello c.d. misto è richiamato a livello argomentativo da talune decisioni più recenti che non ritengono sufficiente la mera affiliazione e richiedono la prova di condotte che offrano un contributo all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 7177 del 22/01/2021, Crea, non mass.; Sez. 5, n. 6882/2016, cit.).
In tale prospettiva, la sentenza “Oliveri” è evocata in motivazione da Sez. 2, n. 23687 del 03/05/2012, D’Ambrogio, Rv. 253222-01, per affermare che, non essendo necessario, alla stregua del modello c.d. misto, dimostrare l’efficacia causale del contributo del partecipe, non occorre neppure il coinvolgimento di quest’ultimo nelle attività esecutive.
Ulteriore espressione del modello c.d. misto – prosegue la Corte – si rinviene in Sez. 5, n. 27672/2019, cit., secondo cui se l’investitura della qualifica di “uomo d’onore” è di per sé indice rivelatore della partecipazione ad una delle mafie storiche, non vale tuttavia il contrario, nel senso che non occorre necessariamente l’investitura formale al fine di integrare la condotta punita dall’art. 416-bis cod. pen., poiché la permanente “disponibilità” al servizio dell’organizzazione mafiosa è indipendente dalla prova di una formale iniziazione.
Peraltro, riprende il Collegio, nemmeno il modello c.d. misto, nonostante le lodevoli premesse metodologiche ispiratrici, è stato risparmiato da critiche, essendosi evidenziato come una simile impostazione si sia spesso tradotta, sul versante applicativo, in un mero artificio retorico fondato su logiche presuntive e, assai spesso, in una surrettizia riproposizione del modello organizzatorio puro.
Infatti, nell’affermare che il contributo del partecipe può anche consistere nella mera dichiarata adesione all’organizzazione mafiosa dal momento che il soggetto, prestando la propria disponibilità ad agire per la cosca mafiosa, per ciò solo, ne accresce la potenzialità operativa e la capacità di penetrare nel tessuto sociale anche in ragione dell’accresciuto numero dei relativi membri, si finisce per ridurre la partecipazione ad uno status.
Sul piano probatorio, inoltre, non si richiede la verifica dell’attitudine del contributo ad accrescere in modo empiricamente verificabile la pericolosità dell’associazione, ma viene ritenuta sufficiente la prova del mero compimento di generici atti di militanza associativa che, in sé considerati, potrebbero essere del tutto carenti di una simile potenzialità.
Nessuna delle prospettive esegetiche del modello partecipativo è allora per la Corte integralmente condivisibile.
La teoria organizzatoria mostra tutti i propri limiti – chiosa il Collegio – nel momento in cui collega la fattispecie criminosa all’acquisizione della qualifica formale di associato, ritenendo sufficiente ai fini dell’integrazione del reato l’ingresso nel sodalizio e finendo per ritenere irrilevante l’attivazione o meno del partecipe a favore della consorteria. Ravvisare la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa anche allorquando sia stata fornita la dimostrazione che il soggetto, pur sottoposto al rito dell’affiliazione, non abbia mai posto in essere alcuna attività per conto o nell’interesse del sodalizio appare del tutto contrario ai principi di materialità ed offensività.
Occorre, infatti, che alla messa a disposizione si accompagni la concreta ed effettiva attitudine del nuovo adepto a svolgere i compiti allo stesso affidati, anche in un momento successivo al formale ingresso nel sodalizio, nonché di corrispondere ai desiderata dell’organizzazione di cui è venuto a far parte: solo in tal caso il dato formale accentra in sé quel connotato sostanziale di effettiva disponibilità che rende quella condotta pericolosa per il bene giuridico tutelato, accrescendo le potenzialità del sodalizio.
Ma anche la teoria causale – mette in guardi la Corte – rivela alcuni limiti.
La maggiore criticità involge necessariamente la riconosciuta teorica possibilità di sovrapposizione di due categorie dogmatiche (concorso esterno e partecipazione) del tutto autonome e con profonde caratterizzazioni differenziali.
Inoltre, la aprioristica svalutazione della condotta di “messa a disposizione” delle energie del singolo a favore del gruppo non tiene conto della possibile autonoma rilevanza probatoria del fatto in sé considerato alla stregua degli indicatori evidenziati dalla sentenza “Mannino“.
Infine, con riferimento al rilievo operato dalla sentenza “Pesce” in relazione al riconosciuto “effetto” di attivazione in favore dell’associazione conseguente all’acquisizione della «qualità di uomo d’onore», al pari della dimostrata progressione nelle “doti“, introducendo una conoscenza appartenente al piano storico ed esperienziale, finisce per elevare a massima d’esperienza generalizzata una specifica realtà processuale.
La principale critica all’orientamento intermedio si coagula invece, riprende il Collegio, sull’apparente carattere decisivo della causalità, in realtà di fatto inesistente, in quanto l’efficienza della condotta è assunta in re ipsa, per il solo fatto dell’ingresso nell’associazione.
Partendo da questi rilievi, il Collegio ritiene allora imprescindibile riprendere mantenendola ferma – la conclusione a cui sono giunte le Sezioni Unite “Mannino“, secondo cui va considerato partecipe dell’organizzazione criminale l’affiliato che “prende parte” attiva al fenomeno associativo. La partecipazione non si esaurisce né in una mera manifestazione di volontà unilaterale né in una affermazione di status: essa, al contrario, implica un’attivazione fattiva a favore della consorteria che attribuisca dinamicità, concretezza e riconoscibilità alla condotta che si sostanzia nel “prendere parte“.
L’opera di concretizzazione giurisprudenziale del significato della locuzione normativa “fa parte” di cui all’art. 416-bis, primo comma, cod. pen. non può pertanto lasciare spazio ad ipotesi di identificazione della condotta punibile che risultino del tutto svincolate dalla verifica di un contributo, anche in forme atipiche, ma effettivo, concreto e visibile reso dal partecipe alla vita dell’organizzazione criminosa: tale contributo, che può assumere carattere sia materiale che morale, ben potrà essere ricostruito anche in via indiziaria e ben potrà concretizzarsi solo in un momento successivo (allorquando l’affiliato darà concreto corso alla messa a disposizione) rispetto al formale ingresso nell’associazione.
Assume, quindi, assoluta decisività ai fini della valutazione di “appartenenza” ad un gruppo criminale avente le caratteristiche sin qui illustrate, la possibilità di attribuire al soggetto la realizzazione di un qualsivoglia “apporto concreto“, sia pur minimo, ma in ogni caso riconoscibile, alla vita dell’associazione, tale da far ritenere avvenuto il dato dell’inserimento attivo con carattere di stabilità e consapevolezza oggettiva.
Tale interpretazione – precisa la Corte – conferisce assoluta centralità alla dimensione probatoria, perché è solo sulla scorta delle evidenze disponibili che sarà possibile valutare se, per le caratteristiche assunte dal caso concreto, la compenetrazione nel tessuto criminale abbia generato o meno un’effettiva “messa a disposizione“. In realtà, l’errore concettuale in cui sono incorse molte pronunce è stato quello di includere quali elementi del fatto tipico gli indicatori di intraneità individuati dalla sentenza “Mannino” in via meramente esemplificativa, rilevanti esclusivamente nella dimensione probatoria nel rispetto del principio di legalità formale.
Se il presupposto che “lega” l’adepto alla consorteria è il relativo stabile inserimento nella stessa, è innegabile come questo vincolo possa realizzarsi o in modo formale, attraverso i classici rituali di adesione e con la comprovata “messa a disposizione” ovvero, in concreto, con il compimento di azioni, preventivamente assegnate, teleologicamente orientate alla realizzazione degli scopi associativi.
La stabilità del rapporto singolo-consorteria si comprova, di regola, attraverso la fidelizzazione dei comportamenti, il rispetto delle gerarchie e delle regole e il puntuale adempimento degli ordini ricevuti dal gruppo di appartenenza. Tuttavia, mentre il compimento di attività causalmente orientate a favore dell’associazione non richiede altri indici probatori in ragione della loro indubbia autoevidenza (in questo caso, l’organicità del singolo può trarsi dalla mera reiterazione di condotte che, sebbene di semplice tenore esecutivo, siano però teleologicamente rivolte al perseguimento degli obiettivi dell’associazione, finendo per assumere una inequivoca significazione), l’adesione al sodalizio in forme rituali impone la ricerca di ulteriori elementi che possono comprovare l’effettiva e stabile intraneità e rendere certa e potenzialmente duratura la “messa a disposizione” del soggetto.
Come rilevato dalla dottrina, non potendosi considerare la “messa a disposizione“, al pari delle condotte di conservazione e di potenziale rafforzamento dell’associazione, un “evento” oggettivamente rilevabile alla luce della pertinente, innegabile connotazione di immaterialità, ai fini della relativa valutazione non potrà utilizzarsi il “parametro” della causalità e si dovrà invece ricorrere a quello della “rilevanza” in concreto.
In tal senso, nell’irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria, potranno venire in rilievo, oltre all’accertamento della comprovata mafiosità del gruppo associante, la “qualità” dell’adesione ed il tipo di percorso che l’ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando, la “serietà” del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all’accertamento dei “poteri” di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti, la tipologia del reciproco impegno preso, la misura della disponibilità pretesa e/o offerta ed ogni altro elemento di fatto che, sulla base di tutte le fonti di prova utilizzabili e di comprovate massime di esperienza, costituisca circostanza concreta, capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa: gli indici rivelatori del fatto punibile devono essere tratti da elementi oggettivi e soggettivi di contesto, capaci di fungere da criterio metodologico di verifica processuale, da calibrare caso per caso, in ragione della situazione concretamente considerata.
