Massima
Non è sempre facile stabilire se ci si trovi dinanzi ad un fatto inadempimento-reato “unitario” ovvero ad una pluralità di fatti inadempimento-reato; ciò non solo quando si riesca ad appurare (e non è sempre facile) che la condotta sanzionabile è “una” (un’azione o un’omissione), dacché la relativa riconducibilità a due distinte fattispecie astratte penalmente sanzionate, capace di far normalmente affiorare un concorso formale (omogeneo o eterogeneo) di reati, potrebbe in realtà rivelarsi fallace per il solo apparente, ma non reale convergere delle due o più fattispecie incriminatrici considerate (c.d. concorso apparente di norme); ma anche laddove le condotte siano “plurime” (più azioni od omissioni, dalle quali affiora di norma un concorso materiale di reati), stante la possibile strutturazione ex lege policroma del “tipo” di reato, in guisa tale da rendere più condotte tra loro alternative a fini di punibilità (c.d. “norma a più fattispecie”), piuttosto che cumulativamente assoggettabili a sanzione (c.d. “disposizione a più norme”).
Crono-articolo
Il diritto romano si presenta assai intransigente in tema di concorso di reati, ovvero nelle fattispecie in cui a carico di un individuo risultino più fatti “criminosi”, infliggendo tante sanzioni quanti sono i reati (secondo il noto principio tot delicta quot poenae), ed in ciò assecondando una concezione autoritaria e assoluta dello Stato e del diritto alla cui stregua numquam plura delicta concurrentiam faciunt ut ullius impunitas detur (“mai, in presenza di più delitti concorrenti, per taluno di essi può essere esclusa la pena”) secondo l’efficace espressione di Dig., XLVII, 1, de privatis delittis, 2).
I Romani peraltro – pur via via assumendo ammissibile il mero “concorso ideale“, ovvero l’assorbimento di un titolo di reato nell’altro – limitano tuttavia tale ammissibilità alla sola ipotesi di più violazioni di legge originate da un unico fatto delittuoso, secondo lo schema oggi ricondotto al c.d. concorso formale, assumendolo piuttosto inammissibile in caso di concorso materiale, laddove campeggiano due o più fatti o, in sostanza, due o più condotte.
1819
Viene varato il codice del Regno delle due Sicilie che, in caso di concorso di reati, prevede il regime sanzionatorio del c.d. cumulo giuridico, onde si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata di una porzione con riguardo a ciascuno degli ulteriori reati commessi dal soggetto agente.
1853
Viene varato il codice del Granducato di Toscana che, in caso di concorso di reati, anch’esso prevede il regime sanzionatorio del c.d. cumulo giuridico, onde si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata di una porzione con riguardo a ciascuno degli ulteriori reati commessi dal soggetto agente.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che disciplina il concorso di reati e di pene agli articoli 67 e seguenti, giusta articolata regolamentazione delle pene applicabili nelle diverse fattispecie.
Così, ai sensi dell’art.68, al colpevole di più delitti, che importino la stessa specie di pena temporanea restrittiva della libertà personale, si applica la pena per il delitto più grave, con un aumento pari alla metà della durata complessiva delle altre pene, purché non si oltrepassino i 30 anni per la reclusione e la detenzione, e i 5 anni per il confino; del pari, ai sensi dell’art.71, al colpevole di più contravvenzioni che importino l’arresto si applica la pena per la contravvenzione più grave, con aumento pari alla metà della durata complessiva delle altre pene, purché non si superino i 3 anni. Ancora, ai sensi dell’art.77 colui che per eseguire od occultare un reato, ovvero in occasione di esso, commette altri fatti costituenti essi pure reato, ove questi non siano considerati dalla legge come elementi costitutivi o circostanze aggravanti del reato medesimo, soggiace alle pene da infliggersi per tutti i reati commessi, tuttavia secondo le disposizioni contenute negli articoli precedenti (ivi compresi appunto gli articoli 68 per i delitti e 71 per le contravvenzioni, con i “tetti” ivi previsti).
Si tratta di norme che dunque escludono la brutale sommatoria delle pene previste per ciascun reato commesso, prevedendo un trattamento più mite per il reo, basato sulla pena prevista per il reato più grave, aumentata di una “quota” di pena ulteriore con riguardo agli altri reati commessi, entro un limite massimo legalmente previsto (c.d. cumulo giuridico).
Alla medesima ratio è ispirato l’art.78, onde colui che con un medesimo fatto viola diverse disposizione di legge penale è punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave, così esplicitamente disciplinando in modo favorevole al reo – essendo ancora una volta escluso il canone “tot crimina tot poenae” – il c.d. concorso formale di reati (peraltro implicitamente facendo luogo ad un concorso apparente di norme di tipo “valoriale”, assai più che “strutturale”).
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che disciplina il concorso di reati agli articoli 71 e seguenti, considerando la pertinente fattispecie quale forma di manifestazione del reato, onde il reato si atteggia in modo tale da essere commesso con altri (reati), così come talvolta si atteggia tentato, talaltra circostanziato e talaltra ancora “collettivo”, nel caso di concorso di persone.
Per quanto concerne la disciplina del concorso di reati, stando alla disposizione generale di cui all’art.71 (Condanna per più reati con unica sentenza o decreto) quando, con una sola sentenza o con un solo decreto, si deve pronunciare condanna per più reati contro la stessa persona, si applicano le disposizioni degli articoli seguenti, ispirate al rigoroso canone “tot crimina, tot poenae”.
Rileva in particolare l’art. 72 (Concorso di reati che importano l’ergastolo e di reati che importano pene detentive temporanee), onde al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa l’ergastolo, si applica la pena di morte, mentre nel caso di concorso di un delitto che importa la pena dell’ergastolo, con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee, si applica la pena dell’ergastolo, con l’isolamento diurno per un periodo di tempo non inferiore a 6 mesi e non superiore a 4 anni; l’art. 73 (Concorso di reati che importano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie), alla cui stregua se più reati importano pene temporanee detentive della stessa specie, si applica una pena unica, per un tempo eguale alla durata complessiva delle pene che si dovrebbero infliggere per i singoli reati, e quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a 24 anni, si applica l’ergastolo, mentre le pene pecuniarie della stessa specie si applicano tutte per intero; l’art. 74. (Concorso di reati che importano pene detentive di specie diversa), onde se più reati importano pene temporanee detentive di specie diversa, queste si applicano tutte distintamente e per intero e la pena dell’arresto e’ eseguita per ultima; l’art. 75. (Concorso di reati che importano pene pecuniarie di specie diversa), onde se più reati importano pene pecuniarie di specie diversa, queste si applicano tutte distintamente e per intero (nel caso che la pena pecuniaria non sia stata pagata per intero, la somma pagata, agli effetti della conversione, viene detratta dall’ammontare della multa).
Stando poi al successivo art. 76. (Pene concorrenti considerate come pena unica ovvero come pene distinte), salvo che la legge stabilisca altrimenti, le pene della stessa specie concorrenti a norma dell’articolo 73 si considerano come pena unica per ogni effetto giuridico; le pene di specie diversa concorrenti a norma degli articoli 74 e 75 si considerano egualmente, per ogni effetto giuridico, come pena unica della specie più grave, mentre si considerano come pene distinte, agli effetti della loro esecuzione, dell’applicazione delle misure di sicurezza e in ogni altro caso stabilito dalla legge; infine, se una pena pecuniaria concorre con un’altra pena di specie diversa, le pene si considerano distinte per qualsiasi effetto giuridico.
In tema di pene accessorie, l’art. 77 dispone che per determinare le pene accessorie medesime e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati per i quali e’ pronunciata la condanna, e alle pene principali che, se non vi fosse concorso di reati, si dovrebbero infliggere per ciascuno di essi; se concorrono pene accessorie della stessa specie, queste si applicano tutte per intero. Resta dunque confermato l’orientamento inteso a sommare il trattamento sanzionatorio previsto per ciascun reato commesso dal soggetto agente.
La disciplina si presenta molto rigorosa (massime se rapportata a quella di cui al precedente codice Zanardelli), mitigata solo dai “tetti di pena” di cui all’art.78 (Limiti degli aumenti delle pene principali), onde nel caso di concorso di reati, preveduto dall’articolo 73, la pena da applicare a norma dello stesso articolo non può essere superiore al quintuplo della più grave fra le pene concorrenti, ne’ comunque eccedere: 30 anni, per la reclusione; 6 anni, per l’arresto; lire 150.000 per la multa e lire 30.000 per l’ammenda; ovvero lire 400.000 per la multa e lire 80.000 per l’ammenda in peculiari casi (se il giudice si vale della facoltà indicata nel secondo capoverso dell’articolo 24 e nel capoverso dell’articolo 26). Nel caso poi di concorso di reati, preveduto dall’articolo 74, la durata delle pene da applicare a norma dell’articolo stesso non può superare gli anni 30 e la parte di pena eccedente tale limite e’ detratta in ogni caso dall’arresto. Quando le pene pecuniarie debbono essere convertite in pena detentiva, per l’insolvibilità del condannato, la durata complessiva di tale pena non può infine superare 4 anni per la reclusione e 3 anni per l’arresto. Parimenti, in tema di pene accessorie, ai sensi dell’art. 79 (Limiti degli aumenti delle pene accessorie) la durata massima delle pene accessorie temporanee non può superare, nel complesso, i limiti seguenti: 10 anni, se si tratta dell’interdizione dai pubblici uffici o dell’interdizione da una professione o da un’arte; 5 anni, se si tratta della sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte.
Stando poi all’art. 80. (Concorso di pene inflitte con sentenze o decreti diversi) le disposizioni degli articoli precedenti si applicano anche nel caso in cui, dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima, ovvero quando contro la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna.
Ai sensi del successivo art.81 chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge e’ punito a norma degli articoli precedenti: ne consegue che per il c.d. concorso “formale” di reati (riconducibile ad una sola condotta del soggetto agente) il regime è il medesimo, rigorosissimo, previsto per il concorso c.d. “materiale” (riconducibile invece a due o più condotte del soggetto agente). Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano invece a chi, con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità (c.d. reato continuato “omogeneo”): in tal caso le diverse violazioni si considerano come un solo reato e si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo.
I successivi articoli 82 e 83 disciplinano infine le ipotesi di c.d. reato aberrante, mentre all’art.84 è affidata la regolamentazione del c.d. reato complesso, quali fattispecie peculiari – per l’appunto – di concorso di reati.
Sul crinale del trattamento sanzionatorio, interessante il disposto dell’art.63 in tema di circostanze, secondo il cui comma 3 quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa, o ne determina la misura in modo indipendente dalla pena ordinaria del reato (circostanze ad effetto speciale e circostanze indipendenti), l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non si opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta; stando poi ai successivi comma 4 e 5, se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel comma 3, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla (c.d. assorbimento); se invece concorrono più circostanze attenuanti (sempre tra quelle indicate nel comma 3), si applica soltanto la pena meno grave stabilita per le predette circostanze, ma il giudice puo’ diminuirla (c.d. assorbimento).
Riassumendo, per il nuovo codice si applica il cumulo materiale (tot crimina tot poenae), seppure temperato da soglie di punibilità massima, tanto al concorso materiale di reati quanto al concorso formale, ed a quest’ultimo tanto che sia omogeneo quanto che sia eterogeneo; solo in caso di reato continuato omogeneo è applicabile, ai sensi dell’art.81, il più mite regime del c.d. cumulo giuridico. La Relazione al codice penale giustifica il passaggio dal precedente regime sanzionatorio del cumulo “giuridico” generalizzato a quello, assai più rigoroso, del cumulo materiale del pari generalizzato sulla scorta della considerazione onde attraverso il cumulo giuridico (e vieppiù attraverso il c.d. assorbimento di un reato in un altro) si verrebbe a determinare “un’assurda impunità”, per il Legislatore non giustificabile.
La dottrina di commento nota però presto la significativa disparità di trattamento sanzionatorio per i due casi, rispettivamente, di reato continuato omogeneo (si applica il cumulo giuridico) e di concorso formale omogeneo (si applica il cumulo materiale temperato), sospingendo la giurisprudenza verso una interpretazione delle varie fattispecie scandagliate tale da rintracciare più o meno sempre, nelle ipotesi di concorso formale omogeneo, un sotteso “medesimo disegno criminoso” capace di far scattare l’applicazione del cumulo giuridico così scongiurando la denunciata disparità di trattamento evidenziata dalla dottrina.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza che si atteggia in modo tutt’affatto peculiare in presenza di fattispecie in cui la condotta (azione od omissione) o le condotte, laddove plurime, implichino in via contestuale, alternativa o successiva la commissione di più reati, giusta violazione della stessa o di diverse disposizioni di legge penale.
1966
L’8 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.9, la quale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, secondo e terzo comma, del Codice penale, sollevata dal Pretore di Pesaro, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Secondo l’ordinanza di rimessione, la norma dell’art. 81, secondo e terzo comma, del Codice penale – nella parte in cui concede un trattamento favorevole a chi con più azioni od omissioni accomunate da uno stesso disegno criminoso viola più volte la medesima disposizione di legge (c.d. reato continuato “omogeneo”), ma esclude tale trattamento nel caso in cui la pluralità di violazioni sia commessa con una sola azione od omissione (c.d. concorso formale “omogeneo”) – sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che sancisce l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. La disparità di trattamento non sarebbe, in tal caso, dettata da una situazione particolare di fronte alla quale il legislatore possa ragionevolmente disporre una diversa disciplina. La Corte giudica tuttavia la questione come non fondata.
L’ordinanza di rimessione – chiosa la Consulta – riconosce che nella giurisprudenza é prevalente l’opinione onde il trattamento del reato continuato (art. 81, secondo comma, del Codice penale) debba estendersi anche alla ipotesi in cui, con una unica azione ad effetto plurimo siano prodotte più violazioni simultanee della stessa disposizione di legge. Secondo questa interpretazione, il fondamento e la ragione della disposizione che, con una fictio juris, considera come reato unico (continuato) questa pluralità di reati, risiedono nella unicità del disegno criminoso, che attenua la responsabilità penale. Identica unità di disegno criminoso é da riconoscersi per la ipotesi in cui una sola sia l’azione od omissione, alla quale consegua una pluralità di beni violati e quindi una pluralità di infrazioni giuridiche. Nell’affermare inoltre che il reato continuato può essere commesso anche con una sola azione od omissione, si aggiunge che l’art. 81 parla di più azioni od omissioni, non nel senso che esse “debbano” necessariamente essere plurime, ma piuttosto nel senso che “possano” essere anche più di una.
Con siffatta interpretazione, le due ipotesi vengono per la Corte equiparate sotto il riflesso che, sussistendo una violazione plurima della stessa disposizione di legge, non ha rilevanza – agli effetti dell’art. 81 del Codice penale – che una o più siano le azioni o le omissioni. E le due ipotesi vengono entrambe assunte sotto la disciplina del reato continuato, in quanto nell’uno e nell’altro caso sussiste quella unicità di disegno criminoso che ha indotto il legislatore a considerare i vari reati legati fra di loro, fino ad essere puniti come se fossero unico reato. La prevalente interpretazione della giurisprudenza penale, alla quale la Corte dichiara di aderire, esclude la differenza di trattamento lamentata dall’ordinanza e raggiunge altresì l’effetto di un armonico rapporto di proporzione fra il reato commesso e la misura della pena.
1971
Il 3 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione, che si occupa di distinguere le fattispecie di reato unitario da quelle di reati plurimi in concorso formale. Per la Corte – che abbraccia la tesi della dottrina maggioritaria – va assunto integrato il concorso formale (e dunque va assunta configurabile una pluralità di reati) quando con una sola azione o omissione il soggetto agente perpetri più lesioni di beni altamente personali (vita, integrità fisica, onore e reputazione) di soggetti diversi; all’opposto, si è invece al cospetto di un unico reato quando configurino oggetto materiale della condotta antigiuridica del soggetto agente beni che, pur appartenendo a soggetti diversi, non presentino tale caratteristica “personale”, come nelle fattispecie offensive di interessi meramente patrimoniali.
1974
L’11 aprile viene varato il decreto legge n.99, il cui art.8 incide in modo consistente sull’art.81 del codice penale onde chi, con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge (concorso formale) viene ormai punito non già in modo identico a chi commette concorso materiale, bensì con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo, regime prima applicabile al solo reato continuato.
Quest’ultimo non si configura più solo come commissione – giusta più azioni od omissioni esecutive, anche in tempi diversi, di un medesimo disegno criminoso – di più violazioni della stessa disposizione di legge (concorso omogeneo), ma anche come violazione di “diverse” disposizioni di legge, applicandosi dunque la continuazione anche in caso di concorso eterogeneo di reati: un cambiamento che entra peraltro in contraddizione con l’art.61, n.2, c.p., laddove si configura come aggravante comune (e dunque non come fattispecie che attenua il trattamento sanzionatorio) il c.d. nesso teleologico, ovvero l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato.
La configurabilità della continuazione anche in ipotesi di reati eterogenei muta anche l’approccio al meccanismo di individuazione della violazione più grave (cui applicare l’aumento fino al triplo): in precedenza si è preferito un criterio di determinazione di tipo astratto, mentre si affaccia ormai la possibilità di valutare in concreto quale sia la violazione (eterogenea) più grave tra tutte quelle avvinte dalla continuazione. Si prevede infine che sia in caso di concorso formale, sia in caso di continuazione nella nuova versione allargata, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti, e dunque vi è un limite massimo di pena corrispondente all’applicazione del principio – previsto per il concorso materiale – del “tot crimina tot poenae”. Importante anche la soppressione, nel comma 3 dell’art.81, dell’inciso “le diverse violazioni si considerano come un solo reato”, che contribuirà a spostare l’asse ermeneutico della continuazione da una visione unitaria ad una sempre più parcellizzata.
In sostanza, a valle della riforma, viene ormai prevista per legge l’applicabilità del regime del cumulo giuridico tanto al concorso formale omogeneo (secondo l’interpretazione giurisprudenziale univoca, avallata dalla Corte costituzionale nel 1966), quanto al concorso formale eterogeneo ed al reato continuato, così omogeneo come eterogeneo, restandone fuori il solo concorso materiale di reati, cui continua ad applicarsi il cumulo materiale c.d. “temperato”.
* * *
Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che converte con modificazioni il decreto legge n.99.
1992
Il 3 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.10570 alla cui stregua, in caso di falsa incolpazione di più soggetti innocenti con unica denuncia, si configurano tanti distinti reati di calunnia, unificati ai sensi dell’art. 81, 1 comma, c.p. quanti sono gli incolpati. Per la Corte si è dunque al cospetto di una pluralità di reati in concorso (formale) tra loro, e non già di un unico reato.
1993
Il 3 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7575 alla cui stregua, in tema di cause di giustificazione, nelle fattispecie di concorso formale di reati ciascuna violazione della legge penale (e dunque ciascun reato) va considerata distinta con riguardo al relativo effetto giuridico (applicazione o meno, appunto, di una causa di giustificazione).
1996
Il 15 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7745 alla cui stregua, tra le due fattispecie criminose di cui agli articoli 423 e 642 sussiste concorso formale allorché l’incendio di cosa propria investa, per l’appunto, la cosa propria, che volontariamente venga in tal modo distrutta a fini di frode all’assicurazione. Si tratta di un paradigmatico caso di concorso formale eterogeneo di reati.
1999
Il 28 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.6336 alla cui stregua la norma di cui all’art. 81 c.p. è preordinata (per le ipotesi di concorso formale e di reato continuato) unicamente a moderare il rigore del cumulo materiale delle pene, senza sopprimere l’individualità dei singoli reati, non valendo pertanto a comunicare a tutti circostanze relative solo ad uno o ad alcuni di essi, che restano – a tali fini – distinti tra loro.
2000
Il 13 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1353 onde, in tema di concorso di reati, allorché la condotta punita venga espressa dalla norma incriminatrice quale rapporto tra il soggetto attivo e l’oggetto materiale, come nel caso di detenzione di armi e banconote false, è configurabile il concorso formale di reati ex art. 81, primo comma, c.p., purché l’azione abbia per oggetto una pluralità di cose aventi una propria specificità ed autonomia. Ne consegue che la simultanea detenzione di più armi o di più banconote false o di diverse quantità di droga eterogenea, se non è frazionabile in modo da determinare una pluralità di azioni unificabili sotto il vincolo della continuazione, a norma dell’art. 81 comma 2 c.p., genera comunque una pluralità di violazioni della stessa disposizione unificabili ai sensi del primo comma della citata norma, facendo dunque luogo a concorso formale.
* * *
Il 22 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.1420, Finocchiaro, che – pronunciandosi sulla questione della unità o pluralità di reati, declinandola massime in ottica di ne bis in idem processuale e seguendo, nella sostanza, la teoria c.d. normativa – ravvisa, con gran parte della giurisprudenza, l’unicità del reato quando si ravvisino contestualmente un’unica condotta, un unico nesso di causalità, un unico evento e un’unica volontà; si assiste invece per la Corte ad una pluralità di reati quando vi sia pluralità anche di uno solo di tali elementi (condotta, nesso di causalità, evento, volontà del soggetto agente).
2001
Il 7 giugno esce la sentenza delle SSUU n.22902, Tiezzi, in un rilevante passaggio motivazionale (ratione materiae) della quale la Corte afferma essere sostanzialmente 2 le problematiche da risolvere per la decisione del ricorso di specie e per le quali, in presenza di contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici, vi è stata rimessione alle sezioni unite: 1) se l’ipotesi criminosa di cui all’art. 12 del D.L. 3.5.1991, n. 143, convertito con la legge 5.7.1991, n. 197, che prevede e punisce l’acquisizione di carte di credito, di pagamento o di altro documento analogo di provenienza illecita, sia speciale o meno rispetto al delitto di ricettazione; 2) se la condotta di indebito utilizzo dei documenti predetti, contemplata dalla medesima norma, assorba il reato di truffa.
In ordine alla prima questione, chiosa la Corte, ad un orientamento che nega la sussistenza di ogni rapporto di specialità tra le due norme sul presupposto della piena autonomia delle ipotesi criminose poiché l’art. 12 coprirebbe spazi vuoti non coperti dall’art. 648 (Sez. II, 1.7.1994, P.M. c/Marrero Mieres; sez. II, 19.9.1997, Paissan; sez. II, 3.5.1999, P.G. c/Leone), fa riscontro altro indirizzo che ravvisa un rapporto di specialità tra le due norme, ritenendo speciale quella dell’art. 12 per l’elemento specializzante del particolare oggetto materiale (tra le altre Sez. II, 9.1.1998, P.G. c/Scandinaro; sez. II, 9.4.1999, Ramon; sez. V, 10.6.1998, P.M. c/Vallorani; sez. V, 21.11.2000, Amoroso). Sul tema del concorso tra l’art. 12 prima parte e l’art. 640 c.p. alcune pronunce hanno sostenuto il concorso di reati sulla base della diversa obiettività giuridica e della presenza nella truffa di elementi quali il danno e il profitto, estranei all’altra figura criminosa (Sez. V, 28.2.95, Borelli; sez. V, 5.5.1995, Lazzaro; sez. V, 9.4.1999, P.G. c/Sorgente), altre hanno ritenuto che la nuova fattispecie, più grave, assorba la truffa (Sez. V, 1.10.1999, Melluccio).
Appare anzitutto opportuno al Collegio richiamare il dettato dell’art. 12, che così recita: “chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di danaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire seicentomila a lire un milione. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di danaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi“.
Va ricordato – chiosa la Corte – che l’intero secondo periodo, disciplinante la diversa condotta di possesso cessione o acquisizione, è stata introdotta dal legislatore in sede di conversione del decreto legge n. 143, presentato dal Governo dopo l’intervenuta decadenza di due precedenti identici. Dall’esame della norma citata emerge la necessità di stabilire preliminarmente se essa prevede in ciascuna delle due parti – per il caso di indebita utilizzazione di carte di credito o equivalenti di provenienza illecita – più ipotesi di reato (disposizione c.d. cumulativa) ovvero una sola fattispecie criminosa realizzabile con diverse condotte a carattere alternativo.
Il problema peraltro, pur sollevato nel ricorso, non consente una soluzione univoca, com’è dimostrato dalla diversità dei criteri di volta in volta suggeriti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e va quindi impostato essenzialmente alla stregua di una corretta interpretazione letterale e logica della norma a più fattispecie della cui applicazione si tratta. In linea di massima si può ritenere valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in relazione alle offese arrecate.
L’analisi letterale della norma in esame evidenzia la previsione di due condotte che sotto l’aspetto fenomenico presentano caratteri ben diversi, ed anzi del tutto eterogenei: la prima consiste nella indebita utilizzazione, cioè nel concreto uso illegittimo del documento in questione – lecita o illecita che sia la relativa provenienza – da parte del non titolare al fine di realizzare un profitto per sé o per altri; la seconda si concreta nel possesso (inteso come detenzione materiale), nella cessione o nell’acquisizione di tali documenti di provenienza illecita, e dunque in una azione che – sotto il profilo logico e temporale – è distinta dalla prima perché la precede e ne costituisce il presupposto fattuale. Non v’è chi non veda quindi, prosegue il Collegio, come le due condotte non possano essere considerate equivalenti e in rapporto di alternatività formale. Il che trova conforto nell’introduzione, in sede di conversione, della seconda di esse che, ove si accogliesse la tesi respinta dalla Corte, sarebbe del tutto pleonastica quanto alle ipotesi di possesso e acquisizione, che si atteggiano ad indefettibile presupposto della prima (utilizzazione).