Ed è in questo contesto che assume specifico rilievo il tema dell’affiliazione rituale all’associazione mafiosa.
Al riguardo, precisa la Corte, occorre premettere che, se deve ritenersi indubbio che il giuramento di mafia – nel relativo formalismo preceduto da liturgie scandite da formule e gesti rituali che conferiscono sacralità alla procedura di iniziazione dei nuovi adepti – assume un rilievo denso di significati probatori proprio in conseguenza del valore drammaticamente vincolante che si origina da quel gesto simbolico, è pure vero che all’iniziale giuramento può non seguire l’effettiva assunzione di quel ruolo assegnato o promesso dall’affiliante e, quindi, mancare non solo una concreta attivazione del soggetto a favore del gruppo, ma anche la “messa a disposizione” a favore del sodalizio: l’incriminazione del fatto iniziale, non accompagnato da altri indici rivelatori della stabile adesione, significa inevitabilmente punire una mera potenzialità operativa del soggetto, in aperto contrasto con la logica di effettività e proporzione che deve regolare il rapporto tra reato e sanzione.
Si rende così evidente l’impropria dilatazione del concetto di partecipazione, sganciata da ogni condotta materiale riferibile all’interessato che viene ricostruita, in ragione della prevalenza accordata a preoccupazioni di tipo preventivo-repressivo, sulla base della relativa, mera appartenenza alla tipologia “dell’autore mafioso“.
Quindi, la disponibilità conclamata resa con il prestato giuramento di mafia, che può rendere ipotizzabile il contributo partecipativo del soggetto, può essere probatoriamente contraddetta in presenza di condotte del soggetto dettate da scelte volontarie (disobbedienza, allontanamento fisico, disinteresse) o da oggettive circostanze di segno contrario o fortemente equivoche, tali da contrastare con l’impegno preso di messa a disposizione e far escludere a priori o far ritenere venuta meno la volontà dello stesso di contribuire alla vita dell’associazione.
Il rituale di affiliazione si può presentare in varie forme e la propria caratterizzazione è strettamente dipendente dal contesto (storico, sociale, culturale) in cui lo stesso si manifesta: questa circostanza comprova, di per sé, la necessità di legare il paradigma interpretativo in termini di idoneità probatori.
Ciò posto, non vi è dubbio che al fine di ritenere dimostrato o meno l’effetto – che è, e resta, lo stabile inserimento del partecipe nel consorzio criminoso – il rituale di affiliazione si alimenta necessariamente di dati cognitivi che sono, per forza di cose, indiziari rispetto alla rappresentazione di ciò che la norma richiede.
Il giudizio deve necessariamente consentire la comprensione di «fatti» che possono – o meno – risultare indicativi dell’avvenuto inserimento, in modo stabile, del soggetto in questione all’interno del gruppo, attraverso la obbligatoria mediazione intellettuale tra fatto emerso e fatto tipico, realizzata tramite l’applicazione di consolidate massime di esperienza. E, la chiave ermeneutica fornita dalle massime d’esperienza, quali generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, tratte con procedimento induttivo dall’esperienza comune e fondate su ripetute osservazioni e conoscenze acquisite, assume una notevole rilevanza a fini interpretativi.
L’utilità della conoscenza esperienziale delle dinamiche e della struttura delle associazioni mafiose trova conforto nel fatto che la stessa fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen. è stata “costruita” dalla legge n. 646 del 1982 proprio facendo ricorso all’acquisizione di dati cognitivi delle modalità di funzionamento delle mafie, prima fra tutte quella denominata “Cosa Nostra“.
Tali paradigmi esperienziali si fondano in gran parte su una matrice “giudiziaria“, essendo stati i dati di conoscenza circa la struttura ed il funzionamento di tali associazioni ricavati dai processi che ne hanno svelato le dinamiche, spesso anche attraverso il fondamentale contributo proveniente dai collaboratori di giustizia. In particolare, l’imponente serie di vicende processuali che si è susseguita negli anni ha consentito di individuare come dato esperienziale quello che descrive le mafie storiche come associazioni stabili, orientate non all’esecuzione di un programma criminoso “a termine“, bensì al perseguimento di un più ampio e temporalmente indefinito obiettivo antisociale, l’adesione al quale comporta per l’affiliato un vincolo di fedeltà tendenzialmente permanente, di regola rescindibile solo attraverso una esplicita dissociazione, ordinariamente conseguente alla scelta di collaborare con l’autorità giudiziaria.
Nella prassi giudiziaria le massime di esperienza sono state impiegate, per esempio, nella valutazione della responsabilità dei capi mandamento, dei componenti della “cupola” o della “commissione provinciale” di “cosa nostra“, relativamente ai c.d. omicidi “eccellenti” (cfr., Sez. 5, n. 18845 del 30/05/2002, dep. 2003, Aglieri, Rv. 226423-01; Sez. 5, n. 22897 del 27/04/2001, Riina, Rv. 219435-01; Sez. 6, n. 4070 del 19/12/1997, dep. 1998, Greco, Rv. 210209-01; Sez. 6, n. 1758 del 02/05/1995, Madonia, Rv. 201829-01; Sez. 1, n. 3584 del 14/07/1994, Buscemi, Rv. 199305-01) ovvero per assegnare rilevanza probatoria all’attribuzione della qualifica di “uomo d’onore” (cfr., Sez. 2, n. 5343/2000, cit.; Sez. 5, n. 4478 del 23/10/1996, Maglie, Rv. 206549-01; Sez. 1, n. 5466 del 18/04/1995, Farinella, Rv. 201649-01; Sez. 1, n. 4148 del 30/09/1994, Di Martino, Rv. 199943-01).
In passato, rammenta la Corte, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è dimostrata favorevole al ricorso a dati di conoscenza esperienziali, sul presupposto che la mafia è dotata di una precisa identità sociologica (cfr., Sez. 1, n. 80 del 30/01/1992, Abbate, non mass.; Sez. 1, n. 7838 del 25/03/1982, De Stefano, non mass.; Sez. 1, n. 162 del 24/01/1977, Condelli, Rv. 135978-01); a tale apertura si era contrapposto, in epoca altrettanto risalente, un orientamento che considerava arbitraria l’enunciazione di criteri generali e di massime di esperienza per la ricostruzione dei fenomeni mafiosi, le cui dinamiche comportamentali in molti casi apparivano ancora come sconosciute (cfr., Sez. 1, n. 10477 del 29/05/1989, 011io, Rv. 181886-01; Sez. 6, n. 1760 del 16/12/1985, dep. 1986, Spatola, Rv. 171998-01).
In tempi più recenti, la giurisprudenza di legittimità ha invece nuovamente riconosciuto piena validità all’utilizzo delle massime di esperienza quali strumenti di interpretazione dei risultati probatori nell’interpretazione delle condotte riconducibili alle mafie storiche, con un costante invito al prudente apprezzamento e alla rigida osservanza del dovere di motivazione da parte del giudice: particolare cautela imposta sia dalla presenza di comportamenti di dubbia o equivoca significanza sia dall’assenza di leggi di copertura su cui poggiare il giudizio di rilevanza causale.
Infatti, congiungere un fatto ad un altro secondo una logica sequenziale informata alla logica della verosimiglianza e fissata dal criterio dell’id quod plerumque accidit non fornisce mai la certezza, bensì la mera probabilità che ad una determinata condotta segua un determinato evento. Invero, solo la verifica dell’applicabilità della regola prescelta al caso concreto consente, in definitiva, la sostituzione dell’id quod semper necesse all‘id quod plerumque accidit, criterio che – unico – permette di raggiungere l’alto grado di probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata permettendo il superamento del dubbio ragionevole (Sez. 1, n. 84 del 05/01/1999, Cabib, Rv. 212579-01, nella quale si afferma che la valutazione del giudice non deve uniformarsi a teoremi ed astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio dell’effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza e deve, soprattutto, stabilire la piena rispondenza alle specifiche e peculiari risultanze probatorie che, sul piano giudiziario, rappresentano l’imprescindibile e determinante strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata; nello stesso sostanziale senso, cfr., Sez. 5, n. 47574 del 07/10/2016, Falco, Rv. 268403-01; Sez. 2, n. 21102 del 09/06/2006, Sessa, Rv. 234665-01). 12.3.
Diverse sono le “variabili” capaci di sovvertire l’interpretazione ricavabile dalla massima d’esperienza o d’imporre possibili letture dubitative o alternative.
Si allude, principalmente, a quei contesti ambientali permeati da compagini primariamente composte da soggetti legati da vincoli di affinità e di parentela, laddove il conferimento formale della qualifica di affiliato conseguente al giuramento di mafia potrebbe assumere un significato equivoco, più coerente ad automatismi sociali e familiari che indice, immediato ed autosufficiente, della effettiva intraneità (Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, Catalano, non mass.) e, come tale, inidoneo a costituire quella base indiziaria su cui “costruire” la valutazione della condotta partecipativa punibile.
Così come, al contrario, in presenza di rapporti di parentela tra i presunti partecipanti ad una associazione per delinquere di tipo mafioso, deve escludersi l’idoneità di semplici relazioni di parentela o di affinità a costituire, di per sé, prova od anche soltanto indizio dell’appartenenza di taluno all’associazione (Sez. 2, n. 19177 del 15/03/2013, Vallelonga, Rv. 255828-01, nella quale, tuttavia, si precisa che, ai fini dell’adozione di misure cautelari, una volta accertata, da un lato, la probabile esistenza di un’organizzazione delinquenziale a base familiare e, dall’altro, una non occasionale attività criminosa di singoli esponenti della stessa famiglia – intesa in senso lato – alla quale fa capo l’organizzazione stessa, nel medesimo campo nel quale questa opera, può essere considerato come non privo di valore indiziante, in ordine alla partecipazione dei suindicati soggetti al sodalizio criminoso, anche il fatto che vi siano legami di parentela o affinità fra essi e coloro che in quel sodalizio occupano posizioni di vertice o, comunque, di rilievo).