Né può considerarsi fondata l’opinione di chi in dottrina ritiene che con tale modifica aggiuntiva il legislatore abbia inteso anticipare per le carte di credito o similari di provenienza illecita la soglia di punibilità al solo possesso o ricezione, così considerando un post factum non punibile la successiva utilizzazione. Invero una tale tesi presuppone che a seguito dell’introduzione della nuova fattispecie criminosa quella di cui alla prima parte dell’art. 12 risulti modificata in senso restrittivo, con l’esclusione dell’ipotesi in cui l’uso abbia ad oggetto carte di credito di provenienza illecita, il che appare del tutto arbitrario quanto meno in relazione ad una esigenza di più penetrante repressione di un fatto certamente di più rilevante disvalore sociale.
Del resto situazioni del tutto analoghe – quale ad esempio quella della ricettazione di titoli di credito poi utilizzati per commettere falsi e/o truffe – non hanno mai dato luogo a dubbi sulla concorrenza di tali reati. Resta stabilito quindi per le SSUU che nell’ipotesi di possesso e successiva utilizzazione di carte di credito di provenienza illecita, si ha concorso di reati e non concorso apparente di norme incriminatrici.
2008
Il 19 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.43189, che si occupa del delitto di detenzione di materiale pornografico ai sensi dell’art.600 quater c.p., introdotto nella relativa formulazione originaria dalla legge n.269.98 con un ambiguo riferimento al procacciamento ed alla disponibilità del ridetto materiale, condotte queste ultime di non agevole definizione massime con riguardo alle ipotesi in cui il soggetto agente possieda immagini pedopornografiche ottenute giusta accesso a siti internet.
Sopravvenuta la legge n.38.06, il delitto di detenzione di materiale pornografico ha visto la relativa condotta tipizzata in due nuove e distinte forme, ovvero il procurarsi il ridetto materiale – l’agente acquisisce, con attività all’uopo, la disponibilità di tale materiale – ed il detenerlo – l’agente ha la disponibilità concreta ed attuale del materiale de quo, facendone l’uso che ritiene – .
Tanto premesso, per la Corte tutte le attività attraverso cui il detentore ottiene il materiale pedopornografico integrano la nozione del “procurarsi”; in proposito, le due forme di condotta, ovvero il “detenere” (o il disporre, nella previgente formulazione normativa) ed il “procurarsi”, condividono un elemento comune costituito dalla disponibilità – sia pure momentanea – del materiale pedopornografico; tanto che parte della dottrina ha financo dubitato della concreta utilità di distinguere tra il procacciamento e la disponibilità (o la detenzione), non essendo il procacciamento configurabile senza il conseguimento di una disponibilità, quanto meno momentanea, del pertinente oggetto (l’unica spiegazione di un’autonoma incriminazione del procacciamento potendo ravvisarsi, per la mentovata dottina, nella possibilità di reprimere penalmente il tentativo di procurarsi il materiale pornografico, tentativo non configurabile per la detenzione).
Proprio sulla scorta di tale considerazione, per il Collegio il “procurarsi” ed il “detenere” non configurano due reati diversi, ma rappresentano due modalità di esecuzione dello stesso reato, l’art. 600 quater c.p. facendo luogo pertanto ad una “norma a più fattispecie” o “norma mista alternativa”, che integra una unica incriminazione e che è quindi applicabile una sola volta anche nel caso di contestuale realizzazione di entrambe le forme di condotta, con esclusione della configurabilità del concorso formale.
2010
Il 01 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.28548, che si occupa di un classico caso di lesioni colpose che, a cagione di un aggravamento della malattia indotta nella vittima, la conducono alla morte. Sul crinale processuale, la Corte segue il costante indirizzo della giurisprudenza alla cui stregua va assunta non operativa la preclusione del c.d. ne bis in idem allorché il giudizio si sia svolto in costanza di malattia, cui sia seguita la morte della vittima dopo la condanna, sulla scorta della diversità del “fatto” che ha ad oggetto il secondo processo per omicidio colposo. In sostanza, per la Corte in queste ipotesi si è al cospetto di una pluralità di reati (lesioni ed omicidio), e la circostanza onde si sia già giudicato sul primo fatto (lesioni) non implica bis in idem laddove si proceda per il secondo fatto (omicidio).
Diverso è invece il caso in cui condanna non vi sia ancora stata; in proposito, quanto – in particolare – al rapporto tra lesioni volontarie (dolose) e omicidio, la dottrina maggioritaria nega che possa operare una duplicazione di contestazioni da parte del PM in presenza di uno stesso processo degenerativo dell’incolumità personale (che dapprima ha provocato le lesioni e poi la morte), taluni invocando all’uopo il principio di specialità (l’evento morte atteggiandosi ad elemento speciale rispetto alla malattia), altri invocando la c.d. “progressione criminosa”, altri ancora appellandosi invece al principio di “consunzione”, con conseguente riconducibilità della violazione perpetrata dal soggetto agente ad una sola norma penale (concorso apparente di norme).
2011
Il 26 maggio esce la sentenza delle SSUU n.21039 che si occupa delle fattispecie di bancarotta ed approfitta per distinguere – ratione materiae – le ipotesi di c.d. “norme miste cumulative” (o “disposizioni a più norme”) da quelle di “norme miste alternative” (o “norme a più fattispecie”).
Per la Corte, più in specie, l’art.216 della legge fallimentare va apprezzato nella relativa, complessa articolazione che lo connota, ed è inquadrabile nella categoria della disposizione a più norme, prevedendo diverse ipotesi di reato assolutamente eterogenee tra loro per condotta, per oggettività giuridica, per gravità, per tempo di consumazione, per sanzione prevista.
Si tratta: a) della bancarotta fraudolenta patrimoniale, contemplata dal comma 1, n. 1, e cioè la distrazione, l’occultamento, la dissimulazione, la distruzione, la dissipazione di beni, nonché l’esposizione e il riconoscimento di passività inesistenti (diminuzione fittizia o effettiva del patrimonio), condotte queste che ledono l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia offerta dall’integrità patrimoniale dell’imprenditore; b) bancarotta fraudolenta documentale, contemplata dal comma 1, n. 2, che lede l’interesse dei creditori alla ostensibilità della situazione patrimoniale del relativo debitore; c) bancarotta preferenziale, contemplata dal comma 3, che lede l’interesse dei creditori alla distribuzione dell’attivo secondo i principi della par condicio.
Si tratta di figure criminose che possono integrare fatti di bancarotta pre-fallimentare o post-fallimentare, a seconda che siano poste in essere prima o durante la procedura concorsuale (cfr. commi primo, secondo e terzo); diversa è la collocazione temporale della bancarotta prefallimentare, la cui consumazione coincide con la sentenza dichiarativa di fallimento (condizione di esistenza del reato, ovvero – per maggioritaria giurisprudenza – condizione obiettiva di punibilità), rispetto a quella post-fallimentare, in cui la già intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento opera come presupposto del reato e la consumazione coincide temporalmente con le condotte vietate poste in essere.
Differenziato è – precisa la Corte – anche il trattamento sanzionatorio previsto: più grave per le ipotesi di bancarotta fraudolenta in senso stretto (comma 1, n. 1) e per le frodi nelle scritture contabili (comma 1, n. 2); meno grave per le indebite preferenze usate ai creditori (comma 3).
L’art. 216 della c.d. legge fallimentare annovera tuttavia, chiosa ancora la Corte, anche norme a più fattispecie alternative o fungibili (reato unitario). E’ il caso delle condotte di distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione di cui al comma 1, n. 1, le quali, se hanno ad oggetto lo stesso bene, sono, per così dire, in rapporto di “alternatività formale”, di “alternatività di modi”, nel senso cioè che le diverse condotte descritte dalla legge sono estrinsecazione di un unico fatto fondamentale e integrano un solo reato, anche se vengono poste in essere, in immediata successione cronologica, due o più di tali condotte, che, essendo omogenee tra loro, ledono lo stesso bene giuridico (integrità del patrimonio del debitore insolvente): in tal caso, precisa la Corte, un atto conforme al tipo legale resta assorbito dalla realizzazione, in contiguità temporale, di altro atto di per sé stesso tipico. Analoghe considerazioni possono per la Corte ripetersi per le ipotesi, pur esse omogenee, di esposizione e di riconoscimento di passività inesistenti (entrambe lesive dell’interesse specifico alla veridica indicazione del passivo).
In difetto della detta unitarietà d’azione con pluralità di atti, è indubbio tuttavia per la Corte che, anche in presenza di fattispecie “alternative”, si ha tuttavia concorso ogniqualvolta le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, psicologico e funzionale e abbiano ad oggetto beni specifici differenti.
2014
Il 17 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1856, che si occupa delle c.d. “norme penali miste” e del concorso di reati che ad esse potrebbe afferire. Per la Corte – nel dettaglio – non sussiste alcun rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma dell’art. 642 c.p., configurando fattispecie di reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale che, quindi – ove ne siano integrati i pertinenti estremi fattuali – possono concorrere fra loro.
L’art. 642 c.p. (“fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona”) dispone al primo comma che “Chiunque, al fine di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione è punito con la reclusione da uno a cinque anni”; al secondo comma, dispone poi che “alla stessa pena soggiace chi al fine predetto cagiona a se stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro. Se il colpevole consegue l’intento la pena è aumentata. Si procede a querela di parte”.
Il Collegio prende le mosse dalla individuazione di tutte le diverse ipotesi riconducibili alla disposizione in esame, configurabili nel numero di 5 in tutto: a) danneggiamento dei beni assicurati; b) falsificazione o alterazione della polizza; c) mutilazione fraudolenta della propria persona; d) denuncia di sinistro non avvenuto; e) falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro. La Corte si chiede in particolare se le ipotesi di cui al comma 1 e 2 possano concorrere laddove l’agente ponga in essere una o più delle condotte richiamate, dovendo essere poi ulteriormente precisato se il concorso sia ammissibile solo tra le ipotesi di cui al comma 1 o anche tra le ipotesi previste all’interno di ciascuno dei comma considerati.
Per il Collegio, al fine di risolvere la questione ad essa sottoposta va assunto fondamentale inquadrare correttamente sul crinale giuridico la norma oggetto di scandaglio; norma che secondo i giudici rientra appunto nella categoria delle cd. norme penali miste, all’interno della quale è possibile isolare le cd. “norme a più fattispecie” (norme miste alternative) e le cd. “disposizioni a più norme” (norme miste cumulative): le prime descrivendo una pluralità di condotte fungibili con le quali può essere integrata in via alternativa una unica norma incriminatrice; le seconde, al contrario, contenendo in sé tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste, onde le condotte non sono alternative tra loro, costituendo piuttosto differenti elementi materiali di altrettanti reati. Collocare dunque la disposizione di cui all’art.642 c.p. nella prima o nella seconda categoria non è circostanza priva di conseguenze: nel primo caso, l’eventuale realizzazione di più condotte lascia intatta l’unicità del reato, mentre nel secondo la pluralità di condotte fa luogo ad un concorso di reati.
Con specifico riguardo ai criteri distintivi tra le due categorie di norme inciminatrici, il riconoscimento di una norma a più fattispecie (reato unico) va condizionato per la Corte al rispetto di taluni requisiti: identità oggettiva (le condotte devono avere lo stesso oggetto materiale); identità soggettiva (le condotte devono essere compiute dallo stesso soggetto), identità cronologica (le condotte devono essere contestuali) e identità psicologico funzionale (devono essere indirizzate verso un unico fine). Soltanto ove sussistano tutti tali presupposti – chiosa la Corte – è possibile affermare di trovarsi al cospetto di un unico titolo di reato, onde il reo viene chiamato in concreto a rispondere di un solo illecito penale sebbene, sotto l’aspetto materiale, abbia fatto luogo a più condotte (tutte, sul piano astratto, penalmente rilevanti).
L’art. 642 c.p. si atteggia, per la Corte, a norma penale mista del tutto peculiare, giacché accorpa in sé sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte previste nel primo e nel secondo comma) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all’interno di ciascun comma). Di conseguenza, poiché ciascun comma prevede ipotesi diverse di reato, ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime concorrono fra di loro.
La propria costante giurisprudenza – assume più nello specifico la Corte – ritiene che “l’articolo 642 cod. pen. – che punisce la fraudolenta distruzione della cosa propria – costituisce un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’articolo 640 cod. pen.: nel primo, infatti, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore”: Cass. 2506/2003 Rv. 227890; Cass. 4352/1997 Rv. 207438; Cass. 4828/1994 Rv. 201184. La ricorrente del caso allo scandaglio, pur non contestando il suddetto principio di diritto, ha obiettato che le condotte contestate all’imputata, in realtà, sono due ed autonome l’una dall’altra: a) la fraudolenta distruzione della cosa propria (articolo 642 cod. pen., comma 1); b) la fraudolenta esagerazione del danno (articolo 642 cod. pen., comma 2): quindi, più che dichiarare l’assorbimento del reato di tentata truffa in quello di cui all’articolo 642 cod. pen., la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione giuridica dei fatti e ritenere il concorso fra le due fattispecie di cui all’articolo 642 cod. pen., comma 1 e 2.
L’articolo 642 cod. pen. prevede – ribadisce il Collegio – 5 ipotesi delittuose: a) il danneggiamento dei beni assicurati: primo comma, nella parte in cui prevede “distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà”; b) la falsificazione od alterazione della polizza o della documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione: primo comma, seconda parte; c) la mutilazione fraudolenta della propria persona: secondo comma prima parte nella parte in cui prevede: “cagiona a sé stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da infortunio”; d) la denuncia di un sinistro non avvenuto: secondo comma nella parte in cui prevede “denuncia un sinistro non accaduto”; e) la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al sinistro: comma 2, ultima parte nella parte in cui prevede: “distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro”.
Ora, all’imputata, nel capo sub a) e’ stata contestata la condotta del danneggiamento dei beni assicurati prevista nell’articolo 642 c.p., comma 1, prima parte: “distruggeva mediante incendio parte del materiale presente presso il capannone della suindicata ditta, nonché parte degli infissi e delle strutture murarie”; al capo sub b), le e’ stata, invece, contestata la condotta di aver denunciato “danni superiori a quelli effettivamente prodotti dall’incendio verificatosi il (OMISSIS) presso il capannone della (OMISSIS)” in modo da indurre “in errore la (OMISSIS) al fine di procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della compagnia di assicurazioni”.
La seconda delle condotte contestate, come appare evidente, rientra nella quinta fattispecie prevista dall’articolo 642 cod. pen. ed esattamente in quella con la quale il soggetto attivo “falsifica o altera documentazione relativa al sinistro”. Il problema, quindi, che pone l’articolo 642 c.p. e’ per la Corte duplice: a) in che rapporti si pone con la truffa; b) se e in che misura le varie fattispecie previste nei due comma dell’articolo 642 cod. pen. possano (o meno) concorrere.
Quanto ai rapporti fra l’articolo 642 cod. pen. e l’articolo 640 c.p. (o articoli 56 e 640 cod. pen.), per il Collegio deve ribadirsi il tradizionale orientamento giurisprudenziale onde fra le due norme vi e’ un rapporto di specialita’, in quanto l’articolo 642 cod. pen., a ben vedere, ha la stessa struttura dell’articolo 640 cod. pen., in cui, però, gli interessi tutelati (patrimonio dell’assicuratore: Cass. 12210/2007 Rv. 236132; Cass. 22906/2012 Rv. 252997), il soggetto attivo (per le ipotesi che presuppongono la stipula di un contratto e, quindi, la qualifica di soggetto assicurato), e l’elemento materiale dei raggiri e degli artifizi, sono costituiti da elementi speciali rispetto a quelli generici previsti per il reato di truffa. In particolare, le condotte previste dall’articolo 642 cod. pen. vanno ritenute null’altro che particolari artifizi e raggiri previsti espressamente dal legislatore e che, quindi, caratterizzano e differenziano il suddetto reato da quello della truffa.
Il fatto però che fra il reato di truffa e quello di cui all’articolo 642 cod. pen. vi sia un rapporto di specialità, non significa – chiosa ancora il Collegio – che fra le 5 ipotesi previste dall’articolo 642 cod. pen. non vi possa essere concorso – materiale o formale – ove l’agente ponga in essere una o più delle condotte criminose previste dalla suddetta norma. Sul punto, peraltro, e’ per la Corte opportuno preliminarmente precisare se il concorso sia ammissibile solo fra le ipotesi previste nei commi 1 e 2 o anche fra le ipotesi previste all’interno di ciascun comma. La questione va risolta appurando quale sia la natura giuridica da riconoscere alla disposizione incriminatrice di cui all’articolo 642 cod. pen, che rappresenta, per l’appunto, un chiaro esempio di “norma penale mista”. Come e’ noto, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza della Corte distinguono, all’interno del piu’ ampio genus denominato “norma penale mista”, le cd. “norme a più fattispecie” (o norme miste alternative) dalle cd. “disposizioni a più norme” (o norme miste cumulative).
Le norme a più fattispecie descrivono una pluralità di condotte fungibili, con le quali può essere integrata in via alternativa un’unica norma incriminatrice: in definitiva, il reato astrattamente previsto e’ uno solo, ma in concreto lo stesso può venire realizzato indifferentemente da una o più delle condotte tipizzate dalla norma, senza che la modalità di esecuzione – naturalisticamente unitaria o plurima – incida sul carattere, invariabilmente unitario, del reato posto in essere dal reo. Al contrario, le disposizioni a più norme contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste; ciò in quanto le diverse condotte, lungi dall’essere tra loro equipollenti ed alternative, non rappresentano semplicemente una diversa manifestazione modale della medesima fattispecie criminosa, bensì costituiscono differenti elementi materiali di altrettanti reati.
La distinzione – precisa il Collegio – e’ foriera di rilevanti conseguenze applicative, giacché, nel primo caso, l’eventuale realizzazione congiunta di più condotte lascia intatto il carattere unitario del reato; nel secondo caso, invece, la violazione di ciascuna fattispecie implica l’integrazione di altrettante ipotesi di reato, ognuna dotata di una autonoma rilevanza, determinando pertanto l’operatività della disciplina in materia di concorso di reati.
Tanto premesso, lo sguardo deve per la Corte volgersi all’individuazione dei criteri discretivi, che consentano di discernere le ipotesi nelle quali si versi in una, anziché nell’altra specie di norma penale mista.
La tematica dell’unita’ o pluralità di reati e’ stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo ad altre norme incriminatrici presenti nel codice penale o in leggi speciali, le quali, al pari dell’articolo 642 cod. pen., sono (o erano) costruite mediante l’inserimento, in un unico articolo, di una molteplicità di condotte materiali.
Si pensi anzitutto – chiosa ancora la Corte – a quel costante orientamento giurisprudenziale, in base al quale “l’articolo 216, n. 1, L.F. e’ una norma a più fattispecie, in quanto le condotte da essa previste sono ad un tempo plurime, alternative, equipollenti e tra loro fungibili, sicché quando ci si riferisce ad una pluralià’ di “fatti” non si richiede la contestuale presenza di più fattispecie diverse descritte negli articoli 216 e 217 ma la reiterazione della condotta, comunque sussumibile in entrambe o in ciascuna delle due ipotesi, con la conseguenza che anche fatti dello stesso tipo, e riferibili alla stessa ipotesi di bancarotta, sono sufficienti ai fini dell’applicazione di quella circostanza aggravante”: ex plurimis Cass. 8327/1998 rv 211367; SSUU 21039/2011 Rv. 249667. Principi di analogo tenore sono stati altresì enunciati, in materia di stupefacenti, in relazione al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 il quale, secondo un indirizzo consolidato e ribadito anche in tempi recenti (Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 36523/2008 Rv. 242014; Cass. 22588/2005, Rv. 232094; Cass. 230/2000 Rv. 215175) “costituisce norma a piu’ fattispecie tra loro alternative. Con la duplice conseguenza: da un lato, della configurabilità del reato allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste; e, dall’altro, per quanto qui interessa, dell’esclusione del concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative, nel qual caso le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell’ipotesi più grave”.
Sul punto, si e’ peraltro precisato che, affinché le condotte illecite minori perdano la loro individualità e vengano assorbite nell’ipotesi più grave, occorre che si verifichino le seguenti circostanze: a) che si tratti dello stesso oggetto materiale; b) che le attività illecite minori siano compiute dallo stesso soggetto che ha commesso quelle maggiori o dagli stessi soggetti che ne rispondono a titolo di concorso; c) che le condotte siano contestuali e cioè si verifichi il susseguirsi di vari atti, sorretti da un unico fine, senza apprezzabili soluzioni di continuità. Qualora, invece, le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione di legge e quindi distinti reati; unificabili eventualmente per la continuazione, se commessi dallo stesso soggetto o dagli stessi soggetti in concorso, in presenza del disegno criminoso unitario: Cass. 230/1999 RV 215175; Cass. 25276/2002 Rv. 222013; Cass. 22588/2005 Rv. 232094; Cass. 9477/2009 Rv. 246404; Cass. 8163/2009 Rv. 246211.
Sulla problematica in esame sono, poi, intervenute anche le SSUU le quali, con la sentenza n 22902/2001, Tiezzi, rv 218871, in relazione all’ormai abrogato articolo 12 del Decreto Legge n. 143 del 1991 conv. in Legge n. 197 del 1991, nella dichiarata consapevolezza della difficolta’ di rinvenire criteri univoci di risoluzione del problema, ritennero di impostarlo “essenzialmente alla stregua di una corretta interpretazione letterale e logica” della disposizione, puntualizzando che “in linea di massima si puo’ ritenere valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in relazione alle offese arrecate”.
L’esame della suddetta giurisprudenza, consente, quindi, di concludere che il riconoscimento della natura di norma a più fattispecie viene rimesso al riscontro cumulativo di un’identità oggettiva (le “più fattispecie” devono avere uno stesso oggetto materiale), soggettiva (le “più fattispecie” devono essere compiute dallo stesso soggetto), cronologica (le “più fattispecie” devono essere contestuali) e psicologico-funzionale (le “più fattispecie” devono essere indirizzate verso un unico fine) tra le diverse condotte penalmente sanzionate. Soltanto ove la verifica abbia esito positivo – prosegue il Collegio – e’ possibile affermare che ci si trova al cospetto di un unico titolo di reato, cosicché il reo, anche laddove abbia commesso plurime violazioni della medesima norma, sarà chiamato a rispondere di un solo illecito, sebbene integrato sotto l’aspetto materiale da una pluralità di condotte. Al di fuori del perimetro così delineato, ciascuna violazione della disposizione incriminatrice si tradurrà, al contrario, in altrettanti reati quante siano state le condotte effettivamente realizzate dall’agente.
Ciò chiarito, può affermarsi per la Corte che l’articolo 642 cod. pen. si configura quale norma penale mista del tutto peculiare, giacché accorpa in sé sia la qualifica di disposizione a più norme (nel rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2) sia quella di norma a più fattispecie (in riferimento alle condotte previste all’interno di ciascun comma). Come precisato dalle SSUU del 2001, l’esegesi del dettato normativo deve condursi alla stregua degli ordinari canoni ermeneutici, affidandosi cioè a quei criteri che orientano la comune attività d’interpretazione. A completamento di questo primo momento d’indagine, segue, poi, la necessaria verifica in ordine alla sussistenza dei predetti presupposti fattuali di affinità tra le diverse condotte tipiche in concreto realizzate, alla cui ricorrenza soltanto e’ subordinato l’effettivo riconoscimento della natura di norma a più fattispecie nonché la valutazione normativa delle stesse in guisa di azione unitaria.
Nessuna indicazione puo’, invero, trarsi dal profilo sanzionatorio, il quale, essendo prevista la stessa pena, risulta nella specie del tutto neutro ai fini che ci occupano. Neppure la previsione formale di un’aggravante solo nel comma 2 si rivela decisiva, trattandosi di una mera imprecisione di tecnica legislativa, che deve ragionevolmente essere corretta in sede ermeneutica mediante la riferibilità della stessa a tutte le ipotesi ex articolo 642 cod. pen. (cfr. Cass., 13 novembre 2003, n. 2506, Rv. 227891). Quanto alla relazione che intercorre tra i due comma, deve escludersi un rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma, rappresentando piuttosto fattispecie di reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale. Indice sintomatico della infungibilita’ delle diverse ipotesi criminose appare, in primis, la netta separazione delle stesse in due comma distinti; collocazione che, pur non potendo assurgere ad elemento in sé solo decisivo, evidenzia in modo plastico – per il Collegio – una diversità ontologica tra le varie condotte sanzionate.
Segnatamente, da un raffronto strutturale delle 5 differenti ipotesi delittuose emergono, infatti, 3 gruppi di condotte, distinti gia’ dal punto di vista fenomenico: uno, comprensivo di comportamenti che si sostanziano in atti violenti su cose o persone (ipotesi sub a e c); un altro, concernente fatti di falso materiale (ipotesi sub b ed e); ed infine, un ultimo, che include esclusivamente una condotta di falso ideologico (ipotesi sub d). Ora, ciascun comma dell’articolo 642 cod. pen. incrimina, con una corrispondenza quasi perfetta, una soltanto delle condotte – fenomenologicamente distinte – incluse in ognuno dei suddetti gruppi: in particolare, il comma 1 punisce le ipotesi sub a) e b), mentre il comma 2 quelle sub c), d), e). Se ne desume che la collocazione dei vari comportamenti e’ il frutto di una meditata scelta legislativa, come a voler distribuire, in due autonomi titoli di reato, ipotesi criminose eterogenee, da tener anche prima facie separate in diversi comma.
Il che trova conferma nella intitolazione della norma in questione, peraltro rimasta significativamente invariata a seguito della riforma apportata con la Legge n. 273 del 2002, la quale ha affiancato alle tradizionali ipotesi sub a) c) le altre attualmente sanzionate; difatti, gia’ la locuzione “e” contenuta nella rubrica (“Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona”) certifica la voluntas legis, ribadita in occasione della novella, di prevedere due differenti fattispecie delittuose, e non un unico titolo di reato (presumibilmente, la “frode assicurativa”) alternativamente realizzabile da una qualsiasi delle cinque condotte tipiche.
Ad ulteriore sostegno, va osservato per la Corte che le diverse ipotesi comprese in ciascun comma divergono altresì sia sotto l’aspetto oggettivo, sia per disvalore sociale. A ben vedere, infatti, nell’ambito del secondo gruppo, diverso e’ l’oggetto su cui cade il fatto di falsita’ materiale: nell’ipotesi sub b) “una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione”, mentre nell’ipotesi sub c) “elementi di prova o documentazione relativi al sinistro”. Inoltre, che il terzo gruppo di condotte sia costituito da un fatto di falsità ideologica previsto unicamente nel comma 2 e’ coerente con la sistemazione delle varie fattispecie operata dalla riforma del 2002, la quale, ha accentrato le tre ipotesi delittuose di cui al comma 2 sul comune presupposto di un sinistro, reale o solo falsamente denunciato.
Ma la differenza tra le varie ipotesi si coglie maggiormente all’interno del primo gruppo. Benché tutte le ipotesi delittuose ivi previste siano dirette a protezione dell’unico bene giuridico del patrimonio dell’ente assicurativo, e’ evidente che gli atti di danneggiamento dei beni assicurati e gli atti violenti sulla persona del danneggiato esprimano un grado di riprovazione diverso, più o meno intenso a seconda dell’oggetto materiale su cui incide la condotta fraudolenta, sicché la collocazione in due comma distinti pare tesa proprio a valorizzare tale distanza (dis)valoriale. Coniugando, quindi, il suddetto profilo oggettivo con quello teleologico, e’ del tutto comprensibile e logico per il Collegio che fatti aventi oggetti materiali diversi, oltre che connotati da una carica di disvalore sociale variabile, siano stati collocati in due distinti comma, proprio a valorizzarne la distanza anche in termini di intensità lesiva; con la coerente conseguenza che, allorquando siano state realizzate più condotte tipiche previste dai due comma, devono ritenersi integrati illeciti autonomi, la cui individualità non può certo essere assorbita in presenza di situazioni ontologicamente ed oggettivamente eterogenee, anche in relazione alle offese arrecate.
Detta ricostruzione non e’ stata scalfita neppure dalla novella del 2002, la quale, nell’introdurre un ampliamento delle condotte punibili in ambedue i comma, ha soltanto reso più complessa la struttura dell’articolo 642 cod. pen., attribuendo a ciascun comma la natura di norma a più fattispecie. L’introduzione di ulteriori condotte punibili assume rilievo per la soluzione non tanto del problema del rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2, quanto del separato problema del rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma.
Vigente la versione originaria, le uniche due condotte ivi sanzionate si ponevano in relazione di alterità formale, con la conseguenza che, essendo infungibili a causa della differente carica di disvalore sociale connessa alla diversità del loro oggetto materiale, l’articolo 642 cod. pen. costituiva unicamente una disposizione a più norme.
Come sopra chiarito, tale qualificazione va per la Corte confermata anche in seguito alla riforma normativa, con la puntualizzazione che l’alternatività formale, che prima concerneva solo le ipotesi di danneggiamento dei beni assicurati e di mutilazione della propria persona, va oggi estesa al rapporto tra le nuove ipotesi contemplate rispettivamente nel primo e nel secondo comma, in ragione della difformità oggettiva che caratterizza le stesse. In riferimento alla seconda problematica (rapporto tra le condotte tipiche di ciascun comma), giova rilevare per la Corte che il legislatore della riforma, pur potendo modificare l’impianto normativo dell’articolo 642 cod. pen., ha ritenuto di confermare la separazione delle fattispecie in comma distinti.
La scelta legislativa, evidentemente, e’ stata ispirata da un intento preciso: quello, cioè, di accorpare ipotesi omogenee, da un lato, e di tenere separate ipotesi eterogenee, dall’altro. Nella ricerca dei tratti comuni alle varie fattispecie soccorre il comma 2, il quale contiene un ventaglio di condotte affini quanto al loro presupposto fattuale, atteso che tutte postulano l’esistenza, reale o falsamente denunciata, di un sinistro. Sinistro che, invece, non e’ richiesto per la realizzazione delle fattispecie di cui al comma 1, posto che esse o prescindono da un siffatto evento oppure si pongono in epoca cronologicamente anteriore allo stesso. Che, poi, l’evento lesivo sia realmente avvenuto, sia stato oggetto di una falsa denuncia ovvero, pur essendosi verificato, le conseguenze siano state meno gravi di quelle artatamente aggravate o gli elementi probatori o documentali dello stesso siano stati fraudolentemente distrutti, alterati o precostituiti, non riveste alcun rilievo; ciò che conta, e che rende le condotte truffaldine del comma 2 espressione di una situazione identica dal punto di vista ontologico, fenomenico e cronologico, e’ che i comportamenti fraudolenti siano tutti successivi ad un sinistro, sia o no questo realmente accaduto.
Di conseguenza, le condotte ivi previste rappresentano ontologicamente diverse modalità di esecuzione alternative di un medesimo illecito, e la violazione di due o più di esse non da luogo ad una pluralità di reati in concorso – ed eventualmente in continuazione – tra loro, bensì ad un unico titolo di reato: si può, quindi affermare che i due commi dell’articolo 642 cod. pen. costituiscono, ciascuno, una norma a più fattispecie. Applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie in esame, deve allora concludersi che la condotta contestata all’imputata al capo sub b) integra, in realtà, l’ipotesi criminosa di cui all’articolo 642 cod. pen., comma 2 che concorre con quella contestata al capo sub a).
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Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.50130 alla cui stregua – inserendosi in un consolidato filone pretorio in tema di rapporti tra gli artt. 81, co. 1, c.p. (concorso formale di reati) e 649 c.p.p. (divieto del c.d. bis in idem), onde la preclusione del ne bis in idem non opera ove tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile un’ipotesi di concorso formale di reati, potendo in tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge.
Si tratta di una trend pretorio che si palesa in frizione con l’orientamento della Corte EDU inteso a considerare un fatto “lo stesso” sulla base della relativa dimensione storico-empirica, prescindendo dunque dalla pertinente qualificazione giuridica.
2016
Il 21 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.200, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo (e che dunque vi sia bis in idem) per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.
Nel merito della questione ad essa proposta, per la Corte si tratta di verificare se davvero il principio del ne bis in idem in materia penale, enunciato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, abbia un campo applicativo diverso e più favorevole all’imputato del corrispondente principio recepito dall’art. 649 cod. proc. pen.
È anzitutto opportuno per il Collegio saggiare il convincimento del giudice a quo, secondo cui la disposizione europea significa che la medesimezza del fatto deve evincersi considerando la sola condotta dell’agente, assunta nei termini di un movimento corporeo o di un’inerzia.
È noto che la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, è intervenuta per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le sezioni della Corte EDU, sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. Dopo avere passato in rassegna le tesi enunciate in proposito, la Grande Camera ha consolidato la giurisprudenza europea nel senso che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio. È stata così respinta la tesi, precedentemente sostenuta da una parte di quella giurisprudenza, che l’infraction indicata dal testo normativo sia da reputare la stessa solo se medesimo è il reato contestato nuovamente dopo un primo giudizio definitivo, ovvero il fatto nella qualificazione giuridica che ne dà l’ordinamento penale.
È perciò pacifico oramai che la Convenzione recepisce il più favorevole criterio dell’idem factum, a dispetto della lettera dell’art. 4 del Protocollo n. 7, anziché la più restrittiva nozione di idem legale.
Il rimettente – chiosa ancora la Corte – pare persuaso che da questa corretta premessa derivi inevitabilmente il corollario ipotizzato innanzi, ossia che il test di comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale dipenda esclusivamente dalla medesimezza della condotta dell’agente.
In altre parole, secondo il rimettente, qualora non si intenda far rifluire nel giudizio comparativo implicazioni legate al bene giuridico tutelato dalle disposizioni penali, e ci si voglia agganciare alla sola componente empirica del fatto, come è previsto dalla Corte EDU, sarebbe giocoforza concludere che quest’ultimo vada individuato in ragione dell’azione o dell’omissione, trascurando evento e nesso di causalità.
La tesi, perla Corte, è tuttavia errata.
Il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
Non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella relativa dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente.
È chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto.
Nell’ambito della CEDU, una volta chiarita la rilevanza dell’idem factum, è perciò essenziale rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per comprendere se esso si restringa alla condotta dell’agente, ovvero abbracci l’oggetto fisico, o anche l’evento naturalistico.
L’indagine cui si è appena accennato non conforta – chiosa ancora la Corte – l’ipotesi formulata dal giudice a quo. Né la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, né le successive pronunce della Corte EDU recano l’affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con esclusivo riferimento all’azione o all’omissione dell’imputato. A tal fine, infatti, non possono venire in conto le decisioni vertenti sulla comparazione di reati di sola condotta, ove è ovvio che l’indagine giudiziale ha avuto per oggetto quest’ultima soltanto (ad esempio, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
Anzi, in almeno tre occasioni, il giudice europeo ha attribuito importanza, per stabilire l’unicità del fatto, alla circostanza che la condotta fosse rivolta verso la medesima vittima (sentenza 14 aprile 2014, Muslija contro Bosnia Erzegovina, paragrafo 34; sentenza 14 aprile 2014, Khmel contro Russia, paragrafo 65; sentenza 23 settembre 2015, Butnaru e Bejan-Piser contro Romania, paragrafo 37), e ciò potrebbe suggerire che un mutamento dell’oggetto dell’azione, e quindi della persona offesa dal reato, spezzi il nesso tra fatto giudicato in via definitiva e nuova imputazione, pur in presenza della stessa condotta (come potrebbe accadere, ad esempio, nell’omicidio plurimo).
Certo è che, perlomeno allo stato, la giurisprudenza europea, che «resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata» (sentenza n. 236 del 2011), non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del 2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., ove si escluda l’opzione compiuta con nettezza a favore dell’idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo). In particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto, quanto all’art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta dell’agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l’oggetto fisico di quest’ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l’evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale.
Ciò equivale a concludere che il difetto di una giurisprudenza europea univoca, tale da superare la sporadicità di decisioni casistiche orientate da fattori del tutto peculiari della fattispecie concreta, libera l’interprete dall’obbligo di porre alla base della decisione un contenuto della normativa interposta ulteriore, rispetto al rilievo storico-naturalistico del fatto, salvo – precisa il Collegio – quanto si dovrà aggiungere in seguito a proposito del concorso formale dei reati.
Parimenti, un’opzione a favore della più ampia espansione della garanzia del divieto di bis in idem in materia penale non è stimolata neppure dal contesto normativo e logico entro cui si colloca l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
È intuitivo che l’accoglimento della posizione propugnata dal giudice a quo, circa l’apprezzamento della sola condotta ai fini del giudizio sulla medesimezza del fatto, rassicura al massimo grado l’imputato già giudicato in via definitiva, che per tale via si sottrarrebbe a un nuovo processo penale, sia nei casi, tra gli altri, in cui si sia aggravata l’offesa nei confronti della stessa persona, sia in quelli in cui un’unica condotta abbia determinato una pluralità di vittime, lese in beni primari e personalissimi come la vita e l’integrità fisica.
Tuttavia la tutela convenzionale affronta il principio del ne bis in idem con un certo grado di relatività, nel senso che esso patisce condizionamenti tali da renderlo recessivo rispetto a esigenze contrarie di carattere sostanziale. Questa circostanza non indirizza l’interprete, in assenza di una consolidata giurisprudenza europea che lo conforti, verso letture necessariamente orientate nella direzione della più favorevole soluzione per l’imputato, quando un’altra esegesi della disposizione sia comunque collocabile nella cornice dell’idem factum.
In primo luogo, l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, secondo paragrafo, permette la riapertura del processo penale, quando è prevista dall’ordinamento nazionale, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di inficiare la sentenza già passata in giudicato. Mentre nell’ordinamento giuridico italiano è consentita la revisione della sola sentenza di condanna, al fine di assicurare senza limiti di tempo «la tutela dell’innocente» (sentenza n. 28 del 1969), la Convenzione consente di infrangere la “quiete penalistica” della persona già assolta in via definitiva solo perché sono maturate, dopo il processo, nuove evenienze, anche di carattere probatorio. La finalità di perseguire la giustizia, in tali casi, prevale sulla stabilità della garanzia processuale concernente la sottrazione alla pretesa punitiva dello Stato.
In secondo luogo, la stessa Grande Camera (sentenza 27 maggio 2014, Marguš contro Croazia) ha affermato (in un caso in cui un uomo politico aveva goduto dell’amnistia, rilevata in giudizio, per crimini di guerra, ma era stato nuovamente sottoposto a processo per gli stessi fatti) che l’art. 4 del Protocollo n. 7 è soggetto a bilanciamento con gli artt. 2 e 3 della Convenzione, in quanto parti di un tutto (paragrafo 128), ed ha aggiunto che ciò comporta l’inoperatività della garanzia del ne bis in idem in presenza di episodi estremamente gravi, quali i crimini contro l’umanità, che gli Stati aderenti hanno l’obbligo di perseguire (paragrafo 140). Si manifesta, in tal modo, un ulteriore tratto di appannamento dell’istituto che la Convenzione giustifica nel quadro del bilanciamento con obblighi di tutela penale.
È il caso però di sottolineare che nell’ordinamento nazionale non si può avere un soddisfacimento di pretese punitive che non sia contenuto nelle forme del giusto processo, ovvero che non si renda compatibile con il fascio delle garanzie processuali attribuite all’imputato. Né il principio di obbligatorietà dell’azione penale, né la rilevanza costituzionale dei beni giuridici che sono stati offesi, cui le parti private si sono ampiamente riferite, possono rendere giusto, e quindi conforme a Costituzione, un processo che abbia violato i diritti fondamentali, e costituzionalmente rilevanti, della persona che vi è soggetta.
Tra questi non può non annoverarsi il «principio di civiltà giuridica, oltre che di generalissima applicazione» (ordinanza n. 150 del 1995) espresso dal divieto di bis in idem, grazie al quale giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l’individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. In caso contrario, il contatto con l’apparato repressivo dello Stato, potenzialmente continuo, proietterebbe l’ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro dell’ordinamento costituzionale (sentenza n. 1 del 1969; in seguito, sentenza n. 219 del 2008).
In questa sede, peraltro, non interessa porre a raffronto i livelli di tutela offerti dalla CEDU e dal diritto nazionale, ma piuttosto trarre conferma che la prima non obbliga, neppure sul piano logico-sistematico, a optare in ogni caso per la concezione di medesimo fatto più favorevole all’imputato, posto che la garanzia del ne bis in idem non assume tratti di assolutezza, né nel testo dell’art. 4 del Protocollo n. 7, né nell’interpretazione consolidata tracciata dalla Corte di Strasburgo.
Resta, in definitiva, assodato che, contrariamente all’ipotesi del giudice a quo, allo stato la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Una volta chiarita la portata del vincolo derivante dalla CEDU, prosegue il Collegio, si tratta di accertare la compatibilità con esso del diritto vivente formatosi sull’art. 649 cod. proc. pen. Per quanto finora è stato precisato, è evidente che la ragione del contrasto non potrebbe consistere nella ricezione, da parte dell’interprete nazionale, di una visione di medesimezza del fatto svincolata dalla sola condotta, ed estesa invece all’oggetto fisico di essa, o all’evento in senso naturalistico, come suggerisce il rimettente. Piuttosto, la disposizione nazionale avrebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., solo se dovesse essere interpretata nel senso di assegnare rilievo all’idem legale, ovvero a profili attinenti alla qualificazione giuridica del fatto.
È quanto il giudice a quo ritiene accaduto, per effetto di una torsione curiale della lettera dell’art. 649 cod. proc. pen., che si riferisce al fatto storico, anche diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze.
Bisogna aggiungere che, se così fosse, a essere violati sarebbero anche gli artt. 24 e 111 Cost., ai quali il principio del ne bis in idem va collegato in via generale (ordinanza n. 501 del 2000), ma con una particolare pregnanza nella materia penale (sentenza n. 284 del 2003). Benché non riconosciuto espressamente dalla lettera della Costituzione, tale principio è infatti immanente alla funzione ordinante cui la Carta ha dato vita, perché non è compatibile con tale funzione dell’ordinamento giuridico una normativa nel cui ambito la medesima situazione giuridica possa divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire. Nel diritto penale, la Corte rammenta di avere da tempo arricchito la forza del divieto, proiettandolo da una dimensione correlata al valore obiettivo del giudicato (sentenze n. 6 e n. 69 del 1976, n. 1 del 1973 e n. 48 del 1967) fino a investire la sfera dei diritti dell’individuo, in quanto «principio di civiltà giuridica» (ordinanza n. 150 del 1995; inoltre, sentenze n. 284 del 2003 e n. 115 del 1987), oltretutto dotato di «forza espansiva» (sentenza n. 230 del 2004), e contraddistinto dalla natura di «garanzia» personale (sentenza n. 381 del 2006).
Il criterio dell’idem legale appare allora troppo debole per accordarsi con simili premesse costituzionali, perché solo un giudizio obiettivo sulla medesimezza dell’accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato.
Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico, e ripudiano l’intorbidamento della valutazione comparativa in forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Le sempre opinabili considerazioni sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono estranee al nostro ordinamento.
Ciò premesso, la Corte ha già avuto modo di prendere atto che «l’identità del “fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del 2008).
È in questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’art. 649 cod. proc. pen. vive nell’ordinamento nazionale con il significato che va posto alla base dell’odierno incidente di legittimità costituzionale. E si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico. A condizione che tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla dimensione empirica, si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella relativa astrattezza, sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea.
Certamente, a differenza di quanto mostra di credere il rimettente anche con riguardo alla pronuncia delle sezioni unite appena ricordata, l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. Detto questo, e alle ricordate condizioni, non vi è spazio di contrasto – per il Collegio – tra l’art. 649 cod. proc. pen. e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
La Corte deve però riconoscere che persiste nella stessa giurisprudenza di legittimità un orientamento minoritario, diverso da quello adottato dalle sezioni unite fin dal 2005. Lo stesso rimettente ha individuato con esattezza alcuni esempi di decisioni che si limitano a echeggiare il principio di diritto affermato dalle sezioni unite, ma lo corrompono aggiungendo che va tenuta in conto non solo la dimensione storico-naturalistica del fatto ma anche quella giuridica; ovvero che vanno considerate le implicazioni penalistiche dell’accadimento.
Queste e altre simili formule celano un criterio di giudizio legato all’idem legale, che non è compatibile per la Corte né con la Costituzione, né con la CEDU, sicché è necessario che esso sia definitivamente abbandonato.
Tuttavia il carattere occasionale di tali interventi giurisprudenziali li rende incapaci di trasfigurare la lettera e la logica dell’art. 649 cod. proc. pen., conferendogli, come invece ipotizza il rimettente, un significato difforme dalla normativa interposta evocata nel presente processo incidentale. Al contrario, il diritto vivente, con una lettura conforme all’attuale stadio di sviluppo dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, impone di valutare, con un approccio storico-naturalistico, la identità della condotta e dell’evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della prima.
Non vi è perciò dubbio che nel caso di specie gli indici segnalati dal Giudice rimettente per ritenere diversi i fatti già giudicati rispetto a quelli di omicidio oggetto della nuova contestazione non siano adeguati, perché non possono avere peso a tali fini né la natura di pericolo dei delitti previsti dagli artt. 434 e 437 cod. pen., né il bene giuridico tutelato, né il «differente “ruolo” del medesimo evento morte all’interno della fattispecie». Allo stesso tempo, è chiaro che, anche dal punto di vista rigorosamente materiale, la morte di una persona, seppure cagionata da una medesima condotta, dà luogo ad un nuovo evento, e quindi ad un fatto diverso rispetto alla morte di altre persone.
Entro questi limiti va escluso che sussista il primo profilo di contrasto individuato dal giudice a quo tra l’art. 649 cod. proc. pen. e la normativa interposta convenzionale, perché entrambe recepiscono il criterio dell’idem factum, e all’interno di esso la Convenzione non obbliga a scartare l’evento in senso naturalistico dagli elementi identitari del fatto, e dunque a superare il diritto vivente nazionale.
Il secondo profilo di contrasto, segnalato dall’ordinanza di rimessione, tra l’art. 649 cod. proc. pen. e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU riguarda la regola, enucleata dal diritto vivente nazionale, che vieta di applicare il principio del ne bis in idem, ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto della nuova iniziativa del PM, nonostante la medesimezza del fatto.
Sulla corrispondenza di tale regola a un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità non vi sono dubbi, posto che essa è stata ininterrottamente applicata dall’entrata in vigore dell’art. 90 del codice di procedura penale del 1930 fino ad oggi, anche dopo che a quest’ultima disposizione è subentrato l’art. 649 del nuovo codice di procedura penale. La sola eccezione ammessa, al fine di prevenire un conflitto tra giudicati, è quella che la giurisprudenza ha ravvisato nel caso in cui il primo processo si è concluso con una pronuncia definitiva perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso.
Ne consegue che la Corte è tenuta a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. postulando che esso abbia il significato che gli è conferito dal diritto vivente, e la relativa questione, collegata con quella già esaminata sulla medesimezza del fatto, è per il Collegio fondata, nei termini che vengono precisati.
Allo stato attuale del diritto vivente il rinnovato esercizio dell’azione penale è consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando il fatto, nel senso indicato, è il medesimo sul piano empirico, ma forma oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da generare una pluralità di illeciti penali.
Va premesso che, sul piano delle opzioni di politica criminale dello Stato, è ben possibile, per quanto qui interessa, che un’unica azione o omissione infranga, in base alla valutazione normativa dell’ordinamento, diverse disposizioni penali, alle quali corrisponde un autonomo disvalore che il legislatore, nei limiti della discrezionalità di cui dispone, reputa opportuno riflettere nella molteplicità dei corrispondenti reati e sanzionare attraverso le relative pene (sia pure secondo il criterio di favore indicato dall’art. 81 cod. pen.).
Qualora il giudice abbia escluso che tra le norme viga un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 cod. pen.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, è incontestato che si debbano attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, per quanto il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico.
Siamo, infatti, nell’ambito di un istituto del diritto penale sostanziale che evoca mutevoli scelte di politica incriminatrice, proprie del legislatore, e in quanto tali soggette al controllo di questa Corte solo qualora trasmodino in un assetto sanzionatorio manifestamente irragionevole, arbitrario o sproporzionato (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2016 e n. 185 del 2015).
Né queste opzioni in sé violano la garanzia individuale del divieto di bis in idem, che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo.
In linea astratta pertanto la circostanza che i reati concorrano formalmente non sembrerebbe interferire con l’area coperta dal portato normativo dell’art. 649 cod. proc. pen. Quest’ultima dovrebbe, al contrario, essere determinata esclusivamente dalla formazione di un giudicato sul medesimo fatto, sia che esso costituisca un solo reato, sia che integri plurime fattispecie delittuose realizzate con un’unica azione od omissione.
Ciò detto, la Corte è obbligata a prendere atto che il diritto vivente, come è stato correttamente rilevato dal rimettente, ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. La garanzia espressa da questa norma, infatti, viene scavalcata per la sola circostanza che il reato già giudicato definitivamente concorre formalmente, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., con il reato per il quale si procede.
Non spetta alla Corte pronunciarsi sulla correttezza ermeneutica del principio appena esposto. È invece oggetto del giudizio incidentale la conformità di esso, e dunque dell’art. 649 cod. proc. pen., che secondo il diritto vivente lo esprime normativamente, rispetto all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Ove, infatti, non vi fossero motivi di contrasto, il rimettente, pure a fronte del medesimo fatto, sarebbe tenuto a procedere nel giudizio per la sola ragione che l’omicidio concorre formalmente, secondo la giurisprudenza di legittimità, con i delitti previsti dagli artt. 434, secondo comma, e 437, secondo comma, cod. pen., mentre, nel caso opposto, egli dovrebbe concentrare la propria attenzione sulla sola identità del fatto, per decidere se applicare o no l’art. 649 cod. proc. pen.