Situazioni del genere rendono sempre più evidente la necessità di stabilire non solo una “correlazione” tra affiliato e struttura di riferimento affiliante, con precisa individuazione dell’ambito territoriale di azione e competenza di quest’ultima, ma anche una “storicizzazione” dell’evento di affiliazione, in modo che, in aderenza alla contestazione, possa definirsi l’epoca di inizio e la concreta durata della partecipazione.
L’ineludibile necessità della prova della correlazione tra affiliato ed associazione – chiarisce ormai la Corte – si rivela con riferimento al significato da attribuire al possesso della “dote“.
Invero, premesso che l’individuazione della c.d. “dote di ‘ndrangheta“, concernente lo “status” di un affiliato ad una consorteria ‘ndranghetista, costituisce una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito (Sez. 1, n. 35775 del 20/11/2020, Novello, Rv. 280094-01), non è possibile ritenere che il possesso di una “dote” equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al relativo protrarsi nel tempo: scorciatoie probatorie che facciano leva su ragionamenti meramente presuntivi e deduttivi non possono certo essere utilizzati allo scopo (cfr., Sez. 6, n. 16543 del 19/01/2021, Barbaro, Rv. 281054-01).
Di assoluta affinità è il tema dello standard probatorio necessario per poter ritenere dimostrata l’avvenuta affiliazione di un soggetto, con particolare rilievo alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che indichino taluno come “uomo d’onore“.
Invero, senza ulteriori precisazioni sui tempi e i modi dell’affiliazione riferiti da chi non ha nemmeno conoscenza personale del fatto, si deve ritenere che la semplice dichiarazione non possa, di per sé, esaurire il tema della gravità indiziaria: da qui la necessità che la chiamata in reità o in correità sia accompagnata dall’offerta di elementi di fatto che ne fondino la logica attendibilità (cfr., Sez. 1, n. 3991 del 27/09/1994, Messina, Rv. 199461-01; nello stesso senso, Sez. 1, n. 63 del 16/01/1989, Gullo, in motivazione; Sez. 1, n. 2205 del 17/10/1988, Tedesco, Rv. 179720-01).
Maggiori oscillazioni si rilevano in giurisprudenza con riferimento ai riscontri richiesti: infatti, in alcuni casi si pretende l’individuazione del ruolo svolto dall’indagato o l’attività tenuta nell’ambito del sodalizio (cfr., Sez. 4, n. 2664 del 05/11/1996, Tedesco, Rv. 206615-01; Sez. 1, n. 4038 del 28/09/1994, Mazzara, Rv. 199946-01), mentre, in altri casi, ci si accontenta della ricostruzione della rete dei rapporti personali, dei contatti, delle cointeressenze e delle frequentazioni, ai fini della dimostrazione della affectio societatis (cfr., Sez. 6, n. 5998 del 04/12/1997, dep. 1998, Biondino, Rv. 210992-01; Sez. 1, n. 5466/1995, cit.).
A parere del Collegio, l’attribuzione ad un soggetto della qualità di “uomo d’onore” da parte di un collaboratore di giustizia che, nei confronti di detto soggetto, si limiti a riferire solo dell’esistenza (essendo questo l’oggetto limitato della propria conoscenza) di detta qualità, assume il valore di una “notitia criminis“.
Ne consegue che, affinché la stessa possa assurgere a dignità di indizio grave alla stregua dei criteri fissati dall’art. 192 cod. proc. pen., si rende necessaria l’acquisizione di altri elementi probatori – di qualunque natura – finalizzati a comprovarne fondatezza e logica attendibilità e che siano innanzitutto in grado di “storicizzare” l’informazione, consentendo di verificare la pertinente collocazione in un contesto di spazio e di tempo definito: a tal fine, tuttavia, non può ritenersi sufficiente, sotto il profilo probatorio, il mero accertamento della veridicità oggettiva della propalazione, dovendosi estendere l’indagine al significato dell’espressione per poterne verificare l’intrinseca serietà.
Fermo quanto precede, appare tuttavia indubitabile – prosegue la Corte – che, fuori dai casi di intraneità confessata, diversi saranno gli statuti probatori applicabili, a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure riveli quanto accaduto in relativa presenza perché: a) ha preso parte alla cerimonia; b) il soggetto gli è stato presentato come “uomo d’onore“; c) è entrato in contatto con soggetto che si è rapportato a lui come “uomo d’onore“.
La condotta di partecipazione punibile – chiarisce il Collegio – potrà dirsi provata quando la “messa a disposizione” assuma i caratteri della serietà e della continuità attraverso comportamenti di fatto – precedenti e/o successivi al rituale di affiliazione – non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell’associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l’adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di “irrevocabilità” (intesa, nel senso di una stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura.
A queste condizioni, la “messa a disposizione” non solo costituisce l’effetto dell’ammissione al gruppo, ma indica un comportamento oggettivo e non solo intenzionale, attuale e non meramente ipotetico che finisce così per concretizzare e rendere riconoscibile il profilo dinamico della partecipazione, non potendo questo effetto condizionarsi in negativo e legarsi esclusivamente alla successiva – e, a volte, solo eventuale – “chiamata” per l’esecuzione di un incarico specifico, essendo l’adepto già inglobato nel gruppo e pronto per le necessità attuali o future della consorteria.
Inoltre, la stessa nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, incriminando «il comportamento di una persona che […] partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonché qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione» (art. 2), finisce per orientare l’interpretazione del dato normativo interno.
Peraltro, le stesse ricadute del principio di proporzionalità tra reato e sanzione, portando necessariamente a ritenere come doverosa la connotazione della condotta partecipativa in senso dinamico, impedisce decisamente scorciatoie interpretative correlate alla avvenuta dimostrazione del mero accordo di ingresso ovvero alla presenza di condizioni soggettive cui non si accompagni, in virtù della valenza dei dati di contesto quali interpretabili alla luce delle massime d’esperienza, un concreto connotato di effettiva agevolazione.
Il comportamento – di volta in volta – elevato ad “indice rivelatore” del fatto punibile deve, pertanto, essere apprezzato nella pertinente, oggettiva e concreta realtà e, in ogni caso, deve essere teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi univocamente riconoscere ed interpretare come condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo.
Del resto, chiosa ancora la Corte, va evidenziato come il legislatore, laddove ha ritenuto di dover incriminare il mero reclutamento, ha introdotto una previsione incriminatrice ad hoc (è il caso della previsione introdotta dal d.l. n. 7 del 18 febbraio 2015 in tema di terrorismo, con ulteriore novellazione dell’art. 270-quater cod. pen.): il che ulteriormente evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnato da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé ricompreso nella nozione tipica di partecipazione.
Nel compiere questa indagine ricostruttiva finalizzata a superare il dato, potenzialmente equivoco, della semplice adesione statica collocata in un determinato momento temporale ed avulsa da ogni ulteriore elemento storico-fattuale che dimostri la concreta attivazione del singolo a favore del sodalizio, il giudice, prescindendo da un’acritica adesione formale ad un certo modello ricostruttivo astratto, dovrà avere riguardo alla realtà criminale (anche esterna rispetto allo specifico contesto di riferimento, se ciò si rende necessario al fine di un confronto) ed al materiale probatorio acquisito ed utilizzabile: in tal modo, conseguirà quegli elementi di prova comprovanti l’appartenenza sostanziale e la conseguente permanenza di condotta che il reato richiede per la relativa configurabilità.
Sulla base di quanto sin qui esposto, è allora possibile per la Corte enunciare i pertinenti principi di diritto:
- a) la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi;
- b) nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione.
Passando alla trattazione dei motivi di ricorso, il Collegio ritiene a questo punto di dover anticipare la decisione del secondo motivo rispetto al primo a ragione dell’evidente propedeuticità della pertinente questione.
Con lo stesso viene sindacata l’interpretazione delle captazioni e la loro valenza probatoria atteso il loro contenuto indiretto. Il motivo per la Corte è tuttavia infondato.
Preliminarmente occorre richiamare il costante orientamento giurisprudenziale in base al quale, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, i contenuti informativi provenienti da intercettazioni di conversazioni tra soggetti intranei all’associazione, relativi a fatti direttamente attinenti a settori vitali della cosca (quali sono certamente i temi affrontati nella fattispecie dai conversanti), sono utilizzabili in modo diretto e non come mere dichiarazioni “de relato” soggette a verifica di attendibilità della fonte primaria, perché espressione di un patrimonio conoscitivo condiviso derivante dalla circolazione all’interno del sodalizio di informazioni e notizie relative a fatti di interesse comune agli associati (Sez. 2, n. 10366 del 06/03/2020, Muià, Rv. 278590-02; sulla natura di fonte di prova diretta degli elementi raccolti nel corso delle intercettazioni, v. Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, Acampa, Rv. 278611- 02; Sez. 5, n. 40061 del 12/07/2019, Valorosi, Rv. 278314-01; Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 268414-01; Sez. 5, n. 42981 del 28/06/2016, Modica, Rv. 268042-01; Sez. 6, n. 8211 del 11/02/2016, Ferrante, Rv. 266509- 01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260842-01; Sez. 4, n. 22391 del 02/04/2003, Qehalliu, Rv. 224962-01).
Nella fattispecie, l’ordinanza impugnata ha per la Corte dato puntuale conto del significato attribuito alle conversazioni captate, nonché del giudizio di genuinità e affidabilità delle affermazioni ivi contenute, provenienti da persone ignare di essere ascoltate e ricoprenti ruoli di spicco nell’organizzazione mafiosa di riferimento, a diretta e qualificata conoscenza delle relative vicende e delle dinamiche conflittuali interne.
Sul punto, occorre per il Collegio ricordare che i contenuti etero-accusatori delle dichiarazioni registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzate hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretati e valutati, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714-01).
La spontaneità che ordinariamente connota il libero scambio di informazioni tra soggetti che confidano nella segretezza della conversazione esclude, infatti, qualsiasi equiparabilità con le dichiarazioni accusatorie rilasciate in sede di interrogatorio, nella piena consapevolezza (anche formale, alla stregua degli avvisi che devono essere rivolti al dichiarante prima dell’incombente) – in questo secondo caso – della loro utilizzabilità processuale a carico dei soggetti chiamati in correità o in reità (cfr., Sez. 6 n. 25806 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259673-01 che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per preteso contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l’art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, rese nell’ambito di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, e nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni qualora il soggetto, indicato quale fonte informativa nella conversazione intercettata, si avvalga poi della facoltà di non rispondere, ha escluso la possibilità di equiparare, ai fini predetti, il chiamante in reità o correità – ovvero un soggetto che, nel rendere dichiarazioni accusatorie nel corso di un interrogatorio, può essere mosso da intenti calunniatori od opportunistici – al conversante, il quale è animato dalla volontà di scambiare liberamente opinioni con il proprio interlocutore salvo che non risulti accertata l’intenzione dei loquenti, nella consapevolezza dell’intercettazione in corso, di far conoscere all’autorità giudiziaria informazioni finalizzate ad accusare taluno di un reato).
A conclusioni diverse deve invece pervenirsi – per la Corte – con riferimento al primo motivo. Invero, facendo applicazione dei principi precedentemente esposti, il Collegio osserva che le valutazioni operate dal Tribunale del riesame sono da ritenere allo stato non condivisibili a ragione della loro incompletezza il provvedimento impugnato incorrendo in un’evidente contraddizione.
Per un verso, infatti, esso ha riconosciuto l’esistenza di un contesto associativo-mafioso caratterizzato da affiliazioni avvenute in violazione di regole o di non meglio precisate “promesse” da parte di soggetti la cui legittimazione formale non appare sufficientemente certa o, comunque, non precedute dalla preventiva approvazione degli unici apparentemente titolati a compierle o addirittura connotate da “dimenticanze” e possibili errori nell’individuazione dei prescelti da parte degli officianti clandestini, con conseguenti conflittualità, accertamenti chiarificatori e minacce di possibili vendette solo in parte ritirate a seguito di promesse di affiliazioni future ad evidente contenuto “riparatorio“.
Per altro verso, ha ritenuto che gli elementi di contesto rendessero certo e valido il riferito rituale di affiliazione compiuto a favore dei due ricorrenti ed indubitabile, quale conseguenza diretta ed immediata del formale ingresso nella consorteria, la “messa a disposizione” dei due fratelli M..
In realtà, in una situazione del genere, ove gli oggetti delle captazioni e le discussioni finalizzate ad accertare le “colpe” di quanto successo s’incentrano quasi esclusivamente non tanto sulle figure dei pretesi affiliati e sulle circostanze di tempo, di modo e di luogo della loro affiliazione rituale quanto su quella del soggetto non affiliato e vedono uno degli interlocutori chiedere insistentemente spiegazioni su quanto “non avvenuto” piuttosto che su quanto “avvenuto“, sono quantomeno dubbie sia la serietà che la stessa effettività delle ritenute affiliazioni.
Inoltre, è rimasto del tutto inesplorato il profilo relativo alle attività eventualmente svolte dai due ricorrenti in favore del sodalizio criminale di ritenuta appartenenza, essendo stato raccolto come unico dato oggettivo quello del loro successivo allontanamento dal territorio per cause del tutto sconosciute.
Al disposto annullamento – conclude la Corte – consegue il delicato compito affidato al giudice di rinvio di individuare se, in ossequio ai principi sopra esposti e alla luce di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi di contesto verificabili, l’affiliazione dei ricorrenti al sodalizio di riferimento sia intervenuta in una situazione che possa far ritenere quella formalizzazione integrante una stabile, affidabile e tendenzialmente duratura “messa a disposizione” degli stessi a favore dell’associazione, oggetto di un patto reciprocamente vincolante capace di integrare la condotta partecipativa punibile a norma dell’art. 416-bis, primo comma, cod. pen. nel senso in precedenza indicato
Questioni intriganti
Da cosa occorre muovere concettualmente e storicamente per meglio afferrare il principio di c.d. “materialità” del reato?
- “materiale” è aggettivo normalmente giustapposto a “ideale” (o “spirituale”);
- per meglio intendere in che senso il reato deve dunque essere “materiale”, occorre muovere dalla stessa nozione di reato, e dai metodi attraverso i quali esso, come fatto-inadempimento criminoso, va individuato;
- in sostanza, si tratta di indagare quali requisiti devono sussistere affinché uno specifico comportamento dell’uomo possa essere qualificato come fatto inadempimento “reato”, questione all’interno della quale si inserisce lo stesso concetto di “materialità” del reato medesimo;
- è noto come la collettività, il consorzio umano, tenda ad assumere come riprovevoli e, dunque, meritevoli di sanzione tutta una congerie di condotte; ciò per i motivi più disparati, ed anche in modo distaccato rispetto a quelle che sono le valutazioni del Legislatore penale;
- detto altrimenti, si configurano una serie di fatti che non hanno necessità di essere assunti “formalmente” riprovevoli dalla legge, presentando un disvalore intrinseco immediatamente percepibile da tutti e, in particolare, dal giudice: si tratta dei c.d. naturalia delicta, ovvero quei fatti-inadempimento-reato che sono tali già solo per “diritto naturale”;
- si tratta di concezioni filosofiche o di modelli di pensiero che fanno i conti con le esigenze di certezza del diritto penale; ciò non toglie, nondimeno, come la Legge penale non possa trascurare il disvalore che affiora, in qualche modo “in re ipsa”, da determinati contegni dell’uomo;
- ecco allora che si giustappongono, talvolta con caratteri non proprio conciliabili: g.1) una nozione formale di reato: solo una condotta descritta in modo compiuto dal Legislatore penale, nell’atto stesso in cui provvede a vietarla sanzionandola con una pena, può dirsi “fatto inadempimento reato”, senza che valutazioni di altro genere (antropologico, morale, sociologicio, e così via) possano all’uopo interagire, dovendosi garantire l’imprescindibile certezza del diritto in generale, e del diritto penale in particolare; g.2) una nozione sostanziale di reato: la condotta criminosa, il fatto inadempimento reato, non può consistere in un puro e formale fatto di creazione legislativa, dovendosi piuttosto atteggiare anche a consapevole epifania – in ottica di repressione – del comune sentimento umano e sociale, che per tale condotta non potrebbe che prevedere, per l’appunto, una sanzione;
- non è mancato chi ha proposto una qualche sintesi delle due diverse concezioni del reato, collocando in posizione “servente” la nozione sostanziale di reato, funzionale alla sola segnalazione dei fatti che dovrebbero essere puniti, formalmente, dal Legislatore penale; da questo punto di vista, dinanzi alle condotte concretamente punite dalla Legge penale, il sociologo può porsi in una posizione di consenso ovvero di dissenso, invocando in quest’ultimo caso una riforma delle fattispecie vigenti, con indicazione delle eventuali condotte non punite che, all’opposto, meriterebbero una sanzione; da questo punto di vista, il diritto penale resta solo quello formalmente scolpito dal Legislatore e tuttavia, in ottica di potenziale riforma del sistema punitivo, la politica criminale può servirsi – de iure condendo e in ottica sostanziale – della c.d. sociologia criminale;
- il fatto che il reato debba presentare, oltre alla nuda veste formale e legislativa, delle caratteristiche (anche) sostanziali è stato più volte ribadito da parte autorevole della dottrina penalistica, discorrendosi di offesa o messa in grave pericolo dell’esistenza e della stessa conservazione della società, di grave offesa all’ordine etico-sociale, di frizione con i sentimenti altruistici “medi” di probità e pietà, e così via; a ciò si è tuttavia contrapposta, in senso critico, l’approssimazione e l’evanescenza di un simile approccio, con avvinta sterilità delle pertinenti indagini, dacché – piuttosto che partire da una concezione sociologica del reato, con l’obiettivo di ricercare e trovare le “costanti” di quei comportamenti sostanziali che poi formalmente divengono reato – si muove per lo più, osservando ciascun precetto, da valutazioni che il Legislatore penale ha già operato, nel tentativo di fornirne una spiegazione ma così finendo col confondere gli (imprescindibili) elementi formali di partenza con quelli, sostanziali e sociologici, di approdo, con conseguente ricerca orientata all’individuazione dei motivi – come noto, plurimi e variegati – che inducono il Legislatore penale ridetto a criminalizzare determinate condotte (e dunque alla ricerca dei motivi che sottendono la politica legislativa criminale);