Il nesso di necessità predicato nel diritto vivente tra concorso formale di reati e superamento del ne bis in idem inevitabilmente reintroduce nel corpo dell’art. 649 cod. proc. pen. profili di apprezzamento sulla dimensione giuridica del fatto, che erano stati espulsi attraverso l’adesione ad una concezione rigorosamente naturalistica di condotta, nesso causale ed evento.
Per decidere sulla unicità o pluralità dei reati determinati dalla condotta dell’agente ai sensi dell’art. 81 cod. pen., l’interprete, che deve sciogliere il nodo dell’eventuale concorso apparente delle norme incriminatrici, considera gli elementi del fatto materiale giuridicamente rilevanti, si interroga, tra l’altro, sul bene giuridico tutelato dalle convergenti disposizioni penali e può assumere l’evento in un’accezione che cessa di essere empirica.
Questa operazione, connaturata in modo del tutto legittimo al giudizio penalistico sul concorso formale di reati, e dalla quale dipende la celebrazione di un eventuale simultaneus processus, deve reputarsi sbarrata dall’art. 4 del Protocollo n. 7, perché segna l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o no il divieto di bis in idem.
Nel sistema della CEDU (e, come si è visto, anche in base alla Costituzione repubblicana), l’esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato deve invece dipendere esclusivamente dal raffronto tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del PM, ed è perciò permessa in caso di diversità, ma sempre vietata nell’ipotesi di medesimezza del fatto storico (salve le deroghe, nel sistema convenzionale, previste dal secondo paragrafo dell’art. 4 del Protocollo n. 7). Ogni ulteriore criterio di giudizio connesso agli aspetti giuridici del fatto esula dalle opzioni concesse allo Stato aderente.
Difatti, la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, non ha aderito a un pregresso orientamento della Corte EDU volto a escludere la violazione del divieto di bis in idem in presenza di un concours idéal d’infractions (paragrafi 72 e 81).
D’altro canto, è evidente che la clausola di riserva delineata dalla giurisprudenza nazionale, che fa salvi i casi di assoluzione dell’imputato per l’insussistenza del fatto o per non averlo commesso, vietando per essi il secondo giudizio pure in presenza di un concorso formale di reati, tradisce in modo scoperto la mera finalità di prevenire il conflitto dei giudicati, e con questa l’oscuramento della componente garantista del principio del ne bis in idem, che invece in materia penale lo connota profondamente e va anzi ritenuta prioritaria.
Sussiste perciò il contrasto denunciato dal rimettente tra l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude la medesimezza del fatto per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo.
È il caso di precisare – chiosa ancora la Corte – che la conclusione appena raggiunta non impone di applicare il divieto di bis in idem per la esclusiva ragione che i reati concorrono formalmente e sono perciò stati commessi con un’unica azione o omissione.
È infatti facilmente immaginabile che all’unicità della condotta non corrisponda la medesimezza del fatto, una volta che si sia precisato che essa può discendere dall’identità storico-naturalistica di elementi ulteriori rispetto all’azione o all’omissione dell’agente, siano essi costituiti dall’oggetto fisico di quest’ultima, ovvero anche dal nesso causale e dall’evento. Tale ultima posizione, in particolare, è fatta propria dal diritto vivente nazionale e se ne è già accertata la compatibilità con la Costituzione e con lo stato attuale della giurisprudenza europea.
Sono queste le ipotesi a cui va riferita la giurisprudenza della Corte per la quale l’art. 90 del codice di procedura penale del 1930 non si riferiva «al caso di concorso formale di reati», ove «anche se l’azione è unica, gli eventi, che sono plurimi e diversi, danno ontologicamente luogo a più fatti, che possono anche essere separatamente perseguiti» (sentenza n. 6 del 1976; in seguito, sentenza n. 69 del 1976). E sono, altresì, le ipotesi regolate dall’art. 671 cod. proc. pen., che permette al giudice dell’esecuzione penale di applicare la disciplina del concorso formale di reati, nel caso di più sentenze irrevocabili pronunciate nei confronti della stessa persona, e dunque presuppone normativamente che siano date occasioni in cui la formazione del primo giudicato non preclude il perseguimento in separato processo del reato concorrente con il primo.
In definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico.
Per effetto della presente pronuncia di illegittimità costituzionale pertanto, afferma la Corte, l’autorità giudiziaria (e quindi lo stesso giudice a quo) sarà tenuta a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal PM a base della nuova imputazione. A tale scopo è escluso che eserciti un condizionamento l’esistenza di un concorso formale, e con essa, ad esempio, l’insieme degli elementi indicati dal rimettente nel giudizio principale (la natura del reato; il bene giuridico tutelato; l’evento in senso giuridico).
Sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico. Ove invece tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei relativi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze.
In conclusione, per le ragioni esposte, per la Corte l’art. 649 cod. proc. pen. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui secondo il diritto vivente esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.
2017
Il 21 dicembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.57249 alla cui stregua va rimessa alle Sezioni Unite la soluzione della questione se commetta più violazioni dell’art. 337 c.p. l’agente che, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o a più incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza.
La Corte rammenta come sussista un consapevole contrasto interpretativo nella propria giurisprudenza sulla sussistenza di una o più violazioni dell’art. 337 cod. pen. nel caso in cui l’azione minacciosa o violenta sia dal soggetto agente realizzata nei confronti di una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio o, ancora, di soggetti che, richiesti, vi prestino assistenza. La sentenza impugnata nel caso di specie ha ritenuto correttamente applicata la continuazione, considerando la duplicità del reato di cui all’art.337 cod. pen. in ragione dell’esistenza di due pubblici ufficiali nei confronti dei quali è stata tenuta l’azione minacciosa e violenta contestata. A sostegno di tale decisione la Corte di merito ha richiamato l’orientamento espresso da Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012, Momodu, Rv. 253111 secondo il quale “la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., ma tanti distinti reati – eventualmente uniti dal vincolo della continuazione – quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la condotta criminosa si perfeziona con l’offesa al libero espletamento dell’attività di ciascuno di essi“. L’orientamento fatto proprio dalla sentenza impugnata – chiosa ancora la Corte – si pone nell’alveo di una più risalente giurisprudenza, secondo la quale, qualora la funzione pubblica sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni – minacciose o violente – con cui l’autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato (v. mass. n. 171756; v. mass. n. 152871) (Sez. 6, n. 3546 del 07/04/1988, Grazioso, Rv. 180728).
Orientamento che è stato, da ultimo, confermato da Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, Provenzano, Rv. 270545, secondo la quale decisione la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., ma un concorso formale omogeneo di reati e dunque tanti distinti reati quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale. La decisione ha osservato che l’opposto indirizzo, che sostiene l’unicità del reato in presenza di una pluralità di pubblici ufficiali, svaluta “la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio” e trascura che “la pubblica amministrazione è un’entità astratta, che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali, pur operando come organo della stessa, conserva una distinta identità, suscettibile di offesa“, e si fonda, inoltre, su un argomento testuale, in quanto, pur costituendo delitto contro la pubblica amministrazione, il reato di resistenza a pubblico ufficiale è connotato, nella relativa esplicazione tipica, da violenza o minaccia alla persona, condotta che conferisce “centralità all’opposizione violenta all’azione del singolo pubblico ufficiale” e consente di “individuare l’interesse protetto in quello della pubblica amministrazione a non subire intralci nel momento in cui, per assolvere ai compiti istituzionali, deve attuare la sua volontà tramite i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e per tale ragione, cioè per garantire la sicurezza e la libertà di azione dei singoli contro fatti di opposizione violenta, la norma assicura tutela al pubblico ufficiale, soggettivamente individuato“.
Si è, quindi, ritenuto ravvisabile il concorso formale omogeneo di reati se l’agente, con un’unica azione, ha deliberatamente commesso più violazioni della medesima disposizione di legge nella consapevolezza di contrastare l’azione di ciascun pubblico ufficiale.
A questo orientamento – prosegue la Corte – si oppone quello, emerso più recentemente, secondo il quale “in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio” (Sez. 6, n. 37727 del 09/05/2014, Pastore, Rv. 260374). Nel giustificare il discostamento dal precedente orientamento si osserva che la diversa soluzione trova ragione nella stessa struttura del reato secondo la formulazione letterale della disposizione, laddove focalizza quale obiettivo della condotta criminosa l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale, essendo il bene espressamente tutelato dall’art. 337 cod. pen. rappresentato dalla regolare attività dell’Amministrazione rispetto alla quale l’offesa al pubblico ufficiale rappresenta un “danno collaterale“.
Nell’alveo di questo orientamento si è posta Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi, Rv. 269005 che, nel contrastare l’opposta conclusione, ha osservato che esso perde di vista il bene indiscutibilmente oggetto della salvaguardia apprestata dall’art. 337 cod. pen., che è rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della P.A., per effetto della sanzione apprestata avverso l’opposizione ad un atto d’ufficio (o di servizio) che sia connotato da modalità violente o minatorie ed il carattere meramente strumentale dell’offesa rispetto all’interesse tutelato, senza che la prima rimanga priva di risposta da parte dell’ordinamento, posto che, nel momento in cui essa supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice – che vale ad integrare l’elemento costitutivo della “violenza o minaccia” di cui al più volte citato art. 337 cod. pen., essendo pertanto ivi assorbita – entrano in gioco (anche) le norme poste a presidio dell’integrità fisica dell’individuo.
Quanto all’elemento psicologico, ha evidenziato che la giurisprudenza di legittimità che ha affrontato il tema del concorso formale c.d. omogeneo, ha posto l’accento, al fine di differenziare il caso dell’unicità da quello della pluralità di violazioni, sul diverso atteggiarsi del dolo in capo al soggetto agente, a tal fine significando che “perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo tipico proprio di ciascuna fattispecie criminosa. Ciò significa che non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese è necessario un “quid pluris“, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone.” (così Cass. Sez. 2, sent. n. 12027 del 23.09.1997, Rv. 210458; conf. Sez. 1, sent. n. 5016 del 07.12.1987 – dep. 23.04.1988, Rv. 178225).
Da ultimo, nel ribadire questo orientamento Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939, ha osservato che l’uso della violenza o della minaccia considerato dall’art. 337 cod. pen. per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, non si identifica necessariamente nella minaccia o violenza contro la persona del pubblico ufficiale potendosi manifestare anche in forme diverse da quelle riconducibili alle previsioni degli artt. 610 o dell’art. 612 cod. pen. esplicandosi anche mediante una violenza (o minaccia) cosiddetta impropria, che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente sull’esplicazione della relativa funzione, impedendola o ostacolandola.
2018
Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26857, in tema di guida in stato di ebbrezza e omicidio o lesioni “stradali”, alla cui stregua vanno preliminarmente puntualizzati taluni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del bis in idem, da ritenersi vero e proprio cardine di civiltà giuridica, poiché preclude di addebitare all’imputato lo stesso fatto storico più volte, e ciò dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, chiosa la Corte, la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell’ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. cod. proc. pen.) e l’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.).
Va precisato, per la Corte, che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti nel caso di specie (artt. 84 e 15 cod. pen.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all’imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. “ne bis in idem sostanziale“, che però, come noto (viene richiamata sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell’ordinamento. Il momento di sintesi, chiosa ancora la Corte, di cui è espressione l’art. 84 cod. pen., quale esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all’imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata “vicenda di vita” si atteggi – nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell’azione penale – talora ad elemento costitutivo dell’illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante.
Tanto premesso, il ricorso, sotto il profilo segnalato nel secondo motivo, appare alla Corte nel caso di specie fondato. Alla persuasività delle considerazioni di principio svolte, deve aggiungersi avere la Corte già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all’imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 41 del 2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell’occasione dalla S.C.): a seguito dell’entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l’art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale “Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni” e, inoltre, “nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto” […].
Precedentemente – prosegue la Corte – dall’entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l’art.589 cod. pen. disponeva, tra l’altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, “Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni” e che “Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici” […] La formulazione della novella del 2016 ha per la Corte, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della “guida“, individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga “alla guida di un veicolo a motore“; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è “chiunque cagioni per colpa [ ] con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale….)”. In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al “conducente di un veicolo a motore” e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza. In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l’esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei comma dell’art. 589-bis cod. pen. successivi al primo, quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada.
Occorre allora, ad avviso del Collegio, dare continuità al – condivisibile – ragionamento che si è testualmente richiamato, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, si richiama la recentissima sentenza di Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (Sez. 4, n. 1880 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc, Greco; Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni; Sez. 4, n. 3559 del 29/10/2009, dep. 2010, Corridori; Sez. 5, n. 2608 del 15/01/1997, Schiavone).
Può quindi per la Corte affermarsi in conclusione il principio di diritto onde, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà naturalmente, per la Corte, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).
* * *
Il 24 settembre esce la significativa sentenza delle SSUU della Cassazione n.40981 alla cui stregua si configura concorso formale tra più reati di resistenza a pubblico ufficiale (e non già un’unica fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale) nel caso in cui la condotta di violenza o minaccia sia utilizzata per opporsi a una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.
La questione di diritto per la quale il ricorso è pervenuto alle Sezioni Unite viene dalle medesime così sintetizzata: “Se, in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., la condotta di chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, configuri un unico reato ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato“. Il quesito impone la trattazione di due distinti e connessi temi di indagine: a) individuazione dell’ambito del concorso formale omogeneo di reati ex art. 81, primo comma, cod. pen.; b) analisi della fattispecie di cui all’art. 337 cod. pen. con particolare riguardo al profilo strutturale (condotta e oggetto materiale della stessa, così come individuati nella norma incriminatrice) nonché alla ricognizione del bene giuridicamente protetto, al fine di stabilire se l’offesa punita è quella diretta all’atto amministrativo in sé considerato, o, viceversa, consiste nell’opposizione – violenta o minacciosa – al pubblico ufficiale che esegue detto atto.
Circa il tema sub a), va osservato per la Corte che l’articolo 81, primo comma, cod. pen. individua la fattispecie del “concorso formale di reati” tanto nel caso in cui con una sola azione siano violate diverse norme di legge (c.d. concorso formale eterogeneo di reati), quanto nel caso in cui, con una sola azione, venga violata contestualmente più volte la medesima disposizione di legge (c.d. concorso formale omogeneo di reati). Nel concetto di azione unica vanno ricompresi tanto i casi in cui l’azione si risolva in un “atto unico” (conforme alla condotta normativamente prevista), quanto i casi in cui l’azione si realizzi attraverso il compimento di una “pluralità di atti” che siano contestuali nello spazio e nel tempo ed abbiano fine unico. Con la precisazione che, a scanso di ambiguità, l’apprezzamento di tali caratteri (contestualità degli atti e unicità del fine) deve essere effettuato attraverso un raffronto rigoroso e costante della fattispecie astratta descritta dalla norma.
In linea generale – chiosa la Corte – si deve ancora affermare che la consumazione del reato si realizza ogniqualvolta, attraverso la condotta astrattamente descritta nel precetto, sia realizzata l’offesa tipizzata e sia leso l’interesse protetto dalla norma (c.d. evento giuridico). Di qui discende che la fattispecie del concorso formale omogeneo ex art. 81, primo comma, cod. pen. si realizza quando il bene tutelato sia leso più volte da una azione che, sul piano fenomenico, diviene causa di una pluralità di lesioni o eventi omogenei. Appare opportuno specificare – prosegue il Collegio che l’indagine deve limitarsi alla valutazione del solo fatto storico, riscontrando, sulla scorta del modello normativo, l’esistenza di plurime violazioni della medesima disposizione di legge, non essendo necessaria alcuna ulteriore specifica indagine circa la rilevanza dell’interesse tutelato dalla norma. Non sembra avere sicuro fondamento, invece, l’opinione con la quale, distinguendo tra norme incriminatrici che tutelano beni altamente personali (vita, integrità fisica, libertà personale, onore) e norme che proteggono beni di natura diversa, si afferma che nel primo caso sarebbe sempre configurabile una pluralità di reati in ragione della rilevanza dei plurimi interessi lesi, mentre nel secondo ciò non sarebbe sempre possibile. La tesi pone infatti un alone di incertezza nel giudizio di concretizzazione della fattispecie tipica, mentre sul piano normativo non paiono rinvenirsi argomenti per una distinzione di tale fatta, né criteri discretivi oggettivi che consentano di distinguere con sufficiente precisione tra i beni altamente personali e quelli che tali non sarebbero.
Passando al piano applicativo di quanto fin qui ricordato, ai fini della verifica in concreto della ricorrenza di un’ipotesi di concorso formale omogeneo di reati, bisogna procedere per il Collegio all’ideale scissione della complessiva vicenda fattuale in tante parti quanti sarebbero gli eventi giuridici, verificando quindi se ognuno degli autonomi frammenti di essa integri, in tutte le sue componenti (soggettiva ed oggettiva) la fattispecie prevista dal legislatore: tenendosi presente che sul piano soggettivo occorre attentamente verificare che il dolo investa ciascuno dei singoli frammenti del fatto. Infatti, perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo proprio di ciascuna fattispecie criminosa. In altri termini: non potendo farsi derivare la unicità o la pluralità dell’azione puramente e semplicemente dalla pluralità delle persone offese, è necessario, quando si verifica una tale ipotesi, un quid plurís consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, delle suddette persone, elemento quest’ultimo rinvenibile solo, come detto, attraverso la analisi concreta del fatto. Nel caso di verifica positiva, si potrà quindi affermare che ricorre la fattispecie del concorso formale omogeneo.
Passando al tema relativo al delitto di resistenza a un pubblico ufficiale, occorre per le SSUU in primo luogo esaminare la struttura della fattispecie e, attraverso essa, rinvenire, secondo la ratio della disposizione ma avuto riguardo comunque alla descrizione normativa della condotta incriminata, l’interesse protetto dall’art.337 cod. pen. All’interno della Sesta Sezione, sul punto si sono formati due orientamenti giurisprudenziali contrapposti.
Con il primo (ex multis: Sez. 6, n. 38182 del 26/09/2011, De Marchi, Rv. 250792 e Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012, Momodu, Rv. 253111), si afferma che la violenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto nei confronti di più pubblici ufficiali, per contrastare il compimento di un atto del loro ufficio, configura tanti reati di resistenza quanti sono i soggetti passivi coinvolti. La tesi si fonda sulla considerazione onde l’azione delittuosa, pur ledendo unitariamente l’interesse del regolare funzionamento della PA, si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività di ciascuno dei pubblici ufficiali incaricati del compimento dell’atto (che rappresenta l’oggetto materiale della condotta). In senso conforme si esprimono Sez. 6, n. 35376 del 22/06/2006, Mastroiacovo, Rv. 234831 e, da ultimo, Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, Provenzano, Rv. 270545, in cui, in particolare, viene messo in rilievo che l’opposto indirizzo svaluta la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio e trascura che la PA è un’entità astratta che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali, pur operando come organo della stessa, conserva una distinta identità suscettibile di offesa così come previsto dal dato testuale della disposizione.
La tesi opposta (v. fra le più recenti: Sez. 6, n. 37727 del 09/05/2014, Pastore, Rv. 260374; Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi, Rv. 269005; Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939; Sez. 6, n. 52725 del 28/09/2017, Diop, Rv. 271559), partendo dalla valorizzazione dell’interesse giuridico del regolare andamento della PA, concentra l’attenzione sull’ “atto” che deve essere eseguito, affermando che solo l’ostacolo all’esecuzione di quest’ultimo concreterebbe la lesione dell’interesse protetto; secondo questa tesi, l’aspetto dell’integrità psico-fisica del pubblico ufficiale incaricato dell’esecuzione dell’ “atto” assumerebbe, pertanto, un rilievo secondario o collaterale, con la conseguenza che la eventuale pluralità dei pubblici ufficiali fatti oggetto di minaccia o violenza non avrebbe incidenza alcuna sul piano dell’evento giuridico che rimarrebbe comunque unico. Nell’alveo di questo orientamento si pone Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi, Rv. 269005, che, in particolare, osserva come l’opposta tesi perda di vista il bene indiscutibilmente rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della p.a., mentre la persona fisica del pubblico ufficiale è tutelata dalle norme generali poste a presidio dell’integrità fisica dell’individuo quando la violenza supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice, che vale ad integrare l’elemento costitutivo della “violenza o minaccia” di cui al citato art.337 cod. pen. E Sez. 6 n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939, aggiunge che l’uso della violenza o della minaccia, per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, non si identificherebbe necessariamente nella minaccia o violenza contro la persona del pubblico ufficiale, potendosi manifestare in forme diverse da quelle riconducibili alle previsioni degli artt. 610 o 612 cod. pen., esplicandosi anche mediante violenza o minaccia impropria che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, riverbera negativamente sull’esplicazione della funzione, impedendola od ostacolandola.
Ritiene a questo punto il Collegio che la soluzione del contrasto imponga un’analisi che tenga conto anzitutto della struttura obiettiva dell’illecito siccome emergente dal testo dell’art. 337 cod. pen., quindi dell’interesse protetto desumibile da tale articolazione strutturale, oltre che dalla collocazione sistematica e dall’intitolazione dell’articolo. Invero, l’idea che l’individuazione della condotta incriminata, ai fini della verifica di ipotesi di concorso di reati, debba partire dall’individuazione del bene giuridico protetto ed essere incentrata su di esso, già ripudiato dalla giurisprudenza di legittimità allorché a venire in rilievo è il principio di specialità (cfr. da ultimo, tra molte Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902), non solo non è formalmente conforme alle regole sull’interpretazione delle leggi, ma incorre – come rimarca autorevole Dottrina – nel vizio logico di confondere oggetto materiale e oggetto giuridico della tutela, che segna i limiti entro i quali il primo è tutelato. E si pone in contrasto, perciò, con i principi di tassatività e materialità, senza offrire garanzia aggiuntiva al principio di offensività, che sui limiti della tutela, appunto, si riverbera.
Occorre dunque partire dalla considerazione che la condotta tipica del delitto in esame si concreta nell’uso della violenza o della minaccia da chiunque esercitata per “opporsi a un pubblico ufficiale” (o a un incaricato di un pubblico servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza) mentre compie un atto dell’ufficio o del servizio. L’elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano modale e teleologico, essendo sanzionata ogni condotta diretta a conseguire lo scopo oppositivo indicato dalla disposizione attraverso l’uso di violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio agente. I suddetti elementi fattuali rilevano nella loro idoneità e univocità a impedire o a turbare la libertà di azione del soggetto passivo, sicché il reato è integrato da qualsiasi condotta che si traduca in un atteggiamento, anche implicito, purché percepibile, che impedisca, intralci o valga a compromettere, anche solo parzialmente o temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto dell’ufficio o del servizio, restando così esclusa ogni resistenza meramente passiva, come la mera disobbedienza. La struttura della fattispecie sotto il profilo fattuale, prevede, dunque, una condotta commissiva-oppositiva connotata: a) dalla violenza o dalla minaccia (esclusa, come detto, la mera resistenza passiva) rivolta (in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito) esclusivamente contro il pubblico ufficiale o il soggetto normativamente ad esso equiparato, siccome tesa a coartarne o a impedirne l’agire funzionale; b) dalla volontà (dolo specifico) di ostacolare il soggetto passivo nel momento dell’esercizio della funzione pubblica.
L’espressione adoperata dal legislatore – «mentre compie un atto di ufficio o di servizio» – ha la finalità di individuare contesto e finalità della condotta oppositiva e di circoscriverne la rilevanza nell’ambito di un obiettivo nesso funzionale ed di un determinato arco temporale, ricompreso tra l’inizio e la fine dell’esecuzione dell’atto dell’ufficio o del servizio; sicché, al di fuori del suddetto ambito, la violenza o la minaccia rivolte al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio configurano fattispecie diverse, quali ad esempio la violazione dell’art. 336 cod. pen. nel caso in cui la violenza e la minaccia siano antecedenti all’atto dell’ufficio. Significativamente, richiamandosi alla medesima ratio, rammenta il Collegio come già la Corte costituzionale, con ordinanza n. 425 del 1996, abbia messo in evidenza l’art. 337 cod. pen. non essere rivolto a punire la violazione di una privilegiata posizione personale connessa ad una ormai tramontata configurazione dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, ma la maggior offesa arrecata alla PA da una condotta volta ad impedire con violenza o minaccia l’attuazione della relativa volontà: all’evidenza sottintendendo l’esistenza di una compenetrazione tra la persona fisica del pubblico ufficiale e la pubblica amministrazione per la quale quello agisce.
Così individuati la condotta sanzionata e l’oggetto materiale su cui la stessa ricade, consistenti nell’opposizione-offesa a “un” (id est ciascun) pubblico ufficiale agente, non può condurre a diverse conclusioni l’individuazione dell’interesse protetto dall’art. 337 cod. pen. Che il “regolare funzionamento della pubblica amministrazione” rappresenti il bene giuridico tutelato, è univocamente e concordemente affermato, sulla base della collocazione sistematica e dell’intitolazione della disposizione, in tutta la giurisprudenza di legittimità, che implicitamente esclude la possibilità di rinvenire nella norma plurimi interessi giuridici di pari rango contemporaneamente protetti (regolare andamento della pubblica amministrazione e integrità fisica del pubblico ufficiale). È giocoforza, pertanto, circoscrivere il significato dell’espressione “regolare funzionamento della pubblica amministrazione“.
Secondo dottrina e giurisprudenza di diritto amministrativo, la PA è unanimamente intesa come organizzazione complessa costituita sia dai beni materiali strumentali al raggiungimento delle finalità pubbliche sia dalle persone che per essa agiscono. La relazione giuridica intercorrente tra la persona fisica che ricopre l’ufficio o la funzione pubblica e la pubblica amministrazione è definito “rapporto organico” che determina l’identificazione della persona fisica incardinata nell’ufficio o nel servizio pubblico con la stessa PA, sicché il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio è esso stesso PA costituendo lo strumento della relativa estrinsecazione nel mondo giuridico tanto sul piano volitivo che su quello esecutivo.
Nel campo del diritto penale il testo dell’art. 357 cod. pen. ricalca la ricostruzione giuridica dianzi esposta ricollegando la figura del pubblico ufficiale e dell’incaricato di un pubblico servizio al concreto esercizio della funzione o del servizio secondo un modello definitorio che esclude l’esistenza di un’alterità tra persona incardinata nella p.a. e quest’ultima. Ne deriva che il “regolare andamento della pubblica amministrazione” implica, non solo la mancanza di manomissione dei beni pubblici o la loro distrazione per il perseguimento di scopi diversi da quelli istituzionali, ma anche la mancanza di interferenze nel procedimento volitivo od esecutivo di colui che, incardinato nella Amministrazione, la personifica essendo espressione di volontà di quest’ultima. Pertanto l’interesse al normale funzionamento della PA va inteso in senso ampio, in quanto in esso si ricomprende anche la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, così come previsto dagli artt. 336, 337 e 338 cod. pen.
Le argomentazioni spese a sostegno della tesi per la quale l’opposizione sarebbe nei confronti dell’atto e non del pubblico ufficiale non possono essere perciò per il Collegio assunto valide, perché da un lato, non tengono conto della descrizione dell’illecito come configurato dal testo della norma e dall’altro, sul piano logico- giuridico, anche quando fanno riferimento all’interesse protetto, non evocano argomenti idonei a superare la lettera della legge. Può solo aggiungersi che non appare dirimente la considerazione che il delitto di resistenza assorbirebbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l’opposizione per essere la tutela fisica o morale dello stesso assicurata da altre disposizioni in cui l’offesa superi il tasso minimo tollerabile. Tale interpretazione finisce con lo svilire il raggio di copertura normativa sino a far ritenere subvalente e collaterale l’offesa al pubblico ufficiale, ponendosi in contrasto con la lettera della legge. Infatti, proprio la circostanza che l’elemento oggettivo del reato di resistenza sia integrato dalla violenza o dalla minaccia al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio in un determinato momento, conferisce centralità alla persona del singolo soggetto pubblico chiamato a manifestare la volontà della PA.
Parimenti non ha significatività il raffronto tra l’art. 337 e l’art. 338 cod. pen. (v. fra le altre Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, Mozzi; Rv. 269005) che collega alla violenza o minaccia a un “corpo” politico, amministrativo o giudiziario un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello riservato ai responsabili della violazione degli artt. 336 e 337 cod. pen., con l’affermazione che per conseguenza sarebbe del tutto irragionevole applicare ex art. 81 cod. pen. una pena maggiore al soggetto che rivolgesse minacce nei confronti di più pubblici ufficiali per opporsi al compimento dell’atto dell’ufficio ex art. 337 cod. pen. rispetto a colui che agisce nei confronti di un organo collegiale della PA. Si tratta di fattispecie fra loro diversamente strutturate e la diversa sanzione (più grave nel caso di violazione dell’art. 338 cod. pen. rispetto a quella dell’art. 337 cod. pen.) risponde a criteri di ragionevolezza, posto che nell’art. 338 cod. pen. è prevista la violenza o la minaccia verso l’unità indistinta dall’organo pubblico collettivo, oggetto di aggressione, piuttosto che la tutela dei singoli componenti. Né possono incidere ai fini della comparazione delle norme incriminatrici aspetti fattuali particolari delle fattispecie concrete, rilevanti ai fini della ricorrenza del concorso di reati o di circostanze aggravanti e in quanto tali idonei a determinare l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per un titolo piuttosto che per l’altro, perché, al fine di una ricostruzione della portata del precetto e della volontà del legislatore, è alle fattispecie astratte che occorre avere riguardo.
La conclusione dell’analisi consente pertanto di rispondere al quesito posto all’esame delle Sezioni Unite nei seguenti termini: in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio.
Il primo motivo di ricorso deve dunque – conclude il Collegio – essere rigettato alla luce delle conclusioni cui si è pervenuti. La duplice violazione contestata all’imputato è resa evidente dalla motivazione della sentenza impugnata che, ai fini della ricostruzione della vicenda (non sindacabile, né censurata, nella presente sede) richiama il contenuto del capo di imputazione siccome ritenuto conforme al fatto concreto. Da esso si desume che la violenza è stata esercitata dall’imputato nel medesimo contesto spazio-temporale nei confronti di ciascuno dei pubblici ufficiali intervenuti per contenerne la furia aggressiva. La violenza si è risolta nella distinta aggressione rivolta verso entrambi i pubblici ufficiali, consistita nel proferire nei loro confronti minacce, nello strattonarli e nel tentativo di prenderli a pugni nel momento in cui essi intervenivano per impedirgli di aggredire una terza persona. Si deve pertanto affermare che la regola di diritto applicata dalla Corte territoriale è corretta ed è legittimo l’aumento di pena applicato nella ritenuta sussistenza di un concorso formale omogeneo.
2019
Il 20 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 21987 che, pur dando atto della presenza di un orientamento secondo cui i reati di cui agli artt. 615 ter e 615 quater c.p., potrebbero concorrere (dal momento che il delitto di accesso abusivo è strutturato come reato di pericolo, la norma di cui all’art. 615-quater delinea una fattispecie di pericolo necessariamente indiretto: dalla condotta diretta a procurare a sè o ad altri il codice di accesso al sistema informatico altrui deriva, infatti, il pericolo sia di una successiva, immediata introduzione abusiva nel sistema stesso – che è situazione di per sè pericolosa per la riservatezza dei dati e/o dei programmi che vi sono contenuti -, sia di una ulteriore condotta di diffusione del codice – in favore di soggetti – che potranno, a loro volta, servirsene per realizzare un accesso abusivo oppure cederlo a terzi), ritiene che i due reati non possano concorrere.
I delitti di cui agli artt. 615 ter e 615 quater c.p., sono collocati entrambi tra quelli contro l’inviolabilità del privato domicilio (meramente residuale appare la disarmonia conseguente alla previsione dell’aggravante di cui all’art. 615 ter, comma 3, che tutela domicili non privati, ma considerati piuttosto per la loro dimensione pubblicistica), avendo il Legislatore ritenuto che i sistemi informatici costituiscano “un’espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantito dallo art. 14 Cost., e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali agli artt. 614 e 615 c.p.” (cfr. Relazione sul disegno di legge che ha introdotto i predetti reati).
In particolare, l’incriminazione dell’accesso abusivo al sistema informatico altrui (art. 615 ter) è sostanzialmente finalizzata a contrastare il rilevante fenomeno degli hackers, e cioè di quei soggetti che, servendosi del proprio elaboratore, collegato con la rete telefonica, riescono a entrare in comunicazione con i diversi sistemi informatici che a quella stessa rete sono collegati, aggirando le misure di protezione predisposte dal titolare del sistema.
Con l’art. 615 quater, il Legislatore ha inteso, inoltre, rafforzare la tutela e la segretezza dei dati e dei programmi contenuti in un elaboratore, già assicurata dall’incriminazione dell’accesso e della permanenza in un sistema informatico o telematico prevista dal citato art. 615 ter.
I predetti reati sono, quindi, posti a tutela del medesimo bene giuridico, ovvero il c.d. “domicilio informatico”, che l’art. 615 quater, protegge in misura meno ampia (ovvero limitatamente alla riservatezza informatica del soggetto) e l’art. 615 ter, più incisivamente, operando un più ampio riferimento al domicilio informatico tout court, da intendere, in linea con quanto emergente dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 9 del 1989, quale “spazio ideale di esclusiva pertinenza di una persona fisica o giuridica”, delimitabile prendendo come parametro il domicilio delle persone fisiche, ed al quale risulta estensibile la tutela della riservatezza della sfera individuale, che costituisce bene costituzionalmente protetto.
Lo stesso orientamento innanzi menzionato riconosce che l’art. 615 quater, “reprime una serie di condotte prodromiche alla (possibile) realizzazione del delitto di accesso abusivo in un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza, e, quindi, pericolose per il bene giuridico tutelato attraverso l’art. 615 ter c.p.”.
Proprio da tali (pacificamente condivise) connotazioni emerge, a parere del collegio con evidenza, che il reato di cui all’art. 615 quater costituisce necessario antefatto del reato di cui all’art. 615 ter, poichè le due fattispecie criminose si pongono in stretta connessione, tutelando entrambe il medesimo bene giuridico, ovvero il domicilio informatico, passando da condotte meno invasive a condotte più invasive, poichè indiscriminate, che, sotto un profilo naturalistico, necessariamente presuppongono le prime.
In generale, l’antefatto non punibile ricorre nei casi in cui la commissione di un reato meno grave costituisce ordinariamente strumento per la commissione di un reato più grave Esso (come la progressione criminosa ed il postfatto non punibile) non costituisce fattispecie autonomamente disciplinata, poichè rientra tra i casi di concorso apparente di norme da risolvere ai sensi dell’art. 15 c.p., attraverso una operazione interpretativa che impone la considerazione “congiunta” di due fattispecie tipiche, resa oggettivamente evidente dal fatto che per una di esse, destinata ad essere assorbita nell’altra, sia prevista una sanzione più lieve.
La giurisprudenza ha, in proposito, già chiarito che, nei casi in cui, al contrario, detta operazione interpretativa sembrerebbe sortire esito inverso, ovvero comportare l’assorbimento della fattispecie più grave in quella meno grave, l’assorbimento andrebbe negato, dovendosi ravvisare un intento di consentire, attraverso un effettivo autonomo apprezzamento del disvalore delle ipotesi criminose, il regime del concorso dei reati. Invero, l’avere sottoposto a più benevolo trattamento il fatto/reato che potrebbe per la sua struttura essere assorbente, sta a dimostrare che della fattispecie eventualmente assorbibile non si è tenuto conto: pertanto la norma che la punisce è applicabile in concorso con l’altra, senza incorrere in duplicità di addebito.
Ad esempio, la Cassazione è ferma nel ritenere che possa verificarsi l’assorbimento della contravvenzione del possesso ingiustificato di arnesi atti allo scasso (art. 707 c.p.) nel delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose (art. 625 c.p., comma 1, n. 2) quando ricorra un nesso di immediatezza e strumentalità tra il possesso degli arnesi atto allo scasso ed il loro uso; perchè si verifichi questa situazione, occorre che:
1) gli strumenti siano stati effettivamente usati per la commissione del furto;
2) il loro possesso sia stato limitato all’uso momentaneo necessario per l’effrazione;
3) non vi sia stato distacco temporale e spaziale tra la commissione del furto e l’accertamento del possesso degli arnesi;
4) tali arnesi non siano di natura e quantità tali da assumere una rilevanza giuridica autonoma rispetto all’ambito di consumazione del delitto circostanziato.
Inoltre, in tema di furto di documenti, è stato escluso il concorso tra il reato di furto (art. 624 c.p.) e quello di falso per soppressione (art. 490 c.p.) nei casi in cui vi sia contestualità cronologica tra sottrazione e distruzione, e l’azione sia stata compiuta all’unico scopo di eliminare la prova di un diritto, in quanto, in tal caso, la sottrazione deve essere considerata come un antefatto non punibile, destinato ad essere assorbito nella condotta unitaria finalisticamente individuata dallo scopo unico che anima ab initio la coscienza e volontà dell’agente, e che caratterizza la fattispecie di cui all’art. 490.
In virtù di tali considerazioni, la Corte conclude che il meno grave – quoad poenam – delitto di cui all’art. 615 quater, non possa concorrere con quello, più grave, di cui all’art. 615 ter, del quale costituisce naturalisticamente un antecedente necessario, sempre che quest’ultimo – come nel caso di specie – sia contestato, procedibile (la fattispecie di reato prevista dall’art. 615 ter, comma 1, non aggravata, è, diversamente dalle fattispecie aggravate di cui ai commi 2 e 3, procedibile a querela di parte; il reato di cui all’art. 615 quater è sempre procedibile d’ufficio) ed integrato nel medesimo contesto spazio-temporale in cui fu perpetrato l’antefatto, ed in danno della medesima persona fisica (titolare del bene protetto).
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Il 10 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.25558, alla cui stregua va premesso che, all’indomani delle modifiche legislative di cui alla L. n. 38 del 2006, il reato di cui all’art. 600-quater c.p. può configurarsi con due condotte: il procurarsi ed il detenere materiale pornografico.
Prima della riforma, precisa il Collegio, la norma puniva le condotte, tra loro alternative, del “procurarsi”, che implica qualsiasi modalità di procacciamento compresa la via telematica, e del “disporre”, che implica un concetto più ampio della detenzione, allo scopo di rendere la norma sicuramente applicabile anche al possesso di immagini pedopornografiche ottenute mediante l’accesso a siti internet opportunamente protetti. Tutte le attività, telematiche o non, idonee a fare ottenere il materiale pedopornografico al detentore integravano la nozione del procurarsi.
La fattispecie – prosegue la Corte – prevede due modalità della condotta e segnatamente il procurarsi e il detenere. Detiene il materiale pedopornografico colui che in precedenza se l’è procurato. Non v’è dubbio che le due forme con cui può manifestarsi il detenere ed il procurarsi, anche se sembrano tra loro alternative, hanno tuttavia un elemento comune che è costituito dalla detenzione sia pure momentanea del materiale pedopornografico in capo a colui che se lo procura.
Dai principi dianzi esposti emerge per il Collegio che non si tratta di due reati diversi, ma di due diverse modalità di perpetrazione del medesimo reato e quindi le due condotte non possono concorrere tra di loro. Esse hanno un elemento comune, che è costituito dalla disponibilità ossia dalla detenzione del materiale pedopornografico. La condotta di procurarsi si consuma al momento dell’accesso sulla rete mentre quelle di detenzione ha carattere permanente e si consuma nel momento in cui si perde la disponibilità – di norma – con il sequestro. Invero, il comportamento di colui il quale, dopo essersi procurato materiale pedopornografico, lo detiene, configura per la Corte un reato commissivo permanente la cui consumazione inizia con il procacciamento del materiale e si perpetua per tutto il tempo in cui permane in capo all’agente la disponibilità del materiale e, quindi, l’illiceità della condotta (Sez. 3, n. 38221 del 25/05/2017, F., Rv. 270994 – 01; Sez. 3, n. 15719 del 23/02/2016, Belloni, Rv. 266581).
2020
Il 14 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 1203 onde risulta essere pienamente configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico tra i reati (rispettivamente, dolo specifico e dolo generico).
Rileva infatti la Corte che è stato condivisibilmente rilevato che è configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, atteso che le relative norme incriminatrici non regolano la “stessa materia” ex art.15 cod. pen., data la diversità del bene giuridico tutelato (interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, da un lato, ed interesse della massa dei creditori al soddisfacimento dei propri diritti, dall’altro), della natura delle fattispecie astratte (di pericolo quella fiscale, di danno quella fallimentare) e dell’elemento soggettivo (dolo specifico quanto alla prima, generico quanto alla seconda).
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Il 9 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 9380 che, ribadita la possibilità di concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, rileva come il sequestro preventivo dei beni oggetto delle distrazioni mediante le quali sarebbe stato commesso il delitto di bancarotta fraudolenta viene disposto a fini impeditivi, allo scopo di evitare il compimento di ulteriori atti di disposizione e la loro dispersione, che pregiudicherebbero ulteriormente il soddisfacimento dei creditori sociali, ed è dunque destinato, in caso di condanna, a permanere in caso di confisca o a convertirsi in sequestro conservativo, secondo quanto previsto dall’art. 323, commi 3 e 4, cod. proc. pen.
Tale sequestro determina, dunque, un vincolo di indisponibilità dei beni che a esso sono stati assoggettati, destinato a determinare un provvedimento ablatorio o un ulteriore vincolo (quello del pignoramento, strumentale alla espropriazione mediante esecuzione forzata), cosicché esso preclude, a causa della sua esistenza, la possibilità di imporre sui medesimi beni un ulteriore vincolo strumentale allo loro confisca (il sequestro preventivo a fine di confisca diretta del profitto del reato di sottrazione fraudolenta di cui all’art. 11 cit.), giacché tale ulteriore vincolo risulterebbe inutilmente apposto qualora dei beni venga disposta la confisca in relazione al reato di bancarotta o se il precedente sequestro preventivo sia mantenuto a fini conservativi, in quanto tali esiti impedirebbero al secondo sequestro, disposto in relazione al reato tributario, di esplicare l’effetto cui è preordinato, e cioè la confisca del profitto di tale reato.
L’eventuale capienza dei beni di cui è stato disposto il sequestro in via diretta in relazione al reato di bancarotta fraudolenta, o, comunque, la loro idoneità a soddisfare il debito tributario (privilegiato ex art. 2752 cod. civ.), non impedisce di disporre anche il sequestro per equivalente dei beni degli amministratori della società, stante l’attuale indisponibilità dei beni costituenti il profitto del reato (derivante dalla apposizione del vincolo in relazione al reato di bancarotta) e la conseguente impossibilità di procedere in via diretta al sequestro del profitto del reato tributario di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000 agli stessi contestato.
L’eventuale futuro soddisfacimento, totale o parziale, del credito erariale, attraverso i beni oggetto di confisca diretta o sul ricavato dalla loro vendita, consentirà la riduzione o la revoca del sequestro per equivalente, non tanto per il venire meno del presupposto costituito dalla attuale impossibilità di procedere al sequestro diretto, quanto per il soddisfacimento del credito in relazione al quale esso è stato disposto.
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L’11 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 17935, alla stregua della quale il reato di atti persecutori assorbe la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., sempre che i singoli comportamenti molesti costituiscano segmenti di un’unitaria condotta, sorretta dal medesimo coefficiente psichico, consistente nella volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire.
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Il 16 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 18322, che ha rimarcato la differenza tra il reato di bancarotta fraudolenta documentale e quello di bancarotta impropria da reato societario, ricorrendo il primo in ipotesi di omessa o irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili (nella cui nozione non rientra il bilancio), ove tali condotte impediscano o rendano difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento della società fallita, mentre il secondo in presenza di eventuali omissioni nei bilanci, sussistendone i presupposti: di conseguenza, i reati in esame possono eventualmente concorrere.
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Il 24 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 22486, circa il rapporto tra il reato di bancarotta documentale e il reato di occultamento o distribuzione di documenti contabili.
Ad avviso del Collegio, anche laddove l’occultamento o la distruzione riguardino le medesime scritture contabili o i medesimi documenti, nulla osta alla contestazione, nel simultaneus processus, di entrambi i reati, che offendono beni giuridici diversi e sono animati da un diverso fine, trattandosi di reati che, esaminati sotto il profilo della fattispecie astratta, non sono in rapporto di semplice specialità, ma di specialità reciproca, in ragione: a) del differente oggetto materiale dell’illecito; b) dei diversi destinatari del precetto penale; c) del differente oggetto del dolo specifico; d) del divergente effetto lesivo delle condotte di reato.
In altri termini, tra le fattispecie criminose citate ricorre una ipotesi di concorso formale di reati, non ponendosi – allorché siano trattati congiuntamente – problemi di precedente giudicato, né di preclusione processuale.
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Il 6 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 27598 onde le condotte descritte dall’art. 600 bis c.p. – induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione – possono concorrere tra loro, in quanto il comma 1 della disposizione citata, anche dopo le modifiche introdotte dalla l. n. 172/2012 – è norma a più fattispecie tra loro distinte e costituite da elementi materiali differenti in rapporto alla condotta ed all’evento.
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Il 23 ottobre esce la Sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 29541, che si è pronunciata in ordine alle seguenti questioni di diritto:
“se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi, come debba essere accertato tale elemento”;
“se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile”.
L’ordinanza di rimessione ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 629 e 393 c.p., peraltro circoscritto soltanto ai casi “in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria”, tra i quali rientrerebbe quello in esame, ritenendo pacificamente configurabili come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela; sarebbero, in proposito, emersi due macro-orientamenti:
(a) il primo distingue i predetti reati valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo della materialità;
(b) l’altro li distingue valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo dell’elemento psicologico.
Nell’ambito di quest’ultimo orientamento, alcune decisioni valorizzano come elemento distintivo soltanto la direzione della volontà dell’agente alla soddisfazione del credito, altre ritengono che le modalità della condotta, e dunque l’intensità della violenza e della minaccia, rilevino ai fini della prova del dolo dell’estorsione.
Entrambi gli orientamenti presuppongono l’esistenza di un concorso apparente di norme e, dunque, di un reato “con capacità assorbente”, senza prendere in esame la possibilità del concorso formale tra i reati, che potrebbe trovare plausibile legittimazione, secondo l’ordinanza di rimessione, “nella diversa collocazione sistematica delle norme che prevedono i reati di estorsione e di esercizio arbitrario e nella diversità dei beni giuridici tutelati”.
Inoltre, considerato che, nel caso di specie, la minaccia estorsiva sarebbe stata profferita dal creditore G., confermata dal F. (terzo estraneo) e ribadita dal P. (anch’egli terzo estraneo), la Seconda sezione ha rilevato l’esistenza di un ulteriore contrasto giurisprudenziale, riguardante la configurabilità del concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.), che l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità colloca tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, con la conseguenza che, se la condotta tipica sia posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, agente su mandato del creditore, essa non potrà mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto altra fattispecie; nei casi in cui la condotta tipica sia invece posta in essere da chi intenda “farsi ragione da sé medesimo” sarebbe, al contrario, configurabile il concorso (“per agevolazione”, od anche “morale”) dei terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Questo orientamento, che “indirizza chiaramente verso la qualificazione del fatto come estorsione ogni volta che la condotta violenta sia posta in essere da un terzo, sebbene su mandato del titolare del diritto che si intende soddisfare”, non è condiviso dal collegio rimettente, essenzialmente perché l’art. 393 c.p. (come d’altro canto l’art. 392 stesso codice) indica il soggetto attivo del reato con il termine “chiunque”, e ciò indicherebbe “che ci si trov(i) al cospetto di un “reato comune”, come risulta confermato dal fatto che gli elementi costitutivi del reato (pretesa giuridicamente tutelabile in sede giudiziaria; violenza o minaccia) non riguardano, nè richiamano la qualifica o la qualità del soggetto agente”.
Per ragioni di ordine logico, è opportuno esaminare per prima la questione controversa riguardante l’individuazione del soggetto attivo dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
La dottrina ha osservato che il reato proprio “trova la propria genesi storica e ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità” e si caratterizza perché il soggetto che ha una particolare qualifica acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica, alternativamente:
– lo pone in rapporto col bene protetto, consentendogli di arrecarvi l’offesa incriminata;
– gli conferisce la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata;
– rende opportuna l’incriminazione di fatti altrimenti non ritenuti meritevoli di pena;
– limita la meritevolezza di un trattamento sanzionatorio di favore (come accade in favore della sola madre in relazione al reato d’infanticidio).
Esso non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) se ed in quanto trovi ragionevole giustificazione nella tutela di interessi tali da legittimare, a seconda dei casi, il trattamento deteriore o di favore.
L’incriminazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni risponde ad una esigenza istintivamente avvertita dalle coscienze dei popoli sin dai primordi del diritto penale: il diritto romano incriminava l’impossessamento delle cose del proprio debitore contro la volontà di quest’ultimo e la sottrazione violenta della propria res posseduta da terzi; il diritto intermedio puniva, in linea di principio, l’impossessamento violento della cosa propria posseduta, anche se illegittimamente, da terzi e l’uso delle armi per farsi giustizia, pur tollerando talora l’impiego delle armi per la rivendicazione dei propri diritti.
Si trattava, peraltro, di fattispecie non paragonabili al tipo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni inteso nel senso moderno.
Il precedente immediato degli artt. 392 e 393 c.p. è costituito dall’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, a sua volta promanante dall’art. 146 del codice toscano del 1853 e dall’art. 286 e segg. del codice penale sardo-italiano del 1859.
Con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza sulle cose oppure alle persone), la dottrina è divisa.
La dottrina tradizionale qualificava i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati comuni, che potevano essere commessi da “chiunque” agisse come privato (e non come pubblico ufficiale et c.) e non avesse il possesso della res oggetto di contesa, e precisava che “insieme con colui che agisce per esercitare un preteso diritto possono concorrere persone che non abbiano alcun preteso diritto da far valere. Costoro, nondimeno, rispondono dello stesso titolo delittuoso, in base alle norme generali sulla compartecipazione criminosa”.
Parte minoritaria della dottrina più recente ha ribadito l’orientamento, essenzialmente valorizzando il termine “chiunque” con il quale gli artt. 392 e 393 c.p. indicano il soggetto attivo dei predetti reati; analoga argomentazione è posta dall’ordinanza di rimessione a fondamento del manifestato convincimento che i reati in oggetto siano “comuni” e non propri”.