- la concezione “formale” del reato svolge, del resto, una funzione sostanzialmente garantista, che va a braccetto – al medesimo fine – con la concezione “analitica” del reato medesimo, per individuare il quale occorre riscontrare tutti gli elementi costitutivi per esso previsti, per l’appunto “formalmente”, dalla Legge; ciò anche allo scopo di arginare pericolose derive “sostanzialiste”, siccome affioranti dalla storia;
- per comprendere il senso di tali derive, occorre muovere dal pensiero giuridico liberale tardo-ottocentesco, tutto teso ad elaborare una teoria generale e onnicomprensiva del fatto inadempimento reato: attraverso un processo di generalizzazione ed astrazione concettuale, si tende ad unificare gli elementi comuni alle diverse tipologie delittuose seguendo un trend che viene via via criticato, da un lato, per l’eccessiva generalizzazione che lo contraddistingue e, dall’altro, specularmente (e paradossalmente), per l’eccessiva frammentazione “formale” dei fenomeni criminosi sulla base di categorie concettuali teoricamente magari anche convincenti, ma inconciliabili con le esigenze della pratica e, più in specie, del processo penale;
- proprio queste controindicazioni “pratiche” conducono via via al ripudio dell’approccio formale ed analitico con successivo approdo – anche sotto la spinta del c.d. “irrazionalismo filosofico” – alla (pericolosissima) concezione “unitaria” del reato, stando alla quale (con sotteso il c.d. intuizionismo) l’analisi “per concetti” finisce col “sezionare” l’essenza stessa del fenomeno criminoso in particelle “immobili”, impedendo di coglierne il fenomeno nella pertinente, globale e concreta individualità: è piuttosto solo attraverso il procedimento “intuitivo” che viene assunto possibile “attingere l’essenza del reato”, e dunque “sentire” il reato in ogni pertinente elemento, sì da avvertire per converso – muovendo appunto da ogni singolo elemento – “tutto” il reato; è in questo modo che nella Germania nazionalsocialista il principio di legalità viene del tutto soppiantato attraverso una definizione del reato che vede nelle “concezioni di fondo della legge penale” e nel “sano sentimento popolare” gli strumenti principali per valutare la meritevolezza di pena di determinati comportamenti; analogamente, in area socialista sono i “fini perseguiti dallo Stato” e i “superiori interessi del popolo” a guidare il giudice – non già più il Legislatore – nella interpretazione del fatto “presunto criminoso” al fine di indagarne l’effettiva antisocialità ed alfine punirlo, attraverso il sostanziale ripudio del concetto di “tipizzazione” dell’illecito penale; si assiste dunque ad una evoluzione autoritaria dei sistemi giuridici in generale e penalistici in particolare, quale forma di reazione al c.d. “concettualismo formalistico”;
- con riguardo all’Italia, la posizione degli studiosi si profila più moderata: non viene negata cittadinanza al metodo formale ed analitico – con scandaglio dei singoli elementi che compongono il fatto inadempimento reato – ma, ad un tempo, ci si volge alla elaborazione di una teoria unitaria del reato medesimo, siccome fondata (anche) su basi sostanziali; ne è un chiaro esempio il codice penale Rocco del 1930, tutto imperniato sul (garantistico e “formale”) principio di legalità e, ad un tempo, caratterizzato da una Parte Generale indirizzata verso la costruzione proprio di una teoria, per quanto possibile, “unitaria” del fatto criminoso. Al di là delle apparenze, in Italia è proprio il principio di legalità difatti a confortare un regime che “fa la legge” e che dunque ha l’appannaggio esclusivo nel forgiare le fattispecie di reato e nel prevedere la conseguente pena, senza tuttavia dover ripudiare in toto una teoria generale del reato fondata (anche) sul c.d. indirizzo tecnico giuridico, a carattere più formale ed analitico; viene così data la stura ad un operazione che dal particolare (le singole fattispecie incriminatrici siccome forgiate dal Legislatore) “sale” verso il generale (il reato generalmente inteso, come fatto strutturalmente concepito in un dato modo e con determinati, uniformi connotati);
- il tutto finisce tuttavia col fare i conti, a partire dal 1948, con la Costituzione repubblicana, a carattere “rigido” e capace, come tale, di condizionare la stessa definizione dell’illecito penale in sede di normativa primaria, limitando ed insieme indirizzando l’opera del Legislatore delle pene; ciò produce riflussi anche sulla stessa concezione “sostanziale” del reato (globalmente inteso), che deve essere in linea con le norme di legge (principio di legalità) ma, più ancora, con la stessa Costituzione, quale fatto lesivo di un interesse costituzionalmente rilevante che diviene il punto di riferimento ultimo dell’irrogabilità, già in via astratta, della sanzione penale; in sostanza, e seguendo la dottrina più chiara ed illuminata sul punto, quel che il Legislatore penale, nello spettro costituzionale, non può fare è: n.1) “formalmente”, incriminare fatti che si compendiano, in chi li pone in essere, nell’esercizio di un diritto costituzionale, a meno che non si tratti di tutelare un interesse del pari costituzionalmente rilevante ma di maggior peso, ovvero di un interesse che funga costituzionalmente da limite all’esercizio del ridetto diritto costituzionale da parte del soggetto attivo; n.2) “sostanzialmente”, incriminare fatti lesivi di interessi e, più in generale, di valori che – pur non entrando in frizione con la Carta e, dunque, pur non essendo frontalmente antitetici alla Costituzione – non trovino in essa “alcun riconoscimento esplicito o implicito”;
- proprio in ottica “sostanziale”, l’entrata in vigore della Costituzione impone poi di “correggere” eventuali fattispecie penalmente rilevanti anteriori, perché ad esempio presenti nel Codice Rocco, che si scoprano in contrasto più o meno esplicito con la Carta; soccorre all’uopo l’incidente di costituzionalità o, in guisa maggiormente soft, la interpretazione costituzionalmente orientata delle fattispecie “sospette”, massime attraverso quella che affiora vieppiù, imponendosi, come nuova concezione “teleologica” del reato: in sostanza, il problema non è più tanto “descrivere” la fattispecie criminosa – ricavandone gli elementi costitutivi dalle sole indicazioni letterali dalla norma incriminatrice che la prevede – quanto piuttosto individuare lo scopo perseguito dal Legislatore penale, alla luce della Costituzione stessa e dei principi e canoni in essa inscritti; proprio la concezione teleologica del reato finisce dunque con l’apparire, nel prisma costituzionale, la migliore possibile in un’ottica orientata a ricercare un fondamento scientifico da affidare al Legislatore per l’individuazione degli obiettivi repressivi, la Costituzione assumendo le vesti di fonte tanto degli scopi quanto dei limiti della legislazione penale, attraverso i vari principi della responsabilità penale “personale”, del fatto “offensivo”, della indefettibile “proporzionalità” tra reato e sanzione inflitta; ciò fornendo essa un catalogo di beni (interessi) giuridici da preservare che preesistono alla stessa norma incriminatrice e che – proprio perché espressione di un valore che la Carta direttamente o indirettamente presidia – meritano la sanzione penale in caso di pertinente vulnus da parte dei consociati;
- si assiste dunque ad una nuova teoria generale del reato di impostazione mista, “formal-sostanziale”, alla quale non mancano nondimeno di essere rivolte critiche, additandosi essa sovente quale mero “programma di scopi” (talvolta neppure individuati in modo univoco) che, seppure di ascendenza costituzionale, finiscono con l’essere inevitabilmente condizionati dalle opzioni ideologiche dei singoli studiosi;
- proprio la necessità di interpretare costituzionalmente il diritto penale, così valorizzando la concezione teleologica del reato, hanno sospinto verso la ricerca di un punto di incontro tra “analitica formale” (che studia i singoli reati nell’ottica del principio di legalità) e “sintesi sostanziale” (che punta ad elaborare una concezione unitaria e globale del reato); ne è scaturita una costruzione dogmatica di taluni modelli fondamentali di crimine e segnatamente: q.1) il reato commissivo (reato di azione); q.2) il reato omissivo (reato di omissione); q.3) il reato doloso (commissivo od omissivo); q.4) il reato colposo (commissivo od omissivo);
- in tutti e quattro i casi, occorre tuttavia sempre un “minimum” fenomenico che, “materialmente”, giustifichi l’incriminazione e che, proprio perché tale, si avvince maggiormente alla condotta compendiante il fatto inadempimento reato, declinabile nelle due varianti, entrambe “materiali”: r.1) dell’azione; r.2) dell’omissione.
Dove si innesta, più precisamente, il concetto di c.d. “materialità” del reato?