L’orientamento senz’altro dominante in seno alla dottrina più recente ritiene, al contrario, che i reati in oggetto abbiano natura di reato proprio, potendo essere commessi unicamente dal titolare del preteso diritto, dal soggetto che eserciti legittimamente in sua vece il predetto diritto e dal negotiorum gestor; si è, talora, precisato che il terzo non titolare del preteso diritto che ne reclami arbitrariamente soddisfazione deve avere un particolare legame con il creditore ed essere assolutamente privo di un interesse proprio.
La prime decisioni giurisprudenziali intervenute in argomento (Cass. 25 luglio 1934, Landinia, Giust. pen., 1935, II, 799; Cass. 17 giugno 1936, Rainieri, Giust. pen., 1936, II, 1068) avevano ritenuto che “il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è configurabile anche se il soggetto attivo abbia usato violenza per esercitare una pretesa giuridica accampata da altri, se ciò sia, però, avvenuto in nome e vece del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti, e nell’interesse esclusivo di lui”.
Questo orientamento, che richiede sempre e comunque il coinvolgimento nel reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. del soggetto “qualificato”, ovvero il titolare del preteso diritto azionato, è stato in seguito costantemente ribadito.
È stata ammessa la configurabilità dei reati in oggetto anche nei casi in cui il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, a condizione che quest’ultimo non sia animato da finalità proprie: in particolare, Sez. 6, n. 8434 del 30/04/1985, Chiacchiera, Rv. 170533 riconobbe che soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare (nel caso esaminato, l’imputata aveva consumato il delitto esercitando, nella sua qualità di coniuge, una pretesa di natura reale vantata dal consorte e nell’interesse di questo ultimo); secondo Sez. 2, n. 8778 del 09/04/1987, Schiera, Rv. 176469, “ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all’art. 393 c.p., riconosciuto che l’agente può operare anche a vantaggio di un terzo, non è necessario che l’interessato abbia conferito mandato o dato informale incarico al soggetto di operare per suo conto, nè che la ragione vantata sia effettivamente realizzabile in giudizio (è sufficiente, infatti, il convincimento della legittimità della pretesa), nè è richiesta l’impossibilità per l’interessato di far valere personalmente il proprio diritto”; nel medesimo senso, si è anche ritenuto che “il reato di “ragion fattasi” di cui all’art. 393 c.p. non è escluso dalla circostanza che il preteso diritto appartenga a soggetto diverso dall’agente, se questi, nella qualità di negotiorum gestor e senza la necessità di investiture formali, operi nel di lui interesse, concorrendo, così, nella commissione del reato” (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; conformi, Sez. 6, n. 14335 del 16/03/2001, Federici, Rv. 218728: fattispecie relativa all’arbitrario esercizio di un diritto del quale era titolare il coniuge del soggetto agente; Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, Rv. 218668; Sez. 6, n. 1257 del 03/11/2003, dep. 2004, Paoli, Rv. 228415: fattispecie in cui la violenza sulle cose era stata attuata per esercitare il presunto diritto di proprietà di un figlio dell’agente).
L’orientamento è stato più recentemente ribadito da Sez. 6, n. 23322 del 08/03/2013, Anzalone, Rv. 256623, per la quale “soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose può essere anche chi esercita il preteso diritto pur non avendone la titolarità, in quanto, ai fini della configurabilità del delitto, rileva che l’agente si comporti come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà” (principio affermato con riferimento ad un caso nel quale l’imputato, al fine di assicurare la somministrazione di energia elettrica al fondo del padre, aveva collocato nel fondo di un vicino dei pali perché l’Enel potesse esercitare la servitù di elettrodotto).
Queste Sezioni Unite ritengono che i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni abbiano natura giuridica di reati propri.
La dottrina è pressoché concorde nel ritenere che attraverso l’incriminazione dei fatti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è stato perseguito “lo scopo di impedire la violenta sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari”, onde evitare “che il privato si faccia ragione con le proprie mani, compromettendo la pubblica pace”; coerentemente con tale ratio dell’incriminazione, “l’oggetto della tutela è stato ravvisato in un interesse pubblico, e precisamente nell’interesse dell’Autorità giudiziaria all’esercizio esclusivo dei suoi poteri”, e le relative norme incriminatrici sono state collocate nel titolo del codice penale relativo ai delitti contro l’amministrazione della giustizia.
L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assume rilevanza penale se commesso con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone.
Come pure evidenziato dalla dottrina, e come già emerso in seno alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 15972 del 05/04/2001, Corieri, in motivazione), nel reato previsto dall’art. 392 c.p. ricorrono sempre o quasi gli estremi del fatto di danneggiamento (art. 635 c.p.), mentre in quello previsto dal successivo art. 393 sono configurabili in ogni caso gli estremi del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.): l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è, tuttavia, punito meno gravemente dei delitti che in esso sono necessariamente contenuti (salvo che nel caso del danneggiamento non aggravato, trasformato in illecito civile dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 4, comma 1), nonostante il fatto che, rispetto al danneggiamento previsto dal testo attualmente vigente dell’art. 635 c.p. ed alla violenza privata, in esso, alla lesione, rispettivamente, del patrimonio o della persona, si aggiunga l’offesa dell’interesse all’amministrazione della giustizia; inoltre, nonostante comporti anche la lesione di un interesse pubblico, esso è perseguibile non d’ufficio, ma a querela di parte, il che comporta che il danneggiamento e la violenza privata, ordinariamente procedibili d’ufficio, quando ledono una prerogativa dell’Autorità giudiziaria, oltre ad essere puniti meno gravemente, diventano procedibili a querela di parte.
Può, pertanto, convenirsi con la dottrina che questa disciplina trova l’unica plausibile giustificazione nella considerazione che “il fatto di agire col convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come un motivo di attenuazione della pena”; in proposito, un pur risalente precedente di questa Corte (Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113341) aveva osservato che, nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente opera con il convincimento di esercitare un suo diritto, il che è avvertito dalla coscienza sociale come motivo di attenuazione della pena ed importa che i delitti in oggetto vengano considerati dalla legge, nella loro essenza unitaria, come una forma attenuata di danneggiamento, nell’ipotesi di cui all’art. 392 c.p., o di violenza privata, in quella di cui all’art. 393.
La medesima ratio può ritenersi suscettibile anche di affievolire l’interesse statale all’esercizio della pretesa punitiva, destinato ad insorgere soltanto a seguito della tempestiva iniziativa del presunto debitore/querelante.
I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano, quindi, per il fatto che il soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe “ricorrere al giudice”, acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima.
Non costituisce apprezzabile ostacolo alla qualificazione dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri, l’indicazione, negli artt. 392 e 393 c.p., del soggetto attivo come “chiunque”, al contrario sic et simpliciter valorizzata da parte minoritaria della dottrina più recente e dalla stessa ordinanza di rimessione.
Per confutare l’assunto appare sufficiente ricordare che in numerosi reati pacificamente “propri”, il soggetto attivo è normativamente indicato in “chiunque”: si pensi, per tutti, alla falsa testimonianza (art. 372 c.p.) ed addirittura all’incesto (art. 564 c.p.).
Il “chiunque” indicato dagli artt. 392 e 393 c.p. è, dunque, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto.
Secondo il tradizionale e consolidato insegnamento della giurisprudenza civile, l’istituto della negotiorum gestio, previsto e disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., postula lo svolgimento di un’attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento dell’esclusivo interesse di un altro soggetto, caratterizzato dall’assoluta spontaneità dell’intervento del gestore, e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del quale egli sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Sez. 3, n. 23823 del 22/12/2004, Rv. 579141; Sez. 1, n. 16888 del 24/07/2006, Rv. 591617).
Sempre sotto il profilo civilistico, la legittimazione ad esercitare nel processo un diritto altrui è eccezionale (cfr. art. 81 c.p.c., a norma del quale, “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”).
Nella giurisprudenza penale di legittimità è talora emersa la preoccupazione che, legittimando incondizionatamente il terzo ad attivarsi in luogo del reale creditore, il debitore/vittima possa trovarsi esposto a danni ulteriori rispetto a quelli connaturali alle fattispecie di reato tipiche, perché “costretto a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio” (Sez. 5, n. 5193 del 27/02/1998, P.G., Lentini ed altri, Rv. 211492), potendo in tali casi ingenerarsi una situazione “che non avrebbe permesso alla vittima di ottenere garanzie dell’estinzione del proprio debito con il versamento sollecitato” (Sez. 6, n. 41329 del 19/10/2011, Di Salvatore, n. m., in motivazione).
Tutto ciò premesso, osserva il collegio che la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (a seconda dei casi, con violenza sulle cose oppure con violenza o minaccia alle persone) delle condotte poste in essere sponte da terzi non appartenenti al nucleo familiare del creditore (coniuge, figlio, genitore, come emerso nella casistica giurisprudenziale innanzi riepilogata), che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d’intesa con il creditore, comporterebbe l’immotivata applicazione del previsto regime favorable, che trova giustificazione, anche quanto al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo (il creditore ricorrendo al giudice civile, il debitore sporgendo querela).
Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo all’iniziativa del terzo negotiorum gestor, non potrà, quindi, essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma ricorreranno quanto meno (e salvo quello che si osserverà in seguito con riguardo ai rapporti tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione) gli estremi dei corrispondenti reati comuni (danneggiamento o violenza privata).
Una volta affermata la natura di reato proprio dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, va affrontata la questione accessoria e consequenziale, ovvero se si tratti, o meno, di un reato proprio esclusivo, o di mano propria.
L’orientamento attualmente dominante nella giurisprudenza di questa Corte, premesso che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere commesso, ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p. unicamente da “chiunque… si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”, ritiene che quest’ultima espressione induca a ritenere che i predetti reati rientrino tra i cc.dd. reati propri esclusivi, o di mano propria, che si caratterizzano in quanto richiedono che la condotta tipica deve essere posta in essere dal soggetto “qualificato”, ovvero, nel caso di specie, dal presunto creditore: di conseguenza, quando la condotta tipica di violenza o minaccia prevista dagli artt. 392 e 393 c.p. sia posta in essere da un soggetto diverso dal creditore, ovvero estraneo al rapporto obbligatorio che fonderebbe la pretesa azionata, non potrebbe ritenersi integrato l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
L’assunto sarebbe corroborato dalla particolare oggettività giuridica dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posti a tutela anche dell’interesse statuale al ricorso obbligatorio alla giurisdizione (il c.d. monopolio giurisdizionale) nella risoluzione delle controversie, in riferimento al quale, se può – in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) – essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, non può mai essere tollerata l’intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell’amministrazione della giustizia (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; nel medesimo senso, pur implicitamente, Sez. 5, n. 5241 del 20/06/2014, D’Ambrosio, Rv. 261381; Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Bifulco, Rv. 268630; Sez. 2, n. 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285).
All’orientamento mostrano di aderire anche Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016, Arcidiacono, n. m., e Sez. 2, n. 31725 del 05/04/2017, P.M. in proc. Arnone, Rv. 271760, che ha configurato il reato di cui all’art. 393 c.p. con riferimento ad una fattispecie nella quale l’imputato (un avvocato nell’esercizio del proprio mandato professionale) aveva inviato una missiva con richieste di rilevanti somme di denaro per chiudere la controversia, minacciando altrimenti denunce che avrebbero portato l’emissione di provvedimenti applicativi di misure cautelari nei confronti della controparte e del suo difensore, osservando che “il professionista che agisca nell’interesse di un cliente non può considerarsi “estraneo” alla contesa che opponga il proprio patrocinato ad un terzo (…): l’avvocato è una parte tecnica che si affianca alla parte sostanziale della contesa, nella conclusiva unitarietà di una parte complessa”.
Il riferimento al farsi ragione “da sé medesimo”, mai valorizzato dalla giurisprudenza tradizionale, è stato generalmente interpretato dalla dottrina come pleonastico.
Secondo la dottrina tradizionale, l’espressione “farsi ragione da sé medesimo” significa unicamente “realizzare con le proprie forze quella pretesa che l’agente ritiene giusta in sé: per rendersi, insomma, giustizia da sé stesso”; essa evocherebbe, quindi, “null’altro che la realizzazione dello scopo (di regola economico) al cui soddisfacimento è preordinato il diritto che si vanta”.
Nell’ambito della dottrina più recente, si è ritenuto che l’espressione integri la materialità dei reati in oggetto, evocando o l’arbitraria realizzazione di una situazione di fatto corrispondente al preteso diritto, oppure l’impiego della forza privata per realizzare la pretesa; talora essa è stata interpretata in duplice accezione, “in un’ottica oggettivistica non è niente altro che il momento realizzativo dello scopo economico del diritto esercitato; in chiave soggettivistica l’autosoddisfazione è invece la affermazione unilaterale ed autoritaria di una situazione attualmente o potenzialmente favorevole al reo, tale da mostrarsi soltanto “congrua” rispetto al diritto al fine dell’esercizio del quale essa è realizzata”.
L’orientamento che considera i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati propri esclusivi, o di mano propria, non può essere condiviso.
Il riferimento, per integrare la descrizione della fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, alla necessità che il soggetto che vanta il preteso diritto si faccia ragione “da sé medesimo”, già esistente nell’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, è stato mutuato dall’art. 146 del codice toscano del 1853, in relazione al quale esso era stato pacificamente interpretato dalla dottrina come meramente descrittivo: “quando chi crede di avere una pretesa giuridica sostituisce la sua forza al potere del giudice, si fa ragione da sé medesimo. Perciò i giureconsulti toscani denominarono l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ragion fattasi”.
I lavori preparatori del codice penale del 1889 non attribuiscono all’espressione un diverso significato: i verbali della Commissione istituita con R.D. 13 dicembre 1888 (cfr. intervento del relatore Auriti) confermano, anzi, che l’espressione “da sé medesimo” esprime unicamente “la surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità, in che il reato consiste”. I lavori preparatori del codice penale del 1930 sono, sul punto, assolutamente silenti.
Tali rilievi, che consentono di confermare il significato meramente pleonastico tradizionalmente attribuito all’espressione in oggetto, mai messo in discussione, unitamente alla genericità di essa, di per sé considerata, non consentono di avvalorare l’orientamento che la valorizza per argomentare la natura giuridica di reati propri esclusivi, o di mano propria, dei reati de quibus.
Vanno ora esaminati i rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione.
Sin da epoca risalente, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che il criterio differenziale tra i delitti di cui agli artt. 629 e 393 c.p. consista nell’elemento intenzionale, in quanto nel primo l’intenzione dell’agente è di procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo il reo agisce per conseguire un’utilità che ritiene spettargli, nonostante che il suo diritto sia contestato o contestabile, senza adire l’Autorità giudiziaria (Cass. 21 gennaio 1941, Clocchiatti, Giust. pen., 1941, II, 810, 1078; Cass. 27 marzo 1950, Paoli, Riv. pen., 1950, 679).
Ponendosi sulla scia di questo pur risalente insegnamento, in epoca successiva l’orientamento prevalente di questa Corte ha distinto i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto (Sez. 2, n. 56400 del 22/11/2018, Iannuzzi, Rv. 274256; Sez. 1, n. 6968 del 20/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Rottino, Rv. 272285; Sez. 2, n. 1901 del 20/12/2016, dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 268770; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss.; Sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Stradi, Rv. 265214; Sez. 2, n. 44674 del 30/09/2015, Bonaccorso, Rv. 265190; Sez. 2, n. 42734 del 30/09/2015, Capuozzo, Rv. 265410; Sez. 2, n. 23765 del 15/05/2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106; Sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Conte, Rv. 260474; Sez. 2, n. 31224 del 25/06/2014, Comite, Rv. 259966; Sez. 2, n. 24292 del 29/05/2014, Ciminna, Rv. 259831; Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344; Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375; Sez. 2, n. 705 del 01/10/2013, dep. 2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. 2, n. 22935 del 29/05/2012, Di Vuono, Rv. 253192; Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Olmastroni, Rv. 247228; Sez. 2, n. 9121 del 19/04/1996, Platania, Rv. 206204; Sez. 2, n. 6445 del 14/02/1989, Stanovich, Rv. 181179; Sez. 2, n. 5589 del 12/11/1982, dep. 1983, Rossetti, Rv. 159513).
Nell’ambito di questo orientamento, va anche collocata Sez. 6, n. 58087 del 13/09/2017, Di Lauro, Rv. 271963, per la quale il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione si distingue da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, posto in essere in concorso con il sequestro di persona, non già in base alla intensità della violenza che connota la condotta, bensì in ragione del fine perseguito dal suo autore che, nel primo caso, è volta al conseguimento di un profitto ingiusto, e, nell’altro, alla realizzazione, con modi arbitrari, di una pretesa giuridicamente azionabile: in tal caso, infatti, l’ingiusto profitto sussiste sia nel caso in cui il vantaggio ricercato dal reo coincida con il prezzo della liberazione, sia nel caso in cui detto vantaggio derivi dall’esecuzione di un pregresso rapporto illecito con la vittima del reato, trattandosi di una pretesa non tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria.
Altro orientamento ha, al contrario, valorizzato, ai fini della distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all’art. 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma risulta strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza: di conseguenza, quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza intimidatoria e sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia ed, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, di per sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità in cui essa risulti formulata denotino una prava volontà ricattatoria che le facciano assumere connotazioni estorsive (Sez. 5, n. 35563 del 15/07/2019, Russo, Rv. 277316; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425; Sez. 6, n. 11823 del 07/02/2017, P.M. in proc. Maisto, Rv. 270024; Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643; Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316; Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320; Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255; Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, P.G. in proc. Caruso, Rv. 262291; Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, Palazzotto, Rv. 256249; Sez. 5, n. 28539 del 14/04/2010, P.M. in proc. Coppola, Rv. 247882; Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248736; Sez. 6, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv. 248169; Sez. 2, n. 35610 del 27/06/2007, Della Rocca, Rv. 237992; Sez. 2, n. 14440 del 15/02/2007, Mezzanzanica, Rv. 236457; Sez. 2, n. 47972 del 01/10/2004, Caldara, Rv. 230709; Sez. 1, n. 10336 del 02/12/2003, dep. 2004, Preziosi, Rv. 228156).
Nell’ambito di questo orientamento è enucleabile un sotto-orientamento, ampiamente illustrato nell’ordinanza di rimessione, a parere del quale il delitto di estorsione sarebbe configurabile quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva; sarebbe, invece, configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che abbiano un epilogo “non costrittivo”, ma “più blandamente persuasivo” (così, più o meno pedissequamente, Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123; Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469; Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837).
In dottrina, può senza dubbio definirsi unanime il convincimento che i due reati in oggetto si distinguano in relazione al fine perseguito dall’agente.
Le dottrine tradizionali avevano affermato che, nel caso in cui l’agente “non agì per trarre ingiusto profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, ma per uno scopo diverso, potrà ricorrere il titolo di (..) esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o altro; ma non quello di estorsione”, precisando che “spesso però l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto (…), non è che un pretesto per larvare l’estorsione”, ed ammonendo i giudici quanto all’opportunità di adoperare “molta cautela nell’accertare il vero scopo dell’agente”; naturalmente, “pur mirando l’agente anche a conseguire il profitto relativo a un preteso diritto esistente o supposto, la estorsione sussist(e) quando egli chieda più di ciò che tale diritto comporta”; si ammetteva che l’estorsione presentasse tratti comuni con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, “ma a stabilirne la diversità basta l’elemento psicologico, che nel secondo consiste nel fine di esercitare un preteso diritto, quando si abbia la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria”.
Altra dottrina ha successivamente ritenuto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni “richiede il fine di esercitare un preteso diritto azionabile e l’estorsione la coscienza e volontà di conseguire un profitto non fondato su alcuna pretesa giuridica”; nel medesimo senso, la dottrina più recente afferma che “il criterio discretivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si fonda sulla finalità perseguita dall’agente: nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo, supponendo di essere titolare di un diritto, agisce con lo scopo di esercitarlo, mentre nell’estorsione l’agente è consapevole di conseguire un ingiusto profitto”.
Queste Sezioni Unite ritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento psicologico.
La materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 c.p.: “mediante violenza sulle cose”; art. 393 c.p.: “usando violenza o minaccia alle persone”; art. 629 c.p.: “mediante violenza o minaccia”): all’uopo occorre, secondo la dottrina più recente, “che vi sia un nesso causale tra la condotta e la situazione di coazione psicologica che costituisce, a sua volta, l’evento intermedio tra la condotta stessa e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca l’ingiusto profitto con altrui danno.
Si tratta di un evento psicologico che deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato: se l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione. La coazione psicologica si risolve, essenzialmente, nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dalla paura del male prospettato”.
Cionondimeno, come già rilevato (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, in motivazione), la possibile valenza dimostrativa di tale disomogeneità strutturale può agevolmente essere ridimensionata, ove si pensi che l’effetto costrittivo della condotta estorsiva appare consustanziale proprio alla diversa finalità dell’agente, che mira ad ottenere una prestazione non dovuta, dalla quale l’agente trae profitto ingiusto, e la vittima un danno; diversamente, nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia mira ad ottenere dal debitore proprio e soltanto la prestazione dovuta, come in astratto giudizialmente esigibile.
D’altro canto, il riferimento all’effetto “costrittivo” della condotta appare, nella sistematica codicistica, piuttosto finalizzato a distinguere il reato di estorsione, previsto e punito dall’art. 629 c.p., da quello di rapina, previsto e punto dal precedente art. 628: come chiarito dalla stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul Libro I del Progetto del codice penale del 1930 (pag. 450), “premesso che in entrambe tali ipotesi delittuose la spogliazione in danno della vittima di consuma mercè violenza o minaccia, il Progetto coglie la nota differenziale dei due delitti negli effetti della coercizione usata, riscontrando la rapina, se l’agente s’impossessa egli stesso della cosa altrui, e l’estorsione, se la persona, a cui la violenza o la minaccia è diretta, è obbligata a consegnare la cosa”.
Il criterio è stato pacificamente accolto dalla giurisprudenza di questa Corte, che distingue correntemente le due fattispecie proprio osservando che, nella rapina, il reo sottrae la res esercitando sulla vittima una violenza od una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell’estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo, che è soltanto “costretto” a determinarsi come gli viene imposto dal soggetto agente, ma potrebbe determinarsi diversamente (così Sez. 2, n. 44954 del 17/10/2013, Barillà, Rv. 257315).
Come già evidenziato, tra le altre, da Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 ss. e Sez. 2, n. 51433 del 04/12/2013, Fusco, Rv. 257375, sia l’art. 393 c.p., comma 3, che l’art. 629 c.p., comma 2, (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628 c.p., comma 3, n. 1) prevedono che la pena è aumentata “se la violenza o minaccia è commessa con armi”, senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco: è quindi normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall’uso di un’arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero “costrittiva”, e comunque “sproporzionata”, rispetto al fine perseguito.
Detto riferimento appare decisivo, atteso che, secondo il contrario orientamento, siffatta condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è.
La stessa Relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del Codice penale, pur in estrema sintesi (pag. 158), osserva che la fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è “comprensiva d’ogni specie di violenza, fisica o morale”, senza attribuire, quindi, alcuna rilevanza al quantum di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia profferita.
È stato, infine, già evidenziato da questa Corte (Sez. 6, n. 45064 del 12/06/2014, Sevdari, in motivazione) che “le norme sostanziali poste a confronto non contengono alcuna gradazione (nè “verso l’alto” nè “verso il basso”) delle modalità espressive della condotta violenta o minacciosa, e che le fattispecie si distinguono in base al solo finalismo della condotta medesima, che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell’altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrari, una pretesa giuridicamente azionabile. In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l’incidere sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto”: risulta, pertanto, evidente la “carenza di tipicità che si connette all’enucleazione, in assenza di qualsiasi segnale linguistico, di una sottofattispecie delle nozioni di violenza e minaccia, così “gravemente intimidatorie” da connotare ex se di ingiustizia qualunque finalismo, e dunque sostanzialmente da annullare la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall’estorsore”.
Deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362).
Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967).
Detta verifica, come pure è stato già osservato, è preliminare: “i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito – che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare – deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo” (Sez. 2, n. 52525 del 10/11/2016, D.V., rv. 268764). In applicazione del principio, è già stata, ad esempio, ritenuta la configurabilità del delitto di estorsione, e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiché in tal caso egli è consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. 2, n. 9931 del 09/03/2015, Iovine, Rv. 262566; Sez. 2, n. 26235 del 12/05/2017, Nicosia, Rv. 269968).
Orientamenti risalenti della giurisprudenza di questa Corte (Cass. 23 gennaio 1952, Costa, Riv. it. dir. pen., 1952, 419; Sez. 6, n. 1835 del 15/10/1969, Zarba, Rv. 113338) e parte della dottrina tradizionale, premesso che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 393 c.p., la legge richiede soltanto l’uso della violenza o minaccia alla persona, avevano ritenuto non necessario che la persona rimasta vittima della violenza o della minaccia fosse quella in conflitto d’interessi con l’agente, poiché si dovrebbe avere riguardo non tanto e non solo alla persona verso la quale si indirizza la violenza o la minaccia, “ma al nesso di mezzo al fine che tra il fatto violento o la minaccia e il proposito di farsi ragione da sé deve ricorrere”, con l’ulteriore conseguenza che il reato, sempre che un tale nesso sia riscontrabile, sarebbe completo in tutti i suoi elementi anche se la violenza o minaccia siano dirette non contro l’antagonista del soggetto attivo, ma contro altra e diversa persona.
L’orientamento può ritenersi ormai superato, e comunque non condivisibile: proprio in considerazione del fatto che la sussistenza del requisito della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo è diretta va verificata preliminarmente (poiché commette il reato di cui all’art. 393 c.p. “chiunque” possa ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto), risulta evidente che l’agente non potrebbe azionare in giudizio la sua pretesa chiamando in causa, in garanzia, e senza titolo alcuno, i terzi oggetto di viiolenza o minaccia.
Come già correttamente ritenuto, in più occasioni, da questa Corte, è, pertanto, configurabile, il delitto di estorsione nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Cacciola, Rv. 260344: fattispecie in cui il creditore ed i coimputati avevano rivolto nei confronti del debitore gravi minacce in danno del figlio e della moglie; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017), poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, D’Errico, Rv. 259555 e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Immordino, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio).
Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.
L’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estorsione vanno accertati secondo le ordinarie regole probatorie: alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, pertanto, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione.
Questa Corte è, infatti, ferma nel ritenere, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012); con specifico riferimento al tema in esame, si è inoltre osservato che “il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante”, e, di conseguenza, “le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.”, ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile (Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320).
Un orientamento ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso” (già D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. L. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 c.p.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ugualmente aggravato, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di tipo mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. Agostino, Rv. 264628).
L’orientamento non può essere condiviso, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 c.p. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 c.p.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. “metodo mafioso”, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione.
A ben vedere, il denunciato contrasto di orientamenti riguardante la distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. risulta più apparente che reale.
Limitando la disamina che segue alle decisioni più recenti e significative, nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 35563 del 17/07/2019, Russo, Rv. 277316, il creditore, agendo con metodo mafioso, aveva dato alle fiamme una minipala nel giardino di una villa di proprietà della persona offesa, con il rischio che il fuoco si propagasse anche all’immobile, arrecando un danno ben superiore rispetto all’entità del credito vantato: in siffatta situazione, l’impiego del metodo mafioso, che aveva comportato l’attuazione della pretesa in forme che, richiamando alla mente del soggetto passivo il potere di intimidazione dell’associazione criminale e la promessa di passare ad ulteriori e più gravi danneggiamenti, ed il rischio di cagionare al debitore danni sproporzionati rispetto all’entità del debito, senz’altro esorbitanti rispetto al fine di ottenere il pagamento del credito ed idonei ad annichilire le capacità di reazione della persona offesa, integravano certamente il necessario dolo di estorsione.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425, la stessa decisione dà preliminarmente atto che l’imputato non vantava alcun credito ragionevolmente azionabile nei confronti del debitore, e tale rilievo risultava senz’altro assorbente.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643, si era accertato che l’agente aveva richiesto al proprio debitore “una somma maggiore di quanto dalla stessa in precedenza richiesto perché a suo dire “bisognava pagare i ragazzi” (cioè i concorrenti nel reato da lei chiamati ad agire con violenza e minacce nei confronti della persona offesa)”: a prescindere dal fatto che “le modalità di soddisfacimento del preteso diritto erano travalicate in forme di particolare violenza, sistematicità e pervicacia”, pure valorizzato, in realtà risultava preliminare il rilievo che l’agente ed i terzi incaricati della riscossione avevano perseguito (anche) la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 44657 del 08/10/2015, Lupo, Rv. 265316, gli imputati avevano posto in essere condotte violente e minacciose nei confronti delle diverse persone offese – per lo più soggetti in situazione di grave crisi finanziaria – finalizzate non solo al recupero di crediti originari, ma anche al perseguimento di un autonomo profitto rappresentato dall’acquisizione della percentuale concordata come “tangente” per la riscossione delle somme, e quindi per la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata dalla già citata Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320, alla p.o., sottoposta ad una serie continua di gravi minacce da parte di più persone, singolarmente e in gruppo, “fu poi intimato di firmare cambiali in bianco (che effettivamente in seguito firmò a decine sul cruscotto di un’autovettura nei pressi dello stadio di Casal di Principe) e venne anche prospettata (..) la possibilità di lavorare, unitamente ai fratelli, presso un’azienda della zona, onde guadagnare le somme necessarie a ripianare l’esposizione debitoria (prospettiva imposta con la forza dell’intimidazione, e non quale espressione sintomatica di una libera scelta lavorativa)”: i soggetti agenti avevano, quindi, perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, non essendo mossi dal ragionevole intento di trovare soddisfazione di un preteso diritto.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255, i contratti preliminari rispetto ai quali, con le violenze accertate, si intendeva indurre le pp.oo. a far seguire la stipula un contratto di vendita di quota, “erano stati stipulati nel 1989, non dagli attuali soci della (…) s.r.l. ma dagli originari soci della stessa (…); occorreva, dunque, un formale conferimento della relativa posizione negoziale nella società e di tanto manca agli atti la prova si che, dal punto di vista documentale, come evidenziato dal Tribunale, la pretesa ancorata al citato preliminare risulta comunque riferibile a soggetti diversi dagli odierni indagati (…)”: i soggetti agenti perseguivano, quindi, la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 2, 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo, Rv. 263298, l’imputato, per riscuotere il suo credito, si era avvalso di due pregiudicati, che avevano minacciato la persona offesa di dare alle fiamme il suo locale e di cagionare gravi lesioni a lui ed ai suoi familiari ove non avesse pagato il debito, ed aveva quindi perseguito la soddisfazione di una pretesa giudizialmente non azionabile, avendo agito anche in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio vantato.
Nella fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 19230 del 03/05/2013, Palazzotto, Rv. 256249, ricorreva, con riferimento ad entrambi i tentativi di estorsione contestati e ritenuti, la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.), “in quanto le modalità della minaccia, la sua stessa indeterminatezza, l’intervento di persona formalmente estranea al rapporto tra S. e T., la vicinanza di P. a personaggi della famiglia F. (ovviamente la separazione legale di questo imputato dalla moglie di per sé non può essere circostanza significativa), la richiesta di versare Euro 15.000 a favore proprio della famiglia mafiosa del quartiere, sono tutte circostanze che militano, come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, nel senso della sussistenza dell’utilizzazione del metodo mafioso. E se, erroneamente, anche il secondo giudice ha escluso, con riferimento al primo episodio estorsivo, la sussistenza della predetta aggravante (e tale errore non può essere corretto in mancanza di una impugnazione sul punto della parte pubblica), non vi è ragione per la quale non si debba riconoscerne la sussistenza e la operatività con riferimento al secondo episodio estorsivo”: l’estrema invasività della forza intimidatoria esercitata costituiva, pertanto, indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di soddisfazione di una legittima pretesa civilistica.
Anche il riferimento, come criterio per distinguere i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni dall’estorsione, all’effetto “costrittivo” della condotta di estorsione, pur essendo stato in più occasioni enunciato, non è stato mai concretamente e decisivamente valorizzato, poiché, in tutte le sentenze che lo hanno accolto, la pretesa azionata dal presunto creditore non sarebbe stata in realtà azionabile in giudizio:
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018, Maspero, Rv. 273837, il credito del quale si pretendeva soddisfazione non era esigibile, “tenuto conto dei vincoli imposti da Equitalia sui beni della vittima”;
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267123, il terzo incaricato della riscossione aveva agito per la soddisfazione di un credito rispetto al quale era già stata esperita una infruttuosa azione esecutiva, e quindi – attraverso la condotta contestata – pretendeva inammissibilmente di aggredire le cc.dd. res sacra miseris;
– nel caso esaminato da Sez. 2, n. 55137 del 03/07/2018, Arcifa, Rv. 274469, attraverso la condotta contestata, il creditore aveva richiesto la corresponsione di interessi usurari, pretesa certamente non azionabile in giudizio.
Alla luce della disamina che precede, possono essere esaminate le connotazioni del concorso di persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione.
La giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651).
Questo orientamento va condiviso e ribadito.
Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati:
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo;
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico.
Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio.
Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Non appare inopportuno precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. “finalità mafiosa” (art. 416-bis.1 c.p.: essere “i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi (…) al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste” dall’art. 416-bis c.p.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 c.p., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi.
D’altro canto, questa Corte ha già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117).
Vanno conclusivamente enunciati i seguenti principi di diritto:
“i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo”;
“il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie”;
“il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità”.
Così focalizzata la distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ed il reato di estorsione, appare evidente che, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione, non residui alcuno spazio per ipotesi di concorso formale, risultando le due fattispecie, proprio in relazione all’elemento psicologico, alternative: nei casi di concorso in estorsione, l’eventuale fine di soddisfazione di un diritto del preteso creditore resta, infatti, assorbito nel concorrente fine di profitto illecito dei terzi concorrenti.
Può ora procedersi alla disamina dei motivi di ricorso dei ricorrenti, partendo da quelli comuni.
Con riguardo alla formulazione dei primi due motivi del ricorso F. , e di tutti i motivi dei ricorsi G. e P. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione all’art. 125 e art. 546, comma 1, lett. e), per censurare l’omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lett. c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518).
Invero, la specificità del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che l’ambito della predetta disposizione possa essere dilatato per effetto delle citate regole processuali concernenti la motivazione, utilizzando la “violazione di legge” di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), e ciò sia perché la deducibilità per cassazione è ammissibile solo per la violazione di norme processuali “stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza”, sia perché la puntuale indicazione di cui alla lettera e) ricollega a tale limite ogni vizio motivazionale.
D’altro canto, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l’assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti “dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (lett. e)), laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti.
Queste Sezioni Unite (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) hanno, infatti, da tempo chiarito che, nei casi in cui sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può procedere all’esame diretto degli atti processuali, che resta, al contrario, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo (oltre che dal normativamente sopravvenuto riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame), quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione.
Deve conclusivamente ritenersi che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ha l’onere – sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
Con riguardo alla formulazione del primo motivo del ricorso F. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU (Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019, dep. 2020, Leone, Rv. 279059; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261551).
Invero, l’inosservanza di disposizioni della Costituzione, non prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 c.p.p., può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale, nel caso di specie non proposta.
Analoga sorte incontra la censura riguardante la presunta violazione di disposizioni della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a sua volta proponibile in ricorso unicamente a sostegno di una questione di costituzionalità di una norma interna, poiché le norme della Convenzione EDU, così come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, rivestono il rango di fonti interposte, integratrici del precetto di cui all’art. 117 Cost., comma 1, (sempre che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti). Ma ancora una volta siffatta questione di legittimità costituzionale non risulta proposta in ricorso.
Deve, pertanto, ritenersi non consentito il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 c.p.p. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale.
Con riguardo alla formulazione del primo motivo del ricorso G. , è necessario ribadire che non è consentito il motivo di ricorso che deduca vizi di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993; Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, p.c. in proc. Haggag, Rv. 242634; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123; Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Monai, Rv. 264273; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, P.G. in proc. De Gennaro, Rv. 263326; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M: in proc. Altoè, Rv. 268404), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4, n. 6243 del 07/03/1988, Tummarello, Rv. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano state comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la avessero sorretta; d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione.
Ne consegue che, in sede di legittimità, i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, non soltanto allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta, ma anche nel caso contrario, poiché, ove la soluzione di esse non sia giuridicamente corretta, sarà necessario dedurre come motivo di ricorso l’intervenuta violazione di legge.
Deve, pertanto, concludersi che i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, poiché quest’ultimo non ha l’onere di motivare l’interpretazione prescelta, essendo sufficiente che essa sia corretta.
Con riguardo alla formulazione del secondo, del terzo, del quarto e del quinto motivo del ricorso F. , è, infine, necessario ribadire che difetta della specificità richiesta dall’art. 581 c.p.p., comma 1 e art. 591 c.p.p. il motivo che deduca promiscuamente i vizi di motivazione indicati dall’art. 606 c.p.p., commi, lett. e), (Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012, Bidognetti, Rv. 251528; Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Sardo, Rv. 254329; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541; Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, P.G. in proc. Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518).
Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e), se letto in combinazione con l’art. 581, comma 1, lett. d), evidenzia che non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.
Il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ha quindi l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi, in parte qua, di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità.
Non è, pertanto, consentito il motivo di ricorso con cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione all’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), ed in difetto di una espressa sanzione di inutilizzabilità, nullità, inammissibilità, decadenza.
Ciò premesso in rito, è possibile passare all’esame delle doglianze comuni inerenti all’accertamento dei fatti contestati (primo e secondo motivo ricorso F.; primo motivo ricorso G.; primo motivo ricorso P. ).
La Corte di appello (come già il primo giudice) ha ritenuto accertato che:
– tra la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. e Gr.Ni. era stato stipulato un contratto di permuta, in forza del quale quest’ultimo cedeva alla prima un suolo edificabile libero da vincoli, sul quale la prima avrebbe realizzato un complesso residenziale formato da più villette, obbligandosi a cedere al G. “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà alcune delle quali, non appena ultimate;
– Gr.Pi., sorella dell’imputato Gr.Ni. , aveva agito in sede civile contro la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. vantando vari diritti reali sul fondo permutato;
– la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. di A.A. e Gr.Gi. aveva chiamato in causa Gr.Ni. per esserne garantito, ed aveva nelle more non provveduto al trasferimento a quest’ultimo delle villette pattuite, in attesa dell’esito della causa;
– il 12 aprile 2013 Gr.Ni. si era presentato senza preavviso presso il cantiere della Al.de.gra. Costruzioni s.r.l., in compagnia di tali S. e N. (successivamente identificati per gli odierni coimputati P.S. e F.N. ): quest’ultimo riferiva ad A.A. e Gr.Gi. che il G. gli doveva settantamila Euro, e li invitava, pertanto, ad intestare sollecitamente al G. le villette promesse, onde consentirgli di venderle e saldare il debito; il G. confermava l’esistenza del debito, a sua volta insistendo per il trasferimento delle villette. L’A. ed il Gr. replicavano che il trasferimento non avrebbe avuto luogo fino a che la sorella del G. non avesse posto fine al contenzioso pendente, ma il soggetto di nome N. (F. ) insisteva nella pretesa, aggiungendo che, se non avessero adempiuto, “qualcuno si sarebbe fatto male”; nel dire ciò, aveva fatto capire di essere inserito in ambienti malavitosi (evocando una vicenda che lo aveva interessato: per vicende di ‘ndrangheta, aveva subito un sequestro di beni che gli erano poi stati restituiti), e si era offerto di fungere da intermediario con G.P. , conosceva da tempo, aggiungendo, con tono percepito dall’A. e dal Gr. come ironico ed intimidatorio, “che belle villette che state costruendo”.
Dal canto suo, l’altro ignoto visitatore (P.S. ) (non il F. , come erroneamente affermato dalla Corte di appello: cfr. f. 2 della sentenza di primo grado in riferimento alla denuncia delle pp.00.) aveva preso sotto braccio l’A. invitandolo a chiudere subito la faccenda.
Il Gr. aveva fotografato i due a loro insaputa mente discutevano con l’A. ; dopo qualche ora, verso le 14.20, l’A. era stato contattato sulla propria utenza cellulare dal predetto (F.N. ), il quale gli aveva comunicato di aver parlato con G.P. e con i suoi legali, e di avere risolto tutto; i tre odierni coimputati erano poi ritornati in cantiere, dove avevano trovato il solo Gr. , al quale N. (F. ) aveva riferito dell’ultimo colloquio avuto con l’A. ;
– il giorno successivo, l’A. ed il Gr. avevano denunciato l’accaduto alle forze dell’ordine.
17.2. Ciò premesso in fatto, osserva il collegio che l’incontro avvenuto il 12 aprile 2013 non era certamente stato casuale: il F. ed il P. avevano mostrato da subito di essere al corrente dei fatti, di necessità appresi dal G. , ed avevano immediatamente palesato il loro scopo: forzare l’adempimento della controprestazione delle pp.oo. onde trarre soddisfazione di un proprio interesse (l’adempimento di un credito vantato dal F. nei confronto del G. ; alle pp.oo. non era stata manifestata la circostanza menzionata dai ricorrenti – che anche il P. fosse creditore del G. ), formulando all’indirizzo delle pp.oo. espressioni incensurabilmente considerate dai giudici del merito minatorie.
Il G. aveva di necessità informato i complici dei fatti, li aveva accompagnati in cantiere, aveva confermato l’esistenza del proprio debito verso il F. ed era il beneficiario della condotta posta in essere; il P. con la sua presenza aveva necessariamente rafforzato la valenza delle minacce profferite dal F. in danno delle pp.00., attivandosi per parte sua in prima persona attraverso l’invito a risolvere la situazione in fretta.
Del tutto fisiologica è la mancata percezione di un profitto (della quale si duole in ricorso il P., essendo rimasta la condotta allo stadio del tentativo.
Infine, la Corte di appello ha specificamente esaminato i motivi di gravame degli imputati, incensurabilmente rilevandone la carenza di specificità (f. 4 della sentenza impugnata).
I motivi di ricorso sono, pertanto, ad un tempo, privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati.
I motivi comuni inerenti alla qualificazione giuridica dei fatti accertati (terzo motivo ricorso F. ; secondo motivo ricorso G. ; secondo motivo ricorso P. ) sono infondati.
Si è premesso (cfr. § 10.5.1 di queste Considerazioni in diritto) che, ai fini della qualificazione di un fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone oppure come estorsione, è preliminare la verifica della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto alla cui soddisfazione l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo.
Nel caso di specie, all’esito di questa preliminare verifica emerge con evidenza che la pretesa azionata dal G. non sarebbe stata in alcun modo tutelabile in giudizio: di qui, la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti accertati come estorsione.
Secondo quanto accertato, ed in difetto di contestazioni degli imputati sul punto, tra la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l., facente capo alle pp.oo., ed il G. era stato stipulato un contratto di permuta, in forza del quale quest’ultimo cedeva alla prima un suolo edificabile libero da vincoli, sul quale la prima avrebbe realizzato un complesso residenziale formato da più villette, obbligandosi a cedere al G. “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà alcune delle quali, non appena ultimate; G.P. , sorella dell’imputato, aveva agito in sede civile contro la Al.de.gra. Costruzioni s.r.l. vantando vari diritti reali sul fondo permutato, e le odierne pp.00. avevano chiamato in causa il G. per esserne garantito, non provvedendo, in attesa dell’esito della causa, al trasferimento a quest’ultimo delle villette pattuite.
In proposito, l’ordinanza di rimessione (f. 5) afferma che il G. aveva “una pretesa giudizialmente tutelabile dato che avrebbe potuto agire ex art. 2932 c.c. per ottenere l’adempimento del preliminare che obbligava la società ALDe.Gra. a cedergli “il 30% da calcolarsi sulla superficie lorda di ingombro del fabbricato” degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà”, dimenticando di avere correttamente premesso a f. 2 che “la sorella del G. promuoveva un contenzioso civile che investiva la validità della permuta”.
La stessa Corte di appello (f. 4 della sentenza impugnata) aveva correttamente valorizzato il fatto che la sorella del G. avesse promosso contro la società facente capo alle pp.00. un contenzioso civile che investiva la validità della permuta, confermato dal tenore dei relativi atti allegati dagli stessi ricorrenti ai rispettivi ricorsi.
Ciò premesso, ritiene il collegio che, in presenza di un potenziale inadempimento del G. , che avrebbe dovuto cedere in permuta alle pp.oo. un fondo libero da vincoli, sul quale tuttavia la sorella P. vantava, al contrario, diritti reali di varia natura, era del tutto legittima la pretesa delle pp.oo. (documentalmente avvalorata dall’operata chiamata in causa) di non adempiere la propria controprestazione (inadimplenti non est adimplendum); al contrario, il G. non avrebbe avuto la possibilità di agire giudizialmente, con ragionevoli probabilità di successo, per ottenere dalle pp.oo. l’adempimento della pattuita controprestazione, fino a che il giudizio intentato dalla sorella P. in loro danno non si fosse concluso con la soccombenza dell’attrice.
Del tutto illegittima, perché neppure astrattamente tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria, era, quindi, la pretesa del G. di ottenere l’adempimento della controprestazione da parte delle pp.oo., intimidendole al fine di impedir loro di far valere l’inadempimento di controparte.
Si aggiunga, per completezza, che la condotta accertata avrebbe in ogni caso integrato gli estremi del concorso in estorsione, poiché i terzi F. e P. si erano arbitrariamente attivati, profferendo le accertate minacce, non nell’esclusivo interesse del creditore G. , bensì perseguendo anche un proprio ulteriore interesse (il soddisfacimento del credito vantato nei confronti del predetto coimputato G. ).
Il quarto motivo del ricorso F. , il terzo motivo del ricorso G. ed il quarto motivo del ricorso P. , riguardanti la circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito dalla L. n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 c.p.) sono, ad un tempo, privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati.
Richiamando quanto già evidenziato dal Tribunale (come è fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità), la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha argomentato la contestata statuizione valorizzando l’intervenuta formulazione di minacce allusive di chiaro stampo mafioso, formulate dal F. , ma alla presenza dei coimputati che mostravano all’evidenza di aderirvi (il G. anche quale beneficiario non dissenziente, il P. invitando le pp.oo. a far presto) da parte di persone sconosciute alle pp.oo., che avevano senza motivo evocato la propria provenienza geografica da luoghi nei quali operano notoriamente clan malavitosi, oltre che (attraverso il riferimento a pregresse vicende giudiziarie) la vicinanza ad essi.
La giustificazione fornita dal F. (e sostenuta dai coimputati) per aver evocato proprie pregresse vicende giudiziarie (a causa del sequestro di beni subito, la sua attività era bloccata ed aveva quindi tempo libero da dedicare alla vicenda Al.de.gra – G. ) è documentalmente smentita da quanto dalle pp.oo. immediatamente sin dal momento della denuncia, sporta il giorno dopo i fatti, e nella quale è precisato che lo stesso F. aveva detto loro che i beni gli erano già stati restituiti; ciò conferma, piuttosto, la valenza intimidatoria tipicamente “mafiosa” del riferimento, atto ad ingenerare nelle pp.00. il convincimento dell’impunità dello sconosciuto interlocutore proveniente da territori di ‘ndrangheta.
A fronte di tali rilievi, gli imputati si sono limitati a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti delle prove valorizzate.
Privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati sono i motivi degli imputati G. (secondo) e P. (terzo) concernenti la mancata configurazione della desistenza, essendo stata la condotta minatoria portata a compimento.
Questa Corte ha, infatti, già chiarito che, nei reati di danno a forma libera, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento (Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, supino, Rv. 264226, specificamente in tema di estorsione; conformi, Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio, Rv. 272677; Sez. 5, n. 50079 del 15/05/2017, Mayer, Rv. 271435).
Ugualmente privi della necessaria specificità (reiterando doglianze già compiutamente disattese dalla Corte di appello, in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute in proposito nel provvedimento impugnato) e manifestamente infondati sono i motivi degli imputati concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche ed il complessivo trattamento sanzionatorio (quinto motivo ricorso F. ; quarto motivo ricorso G. ; quinto motivo ricorso P. ), in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato le contestate statuizioni, valorizzando la premessa estrema gravità del reato, nonché l’assenza di decisivi elementi sintomatici della necessaria meritevolezza, che:
– il ricorso F. trae da elementi al contrario irrilevanti (l’incensuratezza lo è, dal 2009, per legge; la mancata pervicacia nel perseguire il fine di profitto è dovuta alla tenacia delle pp.oo., che sporsero prontamente denuncia);
– il ricorso G. ed il ricorso P. non indicano convincentemente. Questa Corte ha, infine, già chiarito che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non può fondarsi sulla scelta da parte dell’imputato di definire il processo nelle forme del rito abbreviato, che implica ex lege l’applicazione di una predeterminata riduzione della pena, poiché in caso contrario la stessa circostanza comporterebbe due distinte determinazioni favorevoli all’imputato (Sez. 3, n. 46463 del 17/09/2019, Di Puccio, Rv. 277271; Sez. 2, n. 24312 del 25/03/2014, Diana, Rv. 260012).
Nel complesso, si è comunque pervenuti per tutti all’irrogazione di pene estremamente miti, perché ben lontane dai possibili limiti edittali massimi, ed anzi prossime a quelli minimi.
Vanno ora esaminati gli ulteriori motivi dedotti dagli imputati.
Il primo motivo del ricorso F. , con il quale il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2, Prot. 7, Conv. EDU (poiché la Corte di appello, richiamando le argomentazioni della sentenza di primo grado, assseritamente senza tener conto dei motivi di gravame, gli avrebbe negato il diritto ad un doppio grado di giudizio convenzionalmente garantito) è manifestamente infondato.
In realtà, secondo l’univoco orientamento della Corte EDU, l’invocata garanzia è soddisfatta anche dall’esistenza nell’ordinamento interno di un mero rimedio di legittimità: si afferma, infatti, che “gli Stati contraenti hanno in linea di principio un potere discrezionale di decidere sulle modalità di esercizio del diritto previsto dall’art. 2 del Protocollo n. 7. Quindi, l’esame di una condanna da parte di un tribunale superiore può riguardare sia questioni di fatto che di diritto, oppure essere limitato alle sole questioni di diritto” (in tal senso, conformemente, Corte EDU, Sez. 3, 13/02/2001, caso Krombach c. Francia, § 96; Corte EDU, Sez. 1, 08/01/2009, caso Panou c. Grecia, § 32; Corte EDU, Sez. 1, 08/01/2009, caso Patsouris c. Grecia, § 35).