- proprio perché “materiale” è aggettivo normalmente giustapposto a “ideale” (o “spirituale”), il principio di “materialità” del reato non può che riguardare la “materia” e, dunque, fondamentalmente la condotta del soggetto attivo;
- tale condotta si inscrive, di volta in volta, in ciascuna delle diverse teorie del reato siccome elaborate dalla migliore dottrina negli ultimi decenni, nel prisma della c.d. “scomposizione analitica” del reato medesimo;
- si parte sempre da una evidenza ineccepibile: vi è un norma incriminatrice ed un comportamento “manifestato” – esteriore – dell’uomo, che si pone in contraddizione con la regola di condotta che tale norma incriminatrice di volta in volta sottende come doverosa;
- stando ad una prima (e più remota) teoria, detta “bipartita”, il reato si scompone in due elementi: d.1) un elemento oggettivo, anche detto non a caso “materiale”, che ricomprende in sé anche un sotto-elemento “negativo”, quale assenza di cause di giustificazione; si tratta di una congerie di dati “estrinseci” e dunque visibili, dei fenomeni con i quali il fatto inadempimento reato in concreto si manifesta all’esterno: il comportamento dell’uomo che lo origina; le pertinenti conseguenze; gli eventuali presupposti contestuali che corredano la condotta penalmente rilevanate; d.2) un elemento soggettivo a carattere psicologico, compendiantesi nella consapevole volontà colpevole; in sostanza, dinanzi ad un fatto che obiettivamente si manifesta come illecito affiora anche una volontaria e consapevole adesione psicologica del pertinente autore, con conseguente atteggiamento, di volta in volta, doloso, colposo o preterintenzionale. Si tratta di una presa di posizione che, nel corso dei decenni, è parsa alla dottrina più avvertita banale e in qualche modo incapace, per palmare “insufficienza”, di palesare tutti i vari elementi che realmente “compongono” il reato;
- ne è seguita una seconda impostazione teorica, detta “tripartita” alla cui stregua il fatto inadempimento reato va scomposto in 3 fattori distinti: e.1) il fatto: va accertato innanzi tutto che è stata realizzata una situazione di fatto che rispecchia quella divisata dalla norma incriminatrice; e.2) l’antigiuridicità, mutuata dalla dottrina tedesca (in particolare, dall’opera del Beling): occorre verificare se per avventura il fatto realizzato e dunque esteriorizzato sia reso lecito – e, dunque, “non antigiuridico” – da una qualche “causa di giustificazione”, che deve dunque far difetto affinché si abbia reato (elemento negativo); si tratta di un fattore trascurato o, comunque, lasciato troppo implicito in sede di elaborazione della concezione “bipartita”; l’antigiuridicità, come ridetta assenza di cause di giustificazione, va intesa in senso “obiettivo”, non coinvolgendo ancora le condizioni individuali del soggetto attivo, ed in senso “generico,” non essendo strettamente ancorata al diritto penale, ma apparendo tale (e, dunque, “antigiuridica”) una condotta siccome rapportata all’intero ordinamento giuridico, che non potrebbe in alcun modo giustificare il fatto, in ciascuna fattispecie, concretamente commesso; si tratta di un’importante componente del reato – molto valorizzata dalla teoria tripartita – che si atteggia in ottica oggettiva, e come tale sganciata dalla colpevolezza: un elemento “negativo oggettivo” valutato tale alla luce dell’intero sistema giuridico (del quale l’ordinamento penale, del resto, è parte); un sistema “globale” che, se talvolta da un lato vieta una determinata condotta, dall’altro ad un tempo ne consente o financo ne impone un’altra che con la prima entra in rotta di collisione; attraverso l’antigiuridicità si consente dunque un “osmosi”, anche a fini di non contraddittorietà, tra il diritto penale e gli altri settori dell’ordinamento giuridico; e.3) la colpevolezza: va infine accertata la sussistenza di una volontà colpevole del soggetto agente. Se il pregio della concezione tripartita è apparso subito quello di “aprire” il diritto penale agli altri settori ordinamentali, garantendo in qualche modo la sostanziale non contraddittorietà del sistema unitariamente inteso, non è mancato chi ne ha criticato l’impostazione eccessivamente “analitica” rispetto al più semplice schema “bipartito”, laddove all’”oggettivo” (capace di ricomprendere in sé anche l’assenza di elementi capaci di giustificare il contegno penalmente illecito) si giustappone il “soggettivo”;
- le critiche alla concezione tripartita, paradossalmente, non hanno scoraggiato una ulteriore “scomposizione” del reato, dando la stura financo ad isolate concezioni c.d. “quadripartite”, in duplice declinazione: f.1) è reato il “fatto antigiuridico colpevole tipico” (concezione di ascendenza germanica): occorre sempre una verifica di conformità del fatto antigiuridico colpevole al “tipo” descritto nella pertinente fattispecie; ogni fatto punibile si compendia invero in una pluralità di elementi costitutivi diversi tra loro, che possono essere unitariamente catalogati con l’etichetta appunto della “tipicità”; in realtà, risponde la critica, la tipicità va riguardata come presupposto dell’analisi del reato (che è tale solo laddove presenti gli elementi tipici di una data fattispecie criminale), e non già come autonoma componente del reato stesso; f.2) è reato il “fatto antigiuridico colpevole meritevole di pena”: la condotta concreta siccome posta in essere dal soggetto attivo deve aver raggiunto quel livello minimo di offensività idoneo a differenziarla da analoghe condotte innocue; anche in questo caso non mancano voci critiche, appuntantesi sul fatto che la meritevolezza (o “necessità”) di pena si atteggia a parametro di fatto del tutto ultroneo rispetto ai componenti del reato, peraltro pericoloso laddove consente all’interprete (segnatamente, al giudice) di acclarare se una data condotta abbia o meno raggiunto una soglia minima di offensività, con evidente rischio di abusi che possono essere scongiurati solo laddove sia il Legislatore, in via esclusiva, preventiva ed astratta, a descrivere la fattispecie tipica, con conseguente automatica implicazione di offensività laddove il fatto – siccome realizzato dal soggetto agente – corrisponda a quello previsto dal Legislatore medesimo; f.3) è reato il “fatto (tipico) antigiuridico colpevole punibile”, dacché un fatto antigiuridico colpevole è anche “punibile” solo al cospetto di un insieme di condizioni che fondano l’opportunità della pertinente pena; la critica ha tuttavia evidenziato come – al cospetto di un reato che già presenti tutti i propri elementi costitutivi – possa predicarsene la punibilità in via automatica, senza che il giudice provveda ad accertare autonomamente tale requisito; da questo punto di vista, maggiormente pregnante potrebbe allora essere lo scandaglio di un elemento negativo esterno al reato (parallelo a quanto accade “in positivo” con le condizioni obiettive di punibilità, oggetto di necessaria prova in giudizio): una sorta di “non punibilità” riconducibile a tutto un complesso di istituti – di ascendenza costituzionale pari a quella dei paralleli istituti “incriminanti” – che l’ordinamento appresta al fine di escludere in concreto la sanzione penale, come accade nel caso in cui il soggetto attivo, dopo la condotta incriminata, ne ponga in essere un’altra in grado di neutralizzare l’offensività della prima;
- come in una sinusoide, non mancano progressive prese di posizione “riduzionistiche” della c.d. teoria analitica del reato, con rinnovate adesioni financo alla più remota concezione “bipartita”, giusta attacco al requisito dell’antigiuridicità ed alla pertinente autonomia, siccome predicata dalla teoria “tripartita”; si è affermato più specificamente che se gli altri due requisiti del fatto oggettivo e della soggettiva colpevolezza possono assumersi come dati obiettivi riscontrabili in natura, all’opposto proprio l’antigiuridicità (che peraltro racchiude scriminanti tra loro, anche strutturalmente, disomogenee e non affastellabili in un “unicum”) si presenta come dato eminentemente valutativo, laddove mostra la condotta criminosa come non conforme all’ordinamento generalmente inteso e, dunque, come carattere essenziale dello stesso “reato” tecnicamente inteso, finendo con il coincidere con la tipicità, in senso strettamente giuridico, del fatto inadempimento reato, che è tale proprio perché “tipicamente antigiuridico”; del resto, la stesso difetto di condizioni scriminanti potrebbe, per parte della dottrina, essere raccolto nello stesso elemento obiettivo del reato e, dunque, incanalato in un prisma che torna “bipartito”, sol che si intravedano in ogni comportamento umano – accanto agli elementi “positivi” – anche quelli “negativi”, capaci come tali di escluderne, già a livello appunto oggettivo, la pertinente illiceità: muovendosi in questa prospettiva, affiora dunque un unico concetto di “fatto” ampiamente inteso, i cui elementi positivi corrispondono a quelli materialmente descritti in ciascuna fattispecie criminosa ed i cui elementi negativi corrispondono invece all’assenza di cause di giustificazione, del pari materialmente intese. Il tutto apparirebbe giustificato dal combinato disposto degli articoli 47, comma 1, c.p. – laddove prevede che l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente – e dell’art.59, ultimo comma, c.p. – onde se il soggetto ha ritenuto erroneamente di agire in presenza di una causa di giustificazione che in realtà non sussiste, non può predicarsene il compimento di un fatto penalmente illecito – quali disposizioni capaci, per l’appunto nel loro combinato disposto, di meglio inquadrare il “fatto” penalmente rilevante nei pertinenti elementi positivi e negativi, siccome abbracciati dal dolo del soggetto agente: ed invero, è “fatto” sia il compendio di elementi “positivi” che il soggetto agente deve rappresentarsi e volere per poter essere punito, sia quelli “negativi”, che l’agente non deve rappresentarsi sussistenti sempre per poter essere punito, e dunque proprio quelle scriminanti (o cause di giustificazione) che compendiano, nell’ottica “tripartita” (assunta erronea), la c.d. antigiuridicità;