Deve aggiungersi che, come premesso, la Corte di appello ha in realtà esaminato e puntualmente disatteso le obiezioni difensive.
Il quarto motivo del ricorso G., con il quale il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., non è consentito.
È pur vero che la Corte di appello non disattende espressamente il corrispondente motivo di gravame; deve, peraltro, evidenziarsi che lo stesso era carente della necessaria specificità, perché formulato in modo del tutto assertivo (f. 10 dell’atto di appello: “in ragione della minima importanza della condotta del G. nel fatto addebitato in concorso, si invoca la concessione dell’attenuante di cui all’art. 144 c.p. (rectius, art. 114)”), senza alcuna argomentazione a sostegno, come sarebbe stato ancor più necessario ove si consideri che l’imputato era il creditore beneficiario della condotta concorsualmente posta in essere, e risultava quindi affetto da una insanabile causa d’inammissibilità, dichiarabile anche in questa sede a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 4.
Il rigetto dei ricorsi comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento, ciascuno per sé, delle spese processuali, essendo stato abrogato, per effetto della L. n. 69 del 2009, art. 67, il vincolo di solidarietà fra coimputati nell’obbligo di pagamento delle spese processuali.
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Il 6 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 30931, onde tra gli art. 576, comma 1, n. 5.1, c.p. e 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p.: ciò implica che il delitto di atti persecutori non trovi applicazione autonoma qualora l’omicidio della vittima avvenga al culmine di molteplici condotte persecutorie poste in essere precedentemente ai danni della stessa persona offesa.
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Il 3 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 34504, circa il rapporto tra il reato di maltrattamenti in famiglia e il reato di sequestro di persona.
Ad avviso del Collegio, il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 cod. pen. soltanto quando le condotte di arbitraria compressione della libertà di movimento della vittima non sono ulteriori ed autonome rispetto a quelle specificatamente maltrattanti. Più in generale, secondo un tradizionale filone interpretativo della giurisprudenza di questa Corte, in cui si inscrive anche la sentenza poco sopra richiamata ed a cui si è richiamata la pronuncia impugnata, è ammesso il concorso tra i due reati in esame, poiché non è configurabile un rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacché sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e, l’uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari, l’altro, da quella di privare taluno della libertà personale.
Ebbene, osserva la Corte, alla questione posta dal ricorrente deve rispondersi, sul piano dell’analisi giuridica, che è configurabile il concorso tra i reati di maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona se la condotta di sopraffazione che privi la vittima della libertà personale non si esaurisce in una delle modalità in cui si esprime l’abituale coercizione fisica e psicologica costituente una delle fasi del reato abituale di maltrattamenti, ma ne configura un picco esponenziale dotato di autonoma valenza e carico di ulteriore disvalore, idoneo a produrre, per un tempo apprezzabile, un’arbitraria compressione della libertà di movimento della persona offesa, quand’anche in modo non assoluto.
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Il 14 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 35700, secondo cui, negandosi che la condotta di violenza sessuale debba essere assorbita dal diverso reato di maltrattamenti, il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia qualora, attesa la diversità dei beni giuridici offesi, le reiterate condotte di abuso sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledano anche la sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale.
Può, di contro, configurarsi l’assorbimento esclusivamente nell’ipotesi in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, ovvero quando il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale.
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Il 17 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione Civile n. 28938, alla stregua della quale la disciplina del cumulo giuridico, ritenendo che possa applicarsi anche in caso di pluralità di azioni od omissioni consistenti in violazioni “formali” e non “sostanziali”, della stessa disposizione, in quanto non incidenti sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo, ma tali da arrecare un pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo (cd. “concorso materiale omogeneo”).
Di conseguenza, osserva la Corte, potrà operare anche nel caso di plurime ritardate autofatturazioni (e delle conseguenti registrazioni), nel sistema del reverse charge, rispetto al momento preciso dell’estrazione di beni dal deposito IVA.
2021
Il 18 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazioe Penale n. 1869.
Il Collegio, dopo aver affermato la continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma 2, cod. pen., abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), l. n. 3/2019, e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346 bis cod. pen., si sofferma sulla differenza tra il reato ex art. 346 citato e il reato di truffa ex art. 640 c.p.
L’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 346 cod. pen. – contenente la previsione di un titolo autonomo di reato rispetto alla fattispecie descritta nel primo comma della medesima disposizione – si differenzia dal delitto di truffa, per la diversità della condotta, non essendo necessaria né la millanteria né una generica mediazione, nonché dell’oggetto della tutela penale, che nella truffa è il patrimonio e nel millantato credito è esclusivamente il prestigio della pubblica amministrazione, con la conseguenza che unica parte offesa è quest’ultima e non colui che abbia versato somme al millantatore, che è semplice soggetto danneggiato, cosicché il reato di millantato credito può concorrere formalmente con quello di truffa, stante la diversità dell’oggetto della tutela penale.
Tale orientamento, precisa la Corte, è stato più recentemente ribadito affermando che i reati di millantato credito e di truffa possono concorrere – stante la diversità dell’oggetto della tutela penale, consistente, per il primo delitto, nel prestigio della P.A. e, per il secondo, nel patrimonio – qualora allo specifico raggiro considerato nella fattispecie di millantato credito, costituito dal ricorso a vanterie di ingerenze o pressioni presso pubblici ufficiali, si accompagni un’ulteriore attività ingannatoria diretta all’induzione in errore del soggetto passivo, al fine di conseguire un profitto con altrui danno, identificabile, nel caso richiamato, nella predisposizione di atti falsi a sostegno della propria millanteria.
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Il 4 marzo 2021 esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 8809 concernente la configurabilità del concorso tra il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 e la contravvenzione di illecita somministrazione di manodopera di cui all’art. 18 d.lgs. n. 276/2003.
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Il 4 marzo esce anche la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 8911 integri il delitto di accesso abusivo a sistema informatico ex art. 615 ter cod. pen., in concorso con il reato di rivelazione di segreti d’ufficio ex art. 326 c.p., la condotta di colui che, pur essendo abilitato, non ufficiale acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema.
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Il 5 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 9069 onde tra il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis cod. pen. e quello di violazione di domicilio di cui all’art. 614 cod. pen. non sussiste alcun rapporto di specialità, unilaterale o bilaterale, con la conseguenza che i due reati, fatta salva l’applicazione della clausola di riserva, concorrono materialmente.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in generale del concorso di reati?
- si è in presenza di un solo soggetto che commette plurime violazioni della legge penale;
- poiché ad ogni violazione della legge penale corrisponde un reato, il soggetto è a rigore punito per ciascuno dei reati commessi;
- non è sempre facile tuttavia, massime quando il tutto origina da una sola condotta (se si tratta di più condotte, è più semplice ricondurle a più reati), discernere in concreto se si è al cospetto di un solo reato ovvero di una pluralità di reati;
- si tratta in simili fattispecie di capire – avvalendosi anche della c.d. teoria della norma – se si è dinanzi ad un solo reato, ovvero a più reati, dacché ad una sola condotta potrebbe corrispondere un reato unitario, ovvero un concorso c.d. “formale” di reati (originati appunto da una sola condotta);
- il tutto ha peraltro riflessi processuali, giacché al cospetto di un solo e medesimo reato oggetto di accertamento si configura – ai fini delle nuove contestazioni del P.M. ex art.517 e seguenti c.p.p. – un fatto “diverso” e non piuttosto un fatto “nuovo” (che scatta invece in presenza di un reato distinto rispetto a quello per il quale si procede); ed è con riferimento ad un solo e medesimo reato che opera il divieto del c.d. bis in idem ex art.649 c.p.p., che invece è inapplicabile in caso i cui si discuta di reati distinti;
- quand’anche si sia al cospetto di una pluralità di reati, e non già di un solo reato, il soggetto agente potrebbe non essere assoggettato a sanzione penale nel caso in cui scatti il concorso “apparente” di norme, che è tale proprio perché, di più norme astrattamente applicabili ad una medesima condotta penalmente rilevante, se ne applica una sola, onde il concorso apparente di norme scongiura il concorso di reati, mentre quest’ultimo esclude a propria volta che si sia al cospetto di un concorso apparente di norme;
- in dottrina non si è mancato di osservare come il concorso di reati costituisca realmente una “forma di manifestazione del reato”, per come collocato nel codice penale (assieme al reato tentato, a quello circostanziato ed a quello “collettivo” giusta concorso di persone) solo allorché i vari reati che compendiano tale concorso: g.1) siano in connessione soggettiva, perché commessi dal medesimo soggetto agente; g.2) siano in connessione oggettiva, per essere avvinti da nesso teleologico (l’uno viene commesso al fine di commetterne un altro) o comunque da un vincolo di tipo consequenziale (l’uno è commesso per conseguire il profitto, il prezzo, o il prodotto di un altro, ovvero l’impunità per un altro, ovvero ancora l’occultamento di un altro); è, più in particolare, proprio la connessione (soggettiva ed oggettiva) che, sul versante sostanziale, può rendere applicabile l’aggravante del nesso teleologico ex art.62, n.2, c.p., ovvero il regime più favorevole della continuazione ex art.81, comma 2, c.p.; e che, sul crinale processuale, consente la trattazione unitaria dei vari processi afferenti a ciascun reato giusta competenza unitaria attribuita ad un solo giudice (o giusta riunione, se già trattati davanti al medesimo giudice).
Cosa occorre rammentare in particolare del rapporto tra concorso di reati e trattamento sanzionatorio del reo?
- allorché un medesimo soggetto commetta plurime violazioni della legge penale, si configura un concorso di reati cui possono astrattamente conseguire, alternativamente, diversi modelli di trattamento sanzionatorio;
- secondo il modello del c.d. cumulo materiale, al soggetto agente giudicato colpevole di reati in concorso vanno inflitte tutte le pene corrispondenti a ciascuno dei reati commessi, siccome aritmeticamente sommate tra loro, secondo il canone del “tot crimina tot poenae”; vi è tuttavia sempre la possibilità che il legislatore fissi un tetto massimo, con conseguente temperamento del rigore sanzionatorio che a tale modello si accompagna;
- secondo il modello del c.d. cumulo giuridico, al soggetto agente giudicato colpevole di reati in concorso si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata di ulteriori “quote” di pena avvinte alle ulteriori violazioni della legge penale (meno gravi) commesse; si tratta di una opzione che in Italia opera nelle ipotesi di concorso formale di reati e di reato continuato (art.81 c.p.), ma che in molti ordinamenti trova applicazione anche in presenza di un concorso materiale; opzione che parte della dottrina propugna anche per l’ordinamento italiano, sulla scorta della considerazione onde, dal punto di vista anche solo “retributivo” (e dunque di adeguata risposta sanzionatoria al crimine commesso), il protrarsi della pena genera una sofferenza nel soggetto che la patisce che cresce in proporzione geometrica, e non già aritmetica, con conseguente più equa applicabilità del cumulo giuridico in luogo di quello materiale; si aggiunge che applicare una pena unica (parametrata al reato più grave) e tuttavia ispirata ad un principio di calibrata progressività (come tale, crescente di intensità in relazione agli altri reati commessi), consentirebbe di meglio esaltare il significato complessivo (e “personalizzato”) dei reati commessi, in rapporto alla personalità del singolo soggetto agente; dopo la riforma del 1974, che ha ampliato il raggio di azione del c.d. reato continuato ex art.81, comma 2, c.p. e del cumulo giuridico ad esso applicabile, ammettendolo anche in ipotesi di concorso materiale di reati quanto questi siano avvinti da un medesimo disegno criminoso (c.d. reato continuato), la questione dell’eventuale applicabilità del cumulo giuridico riguarda ormai solo, eventualmente e de iure condendo, il concorso materiale che non si inserisca in un “medesimo disegno criminoso” configurando piuttosto una pluralità di crimini collegati solo dal fatto che è lo stesso soggetto agente ad averli commessi;
- secondo il modello del c.d. assorbimento, al soggetto agente giudicato colpevole di reati in concorso materiale si applica la sola pena prevista per il reato più grave; è un modello che nel sistema giuridico penale italiano è il medesimo (rispetto, tuttavia, al concorso formale, e non già materiale, di reati) del “complementare” concorso apparente di norme, non essendo peraltro esplicitamente previsto dal codice penale, e che in qualche modo (per quanto concerne il concorso materiale) balena in seno alla disciplina delle circostanze: in particolare, in quella del concorso di circostanze ad effetto speciale (aggravanti o attenuanti) ex art.63, comma 4 e 5, c.p., laddove il giudice applica la sola pena prevista per la circostanza più grave (o meno grave), ma “può” ad un tempo aumentarla: se non lo fa, il trattamento sanzionatorio è dunque proprio e solo quello previsto per la circostanza ad effetto speciale più grave (o meno grave), con conseguente “assorbimento” degli effetti (sanzionatori) delle altre; la dottrina che propugna il modello dell’assorbimento in presenza di un concorso materiale di reati viene contrastata da chi, oltre a rappresentare che in tal modo si produrrebbe, in modo iniquo, una parificazione tra la disciplina del concorso materiale di reati (dove si assiste a più condotte violative della legge penale, e dunque ad una maggior pericolosità intrinseca del reo) e quella del concorso apparente di norme (laddove la condotta è invece una sola, ditalché il concorso apparente di norme è “complementare” rispetto al c.d. concorso formale di reati, fattispecie entrambe che denotano una minore pericolosità intrinseca del soggetto agente), assume tale eventualità idonea a depotenziale la funzione (anche deterrente e general preventiva) della sanzione penale;
Nell’ambito del concorso di reati, cosa distingue il concorso “materiale” dal concorso “formale”?
- il concorso di reati è “materiale” quando si ha plurima violazione di norme penali, e dunque più reati, in corrispondenza con una pluralità di azioni o di omissioni, e dunque di una pluralità di condotte, a ciascuna delle quali corrisponde un commesso fatto inadempimento reato; a.1) quando a più azioni od omissioni corrispondono più reati omogenei (ad esempio, tutti omicidi) si ha concorso materiale omogeneo; a.2) quando a più azioni od omissioni corrispondono più reati tra loro eterogenei (ad esempio una violazione di domicilio ed una violenza sessuale) si ha concorso materiale eterogeneo; al concorso materiale di reati, tanto omogeneo quanto eterogeneo, il codice penale fa corrispondere un grave trattamento sanzionatorio (anche quando “composto” da pene inflitte con sentenze o decreti di condanna diversi tra loro: art.80), vale a dire il cumulo materiale di pene (tot crimina, tot poenae), seppure mitigato da tetti massimi di pena applicabile (ai sensi degli articoli 78 e 79 c.p.); si tratta di una scelta del Legislatore orientata a privilegiare la funzione retributiva (e dunque repressiva) della pena, con coloriture di special-prevenzione;
- il concorso di reati è “formale” o anche “ideale” quando un medesimo soggetto agente compie, attraverso una sola condotta (azione od omissione), più reati; allorché la violazione contestuale e plurima concerna la medesima norma incriminatrice si parla di concorso formale omogeneo, mentre esso è eterogeneo quando la unica e medesima condotta implica violazione di fattispecie incriminatrici diverse tra loro, così interferendo il cuore della ridetta, unica e medesima condotta posta in essere dal soggetto agente con più disposizioni incriminatrici, mentre altri elementi del reato corrispondono in modo disgiunto all’una e all’altra fattispecie incriminatrice (ad esempio, incendio di cosa propria ex art.423 c.p. e frode all’assicurazione ex art.642 c.p.); dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, a partire dal 1974 si applica al concorso formale il medesimo regime del reato continuato, e dunque si applica la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave, aumentata fino al triplo (art.81, comma 1), facendosi luogo a “cumulo giuridico”. Talune questioni in tema di concorso formale di reati sono le medesime che coinvolgono il c.d. reato continuato, come per quanto concerne l’individuazione della “violazione più grave” e per quanto concerne il regime del cumulo quando le pene per i singoli reati commessi siano tra loro eterogenee (tanto che vengano applicate con un’unica sentenza o decreto, quanto con sentenze o decreti diversi e in successione tra loro); parimenti analoga è la discrasia tra l’”unitarietà” della pena irrogata al soggetto agente ai sensi dell’art.81 c.p. e la “distinta pluralità” dei vari reati (tanto in concorso formale che nel reato continuato) ad ogni altro effetto giuridico, come in tema di estinzione del reato o della pena (ad esempio, amnistia o prescrizione), di cause di giustificazione, di circostanze aggravanti o attenuanti, di condizioni di punibilità e di procedibilità, dovendosi avere riguardo in tal caso a ciascuna singola figura criminosa, esattamente come avviene nelle fattispecie di concorso materiale;
- è dunque importante capire quando si è dinanzi ad una sola condotta (una sola azione; una sola omissione) ovvero ad una pluralità di condotte (più azioni; più omissioni), dacché alla distinzione tra concorso materiale e concorso formale corrisponde una consistente distinzione di trattamento sanzionatorio.
Cosa distingue in particolare la condotta (azione od omissione) “una” dalle condotte (azioni od omissioni) “plurime”?
- dire che si è in presenza di una sola condotta (ad esempio, di una sola azione) significa ammettere che alla fattispecie considerata va applicato il regime sanzionatorio più mite del concorso formale, piuttosto che quello più rigido del concorso materiale, il quale ultimo scatta quando si è al cospetto di condotte (ad esempio, di azioni) plurime;
- per distinguere se ci si trova dinanzi ad una sola condotta o a condotte plurime si fronteggiano fondamentalmente due concezioni: b.1) teoria naturalistica: si tratta della tesi più remota ed ormai recessiva, onde l’azione in null’altro si risolve se non in un movimento muscolare che l’agente esercita verso il mondo esterno, onde nel caso di azione integrata da un solo atto (c.d. “unisussistente”), essa è senz’altro “una”, mentre nel caso in cui la ridetta azione sia integrata da più atti (c.d. “plurisussistente”), potrebbe trattarsi ancora di un’azione “una” ovvero di azioni “plurime”: è una sola azione, per una tesi dottrinale, laddove gli atti plurimi siano contestuali ed avvinti dall’unicità del fine da essi perseguito, onde l’agire del soggetto “agente” si contraddistingue per una globale direzione teleologica (“ad unum”) che tuttavia – per poter assumere applicabile il concorso formale anche ai reati colposi, oltre che a quelli dolosi – va intesa (come precisa altra dottrina) dal punto di vista oggettivo, e non già “soggettivo” e come tale afferente alla consapevole volontà del soggetto “agente” (pur se non manca chi ha parlato di “unica volontà colpevole”, e dunque di azione necessariamente “unica” anche sul crinale psicologico); altra parte della dottrina, sempre nell’ottica di fondo della globale direzione teleologica, assume che è l’unicità dell’evento, anch’esso inteso in senso “naturalistico”, a fare “una” l’azione, mentre in presenza di più eventi (sempre naturalisticamente intesi) si è giocoforza al cospetto di più azioni; secondo un ulteriore prisma ermeneutico, l’azione è “una” (globale direzione teleologica) quando il processo esecutivo e volitivo del soggetto agente, nonostante l’apparente pluralità degli atti, è uno, mentre per altri ancora si ha “un’azione” anche laddove vi siano più processi esecutivi e volitivi riconducibili al soggetto agente, purché tra loro connessi; b.2) teoria normativa; si tratta della tesi più recente e più accreditata, che – sulla scia della dottrina tedesca – contesta alla tesi “naturalistica” il fatto di pretermettere qualsivoglia riferimento, che pure sarebbe imprescindibile, alla fattispecie legale tipica di volta in volta considerata; stando a questa diversa visione prospettica, anche al cospetto di più atti “naturalistici” l’azione è da considerarsi “una” quando vengono “normativamente” a realizzarsi i presupposti minimi che compendiano la singola fattispecie incriminatrice, onde può non bastare, ad esempio, una sola pugnalata ad uccidere un uomo, e tuttavia anche plurime pugnalate (che costituiscono plurimi atti dal punto di vista naturalistico) fanno nondimeno luogo ad una sola “azione” omicida; da questo punto di vista, è “azione” ognuna che sia tipica dal punto di vista della astratta fattispecie penale, onde è ben possibile che una sola “azione” così intesa (quale processo esecutivo unitario) sia contemporaneamente riconducibile a due (o, a rigore, più) fattispecie astratte, circostanza che configura il concorso formale di reati ai sensi dell’art.81, comma 1, c.p.;
- peculiare l’individuazione dell’azione unica (concorso formale) o, viceversa, della pluralità di azioni (concorso materiale) in tema di reati colposi: stando alla dottrina più accreditata, c.1) quando l’evento causato dal soggetto agente sia unico, quantunque giusta violazione di molteplici obblighi di diligenza, si ha azione “unica”; c.2) quando gli eventi causati dal soggetto agente sono plurimi, del pari si ha azione “unica”, salva l’ipotesi in cui tra un evento e l’altro il soggetto agente sia in grado di adempiere all’obbligo di diligenza, circostanza al cospetto della quale si hanno invece azioni plurime (e, dunque, concorso materiale);
- parimenti peculiare è l’individuazione dell’azione unica (concorso formale) o, viceversa, della pluralità di azioni (concorso materiale) in tema di reati omissivi; stando alla dottrina più accreditata: d.1) reati omissivi propri: quando più obblighi di agire possono essere adempiuti solo contemporaneamente (il che è impossibile o sommamente difficile) in caso di pertinente violazione si ha omissione “unica” (concorso formale), mentre laddove vi sia il tempo di adempiere in successione a ciascuno diverso obbligo di agire si hanno omissioni plurime (concorso materiale); d.2) reati omissivi impropri ex art.40, comma 2, c.p.: ad eventi plurimi corrispondono normalmente omissioni plurime, ovvero plurime violazioni di obblighi di impedire l’evento (concorso materiale); ma allorché i diversi eventi possano essere impediti solo attivandosi contemporaneamente (il che è impossibile o sommamente difficile), si ha omissione “unica”, ovvero unica violazione dell’obbligo di impedire gli eventi ridetti (concorso formale).
Cosa occorre rammentare dell’unità o pluralità di “azioni” (condotte) in rapporto all’unità o, in alternativa, pluralità di reati?
- il problema è quello di distinguere tra reato c.d. “unitario”, e dunque unico, e concorso formale di reati (plurimi);
- viene in rilievo ancora una volta la tematica della unità ovvero, alternativamente, della pluralità dell’”azione” penalmente rilevante (e dunque della condotta);
- la questione è particolarmente delicata quando si sia al cospetto di ripetizioni molteplici della medesima violazione di legge, attraverso condotte c.d. iterative, in presenza delle quali non è semplice sovente distinguere appunto se ci si trovi dinanzi ad un solo reato, ovvero ad una pluralità di reati omogenei in concorso formale (eventualmente avvinti dalla continuazione);
- stando all’opinione dottrinale maggioritaria – meglio precisata tuttavia dalle SSUU del 2018 in tema di resistenza a “pubblici ufficiali” – occorre all’uopo assumere dirimente il criterio del soggetto passivo del reato, onde allorché con una sola azione od omissione (e, dunque, con una sola condotta) il soggetto agente vulneri più beni di soggetti passivi distinti, massime se si tratta di beni altamente personali (come nel caso della vita, dell’integrità fisica, dell’onore), si è normalmente al cospetto di un concorso formale e, dunque, di una pluralità di reati (anche se non mancano fattispecie, come la calunnia, in cui la dottrina medesima assume configurarsi un reato unitario facendo prevalere l’unità del bene giuridico “di fondo” aggredito, che in tale caso viene individuato nell’amministrazione della giustizia); quando invece il soggetto agente vulneri beni (interessi) meramente patrimoniali, quand’anche di più soggetti passivi, si è invece al cospetto di un unico reato (pur in presenza di plurime ed omogenee violazioni della legge penale).
Cosa occorre rammentare delle c.d. “norme a più fattispecie” (o “norme penali miste alternative”) e delle c.d. “disposizioni a più norme” (o “norme penali miste cumulative”)?
- il tratto comune a queste fattispecie incriminatrici è quello di prevedere – nei diversi comma in cui si articola la pertinente formulazione, ovvero all’interno di un unico comma – molteplici fatti di reato sanzionati con la medesima pena;
- nell’ipotesi delle c.d. “norme a più fattispecie” o “norme miste alternative”, si tratta di un unico fatto inadempimento reato, seppure realizzabile giusta condotte diverse, onde in caso di contestuale realizzazione di tutte le condotte tipizzate, la fattispecie criminosa è applicabile una sola volta (reato unitario);
- nell’ipotesi delle c.d. “disposizioni a più norme” o “norme miste cumulative”, si tratta di una pluralità di inadempimenti reato, dacché ogni fattispecie costituisce in realtà un reato autonomo, onde al cospetto di una pluralità di condotte si configura un concorso di reati;
- non manca tuttavia, in dottrina, chi assume come in queste ipotesi si sia sempre dinanzi ad un reato unico (sia dunque nell’ipotesi di “norme a più fattispecie” che di “disposizioni a più norme”), precipitato della violazione di un’unica norma incriminatrice, i diversi fatti descritti dal legislatore penale rappresentando diversi gradi (o modalità) di offesa ad un unico bene giuridico, onde il numero e la gravità dei diversi fatti commessi possono al più rilevare in sede di dosimetria della pena concretamente applicabile al soggetto agente.