- anche la novella concezione “bipartita” non va tuttavia esente da critiche; se le scriminanti – si è detto – sono elementi “negativi” del fatto tipico, chi abbia commesso un reato doloso dovrebbe rappresentarsi, ad un tempo, tanto la presenza di elementi “positivi” quanto l’assenza di elementi “negativi”, e dunque delle scriminanti, conclusione che – al di là delle difficoltà di trovare un riscontro effettivo nella realtà psicologica del soggetto attivo – sembra porsi in frizione con lo stesso art.59, ultimo comma, c.p. in tema di errore sulle cause di esclusione della pena; mentre invero l’art.47 in tema errore “positivo” suona nel senso onde “l’errore sul fatto che costituisce reato” esclude la punizione, se si volesse “positivizzare” l’errore “negativo” di cui al ridetto art.59 – alla cui stregua “se taluno ritiene per errore” la sussistenza di scriminanti non è punito – ciò che ne dovrebbe risultare è “l’errore sulle scriminanti esclude il dolo”; ma a rilevare normativamente in termini di esclusione del dolo è piuttosto “l’erronea supposizione di situazioni scriminanti”, con conseguente pregnanza in termini “soggettivi” di esclusione di un giudizio normativo di rimproverabilità individuale per il soggetto attivo, e non già – come appunto pretenderebbe, sul crinale oggettivo, la teoria “bipartita” – di esclusione della presenza di un elemento “negativo” del fatto tipico. Inoltre, ciascun elemento che compone il reato sembra rispondere ad una determinata funzione politico criminale, e se il fatto tipico “oggettivo” serve a selezionare le forme di offesa che meritano una sanzione criminale, le cause di giustificazione servono piuttosto – quantunque sempre sul crinale “oggettivo”, e stante la relativa, predicata applicabilità in via analogica – ad integrare il diritto penale nel solco dell’ordinamento giuridico globalmente inteso, onde un fatto “penalmente tipico” in quanto offensivo di un interesse giuridicamente rilevante (in difetto di cause di giustificazione) non può essere pari ad un fatto che, per essere radicalmente inoffensivo (stante la presenza di una causa di giustificazione), non entra neppure nel contesto del penalmente rilevante;
- questo porta la dottrina maggioritaria ad abbracciare, assumendola come quella maggiormente “credibile”, la teoria c.d. “tripartita”, assunta capace di valorizzare la differente funzione (in chiave dunque teleologica) dei diversi elementi che compongono il reato, ed in particolare – già sul crinale oggettivo – del fatto tipico, da un lato, e delle cause di giustificazione, dall’altro, secondo lo schema che segue: i.1) fatto tipico: ogni singola fattispecie di parte speciale si propone lo scopo di selezionare, fra le diverse possibili modalità aggressive di un interesse giuridicamente rilevante, quelle che – secondo la valutazione del Legislatore in un dato momento storico, ed assecondando il c.d. principio di “frammentarietà” del diritto penale – presentano un connotato talmente negativo da presentarsi come “meritevoli di pena”; i.2) cause di giustificazione: esse si prefiggono lo scopo di garantire una sorta di limite “esterno” all’applicazione del diritto penale, onde un dato interesse giuridicamente protetto – in senso penalistico – dal fatto tipico, finisce con non l’esserlo più, “ab externo”, in presenza di una causa di giustificazione che elide (ovvero comprime, come nel caso dell’eccesso colposo) la meritevolezza di pena che sarebbe intrinseca nel fatto tipico ridetto; la funzione delle scriminanti non è quella di selezionare, dalla congerie di possibili condotte offensive di un interesse giuridicamente rilevante, quelle meritevoli di pena (funzione che è propria del fatto tipico), quanto piuttosto quella di rendere lecito ab origine ed ab externo un fatto che sul piano materiale sarebbe in relativa offensivo, stante la necessità di presidiare un interesse – del pari giuridicamente rilevante – diverso da quello riconducibile (in termini di tutela penale) alla singola fattispecie criminosa;
- tanto la concezione “tripartita”, maggiormente accreditata, quanto la novella concezione “bipartita” presentano peraltro il dato comune di distinguere il profilo oggettivo del reato da quello soggettivo, distinguendosi solo sulla valenza dell’antigiuridicità (scriminanti), che la prima assume autonoma mentre la seconda vede ricompresa nel “fatto tipico”, quale pertinente elemento negativo; proprio il profilo oggettivo (comune ad entrambe le concezioni ridette) è stato tuttavia di recente “rivisto” in ottica di possibile, pertinente contaminazione da elementi “soggettivi” e, dunque, psicologici;
- si afferma: k.1) da un lato che il dolo o la colpa – classiche declinazioni dell’elemento soggettivo del reato – si obbiettivizzano nel fatto tipico lasciandovi una propria impronta; dolo e colpa, in altri termini, danno un contributo alla tipizzazione della condotta, lasciandovi un segno esteriore capace di conformarne le stesse note strutturali della fattispecie criminosa; in sostanza, una consapevole condotta abituale, la finalizzazione di un dolo specifico, la consapevole e volontaria adesione ad una compagine criminosa, una forma di trascuratezza o di negligenza, rifluiscono sullo stesso fatto tipico, in qualche modo “colorandolo” in modo tutt’affatto particolareggiato; k.2) dall’altro, che è “oggettiva” quella condotta tipica che sia giuridicamente rilevante alla stregua di uno scandaglio che tenga conto – prima ancora che ci si addentri in questioni specifiche afferenti al carattere doloso o colposo del contegno di volta in volta osservato dal soggetto attivo – di coefficienti di rappresentabilità, di rischio e così via; in sostanza, in orbita sistematica e di teoria generale, un reato è tale, oltre che per il disvalore dell’evento prodotto (il fatto inadempimento reato), anche (e ancor prima) per il disvalore della condotta (attiva od omissiva) che lo “introduce”; in altri termini, prima ancora di accertare scriminanti, dolo, colpa, colpevolezza (in genere) e punibilità del soggetto attivo, va accertato qualcosa di indipendente da esse, ovvero una condotta che è comunque “conformata” dal dolo o dalla colpa; questi ultimi elementi, tipicamente “soggettivi”, rifluiscono dunque all’interno del fatto tipico non potendo più rilevare soltanto (come accadeva alla stregua della c.d. concezione classica) all’interno della colpevolezza, ma assumendo piuttosto una doppia valenza capace di conformare, già ex ante e sul crinale oggettivo, il contegno criminoso e, ad un tempo, contribuendo a valorizzare la funzione politico criminale di ciascuna categoria di reato, siccome isolata dal Legislatore; dolo e colpa, in ultima analisi, contribuiscono imprescindibilmente a tipizzare il fatto penalmente rilevante (un conto è l’omicidio colposo, come risultante oggettiva della violazione di norme cautelari; un altro conto è l’omicidio doloso, consapevolmente perseguito in quanto tale, del pari già sul piano oggettivo, dal soggetto agente); laddove quel fatto, siccome “conformato” oggettivamente dal dolo o dalla colpa, sia anche antigiuridico (assenza di cause di giustificazione), può scattare quel giudizio di colpevolezza e, dunque, di individuale rimproverabilità che vedono di nuovo protagonisti, ex post, il dolo e la colpa nella pertinente (classica) declinazione soggettiva.
Come rileva la condotta nell’ambito della c.d. “materialità” del reato e in che senso appare problematica, in particolare, la partecipazione ad associazioni criminose?
- il diritto penale contemporaneo presenta 3 principi fondamentali che ne costituiscono la stessa base di piena ed effettiva configurabilità: a.1) il principio di materialità; a.2) il principio di offensività; a.3) il principio di soggettività;
- solo dinanzi ad un reato “materialmente” inteso è possibile indagare se e quanto esso sia “offensivo”, con conseguente assoggettamento a pena laddove vi sia (pure) un addentellato “soggettivo” che consente di rimproverarlo al pertinente autore;
- il principio di “materialità” scolpisce il reato dal punto di vista oggettivo, additandolo quale fatto umano che è alla base della valutazione di disvalore operata dal sistema penale a cagione di in minimo di corporeità capace da distinguerlo dalla c.d. “nuda cogitatio”, e dunque dal semplice intento criminale non esteriorizzato; mentre l’ordinamento incentrato sul mero principio di soggettività si accontenta della nuda cogitatio, quello che – all’opposto – muove dalla materialità pretende un contegno umano esteriorizzato, fenomenicamente individuabile, quale autentico epicentro della fattispecie penale;
- deve trattarsi di un contegno che la legge punisce descrivendolo nella relativa esteriorizzazione al fine di punirlo: esso coincide, fondamentalmente, con la c.d. “condotta”, quale fatto umano epifenomenico indefettibilmente presente in ogni fattispecie tipica penalmente rilevante;
- normalmente, per condotta si intende, sul crinale positivo, un’azione; sul versante negativo, una omissione; ciascuna di esse – azione od omissione – può poi atteggiarsi, secondo la più recente analisi “scomposta” del reato, in una azione od omissione dolosa, ovvero in un’azione od omissione colposa; può allora configurarsi: e.1) un fatto commissivo doloso; e.2) un fatto omissivo doloso; e.3) un fatto commissivo colposo; e.4) un fatto omissivo colposo;
- sin dall’800 si è tentato di definire unitariamente la “condotta” criminosa, dando la stura a diverse prospettive ermeneutiche: f.1) tesi naturalistico-causale: la condotta si compendia in un movimento corporeo determinato dalla volontà del soggetto agente e capace di incidere sul mondo esterno circostante, modificandolo; in questo modo si finisce nondimeno con l’escludere dal concetto di condotta la mera omissione, stante come essa si identifichi giusta assenza di qualsivoglia movimento fisico, pur integrando comunque un comportamento illecito, talvolta penalmente sanzionabile; f.2) tesi hegeliana: la condotta si compendia in una “volontà che si realizza”, e dunque in una volontà tradotta in concreta operatività; in questo modo diventa nondimeno difficile tenere dentro i contegni colposi (ove l’evento realizzato non è quello al quale la volontà del soggetto agente tendeva) e quelli solo parzialmente realizzati, come nel classico esempio del tentativo, che è illecito ma che vede la volontà criminosa, per l’appunto, non realizzarsi a tutto tondo; f.3) tesi finalistica: la condotta si compendia in un operare umano consapevolmente orientato a raggiungere un determinato obiettivo: mentre determinati accadimenti si presentano con connotazione meramente casuale, senza essere “attratti” e governati da uno scopo, la condotta penalmente rilevante appare invece come quella, umana, finalisticamente orientata, per l’appunto, a raggiungere tale scopo; in questo modo si tende a ricomprendere nel concetto di condotta anche quella meramente omissiva, cui è sottesa una finalità meramente “potenziale”, non ponendo in essere il soggetto attivo contegni finalisticamente orientati a conseguire un obiettivo tutelato dal Legislatore; e quella meramente colposa, cui è sottesa – del pari – una finalità meramente “potenziale”, non ponendo il soggetto attivo in essere contegni finalisticamente orientati a conseguire un preciso obiettivo tutelato dal Legislatore: scongiurare determinati rischi attraverso l’osservanza di determinate norme cautelari; se non che, proprio il concetto di finalità “meramente potenziale” è apparso insoddisfacente nell’ottica di una possibile assimilazione del contegno attivo e doloso ad un contegno omissivo e colposo, stante il difetto, in questo secondo caso, di una effettiva volontà finalistica del soggetto agente, che rimane per l’appunto solo “potenziale”, affiorando dunque una sorta di forzatura concettuale; ancora, si è evidenziata la sovrapposizione tra piani di indagine diversi, la teoria finalistica giungendo, nella sostanza, ad un sostanziale miscuglio tra elemento oggettivo del reato, per l’appunto la condotta umana, ed il (per tanti versi, giustapposto) elemento soggettivo, compendiantesi nella volontà colpevole del soggetto agente; f.4) tesi sociale (la più recente e accreditata): la condotta si compendia un qualsivoglia contegno socialmente rilevante al quale il sistema associa una determinata valutazione di liceità ovvero di illiceità; in sostanza, occorre muovere da una situazione di fatto capace di provocare una reazione umana: a quel punto, il soggetto agente liberamente e consapevolmente estrinseca uno dei possibili atteggiamenti – siano essi commissivi, omissivi, dolosi o colposi – che quella data situazione di fatto sollecita e che, dal punto di vista “sociale”, possono essere atteggiamenti giudicati “leciti” ovvero additati “illeciti”; la critica mossa a questa tesi è che essa non è capace di descrivere a sufficienza i connotati di una condotta penalmente rilevante, palesandosi generica, poco rigorosa e come tale possibile fonte di arbitrio; f.5) tesi “negativa”: la condotta, sempre tutta imperniata su una omissione, si compendia in un “non evitare evitabile”, onde rileva, nelle ipotesi commissive, la mancata astensione del soggetto che agisce e, in quelle omissive, la mancata iniziativa del soggetto inerte; si è parlato nondimeno, anche in questo caso, di una forzatura sistematica incapace di definire in modo appagante il concetto di condotta penalmente rilevante; f.6) tesi personalistica: la condotta si compendia in ogni manifestazione della personalità umana cosciente e volontaria, siccome esteriormente palesata giusta “atti” (di natura positiva o negativa) all’uopo posti in essere; un paradigma teorico tacciato nondimeno, ancora una volta, di genericità e scarso rigore sistematico;
- il fallimento delle varie concezioni unitarie della condotta penalmente rilevante ha infine sospinto la scienza giuridica penalistica verso un approccio proteiforme, fondato proprio sulla riscontrata, sostanziale impossibilità di esprimere un concetto di condotta di tipo “generale”, idoneo come tale a ricomprendere in sé tutte le possibili forme (attive, omissive, dolose e colpose) del pertinente atteggiarsi; questo già muovendo dal dato di fatto, assai difficilmente smentibile, della giustapposizione tra agire ed omettere (l’uno è l’opposto dell’altro), aggravata dalla obiettiva rilevabilità di ogni azione rispetto al difetto di qualsivoglia consistenza naturalistica siccome riconoscibile all’omissione; ne è uscita rafforzata la concezione “quadripartita” della condotta criminosa, dovendosi distinguere altrettanti modelli di comportamento umano penalmente rilevante in ciascuna delle seguenti figure: g.1) reato commissivo doloso: azione connotata da dolo; g.2) reato commissivo colposo: azione connotata da colpa; g.3) reato omissivo doloso: omissione connotata da dolo; g.4) reato omissivo colposo: omissione connotata da colpa;
- quello che è certo ed unanimemente riconosciuto della condotta penalmente rilevante è come essa rappresenti una estrinsecazione dell’uomo nel mondo sociale, palesandosi indefettibilmente connotata da una pertinente, oggettiva rilevabilità nel mondo esterno, quale accadimento che, trovando luogo (e dunque realizzandosi), colpisce e vulnera un interesse giuridicamente protetto dal sistema; anche su questo crinale unificante “basic” e di natura “generalissima”, non è mancato chi in passato abbia posto l’accento su reati non a caso definiti “senza condotta” perché difettanti, almeno prima facie, di uno specifico comportamento del soggetto agente e per questo definiti “di mero sospetto”, come nel caso di chi – gravato da precedenti penali con fini di lucro – sia colto in possesso di chiavi alterate o di grimaldelli (art.707 c.p.); ha tuttavia risposto alla metà degli anni Settanta la Corte costituzionale, facendo rilevare come in realtà non difetti in simili fattispecie una “condotta”, siccome compendiantesi nel fatto di tenere con sé determinati oggetti quale contegno sintomatico della prossima commissione di un reato;
- il concetto di condotta penalmente rilevante, unitariamente considerato, resta dunque generico, elastico, incapace di per sé di delimitare rigorosamente l’ambito dei comportamenti umani punibili, dovendo in qualche modo trovare una qualche forma di imprescindibile integrazione con uno degli altri due canoni fondamentali sui quali poggia il moderno diritto penale, vale a dire il principio di offensività; muovendo proprio dall’offesa all’interesse giuridico di volta in volta tutelato, si scopre – sotto la coeva lente della necessaria proporzionalità tra reato e pena – la più autentica problematicità dei c.d. reati di mero sospetto, dovendosi verificare se il contegno del soggetto agente, pur senz’altro riscontrabile in termini di “condotta”, presenti una reale e concreta attitudine a ledere il ridetto interesse giuridicamente tutelato, senza far scattare una pena sulla base di una mera (ed astratta) presunzione di pericolosità del soggetto attivo e della “condotta” dal medesimo posta in essere;
- proprio dal necessario intrecciarsi e, in qualche modo, completarsi dei due canoni della materialità e della offensività si riesce a risolvere il busillis della condotta criminosa in fattispecie dubbie, nelle quali lo stesso estrinsecarsi all’esterno del contegno umano punibile appare decisamente evanescente, come nel caso – sempre più discusso con riguardo tanto all’associazione con finalità terroristiche che a quella connotata da metodi mafiosi – della assoggettabilità a pena di chi solo risulti “ritualmente affiliato”, lasciando in disparte o comunque sullo sfondo più concrete epifanie di concreta adesione ai metodi e agli scopi del sodalizio che organizza l’affiliazione ridetta; se da un lato infatti “affiliarsi” significa già entrare, con metodi “liturgici”, a far parte dell’associazione criminosa, dall’altro effettive e concrete manifestazioni adesive potrebbero a rigore rinvenirsi solo al cospetto di atti ulteriori, capaci di “materializzare” in senso “offensivo” la pura condotta affiliativa;
- proprio questo ha spinto le SSUU del 2021 a chiarire – con riguardo all’associazione mafiosa, ma secondo principi tendenzialmente esportabili anche ad altre manifestazioni collettive di criminalità organizzata – come: k.1) da un lato la condotta di partecipazione ad associazione criminosa si sostanzi nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione medesima, inserimento che deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso per il perseguimento dei comuni fini criminosi; k.2) dall’altro – e proprio nel rispetto del principio di materialità, oltre che di offensività, della condotta – l’affiliazione rituale possa costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio ove essa risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione; in sostanza, ferma restando la natura di reato di pericolo dell’associazione mafiosa, occorre comunque che tale pericolo si atteggi a concreto ed effettivo per l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita democratica, concretando ad un tempo un qualche “danno”, siccome collegato al metodo intimidatorio; conseguenza che – sul crinale della condotta partecipativa – non può discendere dalla mera affiliazione unilaterale alla compagine, quanto piuttosto di una vera e propria “messa a disposizione” pattizia, accettata dunque dalla societas sceleris e connotata da volontà “bilaterale”; il tutto evincibile, sul piano probatorio, anche valorizzando consolidate massime di esperienza, capaci di coniugare i due principi di materialità e di offensività, in una col ridetto principio di necessaria proporzionalità tra reato e sanzione;
- una presa di posizione assai rigorosa (sul crinale garantistico), che sembra porsi tuttavia in (almeno parziale) contraddizione rispetto a quanto la stessa Corte ha preso ad affermare con riguardo al terrorismo globale di matrice estremista e fondamentalista, laddove la partecipazione ad associazioni ex art.270 bis c.p. viene sovente (quantunque non sempre) ricondotta a manifestazioni di adesione assai più evanescenti, legate – esemplificativamente – al proselitismo o all’arruolamento di nuovi adepti; va tuttavia tenuto conto che, a partire dal 2015, il mero “arruolamento” all’organizzazione terroristica ha assunto rilevanza penale autonoma (art.270 quater, comma 2, c.p.), con conseguente dubbio in ordine alla predicabilità di una analoga incriminazione “autonoma” in presenza della mera affiliazione – quantunque rituale – ad una associazione mafiosa, in qualche modo assimilabile ad un “arruolamento” nella compagine criminale, ma in relazione alla quale non si registra al momento alcuna specifica presa in considerazione del Legislatore.